di Primo Moroni

PrimoMoroni2.jpg5. UNA “NUOVA BORGHESIA” O UNA OLIGARCHIA DIFFUSA?

Con una punta di ironia possiamo prendere atto che abbiamo il discutibile vantaggio di vivere una transizione epocale, una “rivoluzione” interna del capitalismo maturo e che molti dei nostri strumenti, insieme al formidabile bagaglio di memoria, vanno decisamente riaffilati e complessificati.
Tornando a “navigare” con pochissimi skipper amicali e equipaggi dotati indubbiamente di grandi capacità emotive e di considerevoli risorse di soggettività, ma non ancora in grado di essere équipes fredde e determinate, possiamo tornare al ragionamento principale e aggiungere altre considerazioni ai processi in atto.
Io credo che per dare consistenza, contenuto, alla definizione, per alcuni aspetti di tipo “ideologico”, “destra sociale” occorra riflettere non solo sulle interpretazioni fin qui citate, anche se apparentemente trattavano processi più vasti, ma anche e soprattutto di alcune questioni che, per adesso, porrò in forma interlocutoria e cioè di materiali grezzi su cui ragionare e lavorare politicamente.

Abbiamo fin qui delineato una ipotesi che attiene alla tesi del tendenziale e ormai largamente affermato tramonto del modello taylorista-fordista. Un tramonto che trascina con sé interi universi sociali che sono stati la base politica e culturale dell’ultimo secolo. A fronte di ciò vediamo emergere nuove figure sociali e produttive. Si stanno formando una nuova borghesia e una nuova composizione di classe, e molto altro ancora se inseriamo questi cambiamenti nel mutato quadro internazionale. Su questo ultimo punto, e per inciso (ché per parlarne occorrerebbe un seminario apposito), non c’è dubbio che il tramonto dei paesi a socialismo reale ha rimescolato e fatto cadere molte “appartenenze”, ha per molti azzerato gli orizzonti di riferimento e di trasformazione, ha anche “liberato” un’enorme massa di voti moderati che possono assumere potenzialmente valenze più progressiste o, come è probabile, tonalità più “reazionarie”. Ed è anche per questa ultima considerazione che diventa determinante l’analisi dei processi materiali che inducono sia le tonalità emotive che le scelte politiche. (24)
Mario Deaglio, nel testo citato, delinea un quadro della nuova borghesia facendone risalire la nascita al periodo 1975/84 (grosso modo, come si diceva prima, al periodo iniziale dei processi ristrutturativi con le conseguenti politiche emergenziali e i governi di unità nazionale). Caratteristiche peculiari di questi nuovi quadri dirigenti diffusi attengono alle notevoli attenzioni poste nei confronti delle nuove tecnologie, al loro dare importanza prioritaria al capitale umano, alla capacità di dare vita a imprese di piccole dimensioni ma estremamente produttive e, fondamentalmente, come effetto del nuovo modo di produrre, alla tendenza-capacità di ridurre considerevolmente le suddivisioni tra imprenditore e dirigente, tra dirigente e lavoratore autonomo, quando non sia direttamente dipendente. In linea generale si può affermare che i nuovi processi produttivi richiedano a un tempo quote crescenti e un diverso tipo di “capitale umano”, ossia di abilità, esperienza e nozioni. Quindi la partecipazione adesiva del lavoratore al processo produttivo è determinante sia se posta in rapporto alle caratteristiche delle tecnologie flessibili, che come gratificazione / autorealizzazione del lavoratore stesso (ma anche dell’imprenditore).
Non c’è dubbio che le società locali del nord del paese (ridisegnate dal decentramento produttivo) dove i rapporti di lavoro sono per la gran parte familiari, parentali o amicali, sono imprenditoriali nel mentre modificano in profondità l’orizzonte di appartenenza dei lavoratori. E ciò anche se questa ultima conseguenza viene vissuta dai soggetti stessi come recupero di autonomia e come valorizzazione del proprio skill.
Ma questa falsificazione del proprio vissuto non è ovviamente priva di conseguenze. Occorre dire, infatti, che la consapevolezza di essere in possesso di un capitale umano immateriale (abilità, destrezza, flessibilità, capacità decisionale, ovvero il vero significato del termine skill se rapportato alle nuove tecnologie) separato dall’universo di quella che noi chiamiamo “coscienza di classe”, determina una figura sociale che di per sé tende ad annullare le differenze con l’imprenditore, attraverso un processo di autofalsificazione della storica alienazione operaia: “La consapevolezza del processo di capitale umano implica quindi che i comportamenti del lavoratore, relativamente non solo ai consumi e risparmi, ma anche a scelte di carriera, di ulteriore istruzione e simili, siano modulati secondo un ‘piano di vita’ e non sulla base dei redditi istantaneamente percepiti: implica altresì che, nella formulazione e nelle modificazioni di questo piano di vita, vengano accettati l’incertezza e il rischio”. Questa consapevolezza è da considerarsi come elemento oggettivo, verificabile dai comportamenti del lavoratore; è quindi cosa diversa dalla ‘coscienza di classe’. L’esistenza e l’entità del capitale umano si inferiscono dalla capacità di reddito riconosciuta dal mercato ai lavoratori che ne dispongono. Quanto maggiore è la capacità di un individuo di operare con processi produttivi moderni, e quindi la sua disponibilità di capitale umano, tanto maggiore è, per conseguenza, il suo interesse per un sistema di mercato libero che gli permetta la piena valorizzazione economica delle proprie capacità.” (25)
Ma in un largo comparto del mondo del lavoro un humus sociale e culturale così connotato ha, tra gli esiti non secondari, l’effetto di generare un rifiuto “spontaneo” di qualsiasi regolazione del mercato del lavoro che imponga trasferimenti di reddito di natura solidaristica dai lavoratori con redditi più elevati ai lavoratori con redditi più bassi, o dall’insieme dei lavoratori al resto della società.
Parallelamente, le centinaia di migliaia di “nuovi imprenditori” che alcuni definiscono “nuova borghesia” (M. Deaglio) e altri “oligarchia diffusa” (G. Gario, Rapporto Irer 89), non hanno nessun legame con le precedenti borghesie industriali in decadenza (nel caso lombardo-milanese sostanzialmente dissolte nel giro di pochi anni) e sono totalmente privi di un qualsiasi referente ideologico-culturale, non riconoscendosi compiutamente in nessuna delle grandi correnti politiche, religiose, filosofiche.

