di Danilo Arona

000.jpgVivo in campagna, bassa piemontese, da più di vent’anni. Scelta comoda, scomoda, egoista, da spernacchiare: se ne può dire quel che si vuole. Non è questo il punto.
La realtà è che, davanti ai miei occhi e con una spinta accelerativa sempre più crescente negli ultimi tempi, il paesaggio è cambiato. In peggio, ovvio. Brutalizzazione, alberi abbattuti, annullamento del verde a favore del cemento. Tra un po’ vivrò in campagna circondato da un perfetto paesaggio (periferico) urbano. Cavoli miei, me la sono voluta.
Tutti i giorni vado su e giù in macchina. In certi periodi dell’anno, soprattutto al mattino, l’occhio assonnato mi cade sulla superficie dei campi (per inciso tutti coltivati) dove svolazzano, se uno zefiro è attivo, decine di sacchetti di plastica. Stanno lì per mesi. Poi, se arriva una bufera di vento (elemento naturale sempre più attivo per effetto del surriscaldamento del pianeta), la plastica emigra altrove. Non la si vede e magari per un po’ i campi paiono puliti. Poi il ciclo ricomincia.

Sulla mia strada per il lavoro l’occhio cade ancora su dune gibbose di rifiuti speciali che ogni giorno cambiano forma e dimensioni. Aumentano, se è il caso di precisarlo. Stanno in mezzo al verde, a uno sputo dalla città.
Non è che tutta questa roba la veda solo io. La vedono tutti e ognuno vi si confronta da par suo. Chi ci sta per rassegnazione o per connivenza, chi s’incazza e chiusa lì, chi strepita con sua moglie. Il risultato finale è che tutto va bene.
Vanno bene la brutalizzazione del paesaggio, la distruzione dell’ambiente, la cementificazione a tutti i costi, le centinaia di rotonde alla francese in mezzo al nulla, i pesticidi dal campo al piatto, e via demenzializzando su tutte quelle varianti che il sistema (politico) in primo luogo ci spaccia per modernità. Mettendoci dentro, nel concetto di “modernità”, pure gli espropri di campi e giardini altrui a favore delle “opere pubbliche”.
In buona sostanza, va bene l’autodistruzione del pianeta.
Non c’è nulla da denunciare in realtà se la maggioranza delle persone è d’accordo con tale concetto di “modernità”. In una nazione dove esistono addetti ai lavori che sostengono nel 2008 la positiva ricaduta dell’Eternit sulla nostra salute (evidentemente a Casale Monferrato nessuno schiatta di mesotelioma pleurico) e altri che affermano l’inesistenza dell’agricoltura biologica, temo che una delle poche vie – se non l’unica – per svegliare qualche coscienza dormiente sia quella dell’arte. Quella indipendente, destinata a perdere, ma che non si rassegna.
Non per niente l’arte e le autentiche creatività da sempre sono considerate “nemiche” dai regimi. Che in Italia sia in vigore un certo “regime” della narcolessia per procura mi sa peraltro che non ci piova. Considerazioni che mi vengono di getto, trovandoci inquietanti assonanze “geografiche”, alla visione del cortometraggio 32 del regista veneto Michele Pastrello. Ventinove minuti, coraggiosi, di cinema “contro” in cui il simbolismo, spesso il limite di analoghe operazioni, ha finalmente lo spessore e la coerenza della sua ragion d’essere.
32 si apre su una lunga, estenuante sequenza tipica di certo cinema thriller: una bella e giovane ragazza che sta fuggendo terrorizzata in un anonimo paesaggio di campagna, piatto e un po’ desolato, inseguita da un uomo che intende aggredirla e seviziarla. Pastrello ce lo fa capire quasi subito: non si tratta di una sequenza spiccatamente di “genere”, non si evidenziano i trucchetti faciloni dei vari Faccia di Cuoio che spesso impongono anche agli italiani i loro modelli stelle e striscie e, pur nella sinuosa concitazione dei movimenti di macchina, l’occhio cattura l’anomalia del panorama in cui si svolge la scena. E’ una campagna violentata, “legalmente” se è il caso di ricordarlo. Sul punto di scomparire, sopraffatta dal cemento.
Lei, la ragazza, è la Madre Terra. Lui, il bellimbusto dal bell’aspetto e dall’impeccabile abito manageriale, è il “progresso”. La violenza avviene, inevitabile. Ma, dopo averla subita, la ragazza si divincola, fugge nel suo rifugio. Prepara la sua vendetta, anch’essa inevitabile come lo sarà l’ultima di Gaia nei confronti dell’umanità che l’ha sfruttata e distrutta.
Ce lo ricorda Pastrello nelle note di presentazione a 32:

