di Giuseppe Ceddìa

Se è il romanzo gotico anglosassone (Walpole, Lewis, in misura maggiore la Radcliffe) ad assumere il ruolo di ispiratore diretto di molti romanzi storici del nostro Ottocento, assieme ovviamente all’imprescindibile lezione di Walter Scott, e se la novellistica scapigliata e verista attinge sia dai romanzieri inglesi sia dai racconti fantastici del tedesco Hoffmann, non si può negare che l’altro fulcro ispiratore risieda nella novella americana (la short story) di Edgar Allan Poe e di Nathaniel Hawthorne.

Il fatto che Poe abbia scritto svariati racconti a tema gotico è una verità lapalissiana; anche Hawthorne però – spesso ricordato principalmente per il suo più noto romanzo La lettera scarlatta – è stato autore di novelle e romanzi a tema macabro, scabroso,  in fin dei conti gotico; tra le sue tante short stories  non ci si può esimere dal fare riferimento a ‘La funebre campana nuziale’, ‘Il velo nero del pastore’, ‘La valle delle streghe’, ‘Il mantello di Lady Eleanore’, e molte altre[1].

D’altra parte i Twice-Told Tales (Racconti narrati due volte), apparsi nel 1851, ebbero l’elogio dello stesso Poe, il quale «si congratulava con Hawthorne in uno dei suoi migliori articoli, quello in cui illustra la sua fede nel racconto quale espressione letteraria»[2].

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Nel 1858, a Torino, apparve una traduzione anonima dei racconti di Poe, col titolo di Storie orribili; poi, nel 1869 a Milano, col titolo di Storie terribili a cura di tale Baccio Emanuele Maineri[3].

Maineri fu scrittore dal gusto “guerrazziano”: Guerrazzi che resta, in effetti, il maggiore narratore “gotico” nel panorama del romanzo storico. Maineri stesso scrive:

Guerrazzi! Il nome suscita sempre nel mio petto un senso di ammirazione e di riconoscenza, perché devo specialmente ai suoi scritti il primo palpito della fede patria, il primo battito dell’amore d’Italia; è lui che venne a diradare le tenebre che facevano velo alla ragione e alla mente. La verità è una sola e nessun onesto la contraddice: tutta la gioventù di quei tempi (quella che non aveva il cuore di stoppa e l’intelletto ottuso dalla superstizione e dall’ignoranza) sentì il fascino delle opere di lui, si scosse, meditò e pianse. Le parole di Mazzini suonavano più magistrali e solenni, la voce di Guerrazzi rumoreggiava terribile, come quella dell’angelo del giudizio finale[4].

Fu proprio Guerrazzi, in una lettera al Maineri del 16 giugno 1873, a esprimere il suo parere sul romanzo Ermanno Lysch. Lo scrittore ligure si mostra assai critico soprattutto verso la ridondanza figurativa del Maineri («Amico caro, ho letto il Lysch. Trovo colorito molto e bello, ma troppo; come nei dipinti di Rubens troppo carminio; troppo monte, troppo lago, troppo azzurro, troppa luce») e nei confronti di una certa “anarchia lessicale”:

La lingua è plausibile […]; mi occorrono però talune parole che il vocabolario non registra. Né mi opponga che, se il vocabolario non registra, le adopera il popolo, e noi ci adoperiamo ad accostare la lingua parlata alla scritta. Bene; di qual popolo? Se dello italiano, io dal popolo toscano non le udii profferire mai: ora se le sono parole del vernacolo Ioni-bardo o ligure, e non accettate da altri popoli della penisola, invece di rendere la lingua nazionale, me la farete municipale[5].

Per quanto il Guerrazzi dimostri non poche perplessità, la risposta di Maineri sarà parecchio pacata; anzi, egli non perde occasione di segnalare a quello che definisce il suo maestro, la composizione di una nuova opera, il Ser Lampo, che comparirà nella successiva edizione del Lysch (inizialmente apparso in appendice a un quotidiano parigino).

