di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i materiali raccolti nelle puntate di “Lotte organizzazione dei dannati di Marsiglia” che Carmilla ha ospitato.

Detto ciò, andiamo subito al sodo. Questa puntata ruota tutta intorno agli esiti dell’incontro nazionale, del 6 e 7 maggio, organizzato dalla rete marsigliese dei precari e dei disoccupati. Un incontro che se da un lato ha evidenziato la concreta possibilità della “messa in forma” di un’organizzazione complessiva della nuova composizione di classe, dall’altro ha altresì posto in luce la non linearità di questo passaggio. A partire da ciò abbiamo costruito l’articolo su due interviste che, a ragione, possono ben esemplificare il senso e i toni del dibattito in corso. Tagliando le cose un po’ con l’accetta possiamo dire che a delinearsi sono due ipotesi le quali, pur condividendo la medesima base analitica, tendono a optare per due ipotesi politiche non proprio identiche. In realtà, ma questa è l’opinione di chi scrive, più che in contrapposizione dovrebbero essere complementari anche se, a prescindere dal punto di vista dell’autore, occorre dare conto di dette differenze.

Per semplificare possiamo dire che da un lato vi è una visione molto più “partitica” e “ortodossa”, dall’altra una “movimentista” ed “eretica”. Cominciamo con l’ascoltare L. R. , infermiera precaria e avanguardia politica a tutto tondo della rete dei precari e dei disoccupati, la quale, nel dibattito in corso, incarna significativamente la tendenza maggiormente ortodossa. Per riprendere il filo del discorso siamo ripartiti da quanto andato in scena in Francia e le prospettive di quel movimento per calarci, subito dopo, sulle giornate del 6 e 7 maggio e le ipotesi che da queste sono scaturite.

Sono passati venticinque giorni dal Primo maggio e, a quanto pare, non sembra esservi più alcuna traccia di tutta quella mobilitazione che sembrava dover rovesciare Macron e il suo progetto. Voi siete stati sempre molto cauti sulle reali possibilità di questo movimento e i fatti sembrano darvi ragione. Molto sinteticamente puoi provare a fare un bilancio di tutto ciò?

Direi che si è avuta una conferma di ciò che noi, pur standoci dentro e cercando di far convergere nelle manifestazione anche quella fetta di classe operaia e proletariato rimasta in disparte, abbiamo detto sin da subito sulla natura di questo movimento. In piazza è scesa sostanzialmente l’aristocrazia operaia in difesa di una sua condizione. Questa lotta aveva almeno due limiti, da un lato non era in grado di parlare al resto della classe operaia e del proletariato, e diciamo anche che non ha provato a farlo, dall’altro non ha compreso minimamente la cornice nella quale si muoveva. L’attacco di Macron era un attacco tutto politico finalizzato ad azzerare le postazioni di forza e di potere che questi settori di classe erano, e in parte sono, in condizione di esercitare. La cornice non era quella dello scontro sindacale ma del conflitto politico, insomma una questione di potere. Ciò era, ed è, molto chiaro al governo ma non lo è stato per nulla per chi è sceso in piazza. L’idea, per spiegarsi, da parte di chi è sceso era un po’ questa: Ora gli facciamo vedere che siamo incazzati e questi fanno marcia indietro. Il governo, invece, è andato avanti e chiaramente, di fronte a ciò, si sarebbero dovute fare altre cose, bloccare, e non per un giorno, la Francia, si sarebbe dovuto generalizzare la lotta e prendere atto che si andava incontro a uno scontro di potere e quindi costruire degli organismi di potere in aperta rottura con lo stato. Che questi settori di classe potessero approdare a scelte simili era, però, del tutto improbabile. Questi settori di classe non sono anticapitalisti e non lo sono per natura quindi era, come si è dimostrato, del tutto improbabile che potessero arrivare a simili conclusioni. Diciamo che l’errore è stato un errore di fondo, non aver compreso che lo scenario politico è del tutto cambiato e che la borghesia imperialista non ha più alcuna intenzione di governare attraverso una perenne mediazione. La fermezza di Macron è stata quanto mai significativa. Con la riforma delle pensioni ha aperto una breccia enorme e a partire da questa sarà in grado di dilagare e, passo dopo passo, fare fuori tutta quella forza e rigidità operaia che è propria del mondo dei garantiti. Si diceva: Non diventeremo come l’Italia, ma il progetto di Macron è proprio quello di modellare la Francia sull’Italia. Al momento sembra riuscirvi. L’azzeramento della aristocrazia operaia, o di un suo corposo ridimensionamento, è un processo oggettivo dell’attuale sistema capitalista. I tempi di questa destrutturazione non sono certi anche perché molto dipenderà dalle lotte di resistenza che verranno messe in campo ma, questo mi sembra essere il dato obiettivo, la linea del comando è chiara.