6. LA CRISI DEL SISTEMA DEI PARTITI, I LOCALISMI E UN NUOVO CETO MEDIO PRODUTTIVO

Sembra persino ovvio osservare che i territori privilegiati del formarsi e del dispiegarsi di questa, per molti versi, nuova “configurazione socio-economica” sono stati quelli compresi nelle regioni del centro-nord industriale. Queste aree che sono state il cuore dello sviluppo industriale nazionale assumono oggi nuove valenze e significato proprio a seguito delle trasformazioni produttive in atto. Come infatti si può dedurre dai lavori citati di Deaglio, Polo, Berti e Bologna e come diventerà, spero, ancor più chiaro nel corso dello svolgimento del mio discorso, l’enorme sconvolgimento intervenuto nell’universo del lavoro ha ridisegnato i confini simbolici di “stili di vita” che hanno dato luogo a nuove gerarchie e nuove forme di cooperazione sociale, che fanno del territorio in un senso ampio una risorsa strategica. Per cui si può dire che oggi il posizionamento territoriale diventa fattore strategico della produzione, ovvero che “l’essere padano significa anche avere la possibilità di produrre meglio”. Appare quindi comprensibile che queste aree siano le più interessate al fenomeno della progressiva crisi del tradizionale sistema dei partiti (26). Una crisi che, date le premesse e le ipotesi interpretative sopra descritte, è sintetizzabile nell’incapacità dei partiti stessi di “fare presenza” negli interessi e negli universi culturali di questa nuova “oligarchia nascente”. Ed è dentro questo vuoto della rappresentanza che si è determinato il fenomeno leghista, con tutti i suoi contorni contraddittori. Un fenomeno elettorale tra i più grandi del dopoguerra europeo e che, se indubbiamente ha il “merito” di avere “sbrinato” il sistema politico italiano, pone nel contempo inquietanti interrogativi sul futuro degli spazi democratici in questo paese.
Ma sembrerebbe un errore pensare che quelli che vengono definiti i “localismi politici” e i “localismi economici” siano caratteristiche peculiari del paese Italia. In realtà processi consimili sono ampiamente diffusi nella Repubblica Federale Tedesca, in cantoni svizzeri, in Austria e in alcune zone particolarmente sviluppate degli ex paesi socialisti (l’Ungheria e la Slovenia per esempio). Non deve quindi sorprendere che esistano a livello CEE progetti ormai operanti di macroregioni europee sovranazionali che includono le aree geo-economiche citate, mentre nelle stesse si verificano fenomeni politico-elettorali consimili al leghismo, che assumono frequentemente (ad es. nel Baden Wuttenberg e in alcuni land austriaci che hanno notevoli somiglianze con la struttura economica lombardo-veneta) colorazioni di estrema destra. Per cui si potrebbe affermare paradossalmente che, per alcuni aspetti, la Lega Nord è persino fattore di contenimento di una spinta sociale che avrebbe connotati ancora più politicamente definiti. (27)
In realtà e per adesso il fenomeno leghista è più “movimento” di quanto non sia “organizzazione”, e sarebbe un errore leggerlo esclusivamente attraverso la trombonesca figura di Umberto Bossi, suo leader carismatico. Ma questo suo essere “movimento” non può ovviamente durare a lungo, e già nell’ultimo anno la Lega ha cominciato a dotarsi delle strutture tipiche dei grandi partiti di massa (scuole quadri, federazioni giovanili, sezioni di studio, ecc.).

