Da Costa Gavras in giù
di Igino Domanin

cacciatorediteste.jpgNel volgere del secondo millennio le promesse dell’immaginario utopico della modernità sembravano poter essere adempiute. Il paradosso dell’utopia realizzata e della conseguente fine della storia apparivano come l’esito positivo e irreversibile della globalizzazione dei mercati, dei cicli economici espansivi che poggiavano sull’uso aggressivo della leva finanziaria, dell’esautoramento della sovranità lenta, costosa e burocratica dei vecchi stati-nazione.
Il sogno di una nuova economia dove potessero convivere i vantaggi di un’illimitata crescita economica e di una liberazione dalle fatiche ataviche del lavoro sembrava sul punto di avverarsi. Il turbocapitalismo degli anni novanta, caratterizzato, per esempio, negli USA da un’ascesa senza precedenti, sia per volumi sia per durata, del prodotto interno lordo e degli indici di borsa poteva essere interpretato come il sintomo di una trasformazione radicale degli stessi presupposti economici tradizionali.

L’epoca del lavoro immateriale, basata sull’infrastruttura delle reti digitali, sui flussi interminabili di denaro, e sulla delocalizzazione della produzione, soprattutto industriale, su scala planetaria, stava determinando una straordinaria mutazione antropologica. Una New Economy, appunto, che esaltava la flessibilità del lavoro, che premiava la creatività e l’intelligenza piuttosto che la bruta prestazione meccanica. Un passaggio epocale che segnava la definitiva uscita dalla gabbia d’acciaio del fordismo e l’ingresso nei nuovi falansteri del funky business. Il futuro sarebbe appartenuto alle no-sleeping company, come nel casi di una dotcom sorta nel Nordest che mise in pratica il precetto di un’organizzazione del lavoro che eliminasse i contrasti e le barriere che separano l’arco temporale della vita e i paletti della giornata lavorativa. I dipendenti potevano scegliere quotidianamente i tempi e i modi in cui lavorare: potevano dormire, fare la toilette o usare la palestra o la sauna, sempre all’interno dello stesso luogo produttivo. Un dispositivo produttivo, insomma, che funziona sul concetto che ogni attività pratica può determinare un valore economico. Giocare, divertirsi, conoscere persone divenivano, quindi, prestazioni che possono generare risorse valide per le finalità dell’azienda. La distinzione tra vivere e lavorare era fatalmente obsoleta e, quindi, cadeva.
Nel nuovo scenario, le risorse strategiche fondamentali divenivano le capacità umane per eccellenza, ovvero il talento di usare con efficacia il proprio linguaggio, le proprie conoscenze e le proprie emozioni. Una svolta che s’insinuava nelle pieghe più profonde della condizione umana, che affondava, perfino, nelle radici neurobiologiche della vita; cioè, là dove le tecnoscienze hanno rivelato che, da un punto di vista fisiologico, hanno sede i processi caratteristici della nostra specie. Se la capacità di elaborare e maneggiare simboli e informazioni dipende, infatti, da un indissolubile legame con gli assetti materiali della nostra costituzione bio-fisica, allora è possibile concludere che il nuovo ciclo economico della globalizzazione metteva al centro, come risorsa produttiva, la vita stessa. E’ molto significativo come, in Italia, parte della migliore ricerca filosofica contemporanea dai contributi rilevanti di Agamben ed Esposito, fino alle innovative riflessioni di antropologia filosofica di De Carolis e Virno abbia individuato nell’ontologia della vita la lente focale tramite cui osservare i rivolgimenti e i conflitti della nostra società.
Questo aspetto, davvero radicale, del nuovo regime che governa il rapporto tra saperi, poteri e produzione nella nostra società non è, però, avanzato secondo i binari progressivi unidirezionali di un’ingenua, fallace e deteriore filosofia della storia. L’utopia realizzata, infatti, assomiglia molto più a un nuovo tipo di distopia à la Huxley de Il Mondo Nuovo. Non si tratta di nostalgia per l’Età del Ferro del fordismo, dove regnava una drastica disciplina dei corpi e della condotte individuali; dove il paternalismo del vecchio Welfare regolava i piani di vita dalla culla alla tomba; dove, come raccontano i formatori aziendali più anziani, negli anni sessanta nelle fabbriche si chiedeva ancora il permesso per fare pipì, oppure, negli uffici, e se due impiegati erano sorpresi a chiacchierare dal loro responsabile venivano prontamente zittiti dal battere sulla scrivania di un paio di colpetti del cappuccio della stilografica. Ma neanche di mitizzare l’Età dell’Oro della nuova economia; anche perché ai più comincia a non sembrare tanto aurea. Al contrario, gli inediti e traumatici risvolti del nuovo sistema economico richiederebbero il soccorso di una teoria critica, in grado, di mostrare il rovescio negativo dell’attualità.