Processo, quindi, irreversibile? Dentro questo movimento non si sono avuti segnali che le cose potrebbero andare in altro modo? Insomma i giochi sono fatti?

Non necessariamente. Qualche rottura, non di grandi dimensioni, ma significativa c’è stata. Qua a Marsiglia un gruppo di ferrovieri ha bloccato, nonostante l’opposizione della CGT, la stazione. Questo gruppo ha iniziato a relazionarsi con noi e a discutere il passaggio dentro un’altra struttura sindacale che noi abbiamo individuato nel SUD dove siamo riusciti a costruire un nostro solido gruppo tra i precari della sanità, degli educatori sociali e della ristorazione. Questo, quello della ristorazione, è stato un passaggio molto importante perché, come dirò più avanti, ha posto le premesse per l’organizzazione di un settore di classe che a Marsiglia è molto ampio. Oltre ai ferrovieri vi è anche un gruppo di postali che, nel corso di questa lotta, ha rotto con la CGT e ha iniziato a parlare con noi, non per fare la rivoluzione, sia chiaro, ma per trovare una struttura dove poter difendere la propria condizione. Quello che è successo a Marsiglia è successo anche altrove, Lione tanto per dire ma anche a Lille e pur Parigi anche se di Parigi non ne sappiamo molto, dobbiamo però tenere presente che, al momento, si tratta di rotture di gruppi di avanguardie non ancora in grado di tirarsi dietro la gran massa interna alla CGT. La cosa che non bisogna fare è crearsi delle facili illusioni ma avere la consapevolezza che ciò che dobbiamo svolgere è una attività il cui scenario è la lotta di lunga durata senza illuderci che di colpo vi siano delle spallate o almeno delle spallate in grado di incrinare il potere imperialista. Se pensi a cosa sono state la banlieues nel 2005 e nel 2006 e cosa, in concreto, ne è uscito fuori diventa evidente che senza organizzazione e progettualità politica anche le più radicali insorgenze di massa sono destinate al fallimento. Quindi ciò che oggi va privilegiato è un costante processo di lotta e organizzazione finalizzato a costruire quadri politici a tutti gli effetti. Un altro aspetto che occorre tener presente è la prossima scadenza di settembre. Con le pensioni il governo ha inserito un cuneo che proverà a utilizzare, un fronte dietro l’altro. Il prossimo passaggio, una riforma della sanità all’italiana per capirsi, è già in programma per settembre. Lì potrebbero prodursi fratture anche più consistenti, vedremo.

La tua descrizione appare convincente e i fatti, per di più, sembrano confermarlo. A fronte di ciò, tuttavia, rimane irrisolta la “linea di condotta” del resto della classe operaia e del proletariato non garantiti. Questi non sono entrati in gioco ma non hanno neppure mostrato di avere una qualche progettualità alternativa. Come si risolve questo impasse?

