di Fosca Gallesio

[Avvertenza: il testo contiene spoiler della stagione 6 di American Horror Story]

Dopo il mid-point Roanoke fa un salto dimensionale: non siamo più nel reale, siamo dentro la tv, siamo sul piano del linguaggio. Lo schermo tv non è più il velo che protegge dalla finzione, ma uno specchio che riflette, una soglia fluida come quella di Matrix in cui Neo affonda la mano.
Teniamo presente che i reality come format non si mettono sul piano del reale, dei fatti.
Tendenzialmente le telecamere arrivano sempre dopo o quantomeno non riescono mai a inquadrare tutto, soprattutto quando si parla di fenomeni paranormali. I format della Paranormal TV (“Ghost Hunters” o “Haunted Encounters”), spesso mettono in scena tecniche pseudo-scientifiche per verificare la presenza di fantasmi. Secondo alcuni critici sono programmi ridicoli e assolutamente trash, simili al softcore pornografico; ma secondo altri hanno un’importante funzione epistemologica, affrontando il tema della paura della morte. Come ha affermato Diane Dorby: “Questi reality sul paranormale forniscono agli spettatori delle strutture di plausibilità che aiutano a interpretare il significato e l’esperienza della morte e del lutto.”

Questo salto dimensionale offre tutta una serie di occasioni di satira del mondo dei media e di gustosissimi episodi autoironici. Ad esempio più avanti nell’episodio si vede la casa che viene scenografata, ma uno dei macchinisti muore per un misterioso incidente sul set – presagio di sventura – Sidney però rifiuta di interrompere la lavorazione, mostrando tutta la sua noncuranza e miscredenza nel paranormale, il cinismo dei media.
Il linguaggio del reality acquisisce una forza di plausibilità, poiché le cose sembrano accadere in diretta, il tempo reale è la presunta garanzia di oggettività che dà la ripresa. Ovviamente nella tv è tutto molto spesso preparato e guidato (ormai anche il reality è scripted, rigorosamente sceneggiato), ma nel caso dell’horror di American Horror Story la realtà crudele emerge proprio dagli elementi più immaginari: i fantasmi qui uccidono davvero. E la telecamera, pur rimanendo un occhio senza operatore, continua a riprendere tutto l’orrore.

Parlando di televisione Murphy non poteva esimersi dal mettere in scena la parodia di uno dei generi più diffusi: il giudiziario. In una società come quella americana dove i casi giudiziari vengono riaperti dopo i documentari di Netlfix. Il tema del giudizio, sia in senso criminale, come responsabilità penale, che in senso morale e sociale, come pregiudizio, opinione diffusa tra la maggioranza che finisce per marginalizzare le minoranze, è messo al centro di AHS-6. Murphy riflette anche sulle conseguenze che il sistema mediatico ha sulle istituzioni (giudiziarie e di polizia) mostrando con efficacia la fragilità dell’America contemporanea.

Perno centrale della tematica diventa il personaggio di Lee, donna, ex-alcoolista e afroamericana, il terzo personaggio testimone della casa dei fantasmi. Dalla visione della prima parte del docu-drama My Roanoke Nightmare infatti il pubblico ha desunto che Lee abbia ucciso il marito – che è stato ritrovato nei boschi massacrato, ma non è ben chiaro se sia stata lei (con il movente di ottenere la custodia della figlia) o gli spiriti (ma fin ora nessuno crede realmente al paranormale). Ora la troviamo sotto processo (in TV), ma il desiderio di giustizia del pubblico è un desiderio di punizione, quasi sadico. Non è un caso che si accanisca contro il personaggio che in maniera quasi stereotipica riassume tutte le minoranze americane.

