di Alessandro Barile

«Senza teoria rivoluzionaria non può esservi movimento rivoluzionario» Lenin

«Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria» Engels

Ormai giunti al 2019 possiamo trarre un parziale ma significativo bilancio sul rapporto tra la sinistra[1] e l’Unione europea. O meglio: tra la sinistra e la critica alla Ue. Una posizione, questa, che ha segnato una novità e una discontinuità nel discorso medio della sinistra italiana ed europea di questo decennio. Forse l’unica vera discontinuità concettuale che ha investito le posizioni politiche della sinistra da molti anni a questa parte. Nei fatti, il dibattito pubblico veicolato dal sistema politico-mediatico si concentra nei pressi proprio dell’Unione europea: sovranità politica o popolare, sovranismo, populismo, questione nazionale, lotta alla globalizzazione, crisi economica et similia. L’Unione europea è al centro di ogni frame discorsivo massmediatico che ci investe quotidianamente. Va però riconosciuto che siamo entrati in una fase diversa. Se negli anni attorno allo scoppio della crisi economica, e soprattutto – in Italia – nel periodo tra il 2009 e il 2012, andava introdotto a forza un pensiero critico che ponesse la Ue al centro delle riflessioni sistemiche, oggi questa critica si è assestata. Procede affinandosi, ovviamente, ma si è resa in qualche modo inaggirabile, al di là di come la si pensi sulla rottura o meno della costruzione europeista. Per essere più precisi: la critica alla Ue è andata sedimentando tre posizioni, espressioni di altrettante sinistre: da una parte la sinistra anti-Ue, che orienta la sua proposta politica attorno al tema della rottura coi vincoli europeisti; dall’altra, quella sinistra che, nonostante il posizionamento critico, persiste nel dichiararsi europeista, proponendosi al più di «cambiare dall’interno» il rigido regime liberista di Maastricht; c’è poi una sinistra che decide di posizionarsi fuori da questo schematismo, lasciando decisioni e ragionamenti in sospeso, evitando il confronto diretto con la questione europeista. Dunque, per farla breve, la critica alla Ue ha prodotto per condivisione o per reazione dei posizionamenti politico-organizzativi espliciti. A questo punto però si dovrebbe valutare cosa ha prodotto questa divisione. Dopo appunto un decennio potremmo trarre delle parziali conclusioni.

In primo luogo, salta all’occhio il continuo mancato confronto tra queste diverse posizioni. Se in origine lo straniamento aveva prodotto una volontà di capire piuttosto trasversale, dando vita ad un dialogo tra diversi punti di vista, oggi possiamo al contrario prendere atto che quel confronto si è chiuso. Da una parte e dall’altra si è rimasti convinti delle proprie posizioni, ci si è attestati su di una convinzione politica data per giusta e non più rimessa in discussione. Il mancato dialogo non è per forza di cose un fatto negativo. Nel caso specifico, però, dovrebbe tenere a mente due dati. Il primo, che le vicende continentali di questi anni sembrano confermare più che smentire il presupposto cardine del discorso anti-Ue: la sua irriformabilità. Una costruzione politica irriformabile diviene dunque solamente “abbattibile”, sempre che il proposito sia quello del cambiamento radicale del sistema politico-economico e non la sua gestione più o meno “virtuosa”. La Ue non sembra essere quel “guscio vuoto” a cui va dato di volta in volta un senso politico (magari tramite l’elezione del Parlamento europeo: figuriamoci). Si è affermata come strumento politicamente pervaso dalla sua necessità ordoliberale, attraverso cui limitare la democrazia economica e sociale prevista dalle diverse Costituzioni europee scritte nel secondo dopoguerra[2]. È dunque un agente politico, per sua natura quindi avverso alle ragioni di democratizzazione insite nel discorso della sinistra radicale.