Il cuore della questione è, come ti ho accennato, l’assenza di un progetto politico in grado di unificare le lotte e i comportamenti di questi settori di classe. Sotto questo aspetto possiamo prendere Marsiglia come vero e proprio paradigma. Questa città, insieme a tutte le sue piccole città satelliti, incarna completamente la realtà di classe contemporanea. Una realtà che vede sempre meno una classe operaia strutturata e un dilagare di forme di esistenza proletaria che oscillano tra le varie tipologie di precariato, alla condizione di disoccupato senza trascurare le quote di proletariato che entrano continuamente nei circuiti illegali. Questa è la fotografia di Marsiglia che, secondo noi, rappresenta, sicuramente non da sola, il destino delle masse proletarie francesi. Marsiglia non è una città facile tanto che, come certificano un po’ tutti i documenti polizieschi, è considerata una città estremamente pericolosa. Su questo è importante dire qualcosa poiché, la svolta propriamente turistica di Marsiglia, ha comportato processi di militarizzazione del territorio non proprio irrilevanti. Apro questa parentesi perché mi sembra molto significativa. Marsiglia ha sempre avuto questo primato di città pericolosa in Europa anche se qualcuno, sicuramente esagerando, la colloca tra le aree urbane più insicure del mondo. Ciò che è sicuramente vero è che questa città è attraversata da una tensione costante con periodiche esplosioni di rabbia. Rabbia sicuramente impolitica insieme a tutto un insieme di comportamenti illegali che la rendono sicuramente molto poco rassicurante soprattutto se, a differenza del passato, il turismo diventa una delle principali voci economiche della città. Qua si aprono una serie di questioni. Mi accorgo che non sto seguendo il filo della tua domanda. Vorrei dilungarmi su questo perché ha molto a che vedere con ciò che noi facciamo o almeno ci proviamo. Ok?

Sicuramente sì, quello che dici mi pare di estremo interesse, quindi affrontare il tema della militarizzazione, ma non da meno quello di Marsiglia città turistica, mi pare essenziale per comprendere dei passaggi che non sono sicuramente locali. Io vivo a Genova e qua siamo del tutto immersi in uno scenario simile.

Bene. Intanto cominciamo con il dire che cosa significa città turistica e a quale tipo di turismo si fa riferimento. Un certo tipo di turismo di élite vi è sempre stato e questo, per forza di cose, è sempre stato racchiuso in determinati perimetri. Se guardi, la stessa zona centrale di Marsiglia, mi riferisco all’area del Vieux – Port, è sempre stata una zona un po’ a sé che poco o nulla aveva a che spartire con il resto della città. Basta pensare che la zona di Noailles, considerata una zona particolarmente insicura e abitata principalmente da algerini e comoriani, è praticamente a ridosso del Vieux – Port. Questo turismo interagiva poco o nulla con la città. Aveva e ha i suoi locali, i suoi yacht, i suoi alberghi di lusso, gli appartamenti da film e le sue ville. Accanto a questo c’era un turismo diciamo di nicchia, persone attratte da Marsiglia le quali arrivavano intenzionate magari a rimanervi. A questi, volendo, possiamo aggiungervi i francesi poveri, soprattutto di Parigi, che venivano al mare a Marsiglia appoggiandosi ai parenti di qua. Questo turismo, sotto tutti i suoi aspetti, incideva molto poco sulla vita della città. Mi pare abbastanza indicativo ricordare che, un po’ da sempre, in estate Marsiglia, per il suo clima, diventa la meta di molti senza fissa dimora. Vedere persone accampate per le vie della città è abbastanza normale e questo non in qualche luogo fuori dalla vista, ma nel centro stesso della città. Chi, nella bella stagione, arriva a Marsiglia con il treno o il bus e scende per la scalinata di Saint – Charles si ritroverà nel viale adiacente dove incontrerà non pochi accampamenti. Non sto scherzando. Vi sono interi nuclei familiari che, di fatto, vi abitano. Sotto questo aspetto Marsiglia è sempre stata una città molto tollerante nonostante le sue amministrazioni di destra. Questo clima sta ormai decisamente cambiando e la causa è il turismo di massa. Turismo di massa vuol dire trasformare il più possibile la città in una vetrina omologata agli standard propri del turismo di massa. Questo, tra l’altro, comporta due cose. Da una parte rimodellare, sotto il profilo urbano e architettonica, la città su quello che è pensato come modello globale della città ovvero far perdere l’identità storica di una città al fine di renderla simile a tutte le altre; dall’altro inventare e costruire luoghi caratteristici, come nel caso del quartiere Le Panier, del tutto inventati e completamente estranei alla sua storia. A differenza del turismo di élite, che non ama sicuramente dilatarsi ma, al contrario, mira a essere del tutto esclusivo quello di massa deve continuamente espandersi. Questo vuol dire che sempre più aree della città devono essere messe a valore, la militarizzazione del territorio soggiace esattamente a questo passaggio che va colto come passaggio tutto interno al ciclo della produzione. La sicurezza non è un totem fascista ma parte integrante di questo ciclo economico. Se, in tendenza, tutta o gran parte della città deve diventare una meta turistica, la messa in sicurezza del territorio è il presupposto dell’organizzazione capitalista della e sulla città. Se oggi, chi dorme per strada, non è oggetto di scandalo perché non sono i turisti che attraversano quelle strade domani, che è già oggi, lo diventa. Messa in sicurezza del territorio da un lato, ma anche disciplinamento della popolazione e della forza lavoro dall’altro. Questo è l’altro aspetto che il turismo di massa si porta appresso. Militarizzazione significa spingere sempre più a nord coloro i quali sono individuati come classi pericolose ma anche essere un potente deterrente per quella forza lavoro impiegata nel turismo alla quale è negata ogni visibilità politica e sociale a partire, e non è proprio cosa da poco, alla libertà di organizzarsi sindacalmente. L’abbiamo presa un po’ alla lontana ma siamo tornati al nostro tema, il problema dell’organizzazione politica di questi enormi settori operai e proletari. Molti affrontano la questione della militarizzazione come aspetto puramente repressivo e non colgono il nesso ciclo economico – repressione. Lo stato non attua la militarizzazione perché ha l’ansia della repressione, ma militarizza perché questa è funzionale a un determinato tipo di economia. Qua a Marsiglia le amministrazioni di destra avevano determinate forme di tolleranza che l’attuale di sinistra non ha. Questo cosa vuol dire che la destra è tollerante e la sinistra no? La trasformazione di Marsiglia in città turistica obbliga, dal punto di vista del comando, a determinati passaggi e questi passaggi diventano di fatto obbligati per chi è chiamato a gestire la trasformazione.