7. INQUIETUDINI, SUGGESTIONI, CORSI E RICORSI STORICI

Tutti i governi della repubblica tedesca, dopo il settembre 1930, rappresentavano un regime presidenziale piuttosto che un governo parlamentare. Essi governavano con decreti d’emergenza invece che con la normale procedura parlamentare. Questo enorme aumento del potere d’emergenza era naturalmente in flagrante contraddizione con lo spirito della Costituzione, benché forse non andasse contro la sua lettera…
Nel suo primo periodo esso servì principalmente per investire le autorità esistenti di poteri straordinari per sopprimere quella che, a torto o a ragione, era considerata una minaccia o un pericolo per l’ordine repubblicano. Questa fu certamente l’epoca in cui tutte le forze, che più tardi avrebbero potuto opporsi alla vittoria della controrivoluzione fascista, furono represse nel modo più energico con uso privilegiato del potere esecutivo sia civile che militare, con tribunali speciali e con una generale sospensione dell’amministrazione ordinaria nei tribunali (Karl Korsch, Scritti Politici, Bari, Laterza, 1975).
E se è vero che indubbiamente la “sirena” leghista coagula anche una quota di voti di protesta popolari e proletari (28), è indubbio che ciò che la rende forte è il dato strutturale, il suo essere forma di rappresentanza di un esteso e aggressivo ceto medio produttivo (oligarchia diffusa). D’altronde i suoi esponenti più preparati ribadiscono in continuazione il ruolo di rappresentanza della piccola e media impresa. Così ad esempio Franco Castellazzi che, a Il Giorno dell’ 1/3/91, dichiarava: “Noi siamo per il liberismo della piccola e media impresa, a fianco del siur Brambilla, per dire, e non per quello di Gardini. Perché è nel modo di produrre della piccola e media impresa che noi ci riconosciamo, in cui troviamo i valori di vita, le tradizioni, la cura dell’ambiente che ci appartengono”. (29)
Lo stesso Sen. Umberto Bossi è ancora più chiaro quando afferma che “Noi siamo ostili ai grandi gruppi, ma vogliamo che il liberalismo conviva con la società. Non abbiamo nulla contro il capitale multinazionale, vogliamo salvare altri valori” (Corriere della Sera – 7/11/90) e, successivamente e più chiaramente (su Rinascita), “Il problema politico che abbiamo di fronte è dividere la rappresentanza della piccola e media impresa dal grande capitale”.
Del resto, al Congresso della Lega Nord, la piccola e media impresa veniva assunta come “base sociale e civile contro l’inciviltà dei partiti” e considerata “la spina dorsale dell’economia italiana” (spina dorsale sarebbero appunto, secondo la Lega, i lavoratori autonomi, gli artigiani, i commercianti, i liberi professionisti, gli imprenditori individuali; per i lavoratori dipendenti nel paradiso leghista non c’è posto) (30). Anche se è opportuno osservare che Moioli, nel commentare le dichiarazioni leghiste, si riferisce a una figura di lavoratore dipendente legato al precedente ciclo produttivo, non avendo riflettuto sull’emergere di un tipo di lavoratore in possesso di quel “capitale umano” che al contrario potrebbe benissimo essere conciliabile con i programmi leghisti. D’altronde, le recenti ricerche hanno evidenziato – come vedremo in seguito – che anche una certa quota di lavoratori “tradizionali”, per motivi diversi, sono attratti dall’ipotesi leghista.
Indubbiamente gli esponenti leghisti hanno un “buon polso” dei loro votanti, così come è confermato da approfondite ricerche sul loro universo elettorale. Si veda, a questo proposito, Una tipologia dei simpatizzanti della Lega di Ilvo Diamanti (in “La Lega Lombarda” a cura di Roberto Mannheimer; Feltrinelli, Milano, 1992). Secondo questa ricerca i simpatizzanti leghisti apparterebbero per il 16% ai ceti medi di matrice urbana e industriale (piccoli imprenditori e lavoratori autonomi dell’artigianato e del commercio), per il 15% alla borghesia industriale e terziaria cresciuta in questi anni nei centri medi della provincia, per il 10% alle frazioni “rampanti” delle generazioni più giovani e quindi figli della piccola e media borghesia urbana e industriale, e che sono per buona parte ancora inseriti nell’esperienza degli studi. Per il 13% “rivelano un profilo dai contorni assai netti e riconoscibili: prevalentemente maschi, anziani con un marcato radicamento nella classe operaia e nel lavoro autonomo agricolo della pianura”. Presentano inoltre livelli di istruzione molto bassi, un forte legame con la tradizione cattolica e un orientamento politico sensibilmente piegato a destra. La ricerca cita poi un ulteriore 42% di difficile definizione e raccolto sotto la dizione di “disincantati”, su cui occorrerebbe una riflessione meno generica. In assenza di ricerche più approfondite, si può però affermare che questa ulteriore e consistente quota del 42% comprende sicuramente settori assai consistenti della classe operaia che praticano la “doppia appartenenza” (il sindacato in fabbrica e il voto alla Lega nelle scadenze elettorali). (31)
Ma come è ovvio la rappresentanza (così come la intende, o dimostra di volerla interpretare, la Lega Nord) di questa complessa e diffusa nuova configurazione economica non può che tendenzialmente confliggere con gli interessi della grande impresa che sull’impresa a rete, sulla fabbrica integrata, sulla “disponibilità” del lavoro autonomo ecc… fonda una parte rilevante della propria progettualità. E’ avvenuto cioè che, dopo aver atteso per anni (secondo i suoi raffinati esegeti) l’avvento di un “nuovo rinascimento” e la crescita di una nuova cultura industriale e democratica basata sul ruolo della grande impresa e del “terziario avanzato”, ci si trova davanti a una (apparentemente) repentina rivolta di un “nuovo ceto medio”, che invece denota una consistente antipatia per la grande impresa e un disprezzo ancor più grande per qualsiasi forma di conflitto classista, annichilendo i cantori della “nuova modernità”.