Il film di Costa Gavras in uscita, in questi giorni nelle sale italiane, col titolo Cacciatore di teste è un emblema feroce della crisi che sta attraversando il modello trionfalistico che il neoliberismo dell’ultimo ventennio del secolo scorso. Il film affronta un aspetto inedito e controfinalistico delle distorsioni patologiche del modello ideologico neoconservatore. In questo caso, infatti, a patire le conseguenze della ristrutturazione capitalistica non è la manodopera, ma il management. Un ingegnere, specializzato nella progettazione della produzione della carta, viene licenziato in seguito a una fusione tra due grandi aziende del settore. Dopo una disperata ricerca del posto di lavoro, decide, attraverso un ingegnoso sistema, di eliminare fisicamente tutti i suoi concorrenti e di uccidere il manager di un impresa del settore, per poter insediarsi al suo posto. Il film descrive la condizione di una famiglia della middle class, che precipita progressivamente in comportamenti prossimi al delirio. Anche il figlio del protagonista, privato dell’uso di Internet per via delle difficoltà economiche, compie, per esempio, clamorosi furti di software.
L’erosione della sicurezza e l’avvento della società del rischio investe anche i ceti medio-alti. Il ventre della vecchia società dei “due terzi”, quella in cui la formazione di un grande e articolato ceto medio forniva la base di legittimazione delle liberaldemocrazie occidentali, è scoppiato. Da un lato c’è la moltitudine caotica ed eterogenea di coloro che lottano, con alterne e imprevedibili fortune, per il reddito in un quadro privo di garanzie, dall’altro la remunerazione eccezionale della ricchezza finanziaria e immobiliare che impone ciecamente il proprio interesse rispetto al resto della società. Si potrebbe, quindi, pensare che ci troviamo di fronte a una situazione esplosiva e a una prossima levata di scudi della nuova forza-lavoro contro i poteri dell’Impero? Niente affatto. Lo scoppio della bolla speculativa del Nasdaq non ha avuto gli effetti sociali del crollo del ’29. Si è trattato di una crisi economica, benché gravissima, che è scoppiata come una guerra strisciante e a bassa intensità. Non si tratta di chiudere gli occhi rispetto al fatto che la crescita economica degli anni novanta ha creato un aumento della ricchezza e ha, comunque offerto delle nuove opportunità di lavoro, ma di comprenderò però, che essa ha avuto anche dei costi molto alti, che rischiano tra poco di divenire insopportabili; del resto, la spia più grave della crisi è appunto nel fatto che le forme di opposizione e di critica alle controfinalità dell’operare della finanza e dei mercati è priva degli spazi pubblici tradizionali e la forme mediatizzate dell’opinione pubblica vigente sono spesso occupate dai più biechi interessi economici: la crisi, insomma della comunità, come presupposto dell’agire, e, al contrario, l’uso della comunità come bene riproducibile e scambiabile.
In particolare, come viene, per esempio, in luce nel bel film di Costa Gavras, i meccanismi di downsizing e di delocalizzazione stanno provocando pericolosi fenomeni distruttivi. La dissoluzione dello spazio pubblico e delle condizioni tipiche dell’agire collettivo, determinano il regresso a un comportamento inopinatamente ferino dove invece di combattere insieme, ci si scanna per le briciole. Il film è curiosamente satirico, benché si basi su un impianto tipicamente noir e abbia per protagonista un assassino seriale e paranoico, soprattutto quando riesce a mostrare come il disagio psichico e i fenomeni di dissociazione mentale non siano più proprietà individuali, bensì costellazioni ambientali. Il regista ha infatti utilizzato delle straordinarie immagini pubblicitarie, che appaiono disseminate nel set e che sottolineano in modo sordo, ma enfatico, il collassamento della frontiera tra il mondo psichico e la realtà esterna. Sono presenti come detriti dell’attività mentale, concrezioni occasionali e residue, sorta di mineralizzazioni dell’anima. Sono immagini che parlano come degli slogan muti e subliminali, così come succede in molti casi di advertisng imperniato sulla tacita e condivisa riconoscibilità del logo, e che suggeriscono come la relazione tra mente e mondo sia sempre più critica, al limite della patologia. Una società colpita a morte, nei più intimi strati della sua psiche, proprio dagli strali che provengono, come ha brillantemente definito Robert B. Reich in un suo fortunato best seller, dalla condizione paradossale dell’infelicità del successo.
Tra i produttori del film di Costa Gravas ci sono anche i fratelli Dardenne, i quali con opere come Rosetta o L’enfant hanno costruito una poetica filmica in grado di percorrere un cammino artistico nel quale il realismo sociale può tornare a essere, in modo credibile e non ideologico, la matrice di uno stile. Bisogna chiedersi, però, verso quale tipo di realismo critico può andare adesso l’arte attuale, poiché il modo d’essere della realtà è abitato da un nucleo psicotico e delirante, e le forme dell’esperienza si costituiscono mediante una compenetrazione indissolubile di reale e di possibile. Se un tempo ci fu, per esempio, una stagione importante del cosiddetto “romanzo industriale” che rappresentò l’alienazione del neocapitalismo italiano con autori notevoli come Ottieri, Volponi o Bianciardi, ci si potrebbe allora chiedere: in che misura, nel caso lo fosse, è possibile oggi una rappresentazione critica del capitalismo cognitivo?

[Questo testo è stato pubblicato sulle pagine de l’Unità il 22.2 scorso]