Stiamo andando oltre il nostro spazio per cui torno su quello che, almeno inizialmente, mi ero prefisso di chiederti. Nel precedente articolo mi avevate parlato di questo incontro nazionale con un insieme di realtà con le quali condividevate molti aspetti. Questo incontro si è svolto il 6 e il 7 maggio. Puoi farmene, per quanto difficile, un resoconto esauriente e sintetico?

Ci provo. Prima, però, vorrei aggiungere una cosa che mi sembra rilevante. Non so se in Italia avete idea di ciò che sta succedendo a Mayotte, che è un dipartimento francese d’Oltremare delle isole Comore. Lì è in corso un conflitto piuttosto duro tra la popolazione e la frazione di comoriani legati alla Francia. A Marsiglia vi è una grossa fetta di comoriani. Questi vivono, per lo più, nella zona di Noailles che è anche una delle zone più povere e considerate insicure di Marsiglia e il conflitto a Mayotte li ha messi in movimento facendo emergere tutta una memoria anticoloniale e antimperialista. Con alcuni di questi, che ovviamente sono per lo più disoccupati e illegali, siamo entrati in contatto e la cosa, oltre a permetterci di entrare dentro Noailles come forza politica e sindacale ci ha rinforzata la convinzione di quanto importante sia un discorso politico sull’imperialismo. Ora provo a rispondere alla tua domanda. Questo incontro ha visto la presenza di compagni provenienti da una quindicina di città. Le realtà più significative sono quelle di Lione, Lille, Grenoble e Saint Etienne perché sono quelle con un maggior radicamento dentro le realtà sociali. In queste quattro città, infatti, sono presenti dei comitati popolari di quartiere che svolgono attività del tutto simili quelle che stiamo portando avanti noi qua a Marsiglia. Non sto a ripeterti delle cose che, in gran parte, ti sono state dette nel corso degli articoli che hai scritto. Diciamo che, grosso modo, per quanto riguarda l’analisi della composizione di classe, la fase politica che stiamo vivendo e così via abbiamo riscontrato punti di vista sostanzialmente comuni. Ci sembrava, e questa è stata la nostra proposta politica, che una delle principali carenze che riscontriamo è l’assenza di una dimensione politica. Mi spiego. Manca una analisi complessiva sulla fase imperialista contemporanea, un discorso chiaro sulla guerra e la Nato, sulla militarizzazione dei territori, sulla questione femminile. Manca una teoria politica senza la quale pensiamo impossibile costruire organizzazione. Allora il primo passaggio che ci siamo dati è fare una rivista che assolva a questo compito. Un giornale non è sicuramente tutto, ma è lo strumento indispensabile per costruire organizzazione. Questo è quanto principalmente è uscito fuori dalla riunione del 6 e 7 maggio. Ora si tratta di andare a una verifica di tutto ciò.

