di Giovanni Iozzoli

Mimmo Porcaro, I senza patria, Meltemi, Milano, 2020, p. 217, € 18,00

Le parole “sovranità/sovranismo”, sono tra le più utilizzate nel dibattito politico contemporaneo. Pur godendo di solidi agganci dentro l’impianto costituzionale del 1948, questi termini sono diventate bandiere – peraltro fasulle – nelle mani delle ignobili destre italiane. Sul terreno delle parole, delle categorie, del linguaggio, si combattono da sempre battaglie cruciali per l’egemonia o la vittoria ideologica. Fino ad arrivare a perversi rovesciamenti di senso – basti pensare al termine “riformismo”, diventato negli anni ’90 bandiera neo-liberista, e definitivamente acquisito a quel campo.

Esiste in Italia una rete di soggettività ascrivibili al cosidetto “sovranismo costituzionale”: un’area composita che sostiene la tesi secondo cui la crisi sistemica della globalizzazione e degli assetti post-’89, apre larghi spazi ad un recupero delle categorie di Nazione e Sovranità, nella prospettiva di un’inveramento radicale della Costituzione o addirittura di una ripresa della lotta anticapitalistica. Senza entrare nel labirintico dibattito sulla “questione nazionale” dentro la moderna storia d’Italia – che ci condurrebbe in una giungla storiografica e filosofica che da Machiavelli porta a Mazzini, Gramsci, Togliatti, Bobbio, passando per gli snodi cruciali dell’Unità d’Italia, del fascismo, dell’8 settembre, della Resistenza -, queste tesi vanno comunque vagliate con attenzione, specie in uno scenario mondiale fortemente destabilizzato. A cominciare dalla crisi di egemonia degli USA e dalla caduta di legittimità degli organismi globali e delle nuove statualità sovranazionali, Unione Europea in testa. Persino la pandemia in atto acuisce le criticità del globalismo e rimette in discussione tutte le tessere del complicato mosaico internazionale. Mimmo Porcaro, nel suo libro, affronta senza timidezze questi aggrovigliati nodi, provando a definire l’agenda e le ragioni di un discorso sovranista e costituzionale.

Purtuttavia la sovranità non è un fine in sé, ma un mezzo ineludibile per chi voglia trasformare positivamente il paese, e in particolare per chi voglia farlo in una direzione socialista, ossia inaugurando un modello di economia mista a dominanza pubblica teso alla piena occupazione e quindi ad ulteriore avanzamenti per i lavoratori (pag. 13)

Nel libro, il tema della “patria perduta” e della sovranità svenduta, viene spesso messo in connessione con il posizionamento anticapitalista nel tentativo di ripercorrere il nesso sovranità nazionale-sovranità popolare-sovranità di classe.

Naturalmente il nuovo super-stato Europeo è l’obiettivo principale della polemica di questi “sovranisti di sinistra”: i suoi trattati, i suoi mastodontici aborti costituzionali, la sua moneta e i suoi dispositivi di governance economica che hanno riprodotto le gerarchie di potere interne al continente. Il Governo Monti, nel fatidico 2011/2012, dentro al gorgo che stava trasformando la crisi economica generale in crisi dei debiti pubblici, ha rappresentato un ulteriore passaggio di questo processo di gerarchizzazione, da cui l’Italia è uscita perdente e impoverita.

Il 2011 annus horribilis dell’Italia, è testimone, con la cosiddetta crisi del debito sovrano, con il ricatto dello spread e con l’insediamento del governo Monti, della più cruda e netta dimostrazione di quale sia, per l’Italia stessa, il prezzo della perdita della sovranità monetaria. Parallelamente, la guerra di Libia, proditoriamente accettata da un pur riluttante Berlusconi e gestita anche da alcuni dei “sovranisti” di oggi, aggiungeva al conto delle numerose guerre combattute per gli interessi altrui anche una guerra che andava direttamente contro i nostri interessi a vantaggio di quelli di altre nazioni, formalmente a noi affratellate nel comune “sogno europeo” (pag. 19)

Da qui il ritorno del tema della sovranità – in tutte le sue declinazioni.

Alla sovranità, insomma […] chiunque faccia politica non può sfuggire, come mostra il paradosso di chi critica duramente la sovranità nazionale in nome dell’Europa, per poi proporre di fatto una sorta di ipersovranità continentale (pag. 21)

La lettura che fa Porcaro del processo storico del trasferimento di sovranità dai vecchi perimetri nazionali, alle nuove forme della governance europea, rimanda alla lotta di classe che ha segnato profondamente la storia della prima repubblica e il suo tramonto.

