di Goffredo Fofi

fofi2.jpgUn film racconta la storia degli Usa con sguardo disincantato e tuttavia epico, Gangs of New York, dell’ìtaloamericano Martin Scorsese, che a New York è cresciuto e alla città ha dedicato già dei bei film. Ma non è importante, Gangs of New York, solo per i suoi valori estetici quanto per il modo attuale di leggere la storia di quel grande paese. Un modo che è bensì fortemente “europeo”, più europeo che mai, per questo regista che qui pesca da Shakespeare, da Victor Hugo, da Dickens a piene mani. Anche nella convinzione che il distacco di quel grande paese dall’Europa è stato lento e faticoso, poiché ondate di migranti dal Vecchio Mondo hanno continuato ad arrivare nel Nuovo, lottando con le prime ondate per il loro “posto al sole”.

Scorsese racconta la guerra delle bande, “nativi” contro irlandesi, a metà Ottocento l’ondata nuova e più forte. Gli unici veri “nativi” da quelle parti erano stati i pellirosse, respinti a Ovest e perlopiù massacrati dai poveri arrivati d’Europa, quei veri nativi che avevano venduto l’isola di Manhattan a migranti europei per un tozzo di pane e le solite quattro collanine dì vetro offerte da un popolo pieno di furbi magliari. A metà Ottocento, assistiamo a una guerra di bande dove le bande sono anche quelle della borghesia, della polizia, di tutti i poteri e sottopoteri ufficiali; e mentre uno Stato ancora fragile è lacerato da una tremenda guerra civile che esige il sangue dei giovani e impone la coscrizione obbligatoria. Un alto prezzo di morte in una guerra tra fratelli, che predica nuove fratellanze ma intanto squarta e calpesta, violenta e divora.
Scorsese ricorda agli “americani” – cioè agli statunitensi, che da sempre credono di essere solo loro gli aventi diritto a questo nome; e anche di dire statunitensi non dovrebbe bastare, poiché ci sono gli Stati Uniti del Messico, quelli dell’Argentina, del Brasile, del Canada… – che la loro storia di ieri è ugualissima a quella, che so, della ex Jugoslavia di qualche anno fa, o di altre consimili storie di nazioni nate o morte di guerre tribali; che la loro nazione è nata da un connubio peggio che pericoloso, ma forse come tutte le nazioni, tra malavita e politica, un incontro che oggi è di nuovo al potere in tantissimi paesi, con ben poche eccezioni, dalla Russia a certi paesi arabi e, ma sì!, anche all’Italia e ai medesimi Usa. Guerre barbariche sempre, perché, infatti: dov’è la civiltà? Forse dalla parte dell’imperialismo belga, o inglese, o francese di ieri? O “americano” di oggi?
Ma, si dirà, dalla metà dello scorso secolo a oggi molte cose sono cambiate, e l’America non è più la stessa. Appunto. Cosa è diventata l’America (Usa), oggi? C’è stato un periodo non molto lungo in cui è stato possibile pensare alla democrazia statunitense come a un grande modello. Ci ha creduto Tocqueville, depresso dalle monarchie europee; ci ha creduto Hannah Arendt emigrata per sfuggire il nazismo; mentre un grande filosofo e pedagogista molto wasp (bianco, anglosassone, protestante) come John Dewey ha pensato che fosse possibile coniugare Educazione e Democrazia, che fosse possibile cioè arrivare alla piena democrazia attraverso l’educazione (così come, da noi, ma in esilio, Maria Montessori pensava che il problema della pace fosse, nella sua essenza, un problema di educazione, che solo con l’educazione si sarebbe potuto conquistare la pace).
