Giuseppe Pinelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 17 Oct 2025 04:18:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli uomini pesce, la resistenza quotidiana e una speranza che non finisce https://www.carmillaonline.com/2024/11/28/gli-uomini-pesce-la-resistenza-quotidiana-e-una-speranza-che-non-finisce/ Thu, 28 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85623 di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, ad Aulla, così gli “uomini pesce” sono delle apparizioni, sorte da leggende e dicerie del Polesine, che accompagnano l’intera narrazione e l’intera vicenda di Gli uomini pesce, un romanzo davvero avvincente e ben congegnato, intriso di una narratività ipertrofica che non ti lascia scampo. Così è descritto l’uomo pesce, chiamato anche Homo Bracteatus, come compare in alcuni disegni e ritratti di Ilario Nevi, partigiano, artista, regista e intellettuale ferrarese dalla cui morte, nell’estate 2022, prende avvio la narrazione: “L’essere era vagamente antropomorfo, le sue posizioni erano più o meno quelle dell’uomo vitruviano, ma la testa, bianca e priva di collo, era quella di un pesce. Uno squalo. No. Un pesce inclassificabile, indescrivibile, che dava l’idea di uno squalo ma era altro. Gli occhi erano neri. Neri. Di un nero abissale. Pozzi profondi milioni di anni, profondi quanto il tempo, e nel lontanissimo fondo di quei pozzi dovevano ruotare gorghi che trascinavano ancora più in basso, ancora più indietro, più indietro del tempo stesso.”

Si tratta di un essere che appare nella notte (e, durante la lotta di liberazione, sembra schierarsi dalla parte dei partigiani attaccando i tedeschi), che appartiene a storie e leggende del territorio e che pare uscito da una “guida ai draghi e mostri in Italia” anni Ottanta della SugarCo. Ilario li aveva visti in notti terribili di agguati dei fascisti e di appostamenti, di fughe e di nascondigli; essi, infatti, appartengono profondamente al Delta del Po e fanno parte della sua arcana ed arcaica storia. Ne sono l’essenza, gli spiriti guida, i misteriosi e demonici custodi. Sembra che abbiano quasi la stessa funzione delle apparizioni degli Ufo nel già citato Ufo 78, di cui Wu Ming 1 è coautore: come qui afferma il personaggio dell’antropologa Milena Cravero, vedere gli oggetti volanti non identificati equivale a un desiderio di utopia, di “altrove”, “un altrove assoluto, un luogo che non c’è”, e ciò “significa non accontentarsi dell’esistente”. Probabilmente anche le apparizioni degli uomini pesce rappresentano un desiderio di utopia, di altrove, di un luogo che non c’è: forse un Delta del Po finalmente liberato dall’oppressione fascista e nazista.

Uno dei temi portanti del romanzo di Wu Ming 1 è infatti la continuità dell’oppressione da cui non ci si può liberare; allora, di fronte a questa continuità non si può fare altro che opporre l’immaginazione e l’immaginario che prendono le forme di una strenua resistenza da portare avanti giorno per giorno. Personaggi resistenti, in questo senso, sono Ilario, sua nipote Antonia Nevi, geografa dell’università di Padova e il marito di lei, Arne detto Sonic, un musicista statunitense di origine svedese. L’azione narrativa principale si ambienta, come già affermato, nel 2022, precisamente tra la fine di luglio e quella di agosto, mentre ulteriori finestre narrative si aprono sul 1969, sul 1973, sul 1943-45 e sul 1981. Antonia e Sonic, dopo la scomparsa del grande partigiano e intellettuale, si muovono tra Ferrara e il territorio del Delta quasi ridisegnandone la geografia e la cartografia, offrendo una inedita mappatura del territorio in funzione di Ilario, della sua lotta e della sua resistenza eletta a ragione di vita. In virtù di questo movimento dei personaggi che diviene incessante detection, lo scrittore riesce a “cantare la mappa”, come egli stesso scrive nella sua introduzione alla raccolta di racconti del collettivo Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare, tutti ambientati nel basso ferrarese, cioè a raccontare un territorio “com’è, com’era e come sta per diventare”.

E così, il personaggio di Ilario Nevi, morto a novantanove anni, ha dovuto lottare e combattere contro l’oppressione nazifascista e la sua continuità: in primis con la continuità strisciante del fascismo nelle istituzioni repubblicane e poi con un cambiamento di faccia di quella stessa oppressione che non si cura di niente e nessuno, cioè il sistema capitalistico generatore di amministratori del territorio senza scrupoli che non fanno altro che cementificare e distruggere gli spazi naturali devastando la costa emiliano-romagnola, erigendo resort e alberghi a uso e consumo – sembra – degli oppressori di un tempo, i ricchi tedeschi che a partire dagli anni Sessanta scendevano a frotte in vacanza sul mare Adriatico. La persistenza del fascismo nella storia repubblicana appare d’altronde come un vero e proprio Leitmotiv del libro: ad esempio, in uno scorcio narrativo ambientato nel 1969, si pone l’accento su come Marcello Guida, già sotto il fascismo vicedirettore della colonia di confino politico di Ventotene, nel 1969 sia questore di Milano, nel momento in cui Giuseppe Pinelli ‘precipita’ da una finestra della questura pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana. Mentre, in un altro punto del libro – siamo adesso nel 1973 – Ilario e il suo amico Erminio, anch’egli partigiano, discutono proprio di questa continuità e, a proposito del tentato colpo di stato di Junio Valerio Borghese del 1970, così si esprimono: “- Se a fuss stà par nuàltar, uno come Borghese non era ancora in giro nel ’70. – Neanche nel ’50. – Lo avremmo fatto secco nel ’45, a dirla tutta”.