Qui si situa la critica di Murphy ai fan, accusati di un sadismo insaziabile. Alcuni critici hanno rilevato come il successo dei reality-show dipenda dalla nozione di schadenfreude, termine tedesco che indica l’esperienza di godimento e gioia nel vedere le sofferenze altrui. Una sorta di godimento sadico, che la televisione sfrutta senza pietà specialmente nei reality. Ci sono 3 tipologie di questo particolare godimento: basato sull’aggressività – legato all’identità di gruppo, in cui si gode nel vedere le sventure di un altro gruppo rivale. Basato sulla competizione individuale – la classica gioia del vincitore, che si sente rafforzato nella sconfitta del rivale, qui siamo nell’ambito dell’autostima e del valore personale. Infine c’è la schadenfreude basata sulla giustizia, che riguarda i valori morali in cui si crede, è il desiderio di vedere giustamente puniti i responsabili di atti immorali e criminali. Una cosa che in America sanno fare molto bene, si pensi a tutte le pluralità di significato storico e politico dell’espressione caccia alle streghe. Murphy inserisce sottili critiche e riflessioni su tutti i 3 tipi di godimento sadico, sarebbe troppo lungo riassumere, ma la sua visione della depravazione moralistica a cui è giunta la società americana è sorprendente.

La seconda parte della stagione mostra molto bene le pratiche manipolatorie degli autori del reality show, in questo caso ancora più sadiche perché finalizzate a generare uno spettacolo orrorifico. Un’altra serie che mostra il crudele backstage dei reality (nello specifico di genere dating in stile The Bachelor) è la brillante Unreal, che svela come il gioco al massacro tra realtà e finzione può finire per distruggere anche le vite degli autori di tali programmi.
Ricordiamo che il punto dello show in questo caso sta nel riunire gli attori della prima parte insieme ai personaggi reali che hanno vissuto nella casa infestata. Nell’indagare il limite tra storia, vita reale e finzione, è interessante il personaggio di Kathy Bates, che nel docu-drama interpretava Thomasin, la macellaia, la capogruppo dei fantasmi di Roanoke.

La leggenda di Roanoke è una storia reale di una colonia inglese stabilitasi in North Carolina alla fine del ‘500, nel territorio dei nativi Croatan e misteriosamente scomparsa. Secondo la leggenda, poiché la colonia pativa la fame, gli uomini maturi partirono per una spedizione in cerca di cibo, ma non tornarono più. Dopo una lunga attesa, Thomasin, moglie del capo della colonia e reggente temporanea, si addentrò in un percorso demoniaco che la portò a trasformarsi nel fantasma della crudele macellaia. Thomasin incontrò nel bosco la strega Scáthach (Lady Gaga) e fece un patto con lei per scampare dalla fame. Il patto però esigeva che Thomasin e i coloni offrissero alla strega sacrifici umani, così la colonia si trasformò in un’orda di cannibali e rimasero sui luoghi come spiriti infestanti pronti a uccidere una volta l’anno durante i tre giorni della luna di sangue.

Katy Bates in questa seconda parte ha il ruolo di Agnes, l’attrice che interpretava la macellaia nel docu-drama. Il problema è che Agnes è rimasta intrappolata nel ruolo. Identificata totalmente con la macellaia, ha avuto una attacco di delirio andando in giro per Los Angeles armata di mannaia. Quando lo show-runner Sidney la va a trovare e la intervista, lei sembra ristabilita, racconta che è seguita dai medici e non vede l’ora di iniziare le riprese del nuovo show. Ma Sidney con un sorriso costernato le dice che lei non parteciperà, perché sono preoccupati del suo stato di salute mentale. Sidney smonta le telecamere e va via, mentre Agnes ha una nuova crisi isterica e urla: Non potete farmi questo. Sono io la macellaia! L’assistente di Sidney fa notare che siccome Agnes si è trasferita a pochi chilometri dalla casa dove girano, sarà difficile che resti lontana dal set; «è proprio quel che mi auguro» è la cinica replica di Sidney, che spera vivamente in un nuovo colpo di testa di Agnes per animare il conflitto dello show.

La confusione dei piani è totale e innesca una spirale diabolica, in cui però si muore davvero. Entriamo nella dimensione iperreale della tv, più vera del vero, più horror dell’orrore. La tecnica actor’s studio dell’immedesimazione, porta al delirio paranoico e violento: sarà proprio Agnes a macellare Sidney e i suoi assistenti nel camper di produzione – portando ai massimi livelli la schadenfreude degli spettatori reali di AHS. Il punto è che nessuno sa più cosa è vero e cosa no, cosa è un trucco per le telecamere, un’allucinazione o un fatto reale, e questo porta alla follia di gruppo.

