di Dziga Cacace

Mi piace parlare, per non dire niente
Jean-Luc Godard

ddv0901.jpg114 – Sotto il vestito niente commesso da Carlo Vanzina, Italia 1985

Stanco morto mi adagio come la salma di Cuccia sul divano del salotto e accendo la tivù. Sta cominciando Sotto il vestito niente e io non ho difese. I titoli e le prime immagini paiono gradevoli: perché dire no? Siccome a fine proiezione la vitalità da salma non è cambiata mi chiedo: e perché ho detto sí? Vabbeh. Tra l’altro pensate a questi qui che hanno trafugato la salma del banchiere e se la tengono in cantina. O magari in soggiorno. E la bara sarà leggermente ricurva, a uncino? Okay, basta. Sotto il vestito niente è una cagata. Questo per chiarire. Però le prime sequenze (in montaggio alternato tra America e Milano) sono ben fotografate e si spera che qualcosa di decente possa uscirne fuori. Ma il giallo è teso come un asciugamani bagnato, la trama banalotta e gli attori sembrano usciti da una recita parrocchiale tenuta in provincia di Cuneo. Ci sarà un punto a favore? Forse l’ambientazione: questo è un documento perfetto di un’Italia sgradevole, quella della metà degli anni Ottanta, molto plasticona, socialista e glamour. I Vanzina dicono sempre che un giorno saranno rivalutati per aver raccontato questa fase storica. Gli sfugge che da come hanno girato i loro film è evidente l’adesione culturale a questo periodo: è tutto sciatto, veloce, impreciso, senza cura, superficiale. È buttata via la storia, l’ambientazione (una Milano metafisica decisamente interessante), il film.


Qui, del cinema di genere si prendono tutti i difetti e l’approssimazione, mica i pregi. Hanno voglia i Vanzina a provare a fare i De Palma che copia Argento, col pacchetto di sigarette Chesterfield sbattuto in faccia all’obbiettivo. E poi ci sono pure gli errori grammaticali del computer consultato dall’attonito Donald Pleasance (“digitare un’argomento”). E la Galiena non se la tiri troppo da attrice da cinema d’autore, ché qui l’abbiamo vista tutti. Giovedì 15 mi sono anche ciucciato un quarto d’ora di Terra bruciata di Fabio Segatori, giovane regista di cui avevo già blaterato due anni fa commentando un suo frenetico (e godibile) corto trasmesso da Fuori Orario. Terra bruciata è un pulp spaghetti style con un sacco di rimandi (visivi e narrativi) al cinema di genere italiano degli anni Settanta, aggiornato secondo il gusto cinematografico anni Novanta. Ci siamo capiti? No! Comunque ti capita di vedere Peppino Di Capri centrato da una pallottola in fronte, Giannini efferato mafioso con problemi di cervicale, Placido prete di dubbia moralità, Paolantoni killer isterico e Raul Bova intrepido buono in fuga. Il risultato è spiazzante. Boh. (Diretta su TMC; 16/3/01)

