di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.