La nostra tesi […] è che la denazionalizzazione del paese sia la risposta delle élite italiane a quel ciclo di lotta di classe e ai costi degli stratagemmi messi in atto per reprimerlo e sviarlo. Quelle lotte e più in generale quelle vaste esperienze di partecipazione politica, riproposero in due sensi la questione della nazione. In primo luogo estendendo l’attivismo politico ben oltre i confini dei partiti e formulando con nettezza l’esigenza di un deciso progresso in termini di salari e di welfare, resero immaginabile una piena identificazione delle masse con lo stato, e per questa via con una nazione unificata non già da un’etnia, da un carattere, da una storia, ma dalla comune capacità di creare giustizia sociale. Unificazione che, omologando molto più di prima le condizione genera il dei lavoratori, avvicinava, anche in maniera assai significativa, il Nord e il Sud del paese. (pag. 33)

Quindi: le classi dirigenti italiane, nel corso dei primi 50 anni di vita repubblicana, verificano che la nuova idea di Nazione che è nata dalla Resistenza, ha lasciato troppi spazi di partecipazione e troppi potenziali rischi di rovesciamento dei rapporti di classe: da qui la liquidazione, da parte della borghesia, di quelle forme storiche – lo Stato dei partiti, la centralità della Costituzione, il ruolo redistributivo dei poteri pubblici – e lo slancio verso le nuove istituzioni globali, all’insegna della “modernizzazione” (altra parola-trappola nefastamente usata contro le riottose classi popolari)

il nanismo delle imprese e il correlato espandersi dell’economia informale e della propensione all’evasione fiscale, gli oneri derivanti dalla necessità di sovvenire, con l’incremento di un welfare residuale, alle difficoltà generate dalla ristrutturazione, si intrecciarono a poco a poco in un nuovo nodo che richiedeva di essere sciolto, imponendo rigore non solo a un proletariato non ancora cancellato, ma anche alle classi ed ai ceti “amici”: tutto troppo difficile per le nostre élite. Non restava quindi che “contrattare una nuova dipendenza”. Da qui la scelta di affidare ad altri, attraverso una radicalizzazione del “vincolo esterno” quell’opera di disciplinamento sociale che non si era in grado di attuare in proprio. Da qui il bisogno , avvertito da un intero ceto politico, di trovare altrove la legittimazione perduta all’interno dell’Italia, a costo di svendere completamente gli interessi nazionali (pag. 35)

Si ridefinisce così il ruolo di una borghesia italiana compradora, che incapace di esprimere sintesi ed egemonia nella società italiana matura, svende la sua funzione dirigente e le ricchezze del paese, alla ricerca di una legittimazione sovranazionale che ne perpetui la dominanza sociale in un nuovo quadro.

Se la nazione è il luogo dove meglio si esprimono la lotta di classe e il conflitto distributivo, se nella nazione i cittadini possono chiedere conto dell’operato dei loro rappresentanti, usciamo da questo luogo pericoloso, entrando nello spazio sovranazionale e postdemocratico. Se gli strumenti nazionali non sono in grado di assicurarci pienamente l’obbedienza delle classi subalterne […], affidiamoci al ricatto dei mercati e alle imposizioni altrui, ben più autorevoli delle nostre. (pag. 36)

La “presa di rifugio” nello spazio elitario sovranazionale, funziona però solo fino al 2008: i meccanismi della crisi capitalistica, erodono e, per così dire, mettono a nudo la reale funzione dell’euro e dell’Unione Europea. A quel punto, il tema della riconquista della sovranità viene impugnato dalle destre, in particolare dalla Lega. Ed è un rovesciamento, anche questo paradossale: il neofascismo italiano è sempre stato “europeista” (come suggestione antiamericana e antisovietica); mentre la Lega è addirittura nata per “entrare” in Europa, inserendo le macroregioni “padane” economicamente più dinamiche, nei flussi produttivi continentali e mitteleuropei. E sarà proprio l’ostilità verso l’Unione Europea e una vaga (mai concludente) suggestione sovranista, che determinerà parte delle recenti fortune elettorali della Lega: soprattutto mediante la conquista del voto popolare, delle classi lavoratrici, dei perdenti della globalizzazione, degli spremuti da vent’anni di euroausterity. Da qui, l’invenzione posticcia di un nuovo “nazionalismo”, effimero, becero, razzistoide e piagnone.

Ma l’Unione Europea di oggi, così segnata da ingiustizie e gerarchie immutabili, è il prodotto di una disfunzione, di una inadeguatezza, di un limite, come spesso si dice? Porcaro non lo pensa:

l’Unione Europea è necessariamente una macchina antipopolare perché realizza volutamente e con quasi matematica precisione i voleri del grande nemico di Keynes, e prima ancora di ogni idea di democrazia sociale e di redistribuzione del reddito: Friedrich Von Hayek. […] l’adesione di Hayek all’idea di un’ipotetica federazione fra stati, dotata di moneta unica e votata anche per questo alla libera circolazione del capitale, è motivata dal fatto che una simile struttura produce automaticamente un ordine liberista (pag. 45)

Va da sé che per queste tesi, anche la moneta unica non è un nobile esperimento andato male ma:

l’Euro è per la Germania – a causa dei rapporti di cambio iniziali e delle permanenti divergenze fra economie dell’Unione – una forma di svalutazione strutturale e permanente e, per l’Italia e gli altri Piigs, una forma di altrettanto strutturale rivalutazione (pag. 47).