116 – La stanza del figlio di un deludente Nanni, Italia 2001

Mi risulta difficile parlare de La stanza del figlio perché questa benedetta stanza m’è sembrata a tratti vuota. Ho sempre amato Moretti, come capita a tutti gli sfigati della mia generazione che si riconoscono in un fratello maggiore. Sono corso al cinema a vedere i suoi film, ho rivisto innumerevoli volte quelli vecchi e cito come tanti babbioni brani a memoria dei suoi dialoghi. Già con Aprile m’ero un po’ scocciato. Il suo diario di pensierini m’era parso troppo leggero, troppo buttato lì per essere preso sul serio. E vabbeh, una divagazione la si permette. Questa volta, invece, Moretti sceglie un tema pesante, difficile, doloroso. La storia è nota: famiglia borghese mediamente agiata, felice, lui (Nanni) psicanalista, lei (Morante) operatrice culturale, due figli carini. Poi irrompe la tragedia, all’improvviso: il figlio Andrea muore durante un’immersione. E tutto crolla: Nanni non riesce più a lavorare, la coppia si disgrega, la figlia è frastornata dal dolore, si scoprono i tanti difetti della propria esistenza (simboleggiati dalle tazze sbreccate e nascoste) fatti emergere dalla disgrazia. Il film è asciutto, ancor più di quanto ci avesse abituati Moretti. La confezione è pauperistica e anche la costruzione narrativa gioca di sottrazione. E alla fine a me rimane poco. Forse sono io che, passando gli anni, divento più freddo e meno disposto a lasciarmi andare. O forse la colpa è dello schifoso cinema Colosseo, con una lama gelida di aria condizionata che m’ha fatto scoppiare un mal di testa furibondo. O forse sono i commenti dei morettiani prima, durante e dopo il film che mi condizionano. Non lo so, ma a me questo film non sembra completamente risolto: la pellicola s’è conclusa e ho pensato “mmh, ma…”? Cosa non va? Come si può discutere Nanni? Non so, mi sembra che il tema sia sviluppato bene solo nella parte centrale, quando il dramma viene affrontato scegliendo momenti (e immagini e facce e parole) perfetti. È commovente senza essere lacrimoso, è tragico senza ricatti subdoli ed è verosimile, ci credi. Quello che segue la perdita del figlio, di nuovo, colpisce, ma a tratti e senza la stessa forza. La scena della tazzina sbreccata, il cercare le colpe, i rimorsi, l’abbandono del lavoro, la crisi coniugale, l’incontro con la fidanzata di un giorno di Andrea, la gita fino a Mentone: sono osservazioni intelligenti, spietate, ma a cosa portano? Ma che cazzo ne so io!? Mi manca un po’ la terza parte, ma anche quella precedente al dramma: perché tutti quei morettismi che appagano il pubblico ma non cambiano di una virgola il discorso che si svilupperà dopo? La famiglia è descritta con poche pennellate, spesso sbrigative, e mi sembra che molto sia affidato allo spettatore che di Moretti prefigura già la famiglia da padre quasi cinquantenne e alle prese con figli grandi. Sono molto confuso – è evidente – e probabilmente troppo severo perché devo trovare motivazioni trascrivibili per la parziale delusione. Però, boh… no. Non m’è piaciuto e non so tanto dire il perché. (Sala; 30/3/01)

ddv0902.jpg117 – Shakespeare in Love del bravo John Madden, Gran Bretagna/USA 1998

È un po’ imbarazzante, ma il film di stasera mi è piaciuto eccome. Mi ha divertito, l’ho trovato intelligente, vivace, scritto bene, recitato meglio. Imbarazzante perché ieri sono rimasto deluso dal Moretti de La stanza del figlio e ritrovarmi felice per un film come Shakespeare in Love sembra la prova che ormai mi sia andato definitivamente il cervello in pappa. E se ieri sono stato più cattivo di quanto fosse necessario, oggi probabilmente sarò più buono del dovuto per motivare l’infantile entusiasmo per un film mainstream, commerciale e furbo. Che però, mettiamola come volete, è un film che ha saputo condensare alcune delle tendenze degli ultimi anni Novanta: il gusto postmoderno e lo sfruttamento cinematografico di Shakespeare, ma l’operazione è stata gestita con intelligenza. Infatti oltre al rimescolamento delle vicende storiche, oltre alla reinvenzione della nascita di un’opera storica come Romeo e Giulietta (e alla riproposizione della stessa, seppure per estratti significativi), Shakespeare in Love ragiona sui meccanismi della creatività e non si limita a una semplice constatazione di come la vita confluisca nell’arte (e viceversa). Tutto il film è percorso da pungenti osservazioni sul lavoro creativo dell’artista (“Chi è quello?” – “Nessuno, è l’autore”): come si trovano le idee, come si rubano, come le si trasformano e come infine confluiscano nell’opera d’arte. La creazione è fatica, sudore, sporcizia (quelle unghie macchiate d’inchiostro che segnano fin dall’inizio il film) e la poesia nasce sia da idilli purissimi sia da amori da postribolo. La vita nutre l’arte, ma anche il vile denaro di un improvvisato imprenditore teatrale e lo spettacolo finale, nonostante tutte le difficoltà, gli intoppi, gli ostacoli insormontabili, come per magia si farà (più o meno come per la televisione: non si sa come, ma si riesce sempre ad andare in onda, cosa che in effetti spiega tante porcate). Non importa che l’attendibilità storica sia andata alle ortiche (non torna nulla, come tempi e come personaggi), qui conta il gioco. E se a una prima veloce lettura il film è solo ben costruito e diverte, è a una seconda lettura che dimostra la sua forza, riuscendo in quella miracolosa alchimia per cui il cinema, a volte, sa parlare a diversi spettatori, con diverse aspettative e gusti, esattamente come l’opera di Shakespeare riusciva a commuovere i bifolchi e la regina. Non per niente dietro alla sceneggiatura c’è quel geniaccio di Tom Stoppard. Film riuscito. E lo dico senza imbarazzi, dài. (Vhs da Tele+; 31/3/01)