I personaggi, quindi, avvolti da una speranza che sembra non finire mai (e che Antonia riceve come un’eredità da suo zio Ilario), si battono incessantemente contro un’oppressione a sua volta infinita: prima il nazifascismo, poi la sua demoniaca continuità nelle istituzioni repubblicane, fra bombe e stragi, poi le devastazioni naturali, le cementificazioni che durano fino a oggi e preparano il terreno alle inondazioni e ai disastri del nostro tempo, fino alla malagestione dell’emergenza Covid, che ha provocato infiniti strascichi, incomprensioni e inimicizie. Per raccontarci questa resistenza continua Gli uomini pesce utilizza un modo narrativo dal carattere enciclopedico e si realizza in una tensione totalizzante che abbraccia diversi aspetti della società, della cultura e della politica. La narrazione assume un aspetto polifonico e si apre a una pluralità di voci nel testo e di stili e registri diversi (uno più narrativo, uno più poetico e uno più saggistico) che corrispondono alle voci dei diversi personaggi come, ad esempio, quando a parlare in prima persona è Antonia, quando è Ilario, quando invece è il mefistofelico dottor Stegagno, nel suo lungo racconto. D’altra parte, il romanzo possiede anche una inesausta intertestualità verso altre opere degli stessi Wu Ming e di altri autori: vi sono riferimenti, nella trama, al già citato Ufo 78, a un altro romanzo solista di Wu Ming 1, La macchina del vento e al suo più recente “oggetto narrativo non identificato”, La Q di Qomplotto nonché al Pendolo di Foucault di Umberto Eco, a L’Agnese va a morire di Renata Viganò e all’opera di Giorgio Bassani (che compare anche come personaggio). Dal momento che Ilario è stato un noto regista e documentarista, incontriamo numerosi riferimenti anche al cinema, non solo italiano e non solo coevo alla produzione di Ilario; protagonista, fra le citazioni cinefile del libro, è Sylvia Scarlett (1935) di George Cukor, distribuito in Italia col titolo Il diavolo è femmina, perché Antonia assomiglia molto a Katherine Hepburn interprete del film (così sappiamo più o meno come immaginarcela). Un lungo inserto narrativo è poi costituito dal memoriale di Ilario, presentato come un dattiloscritto ritrovato, pieno di parole cancellate e illeggibili, costituito da appunti numerati in cifre romane che lo fanno curiosamente assomigliare a Petrolio, il romanzo inedito e incompiuto di Pier Paolo Pasolini, composto da una congerie di “appunti” e edito dai filologi soltanto nel 1992, a diciassette anni dalla morte dell’autore.

La natura enciclopedica del libro abbraccia, come già accennato, anche temi di stringente attualità, come il cambiamento climatico e l’incapacità di saperlo affrontare (incapacità da cui nascono i disastri e le alluvioni che sono sotto gli occhi di tutti), o gli strascichi dell’emergenza Covid. Allora, sembra quasi che vengano mescidati sub specie narrationis diversi argomenti già trattati in forma saggistica negli articoli apparsi su “Giap”, il blog di Wu Ming, a firma dell’intero collettivo o dello stesso Wu Ming 1. L’emergenza climatica, ‘normalizzata’ dai media e resa inoffensiva e quasi ‘abituale’, si trasforma in apocalisse incombente nei pensieri di Antonia, nel momento in cui, in un ristorante, sta leggendo un giornale in cui si parla del caldo record di quell’estate. Allora – osserva il personaggio (e, con lei, l’“autore nascosto” Wu Ming 1) – “verità parziali come quelle dei meteorologi, una volta immesse nei media, diventavano fattoidi, riempitivi semiotici, infine spazzatura verbale: l’anticiclone delle Azzorre, l’anticiclone africano, El Niño, La Niña… Tutto era addomesticato, legato a contingenze, spiegato solo con fenomeni magari prolungati ma passeggeri”. Come Antonia, anche la narratrice-autrice Helen Macdonald, in Io e Mabel (H is for Hawk, 2014), trovandosi a sfogliare un giornale in un bar, si imbatte in notizie terribili sui cambiamenti climatici riferite come se niente fosse (i ghiacci artici che si stanno rapidamente sciogliendo, gli ecosistemi sull’orlo del tracollo) e la situazione quotidiana viene subito proiettata in una dimensione apocalittica ed ecodistopica.

Un pregio di Gli uomini pesce (d’altra parte già riscontrabile nell’opera collettiva Ufo 78) è senz’altro poi quello di riuscire a creare cortocircuiti fra realtà e fantasia: Ilario, Antonia e Sonic sono presentati alla stregua di personaggi reali tanto che viene la tentazione di andarli a cercare in rete. Anche i titoli dei film realizzati da Ilario sono talmente verisimili da far sorgere il dubbio se esistano veramente; lo stesso si può dire dei libri di Antonia o dei dischi di Sonic, corredati di un’accuratissima bibliografia fantastica. E vorrei chiudere proprio con questo magmatico cortocircuito fra realtà e fantasia, che Wu Ming 1 dispensa con maestria quasi ad ogni pagina e che, per poco, non mi coinvolge personalmente. Antonia Nevi – si dice nel romanzo – aveva presentato il 21 novembre 2019 alla Biblioteca Ariostea di Ferrara (Ilario era tra il pubblico) il suo saggio, in cui analizza la caccia al famigerato killer e bandito “Igor il russo” che nella primavera del 2017 si nascondeva nel Delta del Po (fatto reale), dal titolo geniale di Igor mortis. Ebbene, esattamente una settimana prima, il 14 novembre 2019, alla Biblioteca Ariostea, avevo presentato la bella traduzione delle Metamorfosi di Apuleio realizzata dall’amica Monica Longobardi, docente di Filologia romanza a Ferrara, e avevamo avviato una discussione sulle riletture contemporanee di Petronio e Apuleio. Peccato, davvero. Soltanto per una settimana non ci siamo incontrati con Antonia e Ilario e per un soffio i nostri destini non si sono incrociati.

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“Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR” di Alessandro Bertante https://www.carmillaonline.com/2022/02/14/mordi-e-fuggi-il-romanzo-delle-br-di-alessandro-bertante/ Mon, 14 Feb 2022 22:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70522 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le prime azioni delle Brigate Rosse. Bertante incentra la sua narrazione sulla fase aurorale delle BR, quando queste ultime erano ancora uno dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare, e neppure particolarmente violento. Come l’autore sottolinea in una sua intervista a “Fahrenheit”, il romanzo ci offre delle immagini assai lontane da ciò che potremmo immaginarci oggi pensando alle Brigate Rosse, associate sempre all’efferatezza dei cosiddetti “anni di piombo” nonché al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Le BR che emergono dalle pagine di Mordi e fuggi sono un gruppo extraparlamentare impegnato soprattutto in atti dimostrativi e altamente radicato nelle fabbriche e nei quartieri più popolari e proletari, nei quali contribuiva anche all’occupazione degli stabili: «Eravamo il gruppo estremista responsabile degli attentati incendiari ai padroni ma anche uomini e donne che lavoravano nei quartieri e si facevano volere bene dai proletari».