Indubbiamente questa possibilità conflittuale non può che suggerire suggestive analogie storiche con il sorgere del fascismo e del nazismo. Volendo seguire queste suggestioni, si può ricordare quanto scrive Wilhelm Reich in Psicologia di massa del fascismo (32): “Dal punto di vista della base sociale, il nazionalsocialismo era inizialmente un movimento piccolo-borghese, e questo ovunque si manifestasse. Questa piccola borghesia, che prima stava dalla parte dei diversi partiti democratici borghesi (33), doveva aver subito necessariamente un processo di trasformazione interna, che le aveva fatto cambiare politica. La condizione sociale e la corrispondente struttura psicologica della piccola borghesia forniscono una spiegazione sia delle sostanziali uguaglianze che delle differenze fra l’ideologia liberal-borghese e l’ideologia fascista” (34). E, ancora, “Senza la promessa di combattere il grande capitale Hitler non avrebbe mai guadagnato alla sua causa gli strati del ceto medio. Essi lo hanno aiutato a vincere perché erano contro il grande capitale”. Ancora più radicali sono le considerazioni di Karl Korsch quando (nel suo Preludio a Hitler, la politica interna tedesca 1918-1933) (35) afferma: “Quelle forze che conquistarono lo Stato tedesco alla dittatura nazista nel 1933 nacquero e crebbero insieme allo sviluppo di quel sistema politico che generalmente si presumeva fosse uno Stato repubblicano moderno. Sebbene il nazismo non fosse né socialista né democratico, tuttavia nutrendosi degli errori e delle omissioni dei cosiddetti “politici del sistema” ottenne alla lunga l’appoggio della maggioranza della nazione. Risolse sia nel campo politico che in quello economico una quantità di problemi concreti che erano stati trascurati o frustrati dal comportamento non socialista dei socialisti e dal comportamento non democratico dei democratici. Così una certa parte dei compiti che ‘normalmente’ sarebbero stati assolti da un movimento autenticamente progressista e rivoluzionario, fu assolta in maniera distorta, ma ciononostante realistica, dalla vittoria transitoria di una controrivoluzione non socialista e non democratica, ma plebea e antireazionaria.”
Se per Reich era difficile spiegare e contestare l’opinione di coloro che erano “sbalorditi dal fatto che il ceto medio, in quanto non dispone né dei principali mezzi di produzione né lavora con essi, e perciò (n.d.r.) alla lunga non può fare la storia perché deve necessariamente oscillare tra capitale e classe operaia”; oggi che questa configurazione socio-economica intermedia è integrata nel nuovo modo di produrre le merci, nel mentre possiede quote non indifferenti dei nuovi mezzi di produzione (nel senso che la sua funzione appare indispensabile a molte delle grandi imprese nel mentre rappresenta una quota rilevante del PIL nazionale), le sue riflessioni sono qualcosa di più che semplici suggestioni legate alla memoria storica. E se per Reich era assurdo che loro (quelli che non capivano il ruolo del ceto medio) non comprendessero “che il ceto medio, anche se non per sempre, almeno per un periodo storicamente limitato può fare la storia e la fa effettivamente”; noi possiamo per adesso osservare come l’emergere dei localismi politici ed economici un suo piccolo pezzo di storia lo ha segnatamente caratterizzato negli ultimi anni nel nostro paese e in giro per l’Europa delle regioni economiche più sviluppate.
Come è ovvio stiamo giustamente parlando di semplici e un po’ arbitrarie suggestioni storiche e di ricorsi non del tutto probabili, poiché Bossi non pare davvero avere la statura (ma nemmeno la progettualità) dell’ “imbianchino” nazista, né il pur esperto costituzionalista Gianfranco Miglio può illudersi di sfiorare l’imbarazzante grandezza di Carl Schmitt (36). D’altronde appare decisamente una forzatura applicare alla Lega Nord la categoria storica di “modernismo reazionario” (che esprimeva ben più profonde implicazioni filosofiche). Di converso, e per tornare al caso italiano, i governi di emergenza nazionale (con contenuti ogni volta rinnovati) degli ultimi quindici anni, il governare per decreti, la dissoluzione miserrima del sistema dei partiti, la distruzione violenta e non delle opposizioni di sinistra, le sorprendenti simpatie diffuse per la magistratura (che agisce quasi sempre in deroga dello spirito della Costituzione) (37) e il profondo sconvolgimento avvenuto nella sfera della produzione – a cui non fa riscontro una modifica democratica del sistema della rappresentanza – inducono dubbi sul futuro democratico di questo paese e in generale dei futuri assetti europei (38). Di questo pare essere convinto anche Sergio Bologna quando (forse ricordando Karl Korsch) scrive: “Il risveglio prepotente dei movimenti di destra, la loro capacità di penetrazione negli strati popolari e marginali (caso Germania), il riemergere di movenze “operaiste” nelle ideologie di estrema destra, la presa delle tematiche leghiste presso i lavoratori del post-fordismo, sono il segno che qualcuno sta raccogliendo la bandiera del lavoro lasciata cadere dalla sinistra”. (39)