Il punto di vista ascoltato non è il solo emerso nel corso della riunione. Qualcosa di diverso, anche se non apertamente contrastante, emerge attraverso le parole di S. D. una attivista già protagonista nel corso delle Corrispondenze precedenti. S. D., pur condividendo pressoché in toto le argomentazioni analitiche esposte da L. R., sembra propendere per uno sviluppo organizzativo abbastanza diverso. Le sue argomentazioni ci appaiono particolarmente utili, nonché interessanti, poiché, come si ricorderà S. D., sta svolgendo un ruolo importante nell’occupazione abitativa nel Terzo. Le sue sono le parole di “una avanguardia di lotta” la quale, forse più di altri, è in grado di comprendere le varie sfaccettature che fanno da sfondo alla vita delle masse. Il suo essere “empirico” sembra essere ben distante da un empirismo incapace di cogliere la complessità ma, al contrario, proprio in virtù di questo empirismo appare in grado di calarsi per intero dentro la classe, coglierne gli umori e le immancabili contraddizioni così come, proprio grazie a questo empirismo, pone in evidenza quanta importanza abbiano gli immaginari, le culture e le sub culture per le masse subalterne. Se, come noto, non di solo pane vive l’uomo i “punti di vista” dei subalterni vanno colti, interpretati e fatti propri. Questo, del resto, non è una novità. Se pensiamo all’Italia e al peso che, negli anni ’60, hanno avuto le “culture underground” nel definire una certa idea della rivoluzione, nella quale l’antiautoritarismo era diventato il collante unitario di tutto ciò che si apprestava a mettere radicalmente in discussione gli assetti sociali (il che aveva ben poco a che vedere con la tradizione del movimento operaio), diventa non solo ovvio, ma persino banale, tenere presente il punto di vista di S. D. Non ce ne vogliano i comunisti ad hoc ma è indubbio che per una intera generazione operaia i Rolling Stones siano stati molto più importanti di Stalin e i Teddy Boys dei Soviet. Perché oggi dovrebbe essere diverso? Perché oggi lo sfondo culturale o sub culturale che dir si voglia dei subalterni dovrebbe essere ignorato? Pur con tutte le sue contraddizioni, delle quali non è possibile rendere conto nel contesto, la generazione che negli anni ’70, in Italia. ha portato l’assalto al cielo è sicuramente rintracciabile più dentro Parco Lambro che nelle anguste sedi dei vari partitini comunisti già pronti a farsi nuova polizia. Sulla scia di questi presupposti ascoltiamo S. D.

Ciao, a quanto ho capito tu hai una visione delle cose che non coincide esattamente con quanto abbiamo appena sentito. In che cosa tu e non solo ti differenzi?