Il personaggio di Alberto Boscolo – continua l’autore nell’intervista – si ispira a uno dei due brigatisti delle origini che hanno lasciato quasi subito la lotta armata e che non sono mai stati identificati. Non sarebbe azzardato, perciò, definire Mordi e fuggi (il titolo viene dalla frase che i brigatisti scrissero sul cartello appeso al collo del dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini durante il suo ‘sequestro-lampo’) come un romanzo storico che mette in scena uno spazio e un tempo preciso: Milano fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. E allora, sotto i nostri occhi, fra le lotte e le contestazioni operaie e studentesche, scorrono alcuni degli eventi più tragici e luttuosi di quel periodo come la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, o l’assassinio di Giuseppe Pinelli. Gli eventi reali (in cui incontriamo i veri protagonisti di quegli anni, Renato Curcio, Mara Cagol, «il Mega» alias Alberto Franceschini) accaduti in quel periodo non sono però scrutati per mezzo di uno sguardo freddo e distaccato, ma vengono raccontati con partecipazione emotiva da un personaggio che, in essi, si trova immerso fino al collo. Perché il ventenne Alberto Boscolo, come già accennato, non è poi troppo diverso da altri personaggi di Bertante: irrequieti fino al limite della ‘dannazione’, immersi in un universo sociale contemporaneamente amato e odiato, tormentati dalle proprie scelte passate e future, condannati a osservare la realtà per mezzo di uno sguardo ipersensibile e partecipato (caratteristica, questa, che Mordi e fuggi – offrendo per di più uno spaccato storico reale – ha in comune con il “New Italian Epic” delineato da Wu Ming 1).

Probabilmente, anche lui è un «sopravvissuto» come Alessio Slaviero, personaggio io narrante che incontriamo in altre opere dell’autore, da Nina dei lupi (2011) fino a La magnifica orda (2012) e Estate crudele (2013). Un personaggio attanagliato dalla solitudine, ‘eversivo’ cultore dell’erranza metropolitana, incanaglito abitatore di soffitte e mansarde nel centro di Milano. Come Alessio Slaviero o come il protagonista de Gli ultimi ragazzi del secolo (2016), Alberto Boscolo compie lunghe camminate per Milano tratteggiate come vere e proprie imprese epiche. Lo sguardo ipersensibile di questi personaggi attua una vera e propria trasfigurazione della realtà; Boscolo, come Slaviero, si immagina di essere un cavaliere errante, un guerriero epico che combatte per la libertà (non a caso, nel libro viene spesso richiamato il paradigma mitico di Robin Hood). La stessa sintassi, frammentata in sintagmi lenti e solenni, dominati dall’anafora, mima l’incedere della narrazione epica (si legga, ad esempio, questa frase: «[…] siamo coraggiosi e temerari, siamo sprezzanti del pericolo. Siamo le Brigate Rosse»). La camminata si trasforma allora in un procedimento stilistico che, guardando a modelli illustri, permette il dipanarsi dell’incedere narrativo. Comunque, a monte delle erranze metropolitane (che, dalla flânerie ottocentesca fino alla «nomadologia» di Deleuze e Guattari possiedono una forte impronta sovversiva) dei personaggi di Bertante, più che l’epica, molto probabilmente, c’è il romanzo dell’Ottocento. Le stesse camminate metropolitane si avvicinano a quelle di diversi personaggi dostoevskijani, a cominciare da Raskol’nikov. È lo stesso Boscolo, del resto, a paragonarsi al protagonista di Delitto e castigo in un impeto di “mitomania” letteraria, in un momento in cui, dopo la scoperta e la cattura di alcuni suoi compagni, si chiude in casa sentendosi braccato:

Bruciai nel lavandino tutti i documenti in mio possesso: volantini, carta d’identità falsa, comunicati delle BR. Ma ancora non bastava, dovevo sedarmi per calmare la tensione prima di trasformarmi in una specie di caricatura di Raskol’nikov, privo di qualsiasi senso di colpa o tormento esistenziale ma comunque febbricitante e imprigionato fra le quattro mura di una mansarda. Scesi in strada e, muovendomi come una spia in territorio nemico, percorsi un centinaio di metri per raggiungere la bottiglieria di corso Genova, come al solito affollata di gente. Entrai e comprai una fiaschetta di grappa da mezzo litro. Tornato a casa, cominciai subito a bere, stolto e metodico fino a ottenere un poco di tregua dai pensieri ossessivi. Mi addormentai ubriaco, sdraiato sul piccolo divano della cucina.

Pure se «caricatura» di Raskol’nikov (i modelli alti sono sempre irraggiungibili), Boscolo si muove in spazi molto simili a quelli del personaggio di Dostoevskij: la strada, spazio di incontri buoni o cattivi, una soffitta, piccola e stretta (simile a una bara o a una tomba secondo Bachtin), le osterie dove si reca a bere e dove si dischiudono nuovi incontri e nuovi percorsi narrativi. La ‘letterarietà’ del personaggio è indiscutibile: esce in preda all’angoscia, va in una bottiglieria affollata e compra della grappa per poi ubriacarsi da solo in casa, azioni che davvero non compierebbe un lucido militante delle BR in clandestinità, col rischio di essere arrestato. E, parlando di Dostoevskij, non si può non ricordare I demoni (ispirato alle vicende politiche e sociali che ruotano attorno alla cellula rivoluzionaria di Nečaev) le cui atmosfere sembrano assai presenti in Mordi e fuggi mentre lo stesso Boscolo potrebbe apparire come una «caricatura» del ‘demonico’ Stavrogin. E dai personaggi dostoevskijani Boscolo sembra mutuare anche la sua angoscia devastante che, ubriaco o febbricitante, gli fa percorrere dimesse spazialità urbane (anche i personaggi ‘angosciati’ dello scrittore russo sono spesso caratterizzati come febbricitanti).