Torna l’elemento della colpa e della responsabilità: non si capisce più chi ha ucciso, né perché; se lo ha fatto in pieno possesso delle proprie capacità o perché sotto influsso altro. Si capisce bene che è stata proprio la presenza degli estranei della tv, la causa scatenante della violenza e dei crimini raccontati. Aver turbato l’equilibrio di forze naturali e soprannaturali del territorio di Roanoke, non ha fatto altro che inasprire la rabbia e acuire la violenza, con il risultato di moltiplicare il numero di cadaveri. La televisione crea da sola il reale sadico di cui ha bisogno come nutrimento. Reality it’s what we make of it. La storia ormai è una storia mediata, non vi è più scampo dall’American horror TV History.

L’esplosione incontrollata delle pulsioni violente poggia sullo stesso meccanismo emotivo che ha portato alla proliferazione delle fake-news. Giacomo Costa spiega la logica della Post-Verità: «che pare rovesciare il rapporto tra il valore dei fatti, che parla alla ragione, e quello di emozioni e sentimenti […] stiamo uscendo dalla modernità razionalista per addentrarci in una postmodernità della sensazione. Ma anche le emozioni hanno un ruolo nella ricerca della verità: sono segnali da leggere, mettendo a fuoco che cosa indicano»1.

Three days in Hell è una macchina che porta alla follia i suoi stessi protagonisti. Mettere sullo stesso piano realtà e finzione, provoca un’epidemia paranoica che disintegra i corpi/mente. Il tema profondo di American Horror Story 6 è proprio l’exploitation, lo sfruttamento cinico e assetato di sangue degli spettatori cannibali, pompato a violenza come una droga dai produttori e dagli sponsor.
In questa seconda parte della serie, la tematizzazione del vero e del falso e le motivazioni che portano a mentire, diventano sempre più importanti. Ma rispetto all’argomento di moda delle fake-news, Murphy fa un’inversione: invece che un’informazione fake, crea una fake-reality, dando vita a una dimensione parallela, oltre i confini dello schermo, che è un’iperbole doppia: più vera del vero, più fake del fake. La leggenda sanguinosa della colonia di Roanoke si incarna grazie al medium televisivo, nutrita dalle energie pulsionali della violenza e del sadismo che permettono ai fantasmi di oltrepassare il velo tra vita e morte come nel mitico Poltergeist.

Il format reality-show genera uno stupro del reale e sedimenta una nuova storia riscritta. La percezione del reale è ormai transitata definitivamente attraverso gli schermi, in una spirale dove non conta più il realismo e l’attendibilità del fatto in sé, ma dove il vero è sempre una questione suggestionata e influenzata dalla comunicaziona mediatica. Il dominio della tv non è reale, ma iperreale.

Nelle ultime due puntate della stagione Ryan Murphy volge direttamente lo sguardo sull’elemento cruciale della storia: il pubblico che ama divorare certi programmi spazzatura. Il suo atto di accusa è anche una velata critica ai suoi stessi fan. La stagione 6 è un’astuta riflessione sul consumo attuale di contenuti audiovisivi. Roanoke ruota interamente intorno al suo dissacrante meta-cinismo e finisce come la lezione di un esperto su come trollare i propri fan.

Le ultime puntate sono tutte narrate da punti di vista interni, Murphy usa il genere del found-footage alla Blair Witch Project per mettere in scena un gruppo di fanatici dell’horror, armati di caschi con telecamere, che vanno sul terreno di Roanoke. Saranno proprio questi teen-ager affamati di sensazionalismo e protagonismo videoamatoriale a trovare la roulotte di produzione coi cadaveri sventrati di Sidney e del suo staff. Questi fan sfegatati sono allo stesso tempo occhio-POV (soggetto della ripresa), ma anche oggetto (testimoni dell’orrore e poco dopo vittime). Inoltre si inizia ad avere un effetto di identificazione: i fan del fake-reality My Roanoke Nightmare sono identici ai fan di American Horror Story. Questo rispecchiamento mette lo spettatore che guarda da casa in una posizione scomoda, di disagio, proprio perché questiona il suo godimento sadico.