Il secondo dato che va tenuto in considerazione è invece questo: nonostante la posizione politico-concettuale della lotta alla Ue si sia affermata e abbia dato vita o trasformato organizzazioni politiche e sociali, nonostante dunque sia stata accettata da più di qualcuno la torsione anti-europeista quale idea-forza attraverso cui aggregare consensi e proporsi politicamente, questa non è riuscita ad uscire fuori dal suo carattere intellettuale, astratto e vagamente teorico (sempre che la lotta alla Ue possa considerarsi una «teoria» politica). Più esplicitamente: la critica alla Ue non è riuscita a intervenire davvero nella lotta politica, rafforzando i conflitti particolari, mettendoli in relazione ideale dentro un riferimento di più ampia portata. È rimasta una posizione intellettuale, sempre più perfezionata e compiuta forse, a cui però (ancora) manca il salto di qualità da teoria per capire il mondo a strumento per trasformarlo. Si tratta di un limite che corrode alla radice i ragionamenti che, un decennio fa, venivano apposti per convincere della necessità di una posizione coerente e dirompente riguardo alla Ue. Veniva infatti detto: dietro lo scollamento tra «popolo» e «élite» c’è un malessere economico che nasconde una volontà di rottura con la Ue. Il «popolo» intuisce quale sia il nemico, ma non ha strumenti, lessico e orientamento da renderlo cosciente. Intestiamoci questo bisogno di rottura, diamogli forma, “coerentizziamolo”, e quelle masse che oggi decidono di farsi rappresentare dal “populismo” sceglieranno inevitabilmente noi, almeno – ovviamente – una certa quota. Almeno – ancora – una certa quota di proletariato oggi convinto dalle sirene populiste regressive.

Questo mancato incontro tra posizione politico-intellettuale e lotte di classe può essere spiegato da due motivi. Il primo, più banale: quel campo è oggi presidiato militarmente dal populismo di governo. È un presidio soltanto elettorale, in effetti, ma la politica nel XXI secolo, in assenza di partecipazione e mobilitazione reale che inventa propri indipendenti canali di rappresentanza, trova solamente nel momento elettorale il modo di esprimere una sua posizione. Possiamo dunque girarci intorno, “ciurlare nel manico” dell’esegesi dell’astensionismo, ma la realtà ci restituisce altro: i rapporti tra popolazione e politica si decidono oggi solo nel voto. Dunque il presidio elettorale del populismo equivale ad un (controverso) presidio politico più vasto del solo momento elettorale. Si traduce, malamente, in egemonia politica, in gestione dell’ordine del discorso. L’occupazione politica del tema in questione oscura di fatto tutte le altre proposte che ruotano attorno allo stesso tema. Perché affidarsi al partitino dello zerovirgola quando quegli stessi discorsi – magari meno “coerentizzati” – vengono fatti propri da partiti dal 20 o 30 percento elettorale? Mettersi in scia del populismo non ha fatto altro che rendere ulteriormente subalterne le ragioni della sinistra alle ragioni del governo.

Il secondo motivo, più profondo, è questo: forse – forse – la critica alla Ue non è il fattore decisivo nell’organizzazione della rabbia degli impoveriti. L’aver agitato la bandiera della lotta alla Ue non ha reso questa sinistra più capace di aggregare consensi, maggiormente interessante agli occhi di quel proletariato e/o di quella piccola borghesia travolta dallo «Stato di polizia economica»[3] rappresentato dalla Ue. Ma il dubbio determinante nasce piuttosto dalla valutazione retrospettiva dell’operato dei due partiti populisti al governo. Nonostante il fallimento clamoroso della prova di forza in sede Ue riguardo al deficit contenuto nella Legge di stabilità; nonostante aver letteralmente calato le brache arrendendosi ad un deficit di gran lunga inferiore a quello portato a casa dai governi Gentiloni, Renzi, Letta e Berlusconi nel decennio precedete; nonostante il fallimento dell’ulteriore prova di forza con la Ue sul tema migranti: quella quota di popolazione che il 4 marzo aveva decretato la maggioranza elettorale alle forze populiste non solo non è diminuita, ma è andata aumentando a dismisura. Se un anno fa i consensi viaggiavano attorno al 40% dei votanti, oggi si sono stabilizzati attorno al 60%. Oltretutto, nessuno dei competitor e delle varie presunte alternative politiche ha visto incrementare le proprie proiezioni elettorali e dunque i consensi. La quota di popolazione convinta del populismo persiste nel sostenere le ragioni del governo nonostante il fallimento della prova di forza con la Ue. Se la Ue fosse stata il fatto decisivo, in qualche modo si sarebbe avuto un segnale, magari non eclatante, di questo distacco. E invece, non siamo in presenza di alcun distacco. La critica alla Ue dunque non appare come fattore determinante. L’assunto originario andrebbe allora ribaltato: dietro l’inconsapevole critica alla Ue si nasconde un tentativo di resistenza all’impoverimento. Perso il confronto con la Ue, non per questo viene meno il senso politico del populismo quale fattore in grado di rallentare le politiche economiche ordoliberali e quindi la perdita di quote di salario e/o profitto.