119 – Luna Papa del pasticcione Bakhtiar Khudojnazarov, Austria/Germania 1999

Barbara e io leggiamo ovunque che questo film è una perla rara e, fiduciosi dell’esaltazione critica e della soddisfazione di qualche amico (facciamoli i nomi: Raffa), ci sottoponiamo alla visione. E Luna Papa è una gran bella puttanata. Maledizione multipla su chi ha esaltato questa gran rottura, sconclusionata e imbecille. Mettiamo da parte il sospetto (legittimo) che la produzione austro-tedesca abbia spinto per un prodotto da festival e molto kusturizzato. Khudojnazarov ha già vinto diversi premi in passato (Torino e Venezia) e non conoscendo il suo lavoro passato mi fido solo di quello che vedo. E vedo un disordine grammaticale e narrativo che può aver suscitato piacere solo in qualche critico completamente scassato da altro pesante cinema d’autore e desideroso di qualcosa di più movimentato. Luna Papa racconta di Mamlakat, giovane tagica rimasta incinta di uno sconosciuto in una notte di luna piena. Con il padre vedovo e il fratello scemo comincia l’inseguimento del presunto e sconosciuto padre, ritenuto (a torto) un attore perché il fattaccio è avvenuto presso un teatro. I tre personaggi vanno a Samarcanda, a Tashkent e a Bukhara, cercando invano. Poi Mamlakat si accontenta di un altro furbacchione incontrato strada facendo, ma dall’alto piove un bue che lo ammazza. Infine arriva il vero futuro padre che confessa: Mamlakat non reagisce urbanamente e il gaglioffo rimane catatonico. A Mamlakat non resta che scappare da questo posto di pazzi (in volo, sul tetto di casa) per far nascere il figlio altrove. Una storia che ha diversi sbandamenti, si compiace della cornice folle e prende la direzione giusta solo alla fine. Come guardiamo Luna Papa? Come affresco grottesco e lirico del dissolvimento dell’impero sovietico? O vogliamo attribuirgli altri significati? Resta il fatto che questo realismo fantastico non ha alcuna musicalità, né la sfrontata vitalità del cinema zingaro di Emir. Certo: i paesaggi sono bravissimi e la fotografia è un caleidoscopio di costumi, facce e colori, ma se ho voglia di queste cose mi compro Airone, eh. I paragoni con Kusturica sono, come sempre, scappatoie semplificative, ma qui il difetto è nell’assoluta incapacità di essere felicemente grotteschi. Il balletto messo in piedi non fa né riflettere né divertire, è solo convulso e per nulla piacevole, anzi, stona spesso e non mi si dica che era nelle intenzioni. Insomma: rompe i coglioni. (Vhs da Tele+; 3/3/01)

ddv0903.jpg120 – Amores Perros dell’incontinente Alejandro González Iñárritu, Messico 2000

