di Giovanni Iozzoli

Diciamocelo: spesso tendiamo a sopravvalutare la forza e la lungimiranza dei nostri avversari. Ci figuriamo le classi dirigenti perennemente impegnate nell’elaborazione di piani raffinati e nella gestione di complessi processi sociali; scriviamo poemi sull’astuzia luciferina del nemico di classe; tentiamo di decifrare mappe e piani avversi, per anticiparne le mosse. Quando poi le cose evolvono in modo imprevisto – cioè, il Machiavelli capitalista si rivela un arruffone e un improvvisatore – allora operiamo un cambio di analisi in corsa, per rimettere tutte le variabili al loro posto e far quadrare l’equazione. Un esempio è la parabola di Draghi – la sua scesa in capo un anno fa e la sua mancata ascesa al Quirinale oggi. Il banchiere assiso a Palazzo Chigi, dava l’idea di un impudico disvelamento della governance capitalista, che ormai esercitava il comando facendo a meno del personale politico e piazzando al suo posto i propri uomini di punta. L’ipotesi di Draghi al Quirinale, largamente pronosticata nel nostro campo, rappresentava il completamento istituzionale di questa spregiudicato strapotere: la torsione presidenzialista, in cui le forze del Male avrebbero posto la società (e i brandelli di Costituzione residui) sotto la tutela del suo uomo forte. Le tessere del comando tutte al loro posto, ordinatamente.

La lettura della fase era anche legittima, per l’amor di Dio.

Solo che ci siamo raccontati tante volte le radici etimologiche della Krisis (la scelta, la possibilità, l’opportunità e bla bla bla) da dimenticare il senso comune che il termine ha sedimentato nei secoli: rottura, dissoluzione, disordine potente. Alla luce di quanto avvenuto nelle ultime settimane, il ruolo di Draghi, più che ad una progettualità astuta e proterva dei poteri forti, va ricondotto ad un cortocircuito drammatico, una serie concentrica di criticità ingovernabili, un gorgo nel quale le classi dirigenti italiane non sanno più a che santo votarsi. E la pandemia ha rappresentato solo l’esaltazione esplosiva, di quella che era una condizione latente.

Quindi, non solo crisi del quadro politico (i partiti sono bellamente scomparsi e questo pare chiaro a tutti), ma anche crisi di tutti gli strumenti di governo e di orientamento della società italiana: che significa concretamente che non si hanno risorse e idee per cementare un nuovo blocco sociale centrato sull’interesse d’impresa. Questo è il mozzo da cui si dipartono le diverse forme crisi, come i raggi di una ruota un pò sgangherata. Governare una società moderna, dal punto di vista dei percettori del profitto, significa arruolare ceti e classi a difesa delle proprie ragioni, in un coinvolgimento di massa che fa sembrare “naturale” e senza alternative, il proprio interesse di classe e la propria visione del mondo. Ma se la visione manca? Le classi proprietarie italiane oggi non riescono ad esprimere alcuna sintesi sociale, aspirano al massimo a inserirsi nelle filiere di valore e di comando europee, in posizione dignitosamente subordinata. Non ci sono pupari o strateghi, sulla tolda di comando: solo consorterie in cerca di soldi pubblici, maxi appalti, sgravi, sopravvivenza o aiuti concreti per ristrutturarsi e competere (raramente) sui mercati globali. Dov’è la progettualità dei poteri forti? Il ministro Speranza – tanto per citarne uno -, possiamo farlo passare per un’espressione dei “poteri forti”? O è solo un disperato che si è trovato a passare da quelle parti, in un momento delicato della storia, ricoprendo un ruolo mediocre, da bravo soldatino piddino? Certo riceverà imput e orientamenti – le lobbies biomedicali, Big Pharma, l’Oms o che so io – ma non è immediatamente riconducibile ad un qualche progetto predefinito. Quale Demiurgo affiderebbe a Calimero la gestione del Grande Reset? E a proposito: quanti Grandi Reset potremmo annoverare, dal 1989 ad oggi, se volessimo giocare a quel gioco? Nessuno sta resettando niente: forze anonime e mastodontiche si muovono incessanti sullo scacchiere dell’economia globale, senza capacità di coordinazione, affondando le zampe dentro il fango della crisi generale. Draghi è l’espressione di tutto ciò, e tra un pò probabilmente si defilerà, come Monti, perchè come Monti non è la risultante di progetti diabolici ma di una condizione di una crisi irreversibile che, partendo dal saggio di profitto, a mò di onde telluriche, investe ogni istituzione, ogni legame sociale, persino ogni elemento di civiltà.

E in Europa le cose non vanno meglio: la repentina inversione di marcia segnata dal Recovery Found e dal superamento del tabù della messa in comune del debito, testimonia che anche gli ordo-liberisti più fanatici devono sbattere la testa contro la stagnazione economica e le inquietudini sociali che rischiavano di portare il sovranismo nella stanza dei bottoni. Il “polo imperialista europeo” – di cui facciamo bene a discutere, perchè il dibattito è essenziale –, in questo momento storico sta più dentro la testa di alcuni pezzi di ceto politico continentale, che nel corso reale e presente delle cose. La crisi ucraina dimostra ancora una volta che la sudditanza e la fragilità dell’Europa verso l’amico americano, fa a cazzotti con ogni grandeur, con ogni velleità o suggestione o progettualità di esercito europeo e di unione politica effettiva. Del resto Macron e Boris Johnson, non sono anch’essi – a modo loro, nei rispettivi contesti – espressione di tracolli e mutazioni irreversibili dei rispettivi quadri nazionali?