Per tentare una valutazione di questi due fattori (posizione in via teorica giusta in quanto confermata dalla realtà fattuale di questi anni, ma sua incapacità di farsi “teoria di lotta” e quindi favorire mobilitazione e conflittualità), bisogna tornare a qualche anno fa. Precisamente, nel momento in cui questa posizione veniva introdotta nel discorso politico della sinistra. Per farlo, però, dobbiamo brevemente riprendere in mano il Lenin del Che fare. Come noto, il Che fare rappresenta, nella produzione politica, teorica e polemica leniniana, una sorta di “svolta ultra-soggettivista” dell’azione politica del Partito socialdemocratico. Lenin si andava accorgendo di un fatto: la rivoluzione stava progressivamente uscendo di scena dal marxismo socialdemocratico russo. Questa veniva delegata, e regalata, a quei Socialisti-rivoluzionari eredi del narodničestvo, del populismo rivoluzionario della Narodnaja Volja, di tutto un periodo della storia russa contraddistinto dall’attualità della rivoluzione. Seppur grezzo e incoerente, al partito S-R rimaneva l’onore di lottare per la rivoluzione. Il marxismo socialdemocratico russo (e non solo russo), stava al contrario virando verso un’ambigua e impotente versione oggettivistico-legale dei rapporti politici, mettendosi in scia di quel «tempo omogeneo e vuoto» di benjaminiana memoria rappresentato dal riformismo operaio della socialdemocrazia tedesca. Ebbene, Lenin voleva e doveva rimettere la rivoluzione al centro della socialdemocrazia. Nel farlo, dirà poi nei commenti polemici suscitati proprio dal Che fare e rispondendo in particolare a Plechanov (cioè al marxismo «ortodosso»), occorreva «piegare il bastone dal lato opposto», forzare ideologicamente la situazione dicendo che la rivoluzione non è solo una necessità storica, ma prima ancora un atto di volontà del partito della cospirazione, che deve sviluppare una sua scienza della rivoluzione capace di cogliere l’occasione appena questa si presenti. Lenin era però sempre cosciente del suo atto d’imperio, e non a caso pochi anni dopo procederà ad una svolta opposta, quella “oggettivista” contenuta nel suo Materialismo ed empiriocriticismo, resasi necessaria per frenare quei bolscevichi eccessivamente convinti dell’urgenza di continuare ad attaccare il potere zarista nella fase post-rivoluzionaria e repressiva seguita al 1905. Dunque, il fatto fondamentale è questo: Lenin non “cambiava opinione” a seconda della contingenza, ma adeguava la sua tattica forzando ora da una parte ora dall’altra le posizioni politiche della frazione bolscevica. Lenin era conscio di stare forzando la polemica, non ne era inconsapevole. Tenuto presente questo possiamo tornare alle vicende della critica alla Ue.

Nel momento in cui queste posizioni lottavano per essere introdotte negli sterili schematismi ideologici della sinistra, occorreva per l’appunto forzare una situazione, piegando il bastone dal lato opposto. Bisognava, in altri termini, costringere a pensare chi per anni, per decenni, si era posizionato in scia del pensiero borghese. La crisi economica aveva rimesso al centro del discorso la questione nazionale, e questa, pur mascherando come sempre una questione sociale, assumeva altre forme e rispondeva ad altri problemi rispetto a come si era andata proponendo nel Novecento o nell’Ottocento. Ogni periodizzazione storica della modernità, in effetti, ha una sua propria questione nazionale. Il «risveglio dei popoli» dell’Ottocento non è uguale al nazionalismo borghese di fine Ottocento e del primo Novecento, così come quest’ultimo non corrisponde alla questione nazionale imposta dal discorso anti-coloniale e della liberazione dei popoli del secondo Novecento. Di seguito, dunque, la questione nazionale del XXI secolo, rimessa in moto dal combinato disposto tra crisi economica e costruzione europeista, non è uguale alla questione nazionale dei tempi passati né tutto questo può ridursi a «nazionalismo». La questione nazionale non è nazionalismo: mettiamocelo in testa una volta per tutte. Eppure, a sinistra e a cavallo dello scorso decennio, si insisteva a non pensare in termini originali. Chiunque mettesse in dubbio il valore progressivo dell’internazionalizzazione dei capitali e delle merci, criticasse dunque il significato profondo (non quello superficiale e culturale) della globalizzazione, veniva marchiato attraverso la scomunica: nazionalista!. E il dibattito finiva lì.