Lo spazio in cui avviene l’azione narrativa di Mordi e fuggi, come già osservato, possiede una collocazione precisa: Milano, che il personaggio percorre in lungo e in largo, dal centro alla periferia. I luoghi in cui avviene la narrazione sono sempre affrescati con precisione, dalle periferie ai quartieri del Giambellino e di Lorenteggio, da Piazza Duomo a via Tadino fino a Piazza Fontana. Il romanzo si apre con Boscolo che, in una fredda mattina di novembre, sta facendo volantinaggio all’ingresso di una fabbrica sulla circonvallazione ovest, vicino alla casa dei genitori che ha lasciato da tempo. Anche lo stesso spazio milanese, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, assume connotazioni quasi mitiche, perennemente caratterizzato come freddo e avvolto dalla nebbia; uno spazio e un tempo – sembra – ormai sconosciuti e dimenticati: «Faceva sempre molto freddo in quegli anni, ogni giorno le città si risvegliavano al buio, coperte da una fitta nebbia che la luce dei lampioni non riusciva a spezzare». Del resto, si tratta dello stesso spazio tratteggiato ne Gli ultimi ragazzi del secolo in cui, in forma autobiografica, lo scrittore ripercorre la sua infanzia e adolescenza (la casa natale, anche qui, si trova vicino alla circonvallazione ovest; ma echi autobiografici sono presenti in quasi tutti i romanzi di Bertante: i nomi dei personaggi Alessio e Alberto, non a caso, hanno le stesse due lettere iniziali del nome Alessandro). Anche la Milano dell’infanzia, ne Gli ultimi ragazzi del secolo, appare sempre connotata da inverni freddissimi, allontanati in un ricordo che si fa mito, e la stessa città finisce per somigliare a quella, nebbiosa e malinconica, che vediamo in Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo, film ispirato alle suggestive atmosfere narrative di Giorgio Scerbanenco.

Ma quello spazio del mito – nonostante la formidabile temperie culturale e sociale degli anni Settanta, ancora di là da venire – sembra già possedere in sé i segni di una lenta decadenza: la Milano nebbiosa, fredda, solcata da lotte e contestazioni, sta per lasciare lentamente il passo alla Milano “da bere” degli anni Ottanta. Boscolo giunge in Piazza Duomo «completamente stralunato» e si ritrova in uno spazio che, sulla scia di un nuovo pervasivo consumo di massa, è destinato inesorabilmente a mutare: «Le grandi insegne pubblicitarie illuminate dal neon di fronte alla cattedrale raccontavano di una nuova esaltante stagione commerciale inneggiante all’alcolismo: Cinzano, Vov, China Martini, Fernet Branca, Vermouth Bosca erano lusinghe viziose appena mitigate dalla universalità popolare della Coca-Cola e dal rassicurante paesaggio piccolo-borghese delle Collezioni Facis». La città è destinata a trasformarsi nella «Milano Metropoli degli anni Ottanta», falcidiata dall’eroina e dalle televisioni private, cantata da Bertante ne Gli ultimi ragazzi del secolo. E Alberto Boscolo? In che modo si avvia verso questi nuovi anni di disimpegno, una volta abbandonata la lotta armata? Cos’altro sappiamo di lui? Come scrive l’autore in una nota finale «per il lettore», «nessun brigatista del nucleo storico rivelò la sua vera identità. Cosa che non faremo nemmeno noi».

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Un progetto di public history ed un docu-film di animazione dedicati a Giuseppe Pinelli https://www.carmillaonline.com/2019/12/20/un-progetto-di-public-history-ed-un-docu-film-di-animazione-dedicati-a-giuseppe-pinelli/ Thu, 19 Dec 2019 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56741 di Gioacchino Toni

Esattamente cinquant’anni fa, il 20 dicembre 1969, un lungo corteo funebre, a cui prendono parte circa tremila persone, accompagna la salma di Giuseppe Pinelli al cimitero di Musocco alla presenza della famiglia, di anarchici e militanti dell’estrema sinistra, oltre che di intellettuali come Franco Fortini, Vittorio Sereni, Marco Forti, Giovanni Raboni e Goffredo Fofi. Successivamente, la salma sarà traslata nel cimitero di Turigliano, vicino a Carrara. Pinelli è deceduto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 a Milano, all’Ospedale Fatebenefratelli, in seguito a quanto notoriamente è accaduto nella Questura milanese.

Alle accuse infamanti orchestrate [...]]]> di Gioacchino Toni

Esattamente cinquant’anni fa, il 20 dicembre 1969, un lungo corteo funebre, a cui prendono parte circa tremila persone, accompagna la salma di Giuseppe Pinelli al cimitero di Musocco alla presenza della famiglia, di anarchici e militanti dell’estrema sinistra, oltre che di intellettuali come Franco Fortini, Vittorio Sereni, Marco Forti, Giovanni Raboni e Goffredo Fofi. Successivamente, la salma sarà traslata nel cimitero di Turigliano, vicino a Carrara. Pinelli è deceduto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 a Milano, all’Ospedale Fatebenefratelli, in seguito a quanto notoriamente è accaduto nella Questura milanese.

Alle accuse infamanti orchestrate dal questore di Milano e dai media compiacenti che vogliono Pinelli suicida, a dimostrazione della sua colpevolezza nella strage di piazza Fontana, risponde una campagna di controinformazione – organizzata da anarchici e da parte della sinistra extra-parlamentare e istituzionale – capace di mobilitare larghi settori dell’opinione pubblica. A pochi giorni dalle esequie Licia Rognini Pinelli e la madre di Pinelli denunciano il questore Marcello Guida, già funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, per diffamazione; il commissario Calabresi e tutte le persone presenti in questura la notte del 15 dicembre per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. Come è noto, l’istruttoria viene affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che il 27 ottobre 1975 l’archivia – dopo aver escluso tanto il suicidio quanto l’omicidio – motivando la morte come un “malore attivo”.

La vicenda politico-giudiziaria dell’assassinio di Pinelli si intreccia con la storia di quella che sarà poi indicata nelle piazze come la “strage di Stato” di piazza Fontana, con il “caso Valpreda” e più in generale con quella “strategia della tensione” ordita dalle istituzioni dello Stato che ha pesantemente segnato la storia italiana. Numerosi sono i libri, le canzoni, le opere teatrali, audiovisive ed artistiche dedicate a Pinelli e al suo assassinio, in Italia come all’estero. Nel 1970 il Comitato cineasti contro la repressione realizza un lungometraggio in due parti, dirette da Elio Petri e Nelo Risi, intitolato Documenti su Giuseppe Pinelli, poi fatto circolare attraverso i canali della sinistra extraparlamentare e Julian Beck, del Living Theatre, nel 1977 dedica al ferroviere anarchico la poesia Il corpo di Giuseppe Pinelli. Tra le realizzazioni più celebri dedicate a Pinelli si ricordano l’opera teatrale Morte accidentale di un anarchico (1970) di Dario Fo e l’opera del pittore Enrico Baj I funerali dell’anarchico Pinelli (1972).