Intanto, egli Usa la categoria della “guerra civile” è uscita dal dibattito apocalittico o radical, ed è diventata un normale argomento di dibattito sui giornali e nei think thank: sui media statunitensi si può leggere che si, effettivamente una guerra civile tra americani è nell’ordine delle cose e potrebbe accompagnare il declino Usa; catastrofe che difficilmente potrebbe essere stornata o esorcizzata mediante un intervento armato in qualche remoto teatro di guerra. Il tessuto civile è spezzato (come il nostro Sandro Moiso non smette di ricordarci da queste pagine), i diversi interessi forti sono in lotta mortale tra loro: chi spinge verso l’economia green per aprire nuovi terreni di accumulazione e consumo, chi vuole le reinternalizzazioni per mettere al riparo le forniture industriali americane dalle turbolenze delle vecchie “maquilladores” globali, chi arma le sue paranoie aspettando l’Armageddon: l’America è un casino peggio dell’Europa.

E quindi, tornando a noi: riusciamo a dotarci del medesimo pragmatismo dei “poteri forti” (espressione che applicata all’Italia fa sempre un pò ridere); riusciamo a correggere anche noi degli elementi di analisi, quando serve: ad esempio, possiamo dire che sulla deflazione secolare ci eravamo sbagliati e che l’inflazione potrebbe ridiventare uno strumento di governo e gerarchizzazione sociale, come è spesso stato in passato, e che forse ci toccherà rifare i conti col mostro bicorne della stagflazione? E davanti allo sfascio del quadro politico e sociale – cioè all’impossibilità di prefigurare un saldo blocco sociale centrato su profitto e rendita, che selezioni un nuovo personale politico presentabile e nuovi strumenti di governance – noi che abitiamo nella terza classe del transatlantico, come ci poniamo? Abbiamo voglia di infilare le mani dentro il magma bollente della crisi italiana – a costo di scottarcele? Abbiamo le idee per immaginare un percorso, un processo costituente in cui non ci beiamo dello sfascio – le Cassandre impotenti del “lo avevamo detto” – ma proviamo a prefigurare un nostro blocco sociale centrato sull’autovalorizzazione della nostra condizione proletaria – cioè di produttori di valore e di rapporti sociali?

Se si dimostrano pragmatici Von Der Leyen, Trichet e Draghi, lo stesso sforzo sarà richiesto a noi. Non si tratta di fare l’apologia dell’azzeramento nè di disarmare ciò che ancora resiste; ma è chiaro che siamo entrati in un mondo nuovo di disordine irreversibile e che non sarà possibile ricavarci nel turbinio un angolino di sopravvivenza: le macerie di Stalingrado erano trincee, non cumuli di pietre. Servivano a combattere. Ragionando in questa direzione, a Bologna, il 19 febbraio, si materializzerà una piazza anomala – una piazza sperimentale, potremmo dire. L’idea è partita dai militanti del Si Cobas – picareschi, confusionari e generosissimi, come si conviene, appunto, a chi sperimenta -, ed ha visto l’intelligente adesione della CUB, di diverse istanze sociali e dei segmenti più maturi dei movimenti No Green Pass, che saranno parte attiva di quella piazza insieme ai militanti sindacali. L’idea è quella di incrociare le ragioni e le istanze di chi in questi mesi ha lottato contro il governo pandemico della crisi sanitaria, con quelle di chi, da sempre, lotta contro il governo capitalistico della crisi economica. Annusandosi e riconoscendosi – in piazza, pragmaticamente, senza troppi distinguo da sofisti o da comizianti – come parte di un fronte comune, coraggiosamente in piedi davanti a un nemico comune.

Crisi sanitaria e crisi economica si presentano intrecciate in maniera indissolubile: così come lo sono la “classica” repressione antiproletaria e la nuova strumentazione di controllo sociale (Green Pass ed emergenzialismo permanente). Il fatto che questi mondi, fino ad oggi, non si siano confrontati e contaminati – almeno non quanto avrebbero dovuto – conferma l’arretratezza italiana e la profondità anche della “nostra” crisi. C’è una opposizione popolare da organizzare, ci sono nuovi organi di autogoverno da costruire, ci sono contropoteri da esercitare: la crisi del vecchio mondo ci consegna responsabilità e spazi un tempo impensabili; il nemico è debole e confuso, almeno quanto noi; usa il terrore, la minaccia, impone modelli irrazionali e inefficaci, ma poi, come Trudeau a Ottawa, ha sempre pronto un elicottero in giardino per tagliare la corda.

Cosa succederà il 19 febbraio in piazza? Che tipo di ri-conoscimento reciproco sapremo inventarci? Che tipo di legittimazione produrrà questa piazza plurale? Non possiamo saperlo prima. E’ una scommessa tutta da giocarsi. Abbiamo da perdere solo le nostre paure, le nostre reticenze, il ritardo con cui abbiamo contemplato passivamente, fino ad ora, l’instaurazione di una mefitica cappa di emergenza sulla nostra società, sulle nostre vite. Proviamo ad esserci, anche senza una totale condivisione della piattaforma di convocazione. Ci sono lavoratori sospesi da mesi senza reddito, per non essersi adeguati ad un trattamento sanitario obbligatorio; ci sono aziende che stanno programmando la chiusura o la delocalizzazione, pur essendo piene di ordinativi; ci sono famiglie che stanno rinunciando a scaldare gli appartamenti e stanno riducendo la spesa all’osso. Ci sono chiazze di sangue, e lacrime da asciugare ogni giorno, in troppi cantieri italiani. I processi sono tutti in fieri, anche quelli di resistenza. Sta a noi farli vivere.

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