di Filippo Casaccia

Mario Paternostro, Il sangue delle rondini, Il Melangolo 2016, pp. 315, € 18,00

Un affermato giornalista riceve delle lettere e delle fotografie dal fratello scomparso quarant’anni prima, accusato di essere un terrorista di estrema sinistra. Una sparizione avvenuta nei giorni del sequestro Moro, in una Genova sconvolta da attentati, rapine e un massacro di un covo brigatista. Il nastro della memoria si deve riavvolgere e mentre emergono fatti inquietanti, testimonianze e ricordi rimossi, l’onda di fango dell’ennesima alluvione sembra sommergere tutto: il sangue, le complicità, i segreti di una città chiusa in se stessa, gelosa dei suoi segreti irripetibili.
Su questa vicenda indaga il commissario Ferruccio Falsopepe, burbero pugliese di Ceglie Messapica trapiantato a Genova e solido come un ulivo secolare. Ma più della nostalgia di casa è forte la curiosità verso una città che si svela poco a poco, come il carattere di chi la abita.
Nel romanzo, trasfigurati, troviamo il gruppo XXII Ottobre e l’imprendibile colonna BR genovese, l’irruzione sanguinosa in via Fracchia e i delitti del terrorismo, i professori universitari fiancheggiatori e il flirt ideologico dei figli della città alta. Ci sono tutti i punti di vista: lo spaesamento, la condanna, l’adesione sincera all’eversione come l’interesse a sfruttare il terrorismo per fini diversi.
Falsopepe è un flâneur disincantato, stanco di riparare i torti della vita, quasi dubbioso del suo ruolo e alleato di pochi fidati. Si muove tra apparati dello Stato torbidi, vecchi cronisti, uomini dei Servizi Segreti, avvocati melliflui e la nomenclatura cittadina e statale che nasconde verità indicibili sotto il tappeto del perbenismo o della ragion di Stato. Arriverà mai, veramente, a una soluzione?
Questo magnifico Il sangue delle rondini è il quarto capitolo delle inchieste del commissario e arriva dopo Troppe buone ragioni – primo assaggio alla Chabrol dell’efferatezza conservatrice del capoluogo ligure –, Le povere signore Gallardo – escursione nella lotta partigiana in Ossola e non solo – e Besame mucho – rievocazione affettuosa della Dolce Vita genovese alla Gigi Rizzi e della sua deriva.
Paternostro usa le armi del giallo per raccontarci una borghesia compromessa e colpevole ma anche una Genova popolare e autentica, quella degli artisti del mugugno, dei montanari che vivono in riva al mare e che con ironia scabra e malanimo accolgono i turisti sorpresi.
Su un fondale di bellezza realmente cinematografica ci scappa sempre qualche morto, anche più d’uno, ma all’autore, giornalista di vaglia già vice direttore del Secolo XIX e oggi direttore editoriale dell’emittente Primocanale, più che la risoluzione dei casi sembra interessare l’intreccio umano di cui Falsopepe è testimone. Un intreccio narrato secondo la classica tradizione del giallo ma con un’amarezza e una disillusione che hanno portato molti a parlare di noir.
Apro una parentesi enorme: sarà per motivi di marketing, per pigrizia recensoria o per comodità espositiva sugli scaffali delle librerie ma da alcuni anni qualunque poliziesco viene definito noir. L’etichetta porta indubbiamente bene in termini commerciali e nel panorama della narrativa italiana ogni città del Belpaese sembra avere un investigatore che la città la racconta, magari soffermandosi sulla qualità dei cibi (come faceva il Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán, e non è un caso che il nostro Falsopepe condivida certe passioni gastronomiche).
Bene: il noir non dovrebbe essere rassicurante, non dovrebbe compiacerci col racconto di poliziotti un po’ birichini ma in fondo romantici, magari attaccati alla bottiglia al suono di jazz notturno. Il noir dovrebbe lasciarci inquietudine, ne dovremmo uscire con le ossa rotte noi e i protagonisti, perché come ci hanno insegnato Thompson, Ellroy, Izzo o Manchette, non c’è redenzione possibile, mai. E invece ecco nelle librerie italiane un fiorire, uno sbocciare, in alcuni casi un’epidemia, di ispettori, commissari e avvocati delle cause perse. Guardiani della legge con comodi rimpianti sinistroidi e, se delinquenti, Robin Hood socialdemocratici, consolatori e compiacenti col lettore.
Ecco: Mario Paternostro non scrive noir italiani scoloriti e grigiastri. No, non cerca scorciatoie né ammiccamenti falso ribelli e nemmeno prova a maneggiare i cliché del genere. Lui è modernissimo nel rifarsi ai classici e scrive polizieschi nel solco di Simenon: più che dedurre da riscontri materiali, come Maigret, Falsopepe parte da un’investigazione istintuale delle motivazioni, dei desideri, dei rimorsi, delle frustrazioni, degli egoismi. E una città come Genova sembra la palestra ideale per esercitare questo acume.
Però, attenzione, questo narratore apparentemente tranquillizzante è uno dei più sovversivi della nostra scena letteraria – al di là di ogni definizione di genere – perché, da giornalista decano del quotidiano che tutta Genova segue, da narratore finissimo e super partes della politica cittadina e comunque espressione di un atteggiamento moderato – dicevo – è realmente sovversivo perché descrive una città marcescente sotto la coltre del conformismo. E la vende proprio a quelle classi sociali inguaribili che racconta.
Paternostro è sovversivo perché non lo dichiara, non lo esibisce. Lo riserva alla sua penna sciolta che intinge nell’acido con cui verga ritratti minuziosi e credibili, vivisezionando il corpo malato della borghesia. E lo fa con una spietata precisione che convive a fianco della pietas, come riesce solo a un vero narratore della commedia umana.