Eppure di quest’ultimo (che Bruzzone definisce “lavoro fantastico di genere indefinibile”)[6] scrisse De Haro, nel 1898, che il lettore

resta stordito dalla maliarda fantasia dell’Autore, da quel contrasto tra il verosimile e l’inverosimile da non sapere ancora per qualche tempo se sogni o se viva nel mondo della realtà. […] Forse il Maineri non si propose con questa novella un concetto ben definito, né psicologico né sociale. Forse intese dare libero sfogo alla sua anima malinconica, ma riboccante di affetti, che traspare da quel suo personaggio Mario, la cui anima è una vera anomalia, ma ricca di virtù, gentile, nobile come quella d’un poeta[7].

Un perfetto esempio di personaggio romantico, questo Mario protagonista del libro, a detta del De Haro.

E in effetti il Lysch, per chi si accostasse alla lettura oggi, è colmo di atmosfere sognanti ma al contempo decadenti, è intriso di romanticismo (soprattutto inglese, tra Byron e le Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge), nel suo perenne altalenare tra sogno e realtà, visione idilliaca e tetra presa d’atto del reale, in una situazione narrativa di perenne sospensione.

Vale la pena riportare quanto scrisse un acuto osservatore come Giuseppe Pitrè nella prefazione alla seconda edizione del libro (1873):

Maineri è il solo, ch’io mi sappia, a’ dì nostri, il quale cedendo con tutto abbandono a se stesso,desioso del nuovo e del meraviglioso, abbia cercato di trapiantare in Italia la novella fantastica. Guai s’egli avesse imitatori! Certi uomini, del pari che certi generi, sono indocili d’imitazione; co’ loro difetti stanno bene per sé, si fanno leggere, ammirare; si finisce col parodiarli. Se Maineri non fosse altro che un semplice e comune imitatore di qualche fantastico novelliere del settentrione, egli non sarebbe il Poe d’Italia, quale molti l’hanno salutato. E in vero la rispettiva originalità di questi due novellieri-poeti è spiccata ed evidente, e dipende non tanto dalla varia natura del cielo sotto cui sono nati, quanto dalla diversa tempra, indole e costumi loro individuali. Lo sfondo in cui l’americano Poe dipinge i suoi quadri, ha un non so che di solenne, che rassomiglia alle scene della natura morta, atmosfera quasi verdognola e greve, nella quale le figure de’ suoi personaggi rilevansi con tinte nere e meste: ma è unico in Edgardo quell’artifizio della mente, quella strana facoltà psicologica, quella meccanica, diremmo, del pensiero, per la quale d’idea in idea, di premessa in premessa, passando a questo e a quell’inferimento, giunge a sciogliere con la più raffinata e arguta maestrìa un problema, un fatto, un suo prestabilito disegno. […] In Maineri l’immaginazione s’accoppia al cuore […] soprattutto felice nelle descrizioni, nelle quali è davvero abile ed evidente. Forse in esso il cuore predomina la fantasia, ma un cuore che si direbbe sempre ammalato, poiché dentro ogni suo scritto aleggia una mestizia perenne, e vi si sente una stanchezza rassegnata, dalla quale però si solleva credente, perché animato da viva fede e anelito dell’infinito. Quasi tutti gli amori da lui descritti sono infelici. I più stupendi concepimenti del genio di Poe furono svegliati nella deplorabile ebbrezza del vino: i più mesti ed affettosi racconti del Maineri furono scritti nel pianto[8].

Non mancano, fa notare ancora Pitrè, accenni meramente gotici e sublimi nella caratterizzazione degli ambienti: «La descrizione del castello di Zurscka è improntata di fosca terribilità: quella dello Stelvio solleva l’animo alle più grandiose ispirazioni della natura: da ricordarsi eziandio l’episodio della beda, la morte di Fiorina, la fantastica notte sul lago»[9].