La prima ora e un quarto di Amores Perros è in assoluto la cosa migliore che ho visto quest’anno al cinema. Se però il film di González Iñárritu non è un film totalmente magistrale, come l’inizio bruciante poteva far supporre, è perché si affievolisce e viene meno tutta la carica visionaria della prima parte in altre due storie meno inventive, meno “bestiali”. Amores Perros racconta tre vicende concatenate da un evento in comune e più banalmente legate dall’affetto diverso che i personaggi hanno nei confronti dei loro cani: nella prima Octavio è innamorato di Susana, moglie del fratello. I due fratelli non si amano: Rodrigo, il maggiore lavora come commesso, ma la sera deruba farmacie. Octavio si sfascia di canne e non fa nulla di particolare finché non scopre le doti aggressive di Cofi, il cane di Rodrigo. Lo usa come bestia da combattimento, vince tantissimi soldi (con cui progetta di fuggire con Susana, ormai incinta di un altro bambino) e si procura anche l’invidia di un altro giocatore che, esasperato, sparerà al cane. Octavio lo accoltella e deve fuggire: nella fuga in macchina avviene un micidiale schianto con Valeria, modella strapagata e nuova compagna del timido e inane Daniel. Parte la seconda storia, quella “borghese”, con lo sfiorire violento di Valeria, la crisi affettiva con Daniel e la scomparsa del cagnolino Ricky sotto il piancito di casa. La ricerca disperata della bestiola porterà all’amputazione della gamba di Valeria. Ma allo scontro tra le macchine di Octavio e Valeria è presente anche il barbone Chivo che raccoglie il cane Cofi. Lo curerà e questo, in obbedienza a un istinto primordiale alimentato anche dalle lotte a cui lo preparava Octavio, gli sbrana tutti i cinque cani che gli tenevano compagnia. El Chivo è stato professore e poi terrorista. Dopo vent’anni di galera vive della spazzatura altrui, con l’unico cruccio della figlia abbandonata a soli due anni. Messo a segno l’ultimo colpo (mettendo drammaticamente uno di fronte all’altro due fratellastri che si odiano), El Chivo lascia alla figlia un semplice messaggio telefonico e dei soldi. Lui è atteso da un lungo cammino assieme a Cofi. Comodo fare il riassunto e non dire una minchia di personale, eh? Vabbeh: come detto è la prima parte di Amores Perros a colpire inesorabilmente lo spettatore. Lo fa per la visionarietà ricca di un immaginario giovanile e marginale interessantissimo, per lo stile di ripresa e di montaggio e il gioco di incastri narrativi. Ma soprattutto colpisce l’abilità nell’affrontare i rapporti tra persone: rapporti carnali, di sangue, violentissimi, con le persone e con le bestie; legami fisici, tattili, sensoriali, dove sangue e sudore si mescolano ad abbracci, amplessi e pugni. Non ci sono mediazioni, è tutto molto viscerale, spontaneo, pericoloso e la regia, con la cinepresa sulla faccia dei protagonisti, asseconda questa capacità descrittiva dei caratteri. Molto più leccata e anonima la regia del secondo episodio, probabilmente in relazione a un mondo che si basa su legami artificiosi e su valori passeggeri (come la bellezza), mentre nel terzo c’è di nuovo più vitalità (forse proprio perché sulle tracce di una persona disperatamente attaccata alla vita che ha perso e che vuole recuperare). Ma ribadisco, Amores Perros vive per quell’incantevole ora e un quarto iniziale: se il produttore non fosse stato anche il regista, probabilmente avrebbe roteato con nonchalance un revolver davanti a Iñárritu, chiedendogli pacatamente di rivedere l’equilibrio delle parti e magari di dare una sforbiciatina (alle due ore e mezza di durata). Però, anche così siamo sempre dalle parti del gran cinema. Visto con Ferro e Barbara all’Eliseo. (Sala; 4/3/01)

ddv0904.jpg121 – Il sesto senso del professionale M. Night Shyamalan, USA 1999

Beh, se c’è ancora qualcuno che non l’ha visto, non legga oltre. Dunque: trattasi di film con colpo finale spiazzante che ribalta quanto hai seguito fino ad allora. Se lo capisci prima, il film diventa automaticamente una cagata pazzesca, ma siccome io sono all’erta come una rana galvanica, ci sono cascato in pieno. A questo punto la reazione può essere di due tipi. O ci si offende perché il regista ti ha teso il tranello e non vuoi ammettere di essere un fesso oppure ti ritieni un superuomo che ha davanti un super-superuomo ancor più brillante di te, cui va tutta la tua ammirazione. Ovviamente la seconda che hai detto, il che dimostra quanto sia fesso, molto più che nella prima ipotesi. Basta, okay. Però non capisco chi vive il cinema come sfida e si compiace nell’anticipare la narrazione: se guardate un film tentando di essere più furbi del regista, non sapete cosa sia farsi cullare dalla narrazione (la volpe e l’uva, ci siamo capiti). Pier Paolo mi aveva avvertito: “vedrai che gran sorpresa” e io tutto mi aspettavo fuorché quello che accade al protagonista, scoprirsi morto, più o meno come me spettatore, annichilito dalla pratica professionale televisiva. Bruce Willis è uno psicologo che ha subito un attentato da un suo ex paziente. Un anno dopo l’incidente inizia a seguire un ragazzino che ha tutti i tratti problematici dell’attentatore. Il bimbo parla coi fantasmi, coi morti. Ne è convinto e poco a poco, con esempi pratici, convince anche il buon dottor Willis. I morti rifiutano la loro natura, credono di essere ancora vivi e continuano a camminare sulla terra. Come Willis, che è defunto secco e non lo sa. Per tutto il film, composto, molto classico come impianto narrativo e stile, ti chiedi come mai sia appena abbozzato il rapporto tra Willis e la moglie. Poi, quando lui capisce, capisci anche tu. Uno ripensa a tutte le scene in cui appare Willis e si rende conto che non c’è mai stata interazione con gli altri presenti (tolto il bambino). Beh, bella idea, gestita con perizia. Perlomeno se non hai già capito tutto, ma non voglio menarvela oltre. Menzione speciale agli attori (escluso forse Willis che, sapendo che era un morto che cammina, ha forse preso troppo alla lettera l’indicazione). Comunque, solido film dalla regia al servizio dello script. (Vhs da Tele+; 5/4/01)

