di Gianfranco Marelli

meazza.jpgGiulio Meazza, Adieu Pearà. Memorie future dalle ombre di Verona, BFS, Pisa 2011, pp. 206
Alberto Piccitto, Macnovicina. L’eccitante lotta di classe, Zero in Condotta, Milano 2011, pp. 176

Provate ad immaginare un luogo e un tempo dove a fallire sono le biblioteche, gli ospedali, le scuole e persino le chiese. Dove è proibito spogliarsi negli spogliatoi, dove non ci si può sedere sulle panchine pubbliche per via di una sbarra in mezzo che ne impedisce l’utilizzo ai senza dimora, e dove la Proprietà del quotidiano più diffuso in città è «gente capace di andare d’accordo contemporaneamente (ma segretamente) con Cavour, Mussolini, De Gasperi, Andreotti, Craxi, Berlusconi, Maroni e Bonolis». Forza! Adesso un altro sforzo. Guardatevi mentre, attoniti, assistete in prima fila ad un convegno su “La forza dell’etica nelle scelte sociali. Per un welfare consapevole”, promosso dall’associazione “Cristiani sulla terra”, dove l’atteso relatore — un notabile ex-democristiano così casto e puro da far sbiadire il mondo Giovanardi — avvicinandosi lentamente al tavolo della presidenza, a fatica riesce a nascondere un’immane erezione fallica, coprendo l’oscena parte con i fogli del proprio intervento, e nell’imbarazzo dei presenti prolude con un accorato: «Compagni … oggi la crisi economica provocata dalla borghesia … parassitaria e dal capitalismo … imperialista … ci impone una strategia riv … rivv… o., ll … u …».

Non ci riuscite? Troppo Assurdo, impossibile, inimmaginabile? Volete un aiuto? Bene. Recentemente le case editrici libertarie BFS di Pisa e Zero in Condotta di Milano hanno pubblicato due romanzi — “Adieu Pearà. Memorie future dalle ombre di Verona” di Giulio Meazza, e “Macnovicina. L’eccitante lotta di classe” di Alberto Piccitto — che in un linguaggio fantapolitico proiettato al futuro (il primo) e ancorato all’immediato presente (il secondo) hanno saputo descrivere l’indescrivibile società contemporanea, cogliendone i valori più marcescenti che ne caratterizzano il tratto fondante: la paura dell’altro da sé, la tracotanza della classe politica, la lascivia malavitosa del mondo economico-finanziario. Due “opere prime” che nel tradire l’ingenua freschezza dei suoi autori, sorprendono tuttavia per l’armonico stile narrante, grazie al quale vicende paradossali sono comprese e comprensibili in un concatenamento di fatti del tutto plausibili se inseriti nel contesto storico attuale.
“Adieu Pearà” e “Macnovicina”, pur nella loro diversità lessicale, raggiungono l’identico obiettivo di mettere alla berlina la quotidiana sopravvivenza, intrappolata in un lavoro che è difficile da trovare, improbabile nel mantenerlo stabile, umiliato in mestieri degradanti, ma soprattutto illeciti per le condizioni di clandestinità e di microcriminalità cui vengono sottoposti i lavoratori; lavoratori incapaci non soltanto di reagire, quanto d’individuare i reali responsabili dell’alienante condizione di vita dentro e fuori il ciclo della produzione/consumo, sia questo la fabbrica, l’ufficio, gli spalti di una tribuna di calcio, il salottino anonimo dove padroneggia il televisore sempre acceso che diffonde, di casa in casa, la paura del diverso, nelle vie e nelle piazze di italiche città, divenute straniere persino ai suoi stessi abitanti, pronti ad erigere muri, barricate e filo spinato fra un quartiere e l’altro, nella costante ricerca di sicurezza per l’asfissiante paura degli altri.
