regina underground_copertinadi Aminata Aidara, con un’intervista all’autore

Davide Grasso, New York regina Underground. Racconti dalla Grande Mela, Stilo Editrice, Bari 2013, pp. 150, € 12.00

Io e l’autore c’incontriamo negli spazi virtuali per discutere del suo libro su New York, un’opera intrigante e per nulla banale: attraverso la storia di quelle che mi piace chiamare “le peripezie”, Davide Grasso veicola concetti, descrizioni e riflessioni che sono – seppur nella loro brevità – profonde. Presso altri autori mi è capitato di pensare che alcuni racconti esistessero perché si voleva per forza dire qualcosa, arrivare ad una riflessione ben precisa e anche se questo dettaglio non fa perdere la lucentezza a tali scritti è innegabile il sapore diverso della lettura: ci aspettiamo le schiarite, i picchi di poesia che disseminano la storia,  i quali una volta trovati fanno esclamare “Era questa riflessione che volevi condividere con il lettore vero?“. Invece nel caso di NY Regina Underground io mi sono accorta di aver trovato, spontaneamente, in primis, la storia. E andavo avanti chiedendomi: cosa accadrà al giovane amante italiano, allo studente curioso, all’inquilino con l’ironia sulla punta degli occhi? Eppure non per questo non mi godevo anche le puntuali descrizioni e riflessioni talmente ben integrate al resto della narrazione da non notarsi come un momento del tipo “hey ragazzi, ora attenzione perché devo dire una cosa importante!” ma semplicemente come l’energia, il carburante alla descrizione dell’esistenza del protagonista. L’autore ha dunque il merito di aver scritto in modo fluido, amalgamando i suoi pensieri al resto della storia in modo magistrale.
Ma prima di riportare la conversazione che è sorta attorno a certe scelte narrative di Davide Grasso vorrei darvi le ragioni che mi spingono a consigliarvi di leggere NY Regina Underground. Già dall’introduzione vedrete molte tematiche anticipare il contenuto della raccolta senza darvi l’idea di essere una premessa didattica. Le parole che vi si leggono sono schiette e accattivanti, già pronte a ribaltare il senso comune: perché rompersi le palle e non le ovaie, a proposito delle relazioni tra i sessi? Ho apprezzato, in particolare, la contrapposizione tra l’immobilità politico-sociale e  la mobilità spaziale degli abitanti di quella che viene definita dall’autore la “Grande Ghiacciaia”. Sin dall’incipit dunque si capisce che sarà un libro all’insegna dell’ironia, dell’analisi pungente. Qualcosa di vivo, con un protagonista simpatico e curioso.

Il racconto che ho preferito è il primo, “Welcome to the Fashon World”! Semplicemente geniale. Il finale poi è nella coerenza della  riflessione narrativa dell’autore, una riflessione che non dimentica mail il politico e che anzi, lo fa serpeggiare in tutto, dagli slogan apparentemente “protettivi” diretti alla popolazione, alle abitudini alimentari di chi lavora 7 giorni su 7.
Ovviamente, per me che vivo in una metropoli è l’ultimo racconto “La regina Underground” a raggiungere le cime più alte di poesia: sottoscrivo quasi tutto quello che ho letto. Chapeau! L’autore sa cogliere perfettamente cosa sia l’angoscia della moltitudine nonché “leggere” dentro di sé molto bene, attraverso uno sguardo lucido su tutto cio’ che lo circonda. Tanto lucido da scegliere, come vedremo più avanti, di descrivere solo cio’ vede.
Il racconto “Di frontiera in frontiera” è molto interessante: tratta della ricerca, da parte del protagonista, di una casa a New York.  Rispetto al primo (dove tutte le conversazioni e gli sketch comici preannunciano la settimana della moda) il susseguirsi degli eventi – a volte disconnessi gli uni dagli altri – è più rapido e meno coerente, ossia la storia si presenta in scatti fotografici anedottici in cui i personaggi cambiano rapidamente e ci si chiede dove siano Ricardo e Farah, protagonisti del racconto precedente, o perché non ci sia più qualcuno di “familiare”, magari anche un nuovo personaggio … Non per questo la lettura è meno veloce e vorace: anzi forse è proprio l’accumularsi degli incontri che al pari d’un tramezzino gustoso si divorano in fretta e furia e alla fine vien da chiedersi: ce n’è ancora???
“Ghetto Girls” è il racconto forse più emblematico della raccolta. Da un lato è quello che mi ha commosso di più per la descrizione empatica della povertà di Harlem e la bellezza tragica con cui sono riportate alcune scene. Dall’altro lato pero’, se analizzo le mie sensazioni ad un certo punto della lettura mi accorgo che il mio punto di vista – quello di donna nera o mulatta che dir si voglia – riemerge più attento e presente che mai, come se avesse dormicchiato per il resto del libro e alcune cose che l’autore scrive l’avessero improvvisamente risvegliato. Ma, premetto, già il fatto che la mia attenzione sia più sensibile a questo tema piuttosto che a quello delle gang latinoamericane di cui faceva parte, ad esempio, la nipote di Ricardo, è passibile di commenti critici.