Affinché questa memoria non vada persa, il collettivo di lavoro del Centro Studi Libertari – con la collaborazione di un comitato scientifico composto da: Claudia Pinelli, Silvia Pinelli, Giampietro Berti, Nicola Del Corno, Paolo Finzi, Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Lorenzo Pezzica – ha dato vita a un progetto di public history intitolato “Giuseppe Pinelli: una storia soltanto nostra, una storia di tutti”.

L’intenzione è quella di raccogliere e catalogare materiali, documenti, memorie sulla la figura di Giuseppe Pinelli ricostruendo l’impatto che la sua vicenda ha avuto sulle coscienze di tanti e tante a partire dalle mobilitazioni e dalle campagne di controinformazione, provando così a ricomporre una storia complessa fatta inevitabilmente di molteplici frammenti e di altrettante esperienze. Composto da testimonianze video raccolte in questi due anni e dall’archivio di Licia Pinelli che dal 1969 a oggi ha raccolto qualcosa come 5 mila articoli di giornale su piazza Fontana, Pinelli, processi ecc., la piattaforma online permette a chi vi accede di scegliere percorsi che, attorno alla storia di Pinelli, intrecciano gli anni della contestazione e della strategia della tensione, le pratiche ed i sogni indirizzati ad ottenere un mondo diverso e le ondate repressive. Si tratta, come detto, di un progetto di public history che il collettivo del Centro Studi Libertari intende come produzione di “una storia viva, dal basso, che ricordi il passato per interpretare il presente, pronta a confrontarsi e a raccogliere suggestioni da quei protagonisti che quella storia l’hanno vissuta, direttamente o indirettamente”.

Questo l’indirizzo della piattaforma: Giuseppe Pinelli: una storia soltanto nostra, una storia di tutti


Si segnala, inoltre, il docu-film di animazione PINO
 Vita accidentale di un anarchico (2019), di Claudia Cipriani e Niccolò Volpati, realizzato in collaborazione con la famiglia Pinelli e presentato in anteprima il 16 dicembre 2019 all’Arci Bellezza di Milano.

«Quella di Giuseppe Pinelli è una storia già conosciuta, raccontata in molte testimonianze, numerosi libri e opere teatrali di cui la più famosa è Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo. Il nostro intento è quello di raccontare questa storia da un punto di vista inedito: saranno i ricordi delle figlie che, un passo alla volta, ci faranno conoscere Giuseppe Pinelli. Il racconto di Claudia e Silvia Pinelli comincia nel 1969, quando avevano 8 e 9 anni e si conclude il 9 maggio del 2009 quando la famiglia è stata ricevuta al Quirinale dal Presidente Giorgio Napolitano che, in quell’occasione, definì Pinelli “la diciottesima vittima della strage di Piazza Fontana”. Il punto di vista delle bambine permette di entrare gradualmente in una storia complessa e intricata: man mano che loro due crescono, aumenta anche il loro livello di consapevolezza, s’infittisce l’insieme di informazioni, si articola il discorso politico e il contesto storico. Contemporaneamente, cresce anche la consapevolezza dello spettatore, che può seguire lo sviluppo della storia personale di Giuseppe Pinelli, insieme all’evoluzione degli accadimenti storici di cui quella storia è riflesso: le contestazioni a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, la “strategia della tensione”, l’Europa divisa in due blocchi»

Qua il link: www.ghirofilm.it


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Pinelli. Una storia individuale e collettiva https://www.carmillaonline.com/2019/11/24/56115/ Sat, 23 Nov 2019 23:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56115 di Gioacchino Toni

Paolo Pasi, Pinelli. Una storia, elèuthera, Milano, 2019, pp. 184 con illustrazioni di Fabio Santin, € 16,00

«Pinelli è inquieto mentre nel gelo di dicembre sobbalza sull’acciottolato delle strade di Milano in sella al suo Benelli rosso. L’anno magico della Luna e della rinascita libertaria si sta chiudendo male. Gli scontri sono diventati sempre più aspri, le intimidazioni sempre più aggressive. Sta per succedere qualcosa, pensa Pinelli con il bavero alzato e il collo affondato nelle spalle, stanno alzando il tiro».

Quella di Pinelli non è soltanto la storia della [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Pasi, Pinelli. Una storia, elèuthera, Milano, 2019, pp. 184 con illustrazioni di Fabio Santin, € 16,00

«Pinelli è inquieto mentre nel gelo di dicembre sobbalza sull’acciottolato delle strade di Milano in sella al suo Benelli rosso. L’anno magico della Luna e della rinascita libertaria si sta chiudendo male. Gli scontri sono diventati sempre più aspri, le intimidazioni sempre più aggressive. Sta per succedere qualcosa, pensa Pinelli con il bavero alzato e il collo affondato nelle spalle, stanno alzando il tiro».

Quella di Pinelli non è soltanto la storia della diciassettesima vittima della strage di piazza Fontana, ma è una storia che prende il via tra le case di ringhiera, tra i ballatoi e le trattorie popolari di porta Ticinese, è la storia di un uomo legato ai suoi famigliari, orgoglioso del suo mestiere e che «leggeva poesie e faceva volare gli aquiloni», è la storia di un uomo che ha vissuto la sua epoca a testa alta, lottando per un mondo migliore fino a quella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, quella notte in cui ha incontrato quella finestra spalancata della questura milanese. Come tutte le vite vissute e non subite, la sua è anche una storia collettiva, una storia che riguarda tutti e tutte i compagni e le compagne di quel viaggio di libertà e per la libertà, una storia che non si è affatto chiusa.

Il giornalista e scrittore Paolo Pasi1, già autore del libro Antifascisti senza patria (elèuthera, 2018)2, si è occupato di questa storia individuale e collettiva nella sua recente pubblicazione Pinelli. Una storia (elèuthera 2019), volume impreziosito dalle illustrazioni di Fabio Santin.