Così Giulio Meazza (del quale si azzardano diverse ipotesi sul vero nome, ma nessuna più valida delle altre), con il suo romanzo fantapolitico stila un diario in cui annota le vicende che gli accadono e che accadono ai cittadini veronesi fra l’ottobre del 2028 e l’aprile del 2029, nel mentre — ritornato nella città scaligera per aiutare il padre alle prese con una moglie gravemente ammalata — svolge il lavoro di cronista per il quotidiano “L’Arena”, alle prese con il mantenimento del proprio precario lavoro a colpi di palate di merda; perché fare cronaca in una città di merda fra un’ordinanza anti-panino del sindaco atta a proibire il consumo di vivande per la pubblica via (do you remember Flavio Tosi?), e il pellegrinaggio dei fedeli Padani all’Arsenale, per adorare il “Capolavoro Celeste” (un trittico dimenticato nel rimessaggio degli autobus dell’azienda di trasporti municipali e lì accidentalmente macchiato — pardon, miracolato — con kerosene), si finisce per passare tutto il tempo a spalare escrementi, al punto da assomigliare sempre più a loro. A meno che …
A meno che non si conduce una vita ombrosa, una seconda vita, come quella vissuta dagli intrepidi carbonari della compagnia de l’Ombroso, gli unici, in una Verona impaurita e alla caccia continua di un nemico per sentirsi vivi (poco importa se con la fuga degli ultimi stranieri, i nemici rimasti son soltanto gli abitanti di Veronetta, perché — come recita il volantino del Comitato di difesa — “A sinistra dell’Adige non hanno freno”), gli unici a credere che una comicità segreta e rivoluzionaria « avrebbe rappresentato per ciascuno la boccia d’ossigeno in cui respirare, un pezzo di vero nascosto in cantina, coltura di libere arguzie e facezie, di sberleffi e memorie stralunate». Sì, perché anche Giulio Meazza prima ride e poi s’incazza, come i suoi amici de L’Ombroso — il periodico di miserie umane e misurazioni maxillofacciali, da tempo presente in Rete (lombroso.noglobs.org) e attivo per le strade di Verona attraverso i suoi numerosi interventi ridanciani — che hanno voluto e creduto fermamente nella realizzazione di quest’opera sospesa fra il futuro descritto e il presente vissuto, strizzando l’occhio alle gesta irriguardose e blasfeme della più blasonata Tribù di Fillon, Dahou, Berna, Debord, Wolman, nel quartiere Contrescarpe della Parigi primi anni ’50: «un quartiere dove il negativo aveva la sua corte» (Debord).
Certo: non è più il tempo dei travestimenti da frate domenicano, come nella domenica di Pasqua del 1950 per entrare nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi durante la celebrazione liturgica ed attendere un momento di religioso silenzio per accusare “la Chiesa cattolica d’infettare il mondo con la sua morale mortuaria” e proclamare gioiosamente la morte di Cristo-Dio affinché viva l’uomo. Adesso è già molto se qualcuno, con baffi, barba e naso finto, segui circospetto e maligno la processione dei fedeli nella domenica delle palme (come, quest’anno, è stato organizzato a Verona dai seguaci di Lombroso), o con un occhio di bue (ci descrive trasognato nel suo diario del 2029 Giulio Meazza) illumini di rosso la statua di Lombroso in una notte buia, oppure in una mattina d’aprile in via Redentore, compaia improvvisamente un bosco al posto della strada, dopo aver nottetempo scaricato sulla via un centinaio di metri cubi di terra e messo a dimora alberi, arbusti e fiori. Imprese d’altri tempi. Imprese di questi tempi. Imprese. Per non morire di noia e di paura in questo mondo di gomma, dove «il prefetto si chiama Cofanetto, il questore Manganelli, il vescovo Crociati, il capogruppo Mastino, il direttore degli autobus Guido Guidi e il rettore Saccenti … Questa è una specie di Topolinia, tutta finta e piena di festoni e telecamere». E forse, proprio questo degrado divenuto ormai sistema, spettacolo, convince l’anti-eroe del romanzo “Adieu Pearà” ad abbandonare nuovamente Verona, dopo aver seguito con trasporto su di un letto d’ospedale il tentativo disperato di alcuni intrepidi lombrosiani di aprire i ponti ad una città chiusa su se stessa e prigioniera della propria paura. Dopotutto «lascia perplessi – è la conclusione amara di Meazza — l’insipienza di queste genti che solamente duecento anni prima passavano per un popolo arguto e di buon animo, genti che assillate dal terrore di essere vive, e dunque vulnerabili, non trovano di meglio che seguire il consiglio di chi suggeriva loro di spaccarsi le gambe a mazzate».
