di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Viella, Treviso-Roma, 2020, pp. 464, € 30,00

Gli studi storici sullo sport hanno conosciuto in Italia negli ultimi anni un significativo sviluppo. Anche se permangono resistenze rispetto ad una piena legittimazione della disciplina in ambito storiografico, la quantità e la qualità dei contributi testimoniano il consolidamento e la validità di un approccio ai fenomeni politici e sociali attraverso lo sport.
A conferma di questa tendenza, il saggio di Nicola Sbetti – storico dello sport e docente presso l’Università di Bologna – si segnala per la profondità della ricostruzione storica e la ricchezza di spunti interpretativi. Attraverso numerose fonti a stampa e intrecciando carte di vari archivi politici e sportivi (tra gli altri, del Ministero degli Affari Esteri, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del CONI e del Comitato Internazionale Olimpico), l’autore analizza il rapporto tra sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra.

Il testo si concentra inizialmente sul ruolo degli attori del sistema sportivo italiano e internazionale nel decennio 1943-1945 e propone poi diversi casi di studio e percorsi cronologici che si snodano dall’immediato dopoguerra fino alle Olimpiadi di Roma del 1960.
In questo quadro, vengono affrontate trasversalmente questioni che rappresentano altrettanti nodi problematici di carattere storiografico: l’influenza delle relazioni nel campo internazionale sullo sviluppo dell’attività internazionale dello sport italiano; i motivi che consentirono all’Italia di evitare, almeno parzialmente, la “quarantena olimpica” che subirono invece la Germania e il Giappone; il ruolo dei governi repubblicani nell’utilizzo dello sport come strumento di politica estera o nella delega di questo settore alle istituzioni sportive; l’allineamento della “politica estera sportiva” alla diplomazia tradizionale.
Nel complesso, il saggio di Sbetti dimostra ancora una volta le potenzialità euristiche di un’analisi dei fenomeni storici attraverso la lente dello sport e ha il merito di affrontare in modo organico il tema dello sport come chiave di lettura delle relazioni internazionali, arricchendo un filone di studi fino ad ora poco trattato che merita di essere approfondito ed esteso al di là dell’arco temporale di Giochi diplomatici.

Per segnare le distanze dal ventennio fascista, quando lo sport era stato asservito al regime, dopo la guerra la politica italiana trascurò la dimensione sportiva. L’organismo centrale rimase il CONI – guidato da Giulio Onesti – che scelse di autorappresentarsi attraverso il motto “lo sport agli sportivi”. Questa formula venne assunta anche dai governi repubblicani che rinunciarono a sviluppare un’organica strategia di politica estera sportiva, delegando questo compito agli attori istituzional-sportivi.
La pretesa di indipendenza dello sport nei confronti della politica non era peraltro assoluta: «Da un lato si desiderava che i politici non entrassero nel merito delle decisioni prese dalle istituzioni sportive, dall’altro esse cercavano il pieno supporto del governo per le loro iniziative».

Parallelamente agli sforzi della diplomazia italiana per tentare di ammorbidire le clausole di un trattato di pace punitivo, la principale preoccupazione della “diplomazia sportiva” fu il rientro dello sport italiano nel consesso internazionale.
Nell’immediato dopoguerra la “volontà punitiva” della Federazioni sportive internazionali, perlopiù implicita, determinò una «silenziosa esclusione»: come notava Onesti l’Italia sportiva, considerata un «Paese nemico o – nella più favorevole delle ipotesi – Paese ex nemico», si trovava in una «posizione difficilissima».
Diverso fu l’atteggiamento del Comitato Olimpico Internazionale. Richiamandosi all’universalismo e all’apoliticità della dimensione sportiva il CIO, a partire dal suo presidente, lo svedese Sigfrid Edström, assunse un atteggiamento conciliativo nei confronti dell’Italia, preludio al riconoscimento del CONI e alla partecipazione italiana alle Olimpiadi di Londra del 1948.
Progressivamente ripresero anche le relazioni bilaterali con le Federazioni sportive internazionali, favorite dalla risoluzione delle tensioni politiche e dalla ripresa delle relazioni economiche con diversi paesi europei.

Rispetto alla strumentalizzazione fascista delle imprese sportive in funzione propagandistica, nel contesto repubblicano del dopoguerra cambiò radicalmente anche l’immagine degli atleti italiani: «Essi non erano più dei militi in camicia nera ma degli sportivi liberi. Continuavano a rappresentare il proprio Paese all’estero ma più come ambasciatori di pace che non come soldati di un regime con ambizioni totalitarie».
Le vittorie di Coppi e Bartali, i record di Consolini o il gioco espresso dal Grande Torino contribuirono a promuovere all’estero «una nuova, positiva e non più aggressiva immagine dell’Italia», al punto da avvalorare l’ipotesi avanzata da Onesti secondo il quale proprio lo sport, «la più sottovalutata fra le forme della diplomazia culturale», si rivelò nel secondo dopoguerra come «la più efficace».