Occorreva dunque forzare la polemica, riprendersi temi e linguaggi rischiosi quali nazione e sovranità e riformularli, modellandoli e innestandoli su di una critica dell’economia politica che ne svelasse il rapporto dialettico. Dovevamo riappropriarci di temi nostri, che da sempre il pensiero marxista ha empiricamente affrontato, scegliendo di volta in volta – empiricamente appunto – la posizione da tenere nella più vasta lotta contro il capitale nella sua fase imperialista (Marx sulle diverse questioni nazionali ha più volte ribaltato i propri ragionamenti). L’abitudine doveva far spazio al rischio di sporcarsi la testa per poter ritrovare l’audacia di parole e temi su cui occorreva (e occorre ancora oggi) dire qualcosa di diverso rispetto al passato tenendo in conto ciò che si è detto davvero nel passato.

Se questa traiettoria era necessaria dieci o sei anni fa oggi lo scenario, per quanto siamo andati dicendo fino ad ora, è cambiato. La forzatura polemica ha prodotto dei risultati politici, ma questi non si sono dimostrati all’altezza dei compiti che ci si prefiggeva. La critica alla Ue si è dimostrata la più corretta nel dare una spiegazione generale ai processi politici, geopolitici ed economici riguardanti il nostro paese, ma non si è dimostrata sufficiente. Non ha esaurito lo spettro, ma non si è neanche dimostrata l’elemento decisivo attorno a cui ruotare ogni altra interpretazione della realtà. Si è usciti dal recinto cosmopolitico per ritrovarsi nella gabbia sovranista che poi, nei fatti, si traduce nella replica in trentaduesimi del bismarkismo togliattiano: senza Unione Sovietica, Guerra fredda, coesistenza pacifica e blocchi contrapposti. Insomma, quel tanto (o poco) che poteva essere giustificato della politica di Togliatti, dato il particolare contesto entro cui prendeva forma e significato, viene oggi replicato fuori da ogni razionalità progressiva. Per capire tutto questo bisognava però essere coscienti, leninianamente, di stare forzando la situazione per sacrosanti scopi polemici. In altri termini. bisognava non crederci troppo. Ossia: essere convinti della natura ordoliberale irriformabile della Ue; del bisogno di rottura quale condizione necessaria ma non sufficiente; di un recupero di ragionamento sui caratteri della sovranità, che non è parola proibita ma concetto ineliminabile della lotta politica. Convinti di tutto questo, bisogna(va) avere i giusti anticorpi verso scivolamenti eccessivamente “sovranistici” della contesa, utili a muoversi nella bagarre polemica ma inutili come posizioni «per sé», autosufficienti e conchiuse. La critica della Ue non è una teoria politica ma una tattica contingente. Nel primo caso, dimostra tutta la sua incompiutezza; nel secondo, continua a dimostrarsi inaggirabile, utile e sintonizzata sui problemi decisivi del nostro tempo.

Oggi dunque quale movimento richiede la realtà dei fatti? Premesso che la valutazione è parziale, sembra essere il momento di costruire ponti più che scavare fossati. Non che questi fossati non servano, anzi: approfondire il solco tra sinistra e «centrosinistra» è sempre più necessario alla credibilità di chi lotta (non c’è fronte comune centrosinistro contro il populismo, e anche solo pensarlo significa alimentare il fuoco populista oltre i suoi limiti strutturali). Eppure il mancato incontro tra critica alla Ue e lotte di classe dimostra che i due aspetti non possono procedere separati. Chi, d’altronde, dovrebbe alla fine operarla questa benedetta rottura se non proprio quelle lotte di classe che vengono maldestramente sottomesse al prisma antieuropeista? Il ponte da costruire riguarda quindi la disponibilità alla convergenza che ponga al centro il conflitto e non una teoria (già ce l’abbiamo, una teoria!). Non è responsabilità dell’una o dell’altra sinistra, intendiamoci. Non ci sono colpe da distribuire o da accollare. Va però favorita questa disponibilità, che costringa gli uni a liberarsi dalle incrostazioni positivistiche di un’ideologia asservita al falso umanesimo del capitale (che si traduce, nel concreto, con uno strampalato appoggio critico al Pd o alternative costruzioni centrosinistre), e gli altri ad acconsentire “limitazioni di sovranità ideologica”, per così dire. Bisogna sporcarsi, dicevamo. E questo può essere fatto solo se si è in due a volerlo e solo se si assume fino in fondo il bisogno di farlo, dimenticandosi improbabili egemonie contrapposte o ancor più deleteri tatticismi elettorali in salsa europea. Per una volta, tiriamoci fuori dal ridicolo che ci distingue da un decennio.

[1] Intendiamo, con «sinistra», il variegato campo di forze politiche e sociali fuori dal perimetro politico-elettorale del cosiddetto «centrosinistra».

[2] Cfr. Giacché V., Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.

[3] Cfr. Somma A., Sovranismi, Derive/Approdi, Roma 2018.