8. FUORI DALLE SUGGESTIONI STORICHE E TORNANDO DENTRO LA NOSTRA REALTA’

Ed è sui nuovi processi produttivi, e sulla conseguente socialità deprivata che essi inducono, che occorre fermare l’attenzione, evitando di interpretare i “nuovi particolarismi” esclusivamente attraverso le categorie suggerite dalle suggestioni e dalle inquietudini storiche, o dare soverchia importanza a tutto il “rumore” (peraltro non sempre inutile per quanto concerne alcune approfondite ricerche sui “localismi”) (40) che è stato fatto in questi anni su una pretesa e profonda necessità, da parte delle società locali del nord del paese, di “ritornare alle origini”, di riscoprire l’oscura e inquietante profondità del “sangue” e del “suolo” quando non il riemergere prepotente delle “piccole patrie”, scomodando magari le ricerche di Eric J. Hobsbawn su L’invenzione della tradizione. (41)
Alla radice di queste riflessioni era e rimane evidente il tentativo di dare una risposta interpretativa ai fenomeni di riterritorializzazine, ai particolarismi e all’emergere dei localismi economici e politici che andavano, via via, verificandosi nel corso degli anni Ottanta. Il nucleo forte di questi tentativi di interpretazione dei processi che Guattari definiva di “riterritorializzazione conservatrice della soggettività”, si riferiva (e si riferisce) all’emergere di una paura, di un horror vacui di fronte ai processi di mondializzazione e globalizzazione in atto nei sistemi occidentali. A questi processi le “società locali” reagirebbero, quindi, riscoprendo le “comunità” e, per questa via, le radici, le origini, le “piccole patrie” e le etnie. Spaesamento e sradicamento diventano quindi le parole chiave attraverso le quali interpretare le nuove ed emergenti tonalità emotive di vasti strati delle società locali e regionali del nord del paese Italia e, per affinità, di altre piccole patrie austriache, tedesche, svizzere, belghe (fiamminga o vallone), ecc.
Seguendo questo percorso era ovvio che riemergesse l’oscura metafora del “sangue e del suolo” (Blut und Boden). Metafora tanto più pericolosa quanto più evocatrice delle tetre contro-utopie del germanismo e della piccola e media borghesia mitteleuropea (quella sì impaurita) che rivolgeva al passato uno sguardo ansioso di riscoprire i fondamenti morali minacciati dalla socialdemocrazia. In quel momento storico, che sfocerà nel nazismo, la libertà, l’unità etnica e la memoria dei “padri” e dei “popoli” veniva paradossalmente contrapposta alla libertà dell’individuo, costitutiva (almeno formalmente) delle democrazie borghesi occidentali.
Il fascismo e il nazismo degli anni ’20 e ’30 furono fenomeni estremi, terminali illiberali e repressivi dell’invadenza raggiunta dalla forma-Stato. In questo senso lo stalinismo, il nazismo e il fordismo politico (anche nella sua formulazione new-dealista) furono fenomeni speculari. Li accumunava il ruolo programmatore e pianificatore raggiunto dallo Stato, il suo porsi come creatore/formatore della composizione di classe che, nel caso del nazifascismo, portava alla “nazionalizzazione delle masse”. Sostanzialmente l’esatto opposto di quanto avviene oggi (di quanto è avvenuto negli ultimi decenni) attraverso le politiche di deregulation, il mito del primato del mercato, la dislocazione extranazionale delle economie, la crisi tendenziale degli Stati-nazione così come si erano formati nell’ultimo secolo (e, si badi bene, degli Stati-nazione e non dello Stato tout-court, che nel caso italiano, giapponese e in parte tedesco continua ad avere un ruolo determinante nella produzione delle rispettive economie).
Qui occorre precisare che, specialmente nel caso Italia, si assiste a una singolare confusione tra le definizioni di Stato-Nazione, di Stato e di Nazione. Ciò soprattutto per quanto concerne la sfera dell’intervento statuale nell’economia. E in realtà il “caso” del capitalismo italiano ha una sua singolarità. Basti pensare che circa il 60% dell’intero Prodotto interno lordo viene realizzato da imprese statali e che quindi molti e ripetitivi (o propagandistici) discorsi sulla “privatizzazione” o sulla decadenza dell’ “interventismo” sono privi di senso. Nel caso Italia si può dire (un po’ banalmente) che abbiamo da un lato un solido “capitalismo di Stato” (tre aziende pubbliche, nei primi quattro posti, hanno un fatturato globale che supera di gran lunga quello delle prime trenta aziende private messe assieme), in mezzo alcune grandi imprese private che godono di ampie protezioni statali e infine milioni e milioni di “sciur Brambilla” delle piccole e medie imprese. In realtà continua ad avere ragione Lapo Berti quando sostiene che “lo Stato è intervenuto (continua ad intervenire) nel settore produttivo come regolatore (norme e condizioni che limitano e indirizzano l’attività produttiva dei soggetti economici), come erogatore (trasferendo risorse alle imprese), come banchiere (accesso al credito da parte delle imprese), come committente (soggetto attivo di contratti e commesse), come imprenditore (produttore diretto di beni e servizi)” (41 bis). D’altronde è bene sottolineare che la lunga fase del thatcherismo e del reaganismo appare avviata al tramonto e che, caso mai, oggi in Europa si assiste piuttosto a una diminuita importanza del ruolo della Nazione. Questo processo è indotto esclusivamente dalla macroregionalizzazione sovranazionale delle economie e dalla tendenziale dislocazione extranazionale della “sovranità”.
Tornando alle “piccole patrie”, appare evidente che tematiche di questo genere sono particolarmente agitate da larghi settori della nuova destra radicale che nel mondialismo (ovvero nei processi di globalizzazione) vede il suo nemico principale (42). Ed è nel più vasto scenario della rinascita dei micro-nazionalismi (ricordando però che ciò avviene quasi esclusivamente nei paesi ex socialisti ed è il prodotto di un preciso fallimento storico-politico, mentre appare una necessità congiunturale determinata dall’inaffidabilità del potere centrale) (43), che si formano le ambiguità interpretative, che a loro volta favoriscono la confusione con le teorizzazioni di destra. Qui, e riferendoci al fenomeno della Lega Nord, si può precisare che i processi di trasformazione produttiva, ampiamente accennati nel corso di questo intervento, e la crisi del sistema dei partiti hanno prodotto una formazione politica che, unificata dal federalismo, riesce a fare sintesi del voto di protesta e degli interessi di una classe estesa quanto mai in precedenza di imprenditori e di lavoratori autonomi. Una formazione che, socializzandosi al rischio di impresa, alle categorie del mercato e alla competizione internazionale, cercava ovviamente nuove regole della politica – mentre la sfera dei partiti storici manteneva sostanzialmente intatte le proprie forme di rappresentanza, basate sulla riproducibilità dall’alto al basso degli stessi assetti organizzativi, sulla governabilità di tipo consociativo, sul partito come cardine dell’agire politico, ecc.
Lo spaesamento di questa nuova classe (o nuova borghesia, o oligarchia diffusa) può essere al massimo riferito al clima culturale e psicologico (se riferito agli individui) in cui vivono i soggetti nell’epoca del tramonto dell’utopia, del ritrarsi dei fini ultimi come guida e fondamento dei comportamenti. Ma se ciò è vero non ci sono dubbi che questa condizione è simile per tutto il resto della società, leghista o meno, nazionale o internazionale.