Il capitolo 10, l’ultima puntata di AHS-Roanoke, è spiazzante e geniale. Si tratta di una sorta di blob, che monta contenuti audiovisivi di ogni tipo (fanvideo da you-tube, justice-show, talk-show, news), mettendo in evidenza come la nostra esperienza della realtà sia ormai interamente mediatica. L’ultima puntata è costruita montando in maniera frenetica tutto il found-footage a disposizione, cioè tutto il contenuto che abbiamo visto nelle prime 9 puntate, declinandolo in versioni parodiche di famosi format della tv americana.

Da un punto di vista narrativo, il problema è ricostruire la verità dei fatti. Cosa è successo davvero nella casa di Roanoke? L’unico testimone oculare dei fatti è Lee, unica sopravvissuta. Ma un solo punto di vista, non basta per capire la verità. In più la posizione di Lee è complessa: è sia l’unica testimone degli accadimenti, sia vittima delle torture, ma anche presunta colpevole di omicidio.

Il primo format parodiato è Cracked – uno show che racconta le vite distrutte di persone vere che hanno avuto un esaurimento nervoso e commesso azioni dubbie o criminali – riassume la storyline di Lee mostrata con un montaggio indiscriminato di footage presi sia dalle parti fake che dalle parti docu (spezzoni che lo spettatore esterno di AHS riconosce e può quindi distinguere cosa sia reale e cosa no, cosa impossibile per il pubblico interno all’universo narrativo, che finisce per credere che la versione dello show dica la verità). Lee è raccontata con un retorico voice-over di ipocrita compassione, che la umilia, reputandola una poveretta insana di mente. L’effetto è veramente nauseante.

Si passa poi al processo, anche questo totalmente spettacolarizzato (Murphy è anche autore della serie America vs. OJ Simpson e conosce le dinamiche della tv-justice). Il dibattimento raggiunge il culmine con la visione di un frammento in cui Lee fa una video-confessione, mentre però è tenuta sotto tortura da una famiglia di cannibali personaggi secondari di Roanoke, il che rende la confessione non attendibile. In un’escalation di spettacolarizzazione viene poi fatta testimoniare Flora, la figlia di Lee, che dice di aver visto la madre che uccideva suo padre. Una minorenne testimone in un processo contro la sua stessa madre non è esattamente attendibile, infatti l’avvocatessa di Lee nel controinterrogatorio fa emergere la storia del fantasma di Priscilla, di cui la bambina racconta con entusiasmo come di un’amica immaginaria. Se Flora ha immaginato il fantasma, avrà immaginato anche la madre che uccideva il padre: per la difesa è stata solo una visione, un effetto di reazione alla separazione tra i genitori. Alla fine Lee è riconosciuta “Non Colpevole”. Ma si mostra l’intervista a uno dei giurati, che rivela che la giuria era molto divisa. Il dubbio rimane.

Con il finale si torna al linguaggio finzionale in oggettiva. Siamo nella classica situazione di assedio della polizia, la presunta assassina pazza, Lee, è da sola all’interno della casa con Flora, ma fuori la polizia non ha idea di cosa sia successo, hanno solo trovato i cadaveri dei ghost-hunters e credono che sia stata Lee a uccidere tutti e barricarsi dentro con la figlia. Il dramma è che Flora ha perso ogni fiducia nella madre perché l’ha vista ammazzare suo padre. A questo punto Lee le spiega cosa significa essere genitori. Quando si diventa genitori si vuole essere perfetti in tutto (flawless), per provvedere al meglio al bene di proprio figlio, ma nella realtà è impossibile essere flawless (letteralmente senza ferite), solo che quest’immagine ideale e aspirazionale (immaginaria) che ci si è costruiti nella testa è così forte che nel tentativo di concretizzarla, ci si ostina e si continua a sbagliare e fare errori, anche se in buona fede.

Lo speech si applica alla genitorialità ma è anche una riflessione sulla creatività. Spesso Ryan Murphy è stato descritto dai suoi collaboratori come un padre, che ci mette di tutto per far si che i suoi show siano perfetti, abbiano successo e raccontino efficacemente la storia. Non sempre ci si può riuscire. Nessuno è perfetto. Ed è perfettamente inutile arrabbiarsi (come i fan) dando la colpa agli autori.