Allora, intanto faccio una premessa, da un punto di vista dell’analisi concordo interamente con quanto detto da L. R. per cui non starò a ripetere cose già dette. Veniamo invece alle cose sulle quali mi ritrovo meno. L’idea di una rivista, un giornale quello che è va sicuramente bene, ma è sul taglio che ho dei dubbi. Dubbi che finiscono con l’avere a che fare sulla nostra pratica. Ecco la prima cosa che non vorrei fare è un giornale dei e per i comunisti. Di cosa ce ne facciamo? Lo leggiamo tra di noi? Serve al movimento di massa? Non credo. Certo mettere dei punti fermi è importante , non è che si può andare avanti senza avere un’idea il più chiara possibile su dove siamo, cosa succede complessivamente e via dicendo questo è sicuramente un aspetto fondamentale ma non possiamo privilegiare questo aspetto perché così veniamo a perdere la dimensione reale delle masse. Così si finisce con il parlare una lingua che rimane estranea insomma a me sembra che così si finisca con il partire da noi per arrivare a noi e questo sicuramente non va bene. Certo, in questo modo, diventa tutto più facile ma questa scorciatoia che effetti ha? Come si relazione con il movimento reale? Quanto è in grado di raccogliere ciò che, sicuramente in maniera estremamente contraddittoria, proviene dalle masse? La compagna ha parlato delle ipotesi teoriche del giornale/rivista mentre io mi focalizzerei maggiormente sull’iniziativa che stiamo costruendo dentro al Terzo, ovvero aprire una sala boxe anche dentro a quel quartiere. Se siamo arrivati a questo punto, e credo che il bilancio di ciò che abbiamo fatto sia estremamente positivo, è perché siamo partiti dalla classe e abbiamo sempre avuto la classe, nella sua concretezza e non come astrazione, come punto di riferimento. Ecco, per certi versi, mi sembra che corriamo il rischio di rincorrere l’astrazione dimenticandoci della dimensione concreta la quale, come abbiamo visto anche di recente, non è per nulla facile. Sarò un po’ minimalista, ma ciò che maggiormente mi ha convinto della riunione che abbiamo fatto il 6 e il 7 maggio è il collegamento con i comitati popolari di quartiere, i collettivi operai di Saint – Etienne e Lione. Credo che è a partire da queste realtà che diventa possibile costruire organizzazione perché è dentro a queste situazioni che è possibile avere costantemente il polso della classe e interagire positivamente con questa.

Vorrei portare l’intervista su due aspetti. Il primo è perché e in quale prospettiva state cercando di aprire una sala boxe nel Terzo? Il secondo riguarda i problemi , che hai brevemente accennato, che riguardano la complessità e anche la difficoltà che comporta stare costantemente dentro la concretezza della classe.

L’apertura della sala boxe nel Terzo indica la riuscita che l’occupazione abitativa che stiamo portando avanti in cooperazione con gli abitanti del quartiere sta dando dei risultati che vanno di gran lunga oltre le aspettative che potevamo immaginare. Il Terzo, come un po’ tutti sanno, è un quartiere difficile e complicato dove non vi era alcuna presenza politica e sociale. Per molti versi possiamo dire che il Terzo rappresenta l’esclusione tra l’esclusione. Oggi possiamo dire che lì è in atto una sperimentazione politica e organizzativa che potrebbe trasformare questo luogo considerato un po’ da tutti come il quartiere reietto in quartiere di avanguardia. Oggi, a Marsiglia, il Terzo può essere considerato, almeno dal punto di vista territoriale, il punto più avanzato del conflitto sociale. Ciò dimostra come sia necessario andare tra gli strati più profondi della popolazione e per farlo occorre, per prima cosa, essere in grado di ascoltare ciò che da quegli strati proviene. L’apertura della sala boxe è un passaggio che abbiamo discusso dentro al Comitato di quartiere a partire dal fatto che il poter disporre di uno spazio sociale e sportivo è una necessità politica del quartiere e infatti avrà la connotazione di Casa del popolo e non semplicemente quella di Collectif Boxe Massilia. Il fatto che questa richiesta sia stata portata avanti da non poche donne mi pare decisamente importante e qua vorrei aprire una parentesi. Noi stiamo riscontrando un notevole successo tra le donne proletarie. Questo è vero nel Terzo e un po’ ovunque. Questo significa che vi sono tutti i presupposti per costruire una rete femminista operaia e proletaria in aperta opposizione al discorso del femminismo borghese. Uno dei punti centrali di questa organizzazione dovrà essere l’autodifesa e il rifiuto della delega di se stesse agli apparati statali. Sotto questo aspetto alcune indicazioni che provengono dalle esperienze delle donne curde mi sembrano decisamente importanti. Con questo voglio dire che dobbiamo essere in grado di recepire tutto ciò che proviene sia dalla classe, sia dalle esperienze rivoluzionarie del presente. Anche il Black Panther Party quando è sorto era visto come una specie di eresia mentre oggi, tutti e proprio tutti, lo considerano un’icona non dissimile dal partito di Lenin il quale, dal canto suo, ai suoi tempi non è che fosse considerato uno proprio in linea.