NOTE

24) Si possono qui ricordare alcune pregnanti riflessioni di un grande e indimenticabile compagno di strada come Felix Guattari: “Si può dire che la storia contemporanea è sempre più dominata dal montare di rivendicazioni di singolarità soggettiva – conflitti linguistici, rivendicazioni autonomiste, questioni nazionaliste – che in un’ambiguità totale esprimono aspirazioni alla liberazione nazionale, ma si manifestano d’altra parte in quel che io chiamerei delle riterritorializzazioni della soggettività. Una certa rappresentazione universalistica della soggettività, incarnata dal colonialismo capitalistico dell’occidente (e a cui faceva riscontro speculare l’internazionalismo, n.d.r.) ha fatto fallimento, senza che si possa ancora misurare a pieno l’ampiezza di questo scacco”. F. Guattari, Chaosmose. F. Guattari è morto nella notte fra il 28 e il 29 agosto 1992.

25) M. Deaglio, cit.

26) E’ noto che il trend elettorale degli ultimi anni vuole un costante calo dei consensi ai partiti tradizionali nel centro-nord del paese, mentre gli stessi recuperano una parte delle perdite nelle regioni del sud. Se è vero che nelle società del nord non c’è più apparentemente bisogno della “politica”, mentre quelle del sud di “politica” sono costrette a vivere, non si può non tenere presente che i processi materiali nelle regioni meridionali sono molto più arretrati che al nord (salvo che in rare “isole”) e ciò determina, ad es., una società locale molto più accogliente e solidale. In questa ottica il fenomeno della Rete di Leoluca Orlando assume i contorni di un “localismo dai sentimenti buoni” ed è inevitabilmente destinata ad assumere i propri consensi soprattutto al sud, ma anche per riflesso in alcune aree geografiche del nord dove permangono residui della precedente organizzazione sociale e produttiva. Parrebbero invece destinati ad un’inevitabile decadenza i “verdi”, che del “local-ambientalismo” astratto e privo dell’humus anticapitalistico hanno fatto la propria bandiera. E’ noto inoltre che le società del sud, nonostante le carenze organizzative, hanno offerto una più consistente cultura della tolleranza nei confronti delle ondate migratorie.

27) Non è infatti casuale che si evidenzi una furibonda concorrenza tra i leghisti e il fascista in doppiopetto Fini. Ma sarebbe un errore leggere delle equivalenze marcate tra i votanti leghisti e la progettualità neofascista. Al massimo ci sono settori leghisti (molto minoritari) che oscillano tra le due formazioni. D’altronde gli stessi missini danno prova di rinnovata vitalità, come dimostrano le recenti manifestazioni romane con la partecipazione di decine di migliaia di attivisti. Diverso è il problema se ci riferiamo ad alcuni casi europei. Due in particolare quelli significativi: il Fpoe (il partito liberale austriaco) di Joerg Haider, i Republikaner di Schonhuber in Germania. Sia l’ideologia dei due leader che i loro programmi politici sono decisamente neo-nazisti e hanno raccolto considerevoli consensi proprio nei land più “produttivi” delle due nazioni. Il Fpoe in particolare è passato in breve tempo dal 5 al 16% (20% a Vienna). All’inizio il Fpoe si era fatto promotore di un nuovo spirito di iniziativa economica in un paese dominato dal consociativismo e dall’industria di Stato. Poi, per allargare i consensi, è diventato il campione del Kleiner Mann, della piccola gente, contro gli stranieri (in Austria, su sette milioni e mezzo di abitanti, vivono 600.000 stranieri legalmente registrati e altri centomila illegali) “che portano via il lavoro e fanno salire gli affitti e la criminalità”. Haider voleva intitolare la sua biografia, uscita recentemente in Austria, Sein Kampf (la sua battaglia), con chiara allusione all’opera di Hitler. Inutile dire che questa opera va letteralmente “a ruba”, mentre è noto che un recente e sia pur discutibile sondaggio in Germania rivela che il 39% dei tedeschi vorrebbe il Republikaner Schonuber presidente della RFT.