La storia che racconta Paolo Pasi prende il via dal fortuito ritrovamento di un suo quaderno d’infanzia che diviene per l’autore una sorta di mappa di quel periodo con la «la scrittura sempre meno precaria, pagina dopo pagina, le lettere più precise, regolari, allineate come soldatini diligenti nei quadrettoni dei fogli, i disegni, i voti della maestra, i brevi dettati. Uno è del 20 novembre: “Due uomini sono andati sulla Luna. La Luna è lontana”. Penso d’istinto all’allunaggio di qualche mese prima, il 20 luglio 1969, ma poi scopro che una missione successiva, quella dell’Apollo 12, sbarcò di nuovo sul satellite pochi mesi dopo, il 19 novembre. Ed eccomi di nuovo a cavalcare i ricordi di quell’anno, le serate di fronte al televisore, Carosello e il tenente Sheridan, i cartoni animati, l’avanzare dell’autunno verso l’inverno, il tema sulla neve, i regali per il Natale imminente… Più mi addentro nelle pagine del quaderno, più avverto la presa soffocante del passato che non ha niente di nostalgico, perché fa venire a galla anche le insicurezze e le profonde malinconie di me bambino. Poi arrivo a quella pagina. La scrittura è la mia, il testo mi è stato dettato: «Avviso. Lunedì 15 la maestra parteciperà allo sciopero». Lunedì 15 dicembre 1969. Il giorno dei funerali delle vittime della strage di piazza Fontana. Il mio viaggio è iniziato così. Da un quaderno di scuola in cui la Storia ha fatto irruzione come il richiamo secco di un testimone scomodo. Ho pensato che sarebbe stato bello raccontare quei mesi, così irrequieti e tragici, attraverso gli occhi di un bambino. Ma poi ho chiuso il quaderno, e l’eco del passato è tornata all’immagine di copertina, il disegno accurato di un razzo spaziale su un fondo bianco. Lo chiamavano Lem, o modulo lunare, e in quei mesi non si parlava d’altro che del progetto Apollo. Sembrava che lo stesso concetto di essere umano fosse stato creato per dare giusta luce alla Luna. Così grande e luminosa da assomigliare a uno specchio che rifletteva fantasie e sogni, inquietudini e malinconie di tante altre persone. Se c’è una storia che va raccontata, ho pensato, è quella di un uomo che sapeva sognare, che nel suo viaggio ha toccato l’apice della Luna e il fondo della tragedia. Ripenso a mio padre davanti al televisore, lo sguardo infervorato nella notte di fine luglio, e io che gli sto accanto con un piccolo cannocchiale, a illudermi di poter scorgere gli astronauti mentre camminano sulla superficie butterata della Luna. Anche Giuseppe Pinelli ha vissuto una notte simile. Padre e insieme fanciullo. Il quaderno di scuola è sempre davanti a me. La navicella in copertina mi sta riportando indietro nel tempo».

Così dunque Pasi decide di ripercorrere la vita di Pinelli precedente la sua morte avvenuta in quella maledetta notte all’interno di quella ancor più maledetta questura milanese. Come scrive Paolo Finzi, intervistando Pasi e recensendone il libro per “A – Rivista Anarchica”, l’autore «si muove con onestà e sicurezza in un terreno rischioso e friabile quale è quello del romanzo storico. Che è quello della ricostruzione e dell’approfondimento della persona nel suo contesto, “inventandosi” che cosa pensava, poteva pensare o dire o sognare il “suo” protagonista in quella determinata situazione»3.


  1. Paolo Pasi (Milano, 1963), giornalista e scrittore, nel 1995 vince la prima edizione del premio giornalistico Ilaria Alpi e dal 1996 lavora in Rai come redattore del TG3. Ha inoltre scritto numerosi romanzi, tra cui Ultimi messaggi dalla città (2000), Le brigate Carosello (2006), L’estate di Bob Marley (2007) e i più recenti Memorie di un sognatore abusivo (2009) e Il sabotatore di campane (2013), L’era di Cupidix (2015) e La canzone dell’immortale (2017), usciti per le edizioni Spartaco. 

  2. A proposito di tale libro – dedicato alle vicende dei confinati politici antifascisti di Ventotene e in particolare degli anarchici che tra questi furono coloro che subirono il trattamento peggiore e più discriminante – si veda la recensione pubblicata su Carmilla

  3. Curioso e diverso. Conversazione di Paolo Finzi con Paolo Pasi, Giuseppe Pinelli un uomo, un anarchico, A – Rivista Anrachica

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Parigi 1871 – Varsavia 1944 – Kobane 2019? https://www.carmillaonline.com/2019/10/15/parigi-1871-varsavia-1944-kobane-2019/ Tue, 15 Oct 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55375 di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador [...]]]> di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador a Hong Kong, passando per le gigantesche manifestazioni giovanili in difesa dell’ambiente, della giustizia climatica e della specie, un enorme movimento tellurico scuote le società, all’Est come all’Ovest o in Medio Oriente.
Un tempo almeno si sarebbe cantato Tutto il mondo sta esplodendo…, ma oggi no: ognuno si schiera con una causa e in ogni causa troveremo chi si schiera sulla base di uno degli elementi elencati in apertura oppure con uno dei due fronti in lotta adducendo motivazioni tratte dal grigio frontismo ereditato dal ‘900.

Tutto ciò non indebolisce soltanto i movimenti in lotta contro l’iniquo presente, ma fa sì che vada persa qualsiasi lucida e necessaria capacità di analizzare le mosse di quello che dovrebbe essere il nostro avversario unico (il modo di produzione capitalistico) e quelle che dovrebbero essere messe in atto da un movimento realmente antagonista.

Piace ai media, in tutte le loro forme, parlare di vittime, soprusi, dolore e terrore, in una maniera tale da creare confusione, come succede nel percorso della Salita della Memoria a Brescia, dove con le formelle sono state affiancate vittime e carnefici di una violenza che sembra essere più una manifestazione del Male assoluto che non il prodotto di reali contraddizioni sociali e battaglie di classe. Così, per fare un esempio, il commissario Calabresi può essere posizionato subito dopo l’anarchico Serantini, mentre di Giuseppe Pinelli non si trova neppure traccia.

Così in queste ore drammatiche, mentre il secondo esercito della Nato, appoggiato dalle milizie integraliste, ha iniziato a schiacciare la resistenza curda nel Rojava, tutti si sono affrettati a denunciare il genocidio (che Erdogan stava evidentemente pianificando da tempo) e a condannare l’azione turca, senza però mai toccare l’argomento dell’esperienza organizzativa, politica, economica, ambientale, di parità di genere e militare che le forze democratiche curde stanno da tempo portando avanti in una delle aree più calde (dal punto di vista militare e geopolitico) del pianeta (qui).

Se la questione profughi durante l’estate scorsa, quando la sinistra istituzionale preparava il proprio immeritato ritorno al governo, ha visto mobilitazioni generose e ampie, la mobilitazione in solidarietà con i curdi del Rojava e le loro unità di combattimento e protezione ha incontrato maggiori difficoltà, di modo che le manifestazioni in loro appoggio, anche se gli ultimi giorni hanno visto ampliarsi il loro numero, non sono mai state fino ad ora abbastanza unitarie oppure abbastanza forti da poter premere su un governo vile e pauroso, incapace di prendere posizione proprio a causa degli interessi delle più di 1400 imprese italiane che operano in Turchia, con la quale l’interscambio commerciale italiano ruota intorno ai 20 miliardi di euro annui.