I “se” non servono a niente, ma se fossero vivi oggi, forse Tocqueville, Arendt, Dewey, la penserebbero ancora sulla democrazia statunitense come ai loro tempi? Il mondo è radicalmente cambiato, soprattutto, con rapidità agghiacciante, negli ultimi trent’anni, e sono cambiati i dati stessi del problema. È possibile riconoscersi sempre in una parte, anche se molto minoritaria, degli Usa, naturalmente, come in una parte ahinoi sempre più piccola dell’Italia e di altri paesi, e “internazionalisti” bisogna continuare a esserlo anche se tra pochi. Però, come in Italia, anche negli Usa la democrazia sembra aver fallito ed essere diventata né più né meno che uno dei modi di gestire il potere più tranquillo di altri, qualora l’economia tiri – e spesso la si fa tirare, se si è un paese molto forte, costringendo gli altri ai propri voleri e interessi, e se la crisi è grave con la vecchia ricetta della fabbrica delle armi, dell’industria della guerra. (È ancora un film, Bowling a Columbine, a raccontarci l’America armata dell’interno, una cultura della paura e della violenza.)
Col consumo e col consenso si domina senza vere difficoltà; ma se cala il consumo? Intanto, per quel che riguarda gli Usa, è indubbio che la loro massima abilità è stata, almeno dal 1945, e negli ultimi anni con un successo, in Italia, che forse non ha equivalenti in nessun altro paese del pianeta, quella di riempirci di loro immagini e loro modelli che pian piano sono diventati anche nostri. L’Amerìcan way of life di ieri aveva molte cose per piacerci (pensiamo ai modi complessi in cui ci veniva presentata da certi scrittori registi cantanti artisti amatissimi da noi perfino più dei nostri migliori), ma ha ancora quelle particolarità, quelle ragioni per attrarci? La violenza con cui ha finito per volersi imporre a tutti e dovunque, negli ultimi trent’anni, e dopo l’ultima crisi del Vietnam e la sconfitta dei movimenti negli anni settanta, ci ha mostrato bensì un paese sempre meno simpatico, un’umanità sempre più robotizzata o infelice e una assenza di proposte di “un mondo migliore” invero sconcertante per la mediocrità dei suoi postulati e l’insincerità e frigidità dei suoi esempi. Sguardi e parole di Bush rappresentano con efficacia tutto questo.
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In un numero di fine anno dell’indispensabile Internazionale ho visto una foto, su due piene pagine a colori, del fotografo di guerra Scott Nelson: sulla destra, davanti la soglia di una povera casa dalla povera porta segnata con il gesso di un misterioso “F2”, un giovane uomo barbuto, le mani dietro le spalle, con alle spalle un bambino che è presumibilmente suo figlio e che è scalzo mentre lui è in sandali, fronteggia con pacifica tranquillità e dignità tre figure enormi e incombenti, sulla parte sinistra della foto. Si tratta di tre soldati statunitensi sovraccarichi d’armi e in divise mimetiche mostruosamente rigonfie, dai volti paffuti e di scarsa espressione, che in gesto tra di paura e aggressività puntano mitragliette più che moderne.
Sono ancora “uomini”, costoro? È questa “l’America” che vorrebbe imporre al mondo il suo way of life? Elsa Morante avrebbe detto: di qua, nella foto tra i poveri e disarmati sta la Realtà, di là l’Irrealtà. Di qua l’umano, o quel che ancora ne resta, con le sue bellezze e le sue brutture – la vita e la morte, l’amore e il dolore, la fame e la fatica, e magari anche il terribile dell’umano che si annida nelle passioni e che porta all’odio. Di là, l’essenza del non-umano, le armi più moderne (e già Auschwitz e Hiroshima hanno indicato tanti anni fa cosa fosse Irrealtà) e la televisione (l’educazione via media, la cultura della manipolazione del consenso). Ma quel che è ancora più grave è la forza di corruzione che sulle altre culture questa cultura del consumo, dell’alienazione, della robotizzazione, della violenza ha finito per avere. E non è oggi affatto esagerato dire che la cultura statunitense, il potere statunitense stanno portando il mondo alla sua, forse definitiva, rovina. No, non è affatto esagerato. Per tutto questo, oggi, “non possiamo non dirci anti-americani”.

Da Lo Straniero n. 33, marzo 2003