I personaggi della stagione finale di AHS sono caratterizzati da un sapore agrodolce, malinconico, in cui la linea di demarcazione tra bene e male è sempre incerta. Alcuni muoiono, altri sopravvivono, quello che conta alla fine è il senso di chiusura, la pace dell’anima. Perché sono proprio le anime con conti in sospeso che tornano sulla terra a ossessionare i vivi. C’è una grande portata etica nella serie, che va oltre le dicotomie semplicistiche e le polarizzazioni facili. L’universo di American Horror Story si situa sulla linea di confine tra mondi, tra valori, tra identità diverse e fluttuanti, senza pretendere di avere risposte univoche e convincenti per tutti.

Murphy ci dice che per poter sostenere la visione dell’orrore, è fondamentale avere sempre un certo distacco, ironico e soprattutto autoironico. Perché, si perdoni la tautologia, la paura fa paura davvero. Il bombardamento di notizie e l’allarmismo gratuito delle fake-news fa leva sulla paura, giocando sul fattore di convincimento: più dici che una cosa succederà, più la gente si convincerà che sia vero. Poi magari dici anche che è già successo e che la storia si ripete. Insomma più si crede in una cosa e più ci si convince che sia vero. È questa la logica del martellamento delle fake-news, far leva sulla credenza emozionale, di pancia, più che sull’analisi razionale di una realtà complessa.
È come se Murphy dicesse: Volete l’orrore vero? Volete vedere chi è assetato di sangue, violenza e morbosità, senza alcun senso di responsabilità o empatia per le vittime, senza curarsi delle conseguenze future? Guardatevi allo specchio (schermo): l’orrore siete voi. Lo psicopatico sei tu, spettatore gaudente di American Horror Story.

Per concludere mi piace definire American Horror Story – Roanoke un UNO (Unidentified Narrative Object – secondo la definizione di Wu Ming) perché è davvero un oggetto narrativo peculiare, multistrato e multidimensionale. Proprio nel rapporto dialettico con il pubblico e nelle sue ramificazioni transmediali, nei commenti e nelle speculazione della fandom, genera un meccanismo creativo di dibattito su questioni cardine della contemporaneità.

La portata sovversiva delle creazioni di Murphy e Falchuck sta anche nel ribaltare le posizioni dei discorsi mainstream, invertendo la polarità tra oggetto e soggetto, tendendo sempre presente l’elemento individuale del punto di vista. Le teorie femministe sul cinema hanno sempre criticato il fatto che la donna fosse vista solo come oggetto del desiderio di uno sguardo vojeuristico maschile; Roanoke con il suo mix linguistico replica una molteplicità di sguardi, maschili e femminili, umani e artificiali (gli occhi delle telecamere di sorveglianza, le camere che cascano a terra e riprendono anche dopo che i loro operatori sono morti), e facendo recitare molti ruoli diversi ai suoi attori, li sposta continuamente da un lato all’altro della “quarta parete.”

Parafrasando Wu-Ming direi allora che Roanoke è un UNS (Unidentified Narrative Subject), la serie è un soggetto narrante non identificato. La visione oggettiva e fredda dei fatti, razionale e logica, tradizionalmente associata al maschile, è mixata con la visione soggettiva della storia, più sensibile ed emotiva, tradizionalmente associata al femminile.

Sicuramente la serie non sarà perfetta, ci sono molti salti logici e buchi di trama che la rendono complicata da seguire. Ma è assolutamente centrata nel tema, nei linguaggi che adopera e nella profondità dei personaggi. La dichiarazione di intenti della serie era già presente nel testo della canzone di Lady Gaga (considerata una delle muse di Murphy) Perfect Illusion, che è stata usata per lanciare la serie. Con una precisazione: anche l’illusione migliore, non potrà mai essere perfetta, il bello è proprio questo, perché se fosse perfetta vorrebbe dire che siamo morti e stiamo forse contemplando Dio, nella pace dei sensi. Siete sicuri di volerlo davvero?


  1. Giacomo Costa, Orientarsi nell’era della post-verità