In tale contesto, poi, i dubbi di molti “compagni” o presunti tali deriverebbero dal fatto che i curdi del Rojava hanno accettato, al fine di potersi armare, l’aiuto americano nel periodo della loro sanguinosa lotta contro l’ISIS, con la quale hanno rappresentato l’unica vera opposizione militare vincente all’espansionismo di Daesh nel Medio Oriente.

Altri ancora, incapaci di pensare alla Russia di Putin come a uno dei tanti attori dell’imperialismo nella regione, non riescono a slegare l’attivismo politico e diplomatico, oltre che militare, del nuovo zar di Mosca dalle loro personali e ingiustificate fantasie nostalgiche sull’URSS di staliniana memoria, contribuendo così a proiettare nel mondo contemporaneo ideali frontisti che già contribuirono alla distruzione del proletariato europeo e della sua autonoma iniziativa di classe nel corso del secondo conflitto mondiale.

Purtroppo, però, anche chi cerca in tutti i modi di appoggiare e difendere l’esperienza del Rojava, dimentica la Storia e può illudersi che un cambiamento di alleanza (il passaggio delle milizie curde a fianco delle truppe di Assad, con l’appoggio molto vago della Russia) oppure un intervento diplomatico europeo possano contribuire a risolvere la situazione militare sul campo. No, cari compagni, state sbagliando anche voi. Soprattutto quando si difende il Rojava mettendo in primo piano la sua azione anti-ISIS piuttosto che l’importanza del suo esperimento politico.

Immemori della Storia ignorate un paio di cose niente affatto secondarie.
La prima è data dal fatto che nessun rappresentante dell’imperialismo internazionale, nonostante le gravi contraddizioni politico-militari ed economico-territoriali che lo attanagliano, potrebbe mai difendere con convinzione e mezzi adeguati un esperimento sociale teso alla sua destituzione e a quella del modo di produzione e dei rapporti di forza sociali che lo fondano.

Non solo gli Stati Uniti hanno “tradito”, ma pure gli europei, anche quando fingono di voler condannare il sovrano di Ankara. La cui potenza militare, la posizione geo-politica e, ancora una volta, l’interscambio commerciale (80 miliardi di euro annui con la sola Europa) è più importante per la Nato e l’Occidente di qualsiasi altra considerazione umanitaria e “democratica”.
Anzi in realtà, forse, nessuno ha tradito, neanche Trump: semplicemente ognuno ha agito o agisce in base al proprio interesse prioritario. Ai vertici del quale non sta sicuramente la questione curda o la salvezza del Rojava; mentre tutti sono disposti ad inviare le proprie cannoniere in difesa dei giacimenti di petrolio, come sta accadendo in queste ore per i giacimenti ciprioti (qui), ma non a bloccare collettivamente ed immediatamente la vendita di armi al regime di Ankara.

La seconda questione è anche più semplice anche se, una volta dimenticata la Storia dei conflitti sociali e militari, sembra oggi più difficile da comprendere.
Il dramma che sta per avvenire a Kobane, e nelle altre località dove si è maggiormente manifestato l’esperimento del confederalismo democratico curdo, è già avvenuto altre volta nella Storia degli ultimi 148 anni.

Infatti dopo la sconfitta delle truppe francesi e di Napoleone III a Sedan nel 1870, i comandi prussiani non ebbero difficoltà a lasciare che una parte dell’armata francese si riarmasse per reprimere nel sangue l’esperimento della Comune di Parigi, prima forma di autogestione politica, militare ed economica del proletariato francese ed europeo. Il muro dei federati al cimitero di Père-Lachaise, dove il 28 maggio del 1871 furono fucilati 147 comunardi superstiti dopo la caduta della città nelle mani delle truppe versagliesi, è ancora lì a ricordarcelo, anche se tanti corrono a visitare da turisti quel cimitero ricordando soltanto che lì si trova la tomba di Jim Morrison.

L’avanzata delle truppe di Assad, in compenso, sarà lenta. Putin non vuole una divisione della Siria che metta in pericolo la presenza delle basi russe in quell’area e, contemporaneamente non vuole irritare il novello compare Erdogan, che ha contribuito ad armare con i più moderni sistemi di difesa e di attacco attualmente a disposizione della tecnologia militare russa. Per questo si è già chiamato fuori, mentre i militari siriani si stanno spostando verso Kobane, ma quando arriveranno ancora non si può sapere con certezza.
Motivo per cui vale qui un secondo esempio.

Tutti ricordano la gloriosa e disperata rivolta del ghetto di Varsavia nelle primavera del 1943 (19 aprile – 16 maggio). Unico ghetto ad insorgere contro il tentativo tedesco di deportarne tutti gli abitanti, vide circa cinquecento giovani male armati (con revolver e bottiglie molotov principalmente) tener testa per quasi un mese, sotto il comando di Marek Edelman (membro del Bund – Unione Generale dei Lavoratori Ebrei), a migliaia di soldati tedeschi e membri delle SS.
Sono però di meno coloro che ricordano l’insurrezione dell’anno successivo (1 agosto – 2 ottobre 1944), quando l’intera città insorse contro l’occupazione nazista, mentre le truppe sovietiche si trovavano già alle porte della stessa. I combattimenti portarono ad una prima ritirata delle truppe della Wermacht, che però poi tornarono in forze per sconfiggere la resistenza polacca e massacrare decine di migliaia di abitanti (donne e bambini compresi, naturalmente) sotto gli occhi impassibili dei comandanti sovietici che fecero entrare le truppe tra le rovine della città soltanto nel gennaio del 1945.

Stalin e i sovietici preferirono sicuramente assistere al massacro e alla distruzione della città simbolo delle resistenza polacca dalla riva orientale della Vistola, piuttosto che aiutare un popolo ritenuto non solo nemico, ma anche coraggioso, ribelle e fieramente desideroso d’indipendenza.
Proprio quel popolo che sia la Prima Internazionale che Marx e i volontari garibaldini, nel corso di due sfortunate spedizioni (quella di Francesco Nullo, fucilato dalle truppe zariste a Krzykawka, il 5 maggio 1863, e quella di Stanislao Bechi, caduto a Włocławek il 17 dicembre 1863) cercarono di appoggiare durante l’insurrezione del 1863 contro il dominio zarista.

