y.jpgdi Giuseppe Genna

Da quanto tempo non leggevo un poliziesco, un thriller, un noir o una spy story di così penetrante bellezza come è frecciabr.gif Y (Marsilio, € 16) di Serge Quadruppani? Da anni. Colui che qualcuno ha definito “l’unico autore NIE francese” (un paradosso che non è per niente ironico, alla luce di Y) pubblicò Oltralpe, nel 1991, un libro di profezie che non si sono autoavverate: si sono avverate e basta. Profezie politiche, strali sociologici ad alta velocità, prefigurazione di intrecci a ogni livello, soprattutto letterario. Poiché è qui la lingua a farla da padrona, ed è il motivo per cui da anni un libro “nero” non mi esaltava tanto – qui abbiamo a che fare con una potenza linguistica che la traduzione di Maruzza Loria restituisce intatta. E’ una struttura tipicamente à la Le Carré, quella di Y, messa al servizio di una capacità di scrittura che lascia esterrefatti, incantati: una scrittura che smuove indignazione, ammirazione, desiderio di emulazione, incanto.
A mio modestissimo parere, Y si mangia qualunque thriller di questi anni, e non solo perché varca e distrugge il genere (ad altezza ’91), ma perché arriva in traduzione italiana nel 2008 con un impatto fortissimo sul genere romanzo: i tempi sono maturi perché si capisca bene cosa ha fatto Quadruppani. Basta praticare il confronto con “gli svedesi” che vanno di moda: più che Stieg Larsson, il Persson della saga Olof Palme. Ne escono distrutti: il confronto con la prosa e la sapienza letteraria di Quadruppani è insostenibile.

yquadruppani.jpgInizio facendo un esempio. Bastano le prime pagine per rendersi conto della bravura e della capacità di verità che sa veicolare l’autore francese (sia chiaro: uno dei migliori di una nazione che avrà pur vinto l’ultimo Nobel per la Letteratura, ma la cui narrativa pare addormentata da anni, bruscamente risvegliata occasionalmente da casi letterari, mentre ronza la mosca Houellebecq, che è l’unico elemento costantemente privo di sonno nel contesto transalpino).
In incipit di Y, abbiamo un tossico che parla come Shakespeare e che alla seconda pagina, in monologo che non è né interiore né esteriore, si esprime a queste altezze:

Insomma, in ogni caso, è così che vedo la cosa. Che percepisco questa estremità del mio piccolo mondo, questo confine nord della giungla d’asfalto dove erro, uno degli orifizi del reale dove, sei mesi fa, penetravo ogni giorno, e che mi facevo fino alla feccia a cui appartenevo. Da una parte, le Halles, queste viscere di vetro zeppe di cianfrusaglie e unte dall’olio delle patatine macdo, si avvolgono su se stesse nell’autocontemplazione inebetita dei centri commerciali a digestione lenta. Dall’altra boulevard Barbès, collegato al ventre di Parigi attraverso l’intestino gracile della metro, svuota il suo surplus di uomini non assimilati dalla città pulita.

Geografia hugoliana e debordiana di Parigi: un centro di poetica che è metatemporale, perfora Ottocento e Novecento, trapassa le notazioni meditative sui Passages chez Benjamin – è un’allegoria infinita che però anche finisce, e finisce precisamente col coincidere con se stessa. Questa è davvero Parigi in un tempo epico, cioè è Parigi come è sempre stata: la capitale dell’epica moderna. Non a caso, quegli “uomini non assimilati” vengono sottoposti a una pratica tipica dell’epica stessa, che è quella dell’elencazione. Ci sono tanti tipi di elenco. Ma sfido chiunque a trovarne uno del genere nella letteratura ad altezza 1991 (fatto salvo forse Tom Wolfe):

Neri in boubou, neri ben vestiti, neri in tuta da lavoro, neri grigi di fatica. Arabi troppo vecchi per parlare il verlan. Rasta di Montreuil, zulù d’Argenteuil. Kurdi marxisti-leninisti. Sciiti di rue Jean-Pierre Timbaud seguiti dall’ombra morbosa di una donna in sudario, graffitari di periferia travestiti da americani, neo-barboni armati di cani rognosi, di imbonimenti benpensanti e di astio alcolico. Turisti sfuggiti ai loro pullman come larve pallide cadute dai bozzoli, in marcia verso il fantasma mummificato di Pigalle. Proletari bianchi affezionati agli ultimi banconi in zinco, vecchietti con le occhiaie, popolino in via d’estinzione, cacciato dalle sue riserve del centro dall’ondata modaiola e impiegatizia. E ancora, manoleste in abito discount, schiavi zingari che maneggiano un cartone unto, impiegati smarriti, intellettuali guardoni…