Mi hai parlato di contraddizioni e problemi che avete incontrato nel lavoro di massa i quali sono stati oggetto di notevoli discussioni.

Ti parlo di un solo episodio perché mi sembra che sia quello che ha portato al pettine tutta una serie di nodi. Mi riferisco al meeting di boxe, Ladies Boxing Perf’ Marseille che abbiamo organizzato nei Quartieri Nord. Lì sono emerse una serie di contraddizioni non proprio da poco. Il primo è stata la questione del velo. Alcune volevano combattere con il velo. Questo la Federazione non lo consente e quindi è successo un casino. Inutile che stia a entrare nei dettagli della giornata, ciò che importa è come ci rapportiamo alla questione del velo perché è una cosa che, ovviamente, non ci ritroviamo solo nella boxe. Molte ragazze giovani indossano il velo, questo è un fatto. Il velo, poi si può discutere sino a domani su questo, è una forma di identità anticoloniale e antistatuale che le giovani donne, almeno alcune, utilizzano. Possiamo liquidare questa prassi come arcaicità, come aspetto reazionario o addirittura come un comportamento filo-fondamentalista o dobbiamo vederla in un altro modo, ma se optiamo per questo non è che possiamo risolverla con una bella lezione di marxismo. A Marsiglia l’islamismo non ha preso molto ma un po’ ha preso e lo ha fatto perché noi, dico noi comunisti, non siamo in grado di affrontare la questione in profondità e finiamo, anche senza volerlo, con l’approdare nell’islamofobia. Ovviamente dentro il Collectif questo ha aperto un dibattito che non è ancora risolto.
Il secondo casino che è emerso è stato causato dalla sessualizzazione, chiamiamola così, che soprattutto le pugili lesbiche hanno impresso ai combattimenti. In poche parole, così come alcune donne musulmane hanno voluto rimarcare attraverso il velo la loro identità, le pugili lesbiche hanno voluto rimarcare il loro essere lesbiche in un contesto prevalentemente omofobo. E qua un altro bel casino. Certo, ed è la cosa più facile da dire, si può intervenire dicendo: “Questo è un incontro di boxe e tutto il resto non c’entra”, lo si può dire, ma la cosa chiaramente non funziona. Così come il velo è un modo, discutibile sin che si vuole, è un modo per contrastare una discriminazione, ostentare determinati comportamenti sessuali è un modo per rifiutare il ghetto. Ultima cosa lo scontro tra gang. Al meeting erano chiaramente presenti gran parte delle gang e evitare il peggio non è stata certo una passeggiata. Velo, omosessualità, gang possiamo ignorarli avendo per ciascuno di questi aspetti una bella formuletta che risolve tutto, ma così rinunciamo a quote non irrilevanti di classe oppure entriamo in relazione dialettica con questi aspetti. Per farlo devi stare con continuità e costanza dentro le situazioni e con questo torno e chiudo con l’esperienza che stiamo maturando nel Terzo. Non è che lì tutte queste cose non esistano, non è che lì abbiamo trovato la classe fatta a nostra immagine e somiglianza, semplicemente abbiamo cercato di comprendere, interagire, far emergere delle contraddizioni e soprattutto abbiamo posto in atto dei percorsi di lotta perché dentro la lotta le cose si modificano. Questo è ciò che continueremo a fare.