ddv0905.jpg122 – The Blair Witch Project dei genialoidi Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, USA 1999

Tre ragazzi con una missione: girare un documentario in un bosco del Maryland sulla strega di Blair, figura leggendaria che avrebbe massacrato 7 bambini in epoca remota. All’inizio è una scampagnata, poi i tre perdono l’orientamento e subiscono strani avvertimenti. Inizia l’incubo: uno scompare, gli altri due – affamati, terrorizzati – finiscono infine nell’antro della strega… Fiaba moderna senza lieto fine che conosciamo solo grazie all’ostinazione dei protagonisti che hanno tenuto costantemente accese una videocamera e una cinepresa 16mm, The Blair Witch Project è un prodotto indipendente americano, perfetta sintesi di astuzia e consapevolezza dei meccanismi mediatici. Il finto documentario ricostruito con i materiali “ritrovati” ha conosciuto fama di culto grazie al passaparola in Rete e alla geniale strategia comunicativa giocata sulla creazione dell’attesa e sul dubbio se fosse tutto vero o falso: molti ci hanno creduto (in USA una buona percentuale della popolazione crede che la terra sia piatta e l’abbia creato un anziano signore con la barba bianca… per cui), altri sono stati al gioco e alla fine un film costato letteralmente due lire ha incassato paccate di miliardi, ha reso ricchi gli ideatori e li ha fatti entrare nel mondo del cinema “vero”. Magari non avremo più notizie di loro (la “factory” creativa è adesso sotto l’egida della Disney), ma resta il fatto che la loro opera prima ha saputo cogliere nel segno. Quando il film è uscito due anni fa alcuni criticonzi hanno piagnucolato paventando la proliferazione di prodotti simili, senza rendersi conto che The Blair Witch Project vive della sua unicità. In Europa il film ha avuto vita meno facile: innanzitutto la fama del prodotto aveva varcato in anticipo l’oceano e poi nello spettatore europeo manca completamente l’atteggiamento yankee a sospendere l’incredulità anche solo per gioco. Il film si presenta come un assemblaggio dei materiali recuperati nel bosco di Blair: le riprese sono tremolanti, imprecise, casuali. Talvolta questa imprecisione è credibile, talvolta sembra un po’ esagerata (può uno che pretende di girare un documentario cavarsela così male con macchine che ormai fan tutto da sole?). Ma il problema si pone solo perché sappiamo già che si tratta di un falso. Quanti servizi televisivi sono falsamente concitati per suggerire una tensione che non c’è? E quanti spettatori se ne rendono conto? Per conto mio l’impressione di verità è ben suggerita, soprattutto attraverso il sonoro e il lavoro dei protagonisti, molto naturali. Okay, ma fa paura? Saputo l’inghippo che c’era sotto e forse infastiditi che con pochi dollari e una idea molto forte qualcuno ce l’abbia fatta, molti hanno liquidato il film perché – a sentir loro – non faceva paura. Invece, se nel documentario si entra, se ci si lascia prendere da questa vicenda irritante tutta giocata sulla frustrazione di non trovare via d’uscita perché le immagini non mostrano un orrore che però si prova, beh, se tutto ciò accade (e dovrebbe accadere se non si guardasse il film avendo già stabilito che ci farà imbestialire), allora sí che fa paura. Dopo le enormità degli anni Ottanta sfociate nello splatter parodistico, l’unica strada per portare ancora la paura sullo schermo è tornare alle origini: The Blair Witch Project (vedi l’ultima terrificante scena) si affida al racconto orale come accadeva con le fiabe degli orchi e lascia alla nostra immaginazione il terrore. Bello. Ah, caro De Laurentiis: insensato doppiarlo, criminale doppiarlo male. (Vhs originale; 17/4/01)