Uno resta senza fiato. Tanto più che Quadruppani, nell’intero corso del libro, non dismette minimamente questo piano linguistico, sapientemente intercalandolo alla ritmica dell’azione e della struttura narrativa. Poichè Y è di fatto un libro d’azione. E’ più semplice descrivere la tipologia di questa azione, piuttosto che definire il genere a cui Y apparterrebbe. Noir? Polar? Spy story? Hard boiled? Nulla di tutto ciò. L’azione è quella de La tamburina del succitato Le Carré, in cui si innesti la trilogia cinematografica (non i libri) di Jason Bourne (antelitteram). Di qui: un intreccio appassionante e di ampio respiro. Con l’evidente abilità e sapienza di chi sa contrarre l’ampio respiro in un fiato da centometrista. Y poteva benissimo contare il doppio delle pagine di cui consta (255, nella versione italiana).
E’ un’ulteriore abilità di Quadruppani, quella della compressione di uno scenario abnorme, un intrigo di intelligence e un teatro geopolitico che sembrano dare per scontato, nel ’91, il crollo delle Twin Towers e quello che ne è seguito. Spostando in continuazione i punti di vista, usando narratori in prima persona e stacchi che introducono al narratore onnisciente, lo scrittore francese ci colpisce con una gragnuola di fatti e nozioni e colpi di scena e considerazioni che miracolosamente mantengono la lettura lineare, per cui la trama si snoda appassionante.
Gli stili trapassano questi punti di vista.
I personaggi si scambiano i linguaggi.
Nel frattempo emergono scandali colossali da retrobottega della politica diventata geocrimine, specchio dell’epoca che 17 anni fa attendeva nel suo vorace apparato gastrico il boccone Quadruppani, che, di fatto, è l’emblema di noi tutti: il boccone eravamo noi tutti e l’autore di Y si è fatto avanguardia di una collettività che non capiva bene cosa sarebbe accaduto dopo il crollo dei regimi dell’Est europeo.

Qualche elemento di trama. Claude Varga è un giovane tossico spilungone, ma è anche figlio di uno strano banchiere, scomparso con un bottino ambiguo, a cui ha allegato anche la sua segretaria molto particolare, Annie. La scomparsa del banchiere Varga mette in agitazione (e non si capisce perché, prima che si arrivi a capirlo fin troppo bene) i servizi segreti di mezzo mondo. Ora, quando una spy-story vive di questo, cioè del “casino organizzato” (categoria calcistica introdotta dall’allenatore Fascetti nei Settanta), di solito si sfiora il ridicolo. In Y, no: non solo è tutto plausibile, ma è tutto vero. E’ vero perché lo abbiamo sperimentato in questi precisi termini negli ultimi dieci anni. Continua a essere vero anche mentre sto scrivendo.
La ricerca di Varga il banchiere, e della sua preziosa ma inquietante refurtiva, implica l’avvento sulla scena non solo dei servizi francesi, di quelli italiani in tempi di quasi-Tangentopoli, di quelli arabi e di riflesso di quelli americani. Implica infatti l’avvento di due personaggi di un triangolo che fa la storia del libro: Adèle, sorella di Annie, e l’ex capitano delle forze speciali francesi, Emile K., probabilmente uno degli attori più memorabili che io abbia mai incontrato nelle mie letture di spy-story. Emile K. è tarato psichicamente e, della sua tara, fa una forza veritativa quasi insostenibile. Non soltanto per l’accorgimento grazie a cui si stampa nella testa di qualunque lettore, consistente nell’abolizione apparente (per tutto il libro, tranne che per le pagine finali) di qualunque emozione. Qui siamo all’inversione della tecnica postmoderna per cui si attacca l’icona fumettistica dandole una vita filosofica – è proprio il contrario, Emile K. sembra uno Jean Reno in Ronin o in Léon o in Wasabi, che prima è filosofo e poi, in quanto tale, è fisicamente inattaccabile e suprematista. Schizoide, con un passato di cui è imperdibile la rivelazione (che conosciamo attraverso un rapporto di interrogatorio illegale e disumano, in pieno stile Guantanamo), Emile K. è l’antipotere per eccellenza: è la visione esterna al potere, che ha assaggiato il potere.
Quadruppani è uno scrittore che schizza improvvisamente acido corrosivo sulla società, in forma di ironia. Nulla a che vedere con l’ironia di difesa, l’ironia postmoderna. Esistono due tipi di ironia: una dall’alto (intellettualoide, snob, derivante dalla saccenza di chi dispone di una supposta quanto intollerabile capacità panottica sul reale); e una dal basso (che coincide molto spesso con l’indice del bimbo che dice semplicemente che il re è nudo). Di questa seconda specie di ironia, Quadruppani è uno dei maestri europei. Il suo disdegno per la società spettacolare si manifesta attraverso folgorazioni (anche filosofiche, perfino condotte contro di sé: “Se l’angoscia stringe l’epigastrio per espellere tutte le altre certezze tranne il malessere, la melanconia insiste nel ricordare che la felicità, che non è là, esiste”) e allegorie che lasciano interdetti. Una di queste è sicuramente il personaggio dell’agente segreto italiano Guido Caronia: un disgustoso obeso che si esprime in un gergo barocco, eccessivo, mortalmente insidioso, capace di ribaltare l’orrorifica passione ideologica dell’enogastronomia in qualcosa che allude a un abisso da Hellreiser, soprattutto quando trapassa in considerazioni universalistiche da brivido, che paiono estratte da Il ventre dell’architetto e da Prospero’s Books:

“Crede forse che ignori le bellezze dell’amore? Secondo il vostro piccolo comprendonio piallato dalle scemenze psicanalitiche, mangerei per ‘compensare’, no? Sarei bulimico per ‘carenza affettiva’”.
Maneggiava certe parole con la pinza delle virgolette uditive.
“Si ricreda. Le mie gonadi e le mie papille vivono in pieno accordo. Inzuppare biscottini, gustare passere, assaporare lingue ripiene, mi piace. Mi piace sentire nel mio stomaco il rumore di marea che fanno i cibi liquidi quando me ne lavoro una. Mi piace stringere contro il mio grembo bacchico un ganimede magro e flessibile, e godere della differenza delle nostre proporzioni. Mi piace veder sparire sotto lo strapiombo della mia pancia il viso paffuto di una ragazzina, o i tratti elegantemente tirati di una puttana matura e di gran classe. Mi piace sentire che al momento di spandere il mio seme, i succhi gastrici scorrono, il piloro si esalta, il transito accelera. Mi… Guardi, ecco il suo innamorato.”

E’ questo obeso putto del male che porta avanti la critica al protocollo psicoanalitico e ci commina una lezione indimenticabile sulle rovine e sulle inerti pietre del Colosseo, a cui si rivolge così, qualche secondo prima che venga massacrato un terrorista che colpisce all’aperto (nel ’91…) in piena Roma:

“Oh, pietre! Voi almeno non mi tratterete da malato o da fascista. Sapete bene dove vado a ingozzarmi, sprofondando sempre più nello stupore muto da cui non esco che per compiere il mio sanguinoso e beato compito. Sapete dove voglio arrivare, fabbricandomi un fegato più grasso di quello di un’oca del Périgord all’avvicinarsi del Natale, soffocando a poco a poco il mio respiro sotto il peso di calorie mai bruciate… Pietre mie, voi mi capite, perché vi amo per voi stesse! Che m’importa infatti del monumento che dovreste comporre? Scena di dibattiti di politici farabutti alla Cicerone, o pista di macelli vari – spiedini di gladiatore, grigliata di martire, gelatina di apostolo, guazzabuglio di guidatori di carri travolti in curva. Che mi importa ciò che si è voluto erigere? La vostra detumescenza è bella. Il senso vola via, l’involucro resta. Quel che voglio salutare attraverso di voi, mie dolci pietre grigie, è uno sforzo verso la mineralizzazione del mondo.”