Tra il 1990 e il 2002 il trasporto merci su gomma in Italia ha raggiunto il 76% della copertura dei movimenti continentali. Nel 1997, nella regione Veneto, il traffico totale era pari a 247 milioni di tonnellate, ovvero il 20% dell’intero traffico nazionale. Sulla tangenziale di Mestre, nel decennio ’92/2002, il traffico dei veicoli è incrementato del 42%. A oggi il numero dei veicoli circolanti sulla tangenziale di Mestre è di circa 155.000 al giorno, traffico divenuto insopportabile per la tangenziale stessa. Soluzione a questo problema è il Passante di Mestre, grande opera infrastrutturale richiesta a gran voce dalle categorie economiche. Il tracciato dell’autostrada attraversa ampie zone rurali. La rete stradale veneta conta circa 55.000 km di asfalto. Nell’arco di quarant’anni il Veneto ha perduto il 20% della superficie agricola totale; la diffusione delle infrastrutture stradali e delle aree industriali è avvenuta a scapito della paesaggio e della natura. La lunghezza della nuova autostrada Passante di Mestre sarà di circa km. 32.

Spiegato così il titolo, occorre sottolineare – ancora una volta – che resistono solo più ormai generi popolari di (apparente) intrattenimento quali il thriller e l’horror per portare avanti concrete operazioni di denuncia e protesta civile contro le quotidiane coltellate subite dal territorio italico, tanto al nord che al sud. Dalla letteratura (Carlotto e Saviano, per citare i primi che vengono alla mente) ad esempi molto più isolati (un’esiguità di motivazioni essenzialmente economiche…) di cinema all’apparenza di genere, l’uso della fiction per parlare alla più vasta platea possibile delle mortali contraddizioni dell’attuale società è forse l’unica strada percorribile.
Pastrello lo fa, senza moralismi o facili scorciatoie. S’infila con in-coscienza lynchiana nei meandri non facili dell’allegoria per raccontare l’Apocalisse in atto (la proliferazione cancerosa della materia a scapito dell’anima) e la dispercezione paranoide della realtà (raccontata nel suo primo, altrettanto efficace cortometraggio Nella mia mente). Un’allegoria niente affatto personale, nella quale chiunque può specchiarsi. Sulla strada quindi di grandi maestri quali Romero, Carpenter e Cronenberg che da una vita abbaiano alla luna, rischiando quasi sempre di essere scambiati per pazzi isolati lanciati soltanto all’inseguimento dei propri incubi.
Micidiale paradosso che ammicca agli ultimi giorni: i profeti sono dei pazzi. Anni fa capitava a tutti coloro che lanciavano allarmi sul surriscaldamento globale. Spernacchiati, sbeffeggiati, isolati.
Ti può capitare anche in Italia se protesti contro il dilagare delle “opere pubbliche” che non servono assolutamente a nulla.
“Ho tentato di fare qualcosa di diverso e personale, qualcosa che sentivo in prima linea perché l’autostrada e la brutalizzazione del paesaggio la stanno facendo nel mio territorio natale”, così confessa Michele. Ma il Veneto stuprato e la Val di Susa stanno ormai ovunque. Nella mente, nella paura, nella notte.