124 – La comunidad dell’eccessivo Alex De la Iglesia, Spagna 2000

Prendete lo spirito beffardo di Almodóvar, il gusto grottesco di certo cinema recente (Delicatessen, Tarantino), gli incubi passati di Polanski (L’inquilino del terzo piano): guarnite con abbondanti citazioni hitchcockiane e otterrete La comunidad, spassoso filmetto di Alex De la Iglesia. Ben fotografato, ben recitato, soltanto un po’ appesantito nella parte centrale (che gioca sulla reiterazione di certi meccanismi), La comunidad racconta della strana comunità, appunto, che abita in un condominio madrileno nell’attesa che un vecchiaccio vincitore al totocalcio tiri le cuoia. Quando ciò accade se ne rende conto per prima una agente immobiliare (Carmen Maura) che, quasi per caso, mette le mani sul bottino. La comunità lo sa e comincia una lotta senza quartiere. La salvezza arriverà grazie alla Morte Nera, vedere per credere. Si ride abbastanza, il film conquista per la scanzonata libertà della messa in scena, si esce soddisfatti. Non è che del film ti rimanga chissà cosa, ma è perfetto per passare una serata con gli amici. Nella fattispecie erano Fabrizio, Nuria e Matteo. Visto all’Excelsior, sala Mignon, ottima. (Sala; 22/4/01)

ddv0907.jpg125 – Scary Movie dell’infantile Kennen Ivory Wayans, USA 2000

A cena da Fabrizio, peccaminosa serata da scapoli che risolviamo – pensa tu i gatti maschi – vedendo il mio primo Dvd: ma mica un bel pornazzo, no, affittiamo Scary Movie. Scofanata una pastasciutta, post birra ghiacciata e canna, ci spaparanziamo sui puff per goderci il pregevole prodottino e avverto che ciò che scrivo è frutto di una memoria confusa, molto confusa. Il film è costruito con la carta carbone sulla classica trama degli slasher movie degli anni Novanta: un college, degli studenti, un maniaco, tanti morti. Le citazioni sono puntuali, perfette come imitazioni, abbastanza prevedibili come esito. Scary Movie è strano perché ricco e disordinato e troppe volte il calligrafismo imitativo soffoca l’invenzione pura. Talvolta è volgare ma mai in maniera veramente liberatoria e a tratti ridi perché la gag è azzeccata ma più spesso ti annoi e dopo un po’ va a farsi fottere anche la gestione narrativa. Sarebbe poco male con un ritmo indiavolato e con un parossistico accumulo di situazioni ma questo non accade. Tu ti godi soltanto la parodia e se le trovate sono divertenti sorridi, se no ti rompi. A differenza dei film della premiata ditta Zaz (Pallottola spuntata, per intenderci) Scary Movie non è una riflessione parodistica sul cinema horror (o di due film soltanto, Scream e So cosa hai fatto), ma solo su quello degli ultimi anni e, dovendo raggiungere i canonici 90 minuti di durata, entrano nel calderone anche Blair Witch Project, Matrix e I soliti sospetti. Per cui il film non funziona per i cinefili né per chi vuole ridere grasso, ma solo per chi ha una (corta) memoria cinematografica ed è di bocca buona. I quattordicenni americani, insomma. Aggiungiamoci poi che ero completamente in botta per la canna e durante la visione avrei avuto problemi anche a dire la tabellina del 2, tanto che della trama non ho più capito un cacchio dopo venti minuti. Boh, questo film non m’è parso granché, ma sospendo il giudizio anche perché c’è un articolone di Cineforum che magnifica la pellicola (in certe riviste i critici devono sempre giustificare la vista persa su saggi pallosi). E com’è ‘sto Dvd? Formato originale, ottimo sonoro e la possibilità di vederlo in lingua originale. Colori pieni e saturi e il nero è nero sul serio, non grigio scuro: Dvd batte Vhs 10 a 0, senza dubbio. Ma il cinema, al cinema, tant’è, è ancora un’altra cosa. Ve lo dice uno che non riesce più ad andarci. (Dvd; 23/4/01)

(Continua – 9)