di Arturo “Potassa” Cravani

vendemmia.jpgChi scrive ha appena finito di lavorare come raccoglitore stagionale d’uva, ovverosia vendemmiatore, assunto con contratto a tempo determinatissimo da un tizio con un cognome che è un pezzo da novanta nell’araldica dell’enologia italiana.

Alle sue dipendenze ho trovato un fattore tuttofare, qualche raro migrante, un gruppo di studenti e una folta squadra di amici miei, che col passaparola avevano invaso i filari del patrizio cultore di vitigni.

In extremis si è aggiunto un ragazzo polacco addetto alla raccolta dei cesti carichi d’uva. Sapeva dire in italiano solo “secchio!”, “basta!” e “vai!”, e via via che imparava una nuova parola assomigliava sempre più al povero Woytila.

Formata la squadra siamo entrati nella vigna del Signore. E qui cominciano le novità rispetto al passato. La vendemmia nell’era dell’intossicazione spettacolare è concepita come una sorta di Grande Fratello. Il fattore non è più un bruto che se ne va a giro con la roncola in cinta, pronto a sbudellare qualche ozioso operaio ingrato. É un aitante tamarro di mezza età che in comunicazione telefonica col Proprietario, rinchiuso nella villa aziendale, fa le nomination per la prossima fase del Reality. Così si decide chi se ne andrà dalla vigna, chi rimarrà nelle grazie del feudatario, chi ha diritto a rientrare a sporcasi le mani con gli acini di sangiovese dietro penitenza.

Il lavoro è strutturato con competenze diverse. Il trattore è manovrato da un trattorista e attraversa una coppia di filari. I vendemmiatori si dispongono nei due filari alla destra e alla sinistra del trattore e tagliano l’uva secondo le disposizioni ricevute: l’uva migliore senza acini marci va nel vino di qualità, quello dei ricchi; i grappoli secchi o muffati sono raccolti in un secondo momento, quando si macina il vino per i poveri. Dietro al trattore si muovono i due operai raccoglitori, che sistematicamente raccolgono i secchi carichi d’uva dalle mani dei tagliatori e li rovesciano nel carrello attaccato al trattore. Il fattore esercita a questo livello un’intensa attività repressiva. Di solito pattuglia i filari, verificando i peccati di omissione dei vendemmiatori e stabilendo le pene, che possono essere colpose o dolose.

Talvolta il fattore passa a una fase di repressione più stretta: salta sul cassone e verifica la qualità dell’uva che precipita da ogni secchio. Non appena individua dei grappoli sospetti, finiti nei bins – i grossi cesti di plastica, in prestito linguistico anglofono — per distrazione o palese sabotaggio dei raccoglitori, il fattore mette alle strette gli svuota-secchi con la pretesa di conoscere il nome del proprietario del secchio, alimentando la triste pratica della delazione. É ovvio che i compagni non fanno i nomi, però prima di cedere sotto tortura ci sono strategie diversificate: una prima mossa è quella di mescolare i contenuti dei secchi tra più raccoglitori; un’altra opzione è quella di infilare il polacco tra i raccogli-secchi, un espediente che riduce l’efficacia dell’interrogatorio (Woytila non capisce le domande e a ogni interrogatorio dice solo “Secchio!” e poi allarga le mani benedicendo le vigne urbis et orbis). Una volta che svuotai di nascosto un carico di grappoli marci che puzzavano come un cane bagnato, la mia strategia, al solito controproducente, è stata quella di rispondere alla domanda del fattore “Di chi è questo secchio?” con l’affermazione materialista “Del padrone!”, identificato come proprietario dei mezzi di produzione, risposta che mi è valsa l’ennesima reprimenda e la conseguente esclusione dalla vendemmia per incompetenza, scarso rendimento e mancanza di gratitudine verso il capitalismo rurale italiano.

In conclusione: un’esperienza formativa e di notevole valore economico, che mi è valsa una busta paga striminzita con cui faticherò a comprarmi due bottiglie del vino che verrà prodotto col mio lavoro.