Cocciuto fino in fondo è invece Augusto Rocchi — il personaggio/fulcro del romanzo di Alberto Piccitto (lui sì, vero e tosto militante della Federazione Anarchica milanese) — che un giorno vede la sua vita trasformarsi radicalmente da marginale pusher ad organizzatore in campo di una delle azioni più eccitanti (è proprio il caso di dirlo) battaglie contro la borghesia e alcuni suoi rappresentanti del mondo politico, religioso, sportivo e finanziario, quando ormai si era ridotto negli ultimi anni a spacciare polvere e pastiglie ai giovani rampolli della classe nemica per spappolargli lentamente il cervello; perché, si sa, anche il cammino della lotta di classe è lastricato … Di Macnovicina, o — più correttamente — psicococaina, una nuova droga dagli effetti non ancora completamente testati, ma di sicuro effetto.
Soprattutto devastante. Lo prova l’erezione incontenibile dell’onorevole Giuseppe Parisi al convegno promosso dall’associazione “Cristiani sulla terra”; sì, proprio il convegno in cui vi invitavamo ad immaginarvi seduti in prima fila, sbigottiti nel sentire con quanta grinta rivoluzionaria il novello Priapo proclamava la necessità che «il pro … le … tariato deve avere il coraggio … di ris … pondere auto … nomamente a questa crisi contro le burocrazie partitiche e sindacali che lo hanno venduto …». Di sicuro la Macnovicina aveva incominciato a funzionare, grazie anche ai fogli (ben 26 cartelle dattiloscritte) che lo stesso Augusto aveva di soppiatto sostituito alla relazione dell’onorevole Parisi, preparata dal suo segretario personale, a sua volta incapace di comprendere cosa diavolo mai stava accadendo in quel consesso di timorati di Dio e di figlie di Maria.
Già, la Macnovicina … Mai nome più appropriato Augusto Rocchi avrebbe potuto trovare alla nuova droga che aveva iniziato a fornire ad un politico interessato solo alla propria immagine, un alto prelato dedito all’evangelizzazione dei ricchi, un imprenditore senza scrupoli e a un calciatore senza talento — da tempo avvezzi a far uso di cocaina — se non richiamarsi alle gesta dell’anarchico ucraino Nestor Machno, esponente di primo piano del comunismo-anarchico internazionale, nonché combattente nella rivoluzione russa da esser osteggiato tanto dai reazionari “bianchi” quanto dai bolscevichi. Sì, questa era l’arma segreta per sconfiggere la borghesia, inondando i ricchi e i potenti della nuova droga (mai lanciata sulla piazza, al punto da esser priva ancora di un nome) affinché le loro azioni risultassero così assurde ed incongruenti da spingere il proletariato alla lotta di classe. Almeno per un visionario cinquantenne dal passato rivoluzionario costellato da innumerevoli sconfitte, deciso ancora a lottare con tutti i mezzi, anche se forniti da gente malavitosa ed interessata soltanto al business. Dopotutto, à la guerre comme à la guerre! direbbe l’Augusto nel pieno della battaglia.
Battaglia raccontata con una scrittura da pochade, dove intrighi amorosi scabrosi, ripetuti effetti comici, colpi di scena improvvisi scandiscono il romanzo di Alberto Piccitto e conducono il lettore ad un partecipato trasporto nell’agire filmico degli avvenimenti il cui epilogo supera però la proditoria domanda manzoniana: fu vera gloria? Gloria, per chi vince cosa? Gloria, per chi perde cosa? Dopotutto, tanto la “sconfitta” di una lotta collettiva descritta da Giulio Meazza in “Adieu pearà”, quanto l’esilarante/eccitante battaglia del protagonista di “Macnovicina”, Augusto Rocchi, destinata anch’essa a sicura “sconfitta”, sono entrambe accomunate da un medesimo destino, lo sghignazzo della classe operaia, così ben raffigurato dalla celebre fotografia dell’arresto di un anarcosindacalista a Parigi durante uno sciopero nel 1905: “Sarà una risata che vi seppellirà”. Ricordatevela! Sempre!