di Andrea Berneschi 


Warfare scritto e diretto da Ray Mendoza e Alex Garland 2025.

Un gruppo di Navy Seal prende possesso di un edificio in una cittadina irachena. Quale città? Che anno è? Non lo sappiamo.
I militari entrano a notte fonda quando il padre e la madre e i figli dormono; tentano di rassicurarli, ma di fatto li hanno presi in ostaggio. Sfondano con un mazzuolo una parete per agevolare la loro azione. Alla famiglia irachena non spiegano quello che faranno e non lasciano trapelare nulla nemmeno a noi spettatori. Anche i due scout iracheni che operano come interpreti sembrano ignorare i fini della missione e il compito che è loro assegnato (temono soprattutto che gli americani li mandino avanti senza farsi troppi problemi, condannandoli a morte certa). I Navy Seal americani, del resto, ammettono più volte di non sapere cosa sta succedendo attorno a loro.

Così inizia Warfare, ma a dirla tutta, prima dei titoli di testa, c’è una specie di “foto di gruppo” con i componenti della squadra che si eccitano guardando un video musicale, o forse un porno. Dovremmo forse tenere presente che sono giovani innocenti e ignoranti e pieni di ormoni e scusarli per tutto quello che faranno? No e sì. Le cose, come vedremo, non sono tanto semplici.

Seguono venti o trenta minuti in cui non accade quasi niente di importante. Lo spettatore, senza nessuna spiegazione aggiunta, viene calato dentro un’azione militare e obbligato a condividere coi soldati il punto di vista sulle cose e perfino il linguaggio burocratico. I giovani iracheni che attraversano la strada sono dunque “maschi in età militare” o potenzialmente degli “ostili”; fare la guardia al piano terra di un edificio si dice “consolidare”; assicurarsi che un soldato non abbia ferite si chiama “controllare” (“Ti ha controllato qualcuno?”). Senza l’uso di flashback riusciamo così a immaginare quale ossessivo addestramento abbiano attraversato questi ragazzi prima di essere spediti sul luogo dell’azione. E pochi dialoghi e pochi sguardi ci dicono con chiarezza come si sentono e quali sono le loro motivazioni: niente di più e niente di meno che quelle di qualsiasi lavoratore in una catena di fast food. C’è un lavoro da fare, difficile, stressante, non piacevole; è meglio farlo prima possibile, senza errori e senza farsi troppe domande. Nessuna traccia di retorica, in questo film. Anzi: nessun eroe. I registi evitano accuratamente la costruzione di personaggi “memorabili”. Dimenticate le caratterizzazioni dei personaggi di pellicole pure di alto livello come The Hurt Locker (2008) e Zero Dark Thirty (2012). Qui nessuno fa amicizia coi bambini delle zone di guerra. Nessuno ha una storia alle spalle, nessuno deve affrontare i suoi demoni. Molto raramente i soldati tentano una battuta o un gesto di distensione con gli altri del reparto. Non sono lì a scherzare, non sono un gruppo di amici; i loro rapporti sono quelli un po’ freddi e a volte forzatamente educati di chi condivide un lavoro poco piacevole. Non troverete tra loro “il duro”, “il joker”, “l’ossessivo” e altre macchiette. Abituati come siamo a un certo tipo di rappresentazione della guerra all’inizio possiamo essere tratti in inganno; ecco che istintivamente siamo tentati di identificare Will Poulter (che interpreta il leader di Alpha One) come il protagonista della storia. Del resto l’abbiamo già visto in Midsommar e altre pellicole, ha quella faccia lì, inconfondibile, quello sguardo… Ma presto ci accorgiamo che c’è qualcosa che non torna: cosa crede di fare con le sue sopracciglia arcuate Poulter, in quella situazione? Gli iracheni gliele faranno mangiare, quelle sopracciglia. E infatti (senza spoiler) il personaggio esce presto dal radar della nostra attenzione. Quando le cose si fanno complicate (e si faranno davvero complicate) ci viene in mente che il vero protagonista potrebbe essere D’Pharaoh Woon-A-Tai (questo è il nome dell’attore) nei panni dell’addetto alle comunicazioni Ray Mendoza. Ecco, pensiamo, questo è più umano, nasconde sotto l’apparente freddezza una vera empatia per i compagni che soffrono accanto a lui e che cerca di salvare. E invece no, nemmeno lui si comporta da protagonista o compie azioni oltre a quelle dovute dal suo ruolo. Nonostante Ray Mendoza sia il nome di uno dei due sceneggiatori/registi (l’altro è Alex Garland, quello del bellissimo e altrettanto crudo Civil War). Che ha scritto questo film per raccontare quello che ha vissuto in prima persona durante un’azione in Iraq nel 2006. E l’ha dedicato a Elliott Miller, che durante quell’azione perse l’uso delle gambe e la capacità di parlare.

Difficile raccontare eventi drammatici così da vicino. Italo Calvino nelle Lezioni americane suggeriva l’arte della leggerezza: quando la realtà da raccontare si fa opprimente e come l’occhio della Medusa rischia di pietrificare il narratore, allora serve il cavallo alato Pegaso per allontanarsi alla giusta distanza dalla quale possiamo descriverla. Qui sembra che i due registi (estremizzando l’operazione compiuta da Garland in Civil War) abbiano trovato un’altra strada: lavorare per sottrazione, togliendo ogni sovrastruttura politica, ideologica, anche intellettuale e culturale. Warfare, di conseguenza, è una storia di corpi.

Corpi nella guerra: che noi vediamo squarciati dalle esplosioni, orrendamente feriti, con le gambe spezzate, gridando di agonia se qualcuno cerca di spostarli. Corpi che altri corpi cercano di salvare in ogni modo. Limitando i danni della guerra: che restano senza spiegazione, senza causa, sui quali non si può dire niente.

Così, nella nostra comoda poltrona di cinema, noi stessi regrediamo a corpi presi dallo spettacolo orrendo della sofferenza di altri corpi (fittizi, è vero, proiettati sullo schermo; ma sappiamo benissimo che quei corpi fatti di luci che si muovono stanno lì a raccontare la storia di corpi veri). E se avessimo ancora dei dubbi, alla fine del film ogni attore appare nello split screen accanto alla foto del vero soldato che ha interpretato. Molti, però, hanno la faccia sfocata. Comprensibile, visto che la maggior parte di questi Navy Seal nel film non dimostra particolari capacità o coraggio, incorrendo spesso in errori anche banali (calpestare la gamba di un ferito grave, impugnare al contrario la siringa di adrenalina, perdere la calma e la concentrazione nel momento decisivo). Per cui, meglio restare il più possibile anonimi.

Warfare è un film contro la guerra? No e sì. Ma di sicuro è un film che farebbe passare a chiunque la voglia di arruolarsi: chi vorrebbe essere non un eroe, ma un anonimo commesso da fast food del meccanismo sbranacorpi che è la guerra? Oltretutto (come si vede nel film) operando in un paese che non è il proprio, mettendo in pericolo la vita di civili innocenti, provocando inutili distruzioni e, al momento di andarsene, lasciando le cose com’erano (se non peggio).

 

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