28) In un’approfondita ricerca del 1991, basata su centinaia di “interviste in profondità” e su migliaia di questionari operai, in molte fabbriche lombarde il 30/35% degli operai si dichiarò disponibile a votare Lega Lombarda. Il dato è particolarmente significativo se si tiene conto che i questionari riguardavano esclusivamente lavoratori iscritti al sindacato CGIL. Vedi Le passioni e gli interessi dei localismi lombardi, CGIL Lombardia-AASTER, Milano, 1991. La ricerca è peraltro molto importante perché delinea un quadro esauriente delle tonalità emotive delle culture leghiste.

29) Vedi in proposito le più estese considerazioni di Vittorio Moioli ne Il tarlo delle Leghe, a cura della Associazione Culturale A. Gramsci, ed. Comedit 2000, Trezzo sull’Adda, 1991.

30) In Il tarlo delle Leghe, cit. In generale Moioli pare aver ragione, ma la Lega è un fenomeno in continua espansione e ora tocca anche consistenti strati operai. In questa fascia sociale il fenomeno della doppia appartenenza (la tessera del sindacato e il voto alla Lega) è in progressiva espansione. Vedi ad es., ne Il manifesto quotidiano dell’ 8-11-’92, Nel Paradiso del senatur di Paolo Griseri.

31) Questo dato si ricava con chiarezza dalla ricerca Le passioni e gli interessi dei localismi lombardi, a cura del Consorzio AASTER e della CGIL, Milano, 1991.

32) SUGARCo, Milano, 1971 poi 1982.

33) Non c’è oramai nessun dubbio che il profilo geopolitico dei successi leghisti è strettamente intrecciato con le “aree bianche” a egemonia democristiana e di alcuni partiti centristi minori.

34) “Dobbiamo prima di tutto ricordarci che il movimento nazionalsocialista nei suoi primi inizi vittoriosi poggiava su larghi strati del cosiddetto ceto medio, cioè su milioni di funzionari privati e pubblici, commercianti (artigiani, piccole imprese), contadini piccoli e medi”, in W. Reich, testo citato.

35) In Karl Korsch, Scritti politici, 2 voll., Laterza, Bari, 1975.

36) Karl Schmitt, grande giurista e autore di opere di alto livello teorico, fu un esponente di spicco del nazionalsocialismo. A metà degli anni ’70 il suo lavoro fu oggetto di interesse e di un serrato dibattito tra gli intellettuali di sinistra. A questo proposito si veda la divertente e spietata analisi di Piergiorgio Bellocchio (nell’articolo Uomini superiori, sulla rivista Diario N°5, 1987, Piacenza) dedicata a Schmitt e ai suoi estimatori italiani.

37) Su ciò e altri problemi riguardanti la nozione di “emergenza” si vedano sia il numero 33 della rivista Critica del Diritto (Roma 1984), che il testo di Alessandro Bernasconi, La sicurezza penitenziaria, ed. Libreria Cuem, Milano, 1991. Qui basti ricordare quanto osservato da Amedeo Santosuosso (in Critica del Diritto) a proposito della sentenza emessa dalla Corte Costituzionale (n° 15 del 1982): “La Corte Costituzionale infatti, nel conferire al governo e al parlamento il diritto-dovere di non ritenersi strettamente vincolati alla Costituzione, ove occorra fa fronte ad una situazione di emergenza, e nell’affermare l’autosospensione del suo sindacato di legittimità sulle leggi etichettate anti-emergenza, non è stata in grado di offrirci un’attendibile area di riscontro per poter verificare dove inizi la vigenza di questo presupposto legittimante la licenza concessa a governo e parlamento, dove inizi, invece, il puro arbitrio o la riforma costituzionale extra-ordinem”.

38) E’ chiaro che le riflessioni di questo capoverso hanno un valore in parte “provocatorio” ma non del tutto privo di riscontri. Nomi squillanti come Ralf Dahrendorf e Helmut Schmidt hanno espresso a più riprese la paura del “ritorno degli anni ’30”. Più consistenza a questa riflessione è del resto data da Roger Heacock – professore di storia moderna all’Università palestinese di Birzeit – quando afferma che se la seconda guerra mondiale è finita, “la prima torna di attualità” riaprendosi “nel punto in cui si è chiusa”. Come nel ’18 la crisi definitiva dell’impero austro-ungarico e dell’impero ottomano, così alla fine degli anni ’80 la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la simultanea fine del Commonwealth hanno liberato forze prima sottomesse. Come allora, la crisi di un ordine sovranazionale offre la scena alla lava delle etnie e dei contrapposti fondamentalismi (vedi Il manifesto del 14 agosto 1992).

39) In rivista Altreragioni, cit. In aggiunta a quanto detto da Bologna si può osservare, che nelle recenti elezioni tedesche, i tendenzialmente neonazisti Republikaner hanno ottenuto nella regione dell’Assia l’8% dei voti, e li hanno ottenuti in uno storico “bastione” di sinistra, industrialmente e finanziariamente sviluppato, con una forte presenza operaia.

40) Si veda in particolare Le passioni e gli interessi dei localismi lombardi, cit. Sostanzialmente il limite di queste analisi è riferibile alla forte accentuazione assegnata alle “tonalità emotive”, mentre assai meno approfondite appaiono le componenti strutturali che hanno determinato il fenomeno leghista. Recentemente però l’attenzione si è decisamente spostata sull’analisi della rappresentanza di un “blocco sociale di interessi”.