Anche sulla lingua di Maineri, Pitrè si spertica in lodi, definendola “accurata fino alla eleganza”, al contrario delle punzecchiature del Guerrazzi.

Sul fatto che poi “ingenuamente” ascriva al Maineri il primo esempio di fantastico italiano, si potrebbe dissentire; questa prefazione è del 1873, e nel 1869 furono pubblicati, postumi, i Racconti fantastici di Tarchetti.

Pitrè sembra ignorare la produzione scapigliata nonché tutti quegli episodi “fantastici” che gli stessi romanzi storici degli esordi già presentavano.

Orbene Maineri, che fu uno dei primi due traduttori italiani di Poe (l’altro era Camerini a Torino), visse in una Milano che era già epicentro di vari fenomeni, tra cui le prime aperture alla letteratura anglo-americana.

Sarà il Ser Lampo, più che il Lysch, a far pensare a certe atmosfere gotiche mutuate dallo stesso Poe; viene meno l’influenza guerrazziana (per quanto Benedetto Croce sostenesse che, pur avendo letto Poe e la Radcliffe, a Guerrazzi mancasse qualcosa di davvero terrificante)[10], resta un romanticismo già decadente che la studiosa Costanza Melani reputa insidioso e ostico alla lettura in tempi odierni:

Bisogna quindi ammettere che i narratori cresciuti all’ombra del romanzo storico-patriottico guerrazziano, che tanto amava indulgere anche sugli aspetti più morbosi e gotici delle storie narrate, meritano di essere ricordati più che per il valore letterario raggiunto (il Ser Lampo di Maineri è poco appetibile per il lettore moderno […]) per il ruolo di precursori che hanno svolto a ridosso del compimento dell’Unità d’Italia[11].

Sempre Melani aggiunge in nota:

Nel racconto Ser Lampo, apparso per la prima volta nella “Gazzetta” ebdomadaria di Soresina e finito, dopo alterne vicende, riveduto e accresciuto nella quinta edizione del romanzo Ermanno Lysch (1898), si possono rintracciare i segni dell’influenza di Poe, di cui riecheggiano, rimescolati, i temi di numerosi racconti: da Berenice a Ligeia, da The Pit and the Pendulum (Il pozzo e il pendolo) a The Tell-Tale Heart[12].

Ancora Melani afferma, a proposito di Ser Lampo:

Il giovane protagonista, di nome Tullio, va a fare un giro nella campagna intorno al suo paese, ma, in seguito ad una brutta caduta da un muretto, sviene e si risveglia nel palazzotto dell’odiato e temuto Ser Lampo […]. I rumori ossessivi che scandiscono onomatopeicamente l’angoscia del protagonista ci rimandano direttamente a quelli del cuore del vecchio di The Tell-Tale Heart […]. Ser Lampo […] è un personaggio demoniaco, […] l’accompagnatore di un viaggio iniziatico nel regno della Morte, possessore di una filosofia superiore. […] A un certo punto del viaggio nell’avello, il giovane incontra Ofelia, perfetta copia delle donne mortifere di Poe. In Ofelia troviamo i denti bianchissimi di Berenice e i capelli corvini di Morella, ma soprattutto troviamo la volontà che supera la dimensione della morte di Lady Ligeia[13].

Forse Maineri non è stato il “Poe italiano”, ma il fatto che abbia tradotto i racconti dell’autore americano non lo ha lasciato assolutamente indifferente.

E pensare che lo stesso Guerrazzi (che di tinte fosche e bigie se ne intendeva) sconsigliò al Maineri di immergersi troppo nella lettura di Poe e di Hoffmann, perché inadeguate a essere trapiantate in terra italiana[14].

Quest’ultima affermazione di un Guerrazzi in odor di “manzonismo” lascia perplessi a metà; che il romanziere potesse reputare adatte all’Italia le atmosfere radcliffiane ma meno quelle già più estreme di un Hoffmann o di un Poe, è tema interessante ma che non ci dilunghiamo ad affrontare nell’economia di questo discorso. Ricordiamo solo che il patriottismo mai ha abbandonato lo spirito dei narratori del primo Ottocento italiano.

Un anno prima del Maineri, nel 1857, fu Eugenio Camerini a tradurre alcuni racconti di Poe sulla rivista di Torino “Il Gabinetto di Lettura”.

Camerini aveva già parlato dell’autore americano sulle pagine della “Rivista contemporanea”, nel 1856. Probabilmente lo stesso Guerrazzi lesse Poe nella traduzione di Camerini; addirittura in una vecchia prefazione alla Beatrice Cenci il romanziere cita esplicitamente il racconto ‘Il gatto nero’ di Poe.

Ciò dimostra che

la conoscenza di Guerrazzi della letteratura straniera e la sua apertura ad un Romanticismo molto più torbido e fosco di quello inaugurato da Alessandro Manzoni in Italia, sono, come si è visto, indiscutibili. Egli almeno nei primi anni Sessanta, in anticipo quindi anche con la moderna e scapigliata Milano, ha il merito di affacciarsi alla letteratura d’oltralpe e d’oltreoceano e di trasportarne in Italia contenuti e stili. […] È all’ombra quindi del romanzo storico della scuola guerrazziana che si compiono i primi passi verso la letteratura fantastica e, anche se l’esito estetico non è quello sperato, significativo rimane il tentativo di sperimentare moduli letterari diversi da quelli del moderato e moralistico Romanticismo manzoniano. Sicuramente la narrativa di Guerrazzi non è una letteratura perturbante o terrificante come quella di Poe, anche perché lo scrittore livornese, sul modello dell’amato Byron, è sempre molto attento ai risvolti etici e politici di una letteratura impegnata civilmente[15].

 

*L’articolo costituisce un estratto da L’Imagery gotica nella letteratura dell’Ottocento italiano, tesi di Dottorato in Italianistica.

 

[1] Cfr. Nathaniel Hawthorne, Racconti narrati due volte, a cura di A. Lugli, trad.it. di A. Monti, De Agostini, Novara 1983; Id., Racconti, a cura di G. Fofi, trad. it. di M. Papi e D. Valori, Garzanti, Milano 1977; Id., Racconti neri e fantastici, a cura di R. Duranti, trad. it. di E. Giachino, Newton, Roma 1994.

Scrive R. Duranti: «Proprio questa tormentata dimensione di dibattito morale che approfondisce l’indagine psicologica e storica delle vicende, la cifra costante che attraversa tutta la sua opera, dai taccuini ai racconti ai romanzi, è il contributo più prezioso che Hawthorne porta alla nascente letteratura americana, superando le secche della tradizione del romanzo gotico europeo, la più congeniale non solo a lui e al suo grande amico Melville, ma anche a suoi diretti predecessori quali Charles Brockden Brown e Washington Irving e a illustri contemporanei come Edgar Allan Poe» (op. cit., p. 10).

Di Brockden Brown andrebbe quantomeno letto il suo capolavoro, Wieland (1798), uno degli esiti più alti del gotico americano. Scrive Marisa Bulgheroni: «Dopo di lui il “gotico”, in cui il preromanticismo aveva trovato il favoloso specchio deformante delle proprie inquietudini e nostalgie, non sarà più tanto un genere narrativo quanto una categoria dell’immaginazione. In Wieland le ascendenze “gotiche” sono esterne quanto particolari, e riconoscibili con una precisione quasi archeologica. Vi si avverte soprattutto la lettura dei Mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe, che aveva continuato con garbo agghiacciante la moda iniziata nel 1764 da Horace Walpole […]. Vi si riconosce l’influenza rivoluzionaria del Caleb Williams di William Godwin, che aveva fatto del romanzo nero il nitido strumento ideologico del proprio socialismo anarchico. […] Brown precorre ugualmente Poe e Hawthorne, che si divideranno con una strana esattezza la sua eredità, approfondendo uno la direzione dell’orrore metafisico, l’altro l’indagine degli abissi del cuore. […] Brown non arriva a fare del disumano un simbolo dell’angoscia, come Poe, né a ridurlo all’umano, come Hawthorne, ma si avventura prima di loro in quella terra incognita degli “impulsi segreti”». (Introduzione a C. Brockden Brown, Wieland ovvero La trasformazione, trad. it. di L. Bulgheroni, Neri Pozza, Vicenza 1965, pp. IX-XXI).

Cfr. William Godwin, Caleb Williams, trad. it. di G. Marchini, Vallecchi, Firenze 1976.

Ricordiamo che Godwin fu marito di Mary Wollstonecraft, paladina dell’emancipazione femminile, padre dunque di Mary Shelley, la creatrice del Frankenstein. Il Caleb Williams del 1794 viene definito, da certa critica, come uno dei primissimi esempi di romanzo “giallo”.

[2] Marcus Cunliffe, Storia della letteratura americana, trad.it. di G. Tornabuoni e M. V. Malvano, Einaudi, Torino 1970, p. 113.

Scrive E. A. Poe: «Gli interessi mondani che intervengono nelle pause della lettura modificano, annullano o neutralizzano, in maggiore o minore misura, le impressioni lasciate dal libro. Ma a distruggere la vera unità basterebbe, di per sé, la semplice cessazione della lettura», I “Twice-Told Tales” di Hawthorne, in Opere scelte, a cura di G. Manganelli, I Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 1385.

Asserisce, a tal proposito, Costanza Melani: «Elogiando il volume dei racconti di Nathaniel Hawthorne, Poe sostiene infatti che il racconto, come la poesia, deve essere breve: non si deve impiegare più di un’ora a leggerlo, perché altrimenti si perde l’unità di effetto o di impressione che si vuole offrire al lettore. La lettura deve essere completata in una sola seduta», Effetto Poe. Influssi dello scrittore americano sulla letteratura italiana, University Press, Firenze 2006, p. 17.

[3] Cfr. Tommaso Pisanti, Nota biobibliografica a E. A. Poe, Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore, a cura di G. La Porta, trad. it. di I. Donfrancesco e D. Palladini, Newton, Roma 2004, p. 18.

[4] B. E. Maineri, Ingaunia, Senato, Roma 1884, pp.157-160, in Gianluigi Bruzzone, Edouard De La Barre Duparcq e Baccio Emanuele Maineri: due scrittori negletti, “Miscellanea storica ligure”. Studi in onore di Luigi Bulferetti, XVIII, n° 1, Università di Genova – Istituto di Storia moderna e contemporanea 1986, p. 59.

[5] F. D. Guerrazzi, Lettera a B. E. Maineri, 16 giugno 1873.

[6] G. Bruzzone, op. cit., p. 65.

[7] F. De Haro, in La libertà e la pace, febbraio-aprile 1898, in G. Bruzzone, Ibidem.

[8] Giuseppe Pitrè, Prefazione (1873) a B. E. Maineri, Ermanno Lysch – Ser Lampo, con una lettera di F. D. Guerrazzi, Libreria Editrice Ugo Foscolo, Firenze 1898.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. 1, Laterza, Bari 1960, pp. 27-31.

[11] Costanza Melani (a cura di), Fantastico italiano. Racconti fantastici dell’Ottocento e del primo Novecento italiano, Bur, Milano 2009, pp. 43-44.

[12] Ibidem.

[13] C. Melani, Effetto Poe, cit., pp. 29-30.

[14] Cfr. C. Melani, Fantastico italiano, Ibidem.

[15] C. Melani, Effetto Poe, cit., p. 26.