E così ciò che dovrebbe rappresentare il Male (in quanto ne è uno dei demoni in servizio) sistema politica e religione, attraverso memorie evidentemente mutuate da Ben Hur, impartendo la lezione della mineralizzazione dell’umano, del diventare pietra di questo disgustoso tubo digerente che parla, e che parla a nome di tutti gli italiani (nel libro) e di tutti gli umani (appena esce dal libro).
In pratica, Y è una miscela perfettamente dosata di suspence funzionale all’esplicazione di diversi livelli di discorso. C’è una visione del mondo che non è nichilista, ma è sicuramente antispettacolare. Contro l’utilitarismo, Quadruppani scaglia la ricerca anarchica dell’utile, nel senso in cui è utile alla sopravvivenza di un homo sapiens lo strappo furtivo di un brandello di carne dalla preda di gruppo. C’è poi una conoscenza precisa (magistralmente precisa) dei movimenti che fanno il quadro geopolitico, delle peculiarità delle agenzie di intelligence, delle loro tecniche di condizionamento e delle strumentazioni militari. C’è un discorso religioso su cui Quadruppani ironizza finché è tale, fermando tuttavia ogni ironia o giudizio quando esso diventa metafisico (una trance sufi è in grado di spalancare seriamente le porte dell’estasi o di difendere da un violento condizionamento mentale). C’è una profonda conoscenza dei moti dell’animo umano, e in particolare dell’amore, che viene messo sotto spettrografo, per cui ogni momento, anche il più improbabile, tradotto in sessualità grossolana o in romanticismo adolescenziale, è funzionale alla situazione finale, che mi pare quasi un calco del capitolo postumo di Notre Dame de Paris, con un anti-Quasimodo attaccato al di là del tempo alla sua anti-Esmeralda.
E c’è la “Y”. Quando si intitola un romanzo con una lettera (si pensi a V di Pynchon o a Q di Luther Blissett), si compiono due operazioni in contemporanea: si impedisce la traduzione del titolo stesso; e, proprio in ragione dell’intraducibilità o come causa di essa, si usa la lettera alla lettera, come una runa di un alfabeto scomparso. Se è vero che possiamo leggere Q come una circolarità interrotta e V come la tensione all’unificazione di due poli e la Coppa della ricerca del Graal e l’organo riproduttore femminile (per ammissione dello stesso Pynchon), è al di là delle intenzioni di Quadruppani che si interpreterà la costante “Y”, lettera che sostiene la logica del libro. Essa è il simbolo che rappresenta l’eredità più letteraria di questo action movie à la Rabelais: cioè la più volte richiamata Lettera rubata di Poe. E tuttavia la “Y” è imbuto o stomaco che tutto digerisce, compresenza dei due simboli genitali pronti all’unione, sorta di Tao laicissimo che ci indica due strade che si uniscono in una parabola discendente – che è poi di fatto tutto ciò che il libro Y è.
A differenza dei suoi colleghi svedesi, Quadruppani spacca ogni gabbia letteraria con l’invenzione. Larsson e Persson non arrivano a toccare le corde di una tradizione (quella continentale) ed è per questo che sono costretti a una sorta di illuminismo combinatorio che destruttura, via via, il paradigma della paranoia, del complotto, della cospirazione. In Quadruppani, non è che ci sia complotto: c’è il semplice funzionamento politico, che è proprio quella macchina funerea descritta ingranaggio per ingranaggio. Per questo motivo, tale descrizione risulta vera e attuale e addirittura predittiva, rispetto ai nostri tempi e a quelli a venire. Quadruppani la sa molto lunga in termini di geopolitica, ma non è questa competenza che gli consente un’universalità che Persson, per esempio, non raggiungerà mai. A Quadruppani non interessa demistificare o mistificare, bensì naturalizzare o “mineralizzare” la macchina del potere. La sua sarebbe una meditazione grave, davvero barocca, se non venisse condotta con la leggerezza di un James Bond che sorbisce un Martini ai bordi di una scintillante piscina, esprimendo per battute fulminanti un disgusto parmenideo per gli ospiti e il party a cui è stato invitato. Poiché la verità è che nessuno ha invitato Quadruppani a questo party, che è la sua propria storia: ci si è trovato in mezzo e non ha pensato nemmeno per un attimo di erigere barriere, che dessero appiglio per onorificenze alla sua opera di militanza intelligente.
Anche per tale motivo, in Y si respira libertà. Quadruppani è un uomo libero, un po’ come lo erano certi stoici in molte ere tra loro diverse, eppure accomunate tutte da una sgradevole costante: erano abitate dal fenomeno umano. Una lievissima indifferenza tra utopia e negazione è il filo del funambolo che Quadruppani si è scelto per varcare il vuoto disumano dei tempi che ha vissuto e che sta vivendo insieme a noi. Sa, quindi, ricavare per i lettori una forma appassionante di divertimento che non è affatto spettacolare, poiché a ogni mossa ci si potrebbe fermare e dedurre una strategia alternativa, che porta a considerare pesantemente la bolla in cui il pianeta è immerso. Un colpo di spillo e, puf!: Quadruppani ha fatto esplodere la bolla. Ciò ha conseguenze letterarie, politiche e immaginali assai penetranti.
Romanzo polimorfo, ma realizzato con una precisione cartesiana, nello snodare eventi e azioni. Romanzo psicologico, ma anche antipsicologico. Allegoria che torna su se stessa e si presenta come verità su questo occidente che, oggi, appare ben più minuscolo di quanto poteva apparire a chi non lesse Y quando uscì in Francia. Teatro di personaggi indimenticabili, sorte di Gilliat fuoriusciti dai Lavoratori del mare e che si muovono in contesti da Jean-Paul Gautier. Critica sociale che non risparmia nemmeno se stessa. Y è un romanzo che dimostra come il “genere nero” aveva da dire e ha ancora da dire, se si colloca in una prospettiva epica – se cioè viene scritto da un autore che ha lo sguardo penetrante e i polmoni capienti, quale Serge Quadruppani certamente è.

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