A settant’anni di distanza l’uno dall’altro, questi episodi sembrano anticipare quello che sarà, in assenza di una maggiore solidarietà internazionalista su scala mondiale, il destino dell’esperimento confederalista del Rojava, a meno che i curdi stessi non scelgano una strada di rinuncia ai loro ideali.
L’invasione turca della Siria del Nord-est ha diverse motivazioni e ancora più diverse sono le contraddizioni in loco che faranno del Vicino Oriente il luogo in cui si scatenerà, molto probabilmente, il prossimo conflitto globale, ma affinché quest’ultima possibilità si dispieghi in tutta la sua orribile determinazione e potenza occorre che il Rojava sia sconfitto, sottomesso e distrutto. Molto probabilmente nel balbettio insignificante dell’Europa (che su quelle sponde finirà di affondare come a Monaco nel settembre del 1938), nel rumore assordante delle manovre diplomatiche di Stati Uniti e Russia, nel mugugnare di opposizioni che dopo aver perso il faro dell’internazionalismo troppo spesso si perdono nel frontismo e nelle dispute ideologiche ormai mummificate, e, soprattutto, tra le urla, i lamenti e le bestemmie dei feriti e dei morenti, dei combattenti e dei civili del Rojava. Ovvero di questa nuova Comune al centro dell’inferno che viene .

Un’area in cui, ancora una volta, si giocherà sulla pelle dei più deboli una partita cinica e spietata, dove anche i profughi diventeranno sempre più un’arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei oppure autentica una volta spostati nel Nord-est siriano ed invitati a difendere il territorio. assegnatogli dal nuovo Saladino, contro i curdi. Anche questa una storia assolutamente non nuova se si pensa che la Francia colonizzò l’Algeria deportando là molti insorti del 1848 e il Regno Unito l’Australia deportandovi sottoproletari e ribelli irlandesi, solo per fare rapidamente due riferimenti storici.

Mentre in un paese politicamente vile da troppo tempo, in cui i combattenti di ritorno dalle miliziue curde sono inquisiti, i traditori di Abdullah Öcalan1, e di qualsiasi altra opzione che non sia quella di servire fedelmente gli interessi del capitale nazionale ed internazionale, fingono di stracciarsi le vesti, stazzonandole peraltro soltanto un po’.

Ultima ora

A dimostrazione della sua ‘democraticità’ e ‘neutralità’, Facebook ha oscurato i profili di alcune testate italiane indipendenti da sempre schierate a fianco della battaglia condotta dai curdi del Rojava. La Redazione di Carmillaonline si schiera e solidarizza con Infoaut, Contropiano, Dinamopress, Radio Onda D’Urto, Globalproject.info e Milanoin movimento.com, nel denunciare l’accaduto, probabile premessa ad ancor più gravi censure future nei confronti di chi si opporrà alla guerra, non solo turca.


  1. Nel 1998 le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare il paese. Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di asilo politico durante la quale egli si rifugiò prima in Russia da cui fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni.
    Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 dove il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere asilo politico, ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo D’Alema a ripensarci.
    Non potendo estradare Öcalan in Turchia, e a causa del ritardo nella concessione del diritto d’asilo, che fu riconosciuto a Öcalan troppo tardi, il 16 gennaio 1999, dopo 65 giorni, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi.. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.
    Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı[9] durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi e portato in Turchia dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza. Dove tutt’ora sconta l’ergastolo  

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Molti anniversari e troppo sangue https://www.carmillaonline.com/2019/04/25/molti-anniversari-e-troppo-sangue/ Wed, 24 Apr 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52144 di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della [...]]]> di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della capitale e consegnarlo al papato, e pochi anni in più per legare le sorti del paese alla Germania con risultati disastrosi. Paradosso tutto nostro, quel suicidio differito del Risorgimento passa per patriottico.

Tre quarti di secolo dall’attacco partigiano in via Rasella (non per caso, la Resistenza scelse il 23 marzo) e dalle Fosse Ardeatine, il giorno dopo. L’attacco lo fecero i Gap, Gruppi di azione patriottica; patria non sapeva di populismo e non metteva in imbarazzo. Pochi giorni prima, il 10 marzo e sempre a Roma, per l’anniversario della morte di Mazzini i gappisti avevano disperso a revolverate i fascisti, che in via Tomacelli sfilavano contro il re e per la repubblica, ma quella finta di Mussolini. Brutto colpo, per i repubblichini, che sul «Messaggero» commentarono: «Purtroppo i soliti elementi perturbatori attentano alla serena compostezza del corteo». I comunisti sparano sui fascisti per impedire che si fingano mazziniani. Da approfondire, il senso di quell’accademia a mano armata.

La memoria è rimasta prigioniera del paradigma vittimario delle Ardeatine, crimine sepolto nel monumentalismo; l’azione ben riuscita di via Rasella non ha avuto la considerazione che merita, anzi è stata accusata di tutto: i partigiani che volevano l’eccidio, che dovevano consegnarsi ai tedeschi, che ignorarono moniti e comunicati. Qualche anno fa è stato pubblicato e demistificato il volantino fascista che fabbricò menzogne poco dopo il massacro (una manovra disinformativa persino più zelante di quelle tedesche); ma le smentite razionali non bastano, l’accusa contro la Resistenza risponde a un bisogno emozionale. Ha combattuto, ha spezzato l’inerzia, e nella città santa: è colpevole.

Mezzo secolo dalla strage di piazza Fontana, a Milano. Nel 1969 corre lo sviluppo economico, sono in piena maturazione l’industrializzazione e l’urbanizzazione, si è affacciata la rivoluzione sessuale, si progettano il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori. Si reclamano riforme dei codici, della scuola, dell’università. Una parte del paese vuole entrare nella modernità, un’altra frena: vi entrerà zoppicando.

Piazza Fontana è una strage indiscriminata, la prima di tipo bellico dopo la guerra; le altre, da Portella della Ginestra a Reggio Emilia, hanno un margine di selezione delle vittime. Nel 1969 si colpisce a caso: il bersaglio grosso non è in quei morti, è il popolo. Insieme c’è la violenza poliziesca, la macchinazione che mira all’anello debole della contestazione: gli anarchici, estranei al circuito politico del blocco al governo e di quello all’opposizione, riottosi alla retorica del costituzionalismo ingessato, dissonanti dal reducismo ciellenista. Però la morte di Giuseppe