41) Eric J. Hobsbawn, L’invenzione della tradizione, Einaudi, 1990.

41bis) Vedi in proposito Piero Bernocchi, Lo stato delle imprese, in Il manifesto del 18-2-’93.

42) E’ il caso, ad es., della rivista L’Uomo Libero di Sesto S. Giovanni (che esce dal 1981) e dei suoi due maggiori esponenti intellettuali, Piero Sella (tra l’altro appartenente a una nota famiglia di banchieri milanesi) e Sergio Gozzoli, che recentemente (particolarmente il secondo) sono diventati abbastanza celebri attraverso le trasmissioni televisive di Gad Lerner e Maurizio Costanzo. Peraltro il panorama delle pubblicazioni di destra è assai più vasto e variegato e comprende riviste come Elementi o Orion, dotate di notevole spessore intellettuale. Particolarmente Orion ha una sua posizione originale definendosi “nazional-bolscevica” (ispirandosi quindi agli storici weimariani e nazisti “di sinistra” come i f.lli Strasser) e cercando una “terza via” tra destra e sinistra. Certamente la battaglia contro il “mondialismo” è comune, così come quella per un’Europa delle etnie e non dei vecchi Stati nazionali. Per questa via viene recuperata una tendenza antisemita o antisionista, nella misura in cui gli ebrei vengono letti come i principali promotori-artefici del globalismo e del mundialismo, che favorirebbe il dominio di una sola etnia, cioè quella ebraica, e che di conseguenza avrebbe l’effetto di distruggere tutte le altre etnie. Parimenti l’antiamericanismo è giustificato sia per il ruolo di potenza globale che gli USA rivendicano, che per l’affermazione che gli Stati Uniti sono la vera “nazione ebraica”.

43) Non c’è qui lo spazio per una riflessione sulla “questione nazionale” nella storia dei partiti comunisti ortodossi e in URSS (quindici repubbliche federate, ventidue nazionalità oltre il milione di persone, un centinaio di gruppi etnici minori) né tantomeno sugli indirizzi impressi da Stalin, i cambiamenti di Breznev e l’evoluzione a carattere “meritocratico” voluti da Gorbaciov. Qui basti ricordare che i tratti fondamentali messi in luce da Marx ed Engels sulla questione nazionale sono così sintetizzabili:
– La posizione di Marx ed Engels si fonda su una assoluta certezza: il primato della classe su ogni altra categoria storica. La Nazione non è che una categoria transitoria che corrisponde alla necessità dello sviluppo del capitalismo, le cui particolarità, i cui contrasti si attenueranno già con lo sviluppo della borghesia per poi sparire radicalmente con l’avvento del proletariato al potere;
– Nello stadio del capitalismo, lo Stato nazionale è una formazione indispensabile, un ostacolo obbligato sul binario dell’internazionalismo e della scomparsa degli antagonismi nazionali. Una necessità storica, se non addirittura condizione del progresso di tutto il mondo civilizzato. A ciò, molto sinteticamente ricavato dal fondamentale testo di Georges Haupt, Les marxistes face à la question nationale: l’histoire du problème (Francois Maspero, Paris, 1974), si può aggiungere che la bibliografia sull’argomento è sterminata. Un’ottima sintesi del dibattito è contenuta in Quaderni Internazionali n. 2/3, Roma 1988. In aggiunta ci sembra di considerevole interesse quanto sostenuto da Claus Offe nel suo recente Il tunnel. L’Europa dell’Est dopo il comunismo (Donzelli editore, Roma, 1993). Offe, in polemica con molte affermazioni correnti e frettolose, sostiene che: 1) nelle società postcomuniste il ceto politico ha la necessità di dissociarsi dal vecchio regime, specie se c’è il sospetto di averne fatto parte, e quindi il distacco dallo “Stato centrale” diventa indispensabile; 2) poiché le prospettive di un rapido miglioramento economico sono molto incerte, e non è prevedibile che da una politica basata sulla cooperazione economica su vasta scala e sulla divisione del lavoro derivino nel prossimo futuro benefici distribuiti in modo ragionevolmente uniforme, l’accento economico batte molto più fortemente sulla protezione ( delle risorse locali, n.d.r.) che sulla produzione. La crisi economica rende imperativo “conservare e difendere quello che abbiamo” e quindi determina il bisogno di essere protetti da confini forti; 3) La politica di etnificazione viene così a essere il prodotto di un concreto processo materiale, e quindi anche le minoranze interne vengono “vissute” come minoranze esterne di Stati vicini, che sono visti come Stati esteri protettori di queste minoranze. Ogni Stato in cui esiste una minoranza ha motivo di temere che lo Stato limitrofo protettore di questa minoranza intervenga in suo favore, intervento che al limite potrebbe giungere all’annessione del territorio abitato dalla minoranza. Così facendo verrebbe messa in discussione la politica di etnificazione come difesa delle risorse. Con una lieve distorsione logica, questo timore può servire da pretesto all’esclusivismo etnico e alla repressione preventiva. Ovviamente il discorso di Offe è molto più complesso, ma da questa breve sintesi si può intuire come il suo percorso sia utile a sfatare analisi troppo frettolose.

(2-CONTINUA)