Quindi, la moneta come dispositivo di gerarchizzazione dei capitali europei, di funzionalizzazione delle rispettive economie, nello sforzo di costruire un polo imperialista europeo in cui convivano, in forme “combinate e diseguali” aree altamente produttive, votate all’export e a surplus di bilanci strutturali, ed aree altrettanto strutturalmente deboli, destinate permanentemente al ruolo di mercati di assorbimento del prodotto altrui, terzisti marginali in alcuni stadi delle filiere produttive, fornitori di mano d’opera, indebitati e costantemente ricattati.

Davanti all’ubriacatura globalista degli anni ’90, alle sue promesse abortite, allo sventolio effimero dei diritti individuali e di nicchia – mentre le sinistre abbandonavano la strenua difesa dei diritti sociali delle grandi masse -, il “popolo” sceglie la destra sovranista; che in Italia, come in tutto il mondo, abbraccia le tesi liberiste sulla flat tax o la centralità d’impresa, realizzando un capolavoro paradossale: nutrirsi del voto e del consenso proletario per stabilizzare rapporti di forza antiproletari.

E’ per questo che la nazione è il solo vero antidoto al nazionalismo, e la definizione degli interessi nazionali e del modo per mediarli con quelli altrui è la sola vera prevenzione della guerra: il globalismo pacifista e libertario che esorcizza ogni frase che riguardi la nazione e l’interesse nazionale, è il più forte alleato del nazionalismo aggressivo e autoritario (pag. 37)

Qual è lo sbocco politico di questi ragionamenti – conclude l’autore? La costruzione di un programma che rompa con le storiche subordinazioni italiane a potenze straniere sotto il cui “ombrello protettivo” andare a porsi; realizzare l'”Italexit” da un’Unione comunque boccheggiante; la definizione di nuove alleanze internazionali che includano la “piccola” Italia (piccola ma non irrisoria) in nuove geometrie politico-economiche. Ma elemento più importante: lo sviluppo di una coalizione popolare e di classe, che si riappropri “da sinistra” delle parole d’ordine sovraniste e rielabori una moderna idea di Nazione adatta all’epoca della rinnovata “centralità delle patrie” e orientata al socialismo.

Per questo non ha molto senso parlare oggi di “ritorno” degli stati nazionali, giacché questi non sono mai scomparsi: si tratta solo del passaggio da un’azione politica indiretta, veicolata soprattutto da provvedimenti di politica economica, ad un azione diretta, che fa sempre ricorso all’economia ma si affida ancora di più al comando centrale e alla dissuasione militare. Ancor meno senso ha il ritenere che questa ondata, detta impropriamente “nazionalista”, sia solo un malaugurato inciampo, un incidente di percorso che interrompe per puro caso l’altrimenti inarrestabile, benefica, pacifica marcia del globalismo. In realtà il ritorno dello Stato e del conflitto fra stati è l’esito dialettico necessario della globalizzazione, l’inevitabile effetto di ritorno degli squilibri e delle diseguaglianze che la fase iperliberista ha volutamente accresciuto (pag. 129)

Che dire? Al di là della congruità storica, tutta da verificare, di questa previsione di fondo – la globalizzazione è finita, politica ed economia si “ristatalizzeranno”, per così dire – queste tesi vengono di solito ripudiate dalla maggior parte della cosiddetta “sinistra radicale” (quel che ne resta). Le si giudica primitive, arretrate o velleitarie (dove va l’Italietta da sola?). Ma è necessario misurarsi con esse, senza spocchia e senza ridicole accuse di “rossobrunismo”. Dire che “lo spazio europeo è lo spazio minimo del conflitto”, come si scrive spesso con nonchalance, non può apparire altrettanto velleitario – presupponendo che “i movimenti europei” (altro oggetto misterioso), contemporaneamente condividano parole d’ordine, programmi e stadi di maturazione, magari grazie ai cyberspazi generosamente messi a disposizione dai padroni globali dei social?

Piuttosto, quello che colpisce in quest’area “neo-sovranista” – di cui Porcaro è ascoltato esponente – è un certo snobistico disinteresse per lo scontro di classe reale, quello quotidiano, che si consuma ai cancelli delle fabbriche, nei quartieri, nelle occupazioni, nei territori devastati. Questa tipologia di “sovranismo” – nonostante sia quantitativamente microscopico – immagina di muoversi in un empireo iperpoliticista che contempla i grandi posizionamenti geostrategici ma ignora quello che succede nei processi reali, gli uomini e le donne che resistono alla bestia liberista e globalista, la fatica quotidiana di organizzare il lavoro sfruttato, le lotte per il reddito, lo sporcarsi le mani, insomma, per costruire le coalizioni sociali in carne e ossa e non evocare romanticamente una nozione di “popolo” che – senza innervatura di classe, senza individuazione del blocco sociale, senza processo organizzativo e processo autoeducativo – resta suggestione ottocentesca.

Smaltita la lunga ubriacatura globalista (che tanti danni ha prodotto a sinistra) l’attualità di certi nodi tematici è però oggettiva e chiama tutti ad un dibattito franco e aperto.

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