Agendo come un “Ministero degli Esteri dello Sport”, il CONI realizzò una diplomazia sportiva nel complesso autonoma. Nonostante la «sostanziale delega della “politica estera sportiva”», le istituzioni politiche non fecero comunque mancare «il loro supporto in caso di bisogno» e «a partire dagli anni Cinquanta, pur in maniera disorganica e continuando a delegare al CONI il ruolo di indirizzo, cominciarono a rivolgere maggiore attenzione allo sport». Sbetti sottolinea in particolare la centralità dell’asse CONI-Presidenza del Consiglio dei Ministri, sul quale «si instaurò una proficua linea di comunicazione – inizialmente formale e poi, con il nascere dell’amicizia fra Onesti e Andreotti, sempre più informale – che permise di dirimere in maniera efficace diverse questioni politiche che andavano oltre alla mera diplomazia sportiva».

Alcuni casi di studio proposti da Sbetti riguardano l’azione del governo e della diplomazia italiana rispetto alle “crisi sportive”, come quella occorsa durante il Tour de France del 1950 quando Gino Bartali, dopo avere vinto l’undicesima tappa, annunciò l’intenzione di ritirarsi dalla corsa a seguito delle violenze fisiche e verbali subite da lui e dai suoi compagni in particolare durante la salita dell’Aspin.
Attraverso lo spoglio dei quotidiani italiani e francesi del tempo e le fonti rintracciabili negli archivi diplomatici del Ministero degli Esteri, l’autore ricostruisce le cause che portarono la squadra italiana a ritirarsi dalla competizione, allargando lo sguardo alle tensioni sociali che si erano create fra Italia e Francia negli anni precedenti. Sbetti evidenzia il ruolo svolto dalle diplomazie per scongiurare un crisi che rischiava di andare oltre l’ambito sportivo minando la ripresa delle relazioni tra i due paesi dopo il secondo conflitto mondiale, alla quale aveva contribuito lo sport come testimone del reciproco riconoscimento diplomatico.
In questo come in altri casi, lo sport appare come «un Giano bifronte» – scrive Sbetti – «in quanto può essere un fattore di riavvicinamento e di pacificazione, ma allo stesso tempo può fungere da agente divisivo contribuendo ad accrescere tensioni preesistenti».

La funzione dello sport come “continuazione della politica con altri mezzi” risultò evidente nel clima della guerra fredda.
Lo spazio dello sport divenne una delle innumerevoli arene in cui fu “pacificamente combattuta” la guerra fredda. Le competizioni sportive furono ampiamente utilizzate da entrambe le superpotenze: attraverso le vittorie e le medaglie tanto gli USA quanto l’URSS, insieme ai Paesi che rientravano nelle rispettive aree di influenza, potevano dimostrare il valore e la vitalità non solo dei propri atleti, ma anche del loro modello politico e socio-economico e del loro stile di vita.
La guerra fredda ebbe rilevanti ripercussioni anche sulla dimensione sportiva italiana. L’adesione alla NATO consentì all’Italia di acquisire maggiore autorevolezza nell’arena diplomatico-sportiva internazionale, mentre si raffreddarono le relazioni con i Paesi dell’area danubiana, tradizionalmente legati al mondo sportivo italiano, come l’Ungheria e la Cecoslovacchia entrate nell’orbita comunista. La barriera della “cortina di ferro” in ambito sportivo venne attraversata dall’ UISP – l’organizzazione collaterale ai partiti di sinistra – che, in linea con la diplomazia del Partito comunista, cercò di tessere una rete di rapporti oltrecortina, fortemente osteggiata dalle istituzioni sportive ufficiali e dal governo.
Nel contesto della guerra fredda l’attenzione della politica estera italiana si concentrò in particolare sul confine orientale e sul destino di Trieste. Sbetti propone un’interessante ricostruzione di questa complessa vicenda nei suoi risvolti politico-sportivi, dal passaggio del Giro d’Italia a Trieste nel 1946, al salvataggio in serie A della Triestina e al valore simbolico assunto dagli atleti e dalle squadre giuliane, fino alla ripresa delle relazioni sportive italo-Jugoslave.

La ritrovata legittimità sul piano sportivo consentì all’Italia di presentare con successo la propria candidatura per le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 e di orientare poi la strategia del CONI verso il grande obiettivo dei Giochi olimpici estivi, realizzato a Roma nel 1960. La “diplomazia sportiva” «interpretò la candidatura ai Giochi del 1960 come “una battaglia intrapresa dallo sport italiano” che andava perseguita “con ogni mezzo morale, tecnico, organizzativo, finanziario, nell’intento di raggiungere un obiettivo destinato a segnare la più alta quota di progresso dello sport italiano”». Alla vigilia dei Giochi, «autocelebrandosi», Onesti definì le Olimpiadi romane come «la dimostrazione tangibile del cammino ascensionale compiuto dallo sport italiano». D’altra parte, anche l’organizzazione di grandi eventi internazionali contribuì ulteriormente a «(ri)legittimare un Paese la cui immagine internazionale era stata fortemente incrinata dopo un ventennio di dittatura fascista».


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