Quello che ho pensato, in tutta sincerità, ad un primo impatto è stato: “è proprio il punto di vista tipico di uomo bianco in un ghetto di donne e uomini neri”. Poi mi sono chiesta perché avessi dovuto avere questa reazione vagamente infastidita e ho capito che quello che mi turbava maggiormene era lo sguardo nei confronti degli uomini del ghetto, descritti come personaggi che usavano essere “brutali” con le loro conquiste. Ovviamente nessuno e nemmeno io, potrebbe dire che il capitolo è portatore di pregiudizi dato che l’autore-protagonista parla di esperienze effettivamente vissute nella loro prosaicità (Davide Grasso viveva con uomini afroamericani dalla mattina alla sera, ad esempio Vinesh migliore amico delle “nottate calde”), ma qui sorge irresistibile la mia domanda all’autore:

A.A.: Come mai non hai cercato di aggiungere qualche personaggio meno triviale nel descrivere questa realtà? Non hai temuto di confermare il luogo comune diffuso dai media, in particolare dalla cultura hip-hop e R&B, sul maschilismo degli uomini afroamericani?

D.G.: Ci sono secondo me due motivi alla sensazione di fastidio che il capitolo può provocare. La prima è contingente: parlando quasi soltanto di ambienti neri, nel libro, mi sono trovato a un bivio: o descrivo semplicemente  questi rapporti, senza giudicarli, oppure faccio trasparire il mio parere. Ho pensato al fatto che quanto raccontavo potesse rientrare in un cliché che non avevo interesse a fomentare, quello dell’uomo di origine africana che è più “maschio” e maschilista perché più selvaggio dell’europeo. Nel libro non credo mai di indulgere a questo cliché, ma mi rendo conto che, di fatto, i comportamenti che riporto rispetto ad Harlem sono improntati al maschilismo. Il fatto è che i rapporti di genere sono improntati all’oppressione in qualsiasi quartiere e a qualsiasi latitudine, poco importa l’origine degli abitanti. Se avessi sottaciuto questa verità riguardo ad Harlem sarei stato doppiamente razzista, temo, perché avrei avuto lo sguardo condiscendente di chi crede che certe cose si possano perdonare a una parte dell’umanità, proprio perché di fatto la giudica inferiore.
Ciò che avrei voluto fare è dare una descrizione più ampia del rapporto di genere a NYC, attraverso almeno due capitoli in più, uno sul fenomeno del dating e uno sugli ambienti del tango, dove sarebbe emersa la differente ma equivalente relazione oppressiva tra i sessi nell’ambiente bianco o genericamente non nero. Ma non sono riuscito a scriverli, e non ho voluto attendere a pubblicare perché altrimenti tutto sarebbe finito nel nulla come tutto il resto che ho scritto finora. Così il risultato è involontariamente parziale, e può dare senz’altro l’impressione che dici tu.
La seconda ragione è dovuta alla scelta di profondo realismo che ho compiuto: avrei potuto inserire qualche personaggio meno “brutale”, meno “maschilista” e più sfumato o critico ad Harlem; ma non l’ho trovato, almeno secondo quella che è la mia concezione del maschilismo, che prevedere una rigida divisione dei ruoli sociali tra i generi, anche riguardo alle questioni romantiche. Non ho mai visto o conosciuto nessuno che non accettasse come dogma una certa rappresentazione dell’uomo, della donna e del loro rapporto. Può essere senz’altro un caso, ma non lo credo, e ho trovato che questi stereotipi riguardo a uomo e donna siano più forti ancora negli USA che in Europa; anche negli ambienti bianchi, di cui nel libro non parlo, come ho accennato, per ragioni non dettate da una scelta politica.

L’autore non risparmia neanche le donne da una descrizione carica di sottintesi sull’accettazione di questa realtà sociale. Uomini e donne afroamericani, nella Harlem di Davide Grasso, riproducono nei loro rapporti cio’ che la società di consumo ha ritenuto essere più pratico al suo incremento. L’arcaismo moderno di cui parla nei rapporti tra i sessi nonché le strategie messe in atto dalle donne per difendersi e al contempo affermarsi in quel mondo codificato potrebbero davvero essere lo spunto per una ricerca antropologica. Le donne vengono dunque dipinte come soggetti sociali che sviluppano una sorta di indipendenza-dipendenza (quindi di conflitto perenne) nei confronti dell’altro sesso, situazione che raggiunge cime di poesia grottesca nella narrazione delle spogliarello delle vicine di casa, incarnando appieno la famosa frase di Sartre “per metà vittime, per metà complici, come tutti, del resto”.
Ciò che ha infatti maggiormente colpito l’autore della società Usa è il livello di conformismo che esiste su molte cose: il valore del lavoro, del mercato, della libertà (intesa in un certo senso, sempre più o meno lo stesso), la definizione stretta e senza sfumature dell’uomo, della donna, dell’omosessuale. Ad esempio, Davide Grasso racconta che persino ragazze che indossavano magliette con scritto “this is what a feminist looks like” pretendevano, se si trovavano con un uomo, che gli venisse pagata la cena. In questo l’autore non ha mai visto eccezioni e aggiunge: “Queste ci saranno anche, ma io non sono andato a cercarle con il lanternino, perché volevo la massa, la casualità degli incontri, una visione cruda e reale della drammatica realtà dei fatti. Se avessi trovato eccezioni sulla mia strada, ne avrei parlato, naturalmente”.

E qui arriviamo alla scelta narrativa di Davide Grasso, la cui penna nasce dalla storia e dalla filosofia per allargarsi, con successo, alla sfera letteraria.
In NY Regina Underground esiste un solo punto di vista, quello dell’autore, che non si sbilancia quasi mai ad immaginare cosa possa aver animato le azioni altrui se non in maniera leggera. Katrina, ad esempio, è un personaggio pieno di potenzialità come se dietro a questa donna ci fosse un cosmo da esplorare, invece ci si ferma al massaggio sulla schiena, simbolo di inizio e contemporaneamente di fine di qualcosa. E Shandee, la ragazza dagli occhi pieni di dolore che il protagonista bacia per notti intere, mi viene voglia di dire all’autore : “Falle largo, falla esistere davvero! Già ci siamo inteneriti per lei e la sua vita disastrata, vogliamo saperne di più…”. Insomma, i ritratti sono freschi, tratteggiati come degli acquarelli e gli individui presi singolarmente non hanno particolari sfaccettature. Domando allora:

A.A.: Conoscendo il tuo grado di profondità nell’analisi sociale di determinate realtà, perché non l’hai esteso anche alla penetrazione psicologica di certi “personaggi”?

D.G.: Trovo che l’invenzione letteraria serva spesso a nascondere la realtà, a rifugiarsi in un’altra realtà che non esiste. Io invece ho voluto adoperarmi in una scrittura che non vuole fuggire da ciò che c’è, ma descriverlo al meglio delle capacità che ho, anche quando ciò che c’è non mi piace. Penso che il fatto principale è che io ho fatto una scelta molto precisa, cioè di non immettere nulla nel testo che fosse finzione. Nulla di ciò che ho descritto o raccontato è inventato, come dico nell’introduzione; i fatti sono accaduti proprio così, e le descrizioni corrispondono a ciò che ho sentito. Ma i fatti, soprattutto, sono quelli; per questo, ad esempio, l’episodio di Katrina finisce lì, perché non l’ho più vista dopo. E Shandee non ho “potuto” farla esistere più di così perché non me ne ha dato la possibilità, nel senso che non si è mai aperta, non si è mai confidata, non ha mai espresso nulla come possono aver fatto altre persone che ho incontrato, anche perchè negli USA non è – questo ho capito anche a un certo prezzo – abitudine di nessuno farlo, in nessun caso. Si sa molto di più dell’intimità e dell’interiorità di una persona europea dopo due ore che di una persona statunitense dopo due anni. Questa è una verità assurda, e secondo me molti avrebbero preferito non arrendervisi almeno nella creazione letteraria, immaginando e descrivendo ciò che in effetti non si è visto, ma per me non è così, nel senso che ho voluto percorrere la strada del “niente di più niente di meno”, rispetto a ciò che è accaduto. Certo lo sguardo influenza l’oggetto, ma esistono anche attitudini diverse, più o meno controllate, nell’influenzarlo e nel come influenzarlo. Il fatto è che quando si crea un personaggio, al limite ispirandosi a persone esistenti, come fai tu quando scrivi, si è liberi di inventare. Quando si sceglie di non inventare, ma riportare una realtà nuda e cruda, si è molto meno liberi. E la verità nuda e cruda è che spesso nulla sappiamo di tante cose.

Ed è anche questa la forza della storia raccontata in NY Regina Underground, il coraggio di fermarsi davanti alla fauna umana che fa capriole e altre acrobazie da un vagone all’altro della metropolitana descrivendola per quella che è. L’autore vede, immagazzina, rielabora, descrive, il tutto accettando di non poterne sapere di più se non che si tratta di persone fagocitate dal Sistema, individui che a volte attuano, forse inconsapevoli, delle micro-strategie di resistenza: si, persino negli Usa, dove il conformismo è Re!
Grandissima maestria nel descrivere la folla senza perdersi nei dettagli, senza dimenticare le cose eccezionali che rendono certi individui più interessanti di altri per poterci regalare un libro originale e autentico: assolutamente da leggere.

Nota

Su NY Regina Underground leggi anche il reportage di Lorenza Ghinelli della pressentazione al Salone Internazionale del Libro di Torino il 18 maggio 2013, qui, e la recensione di Girolamo De Michele pubblicata sull’Indice dei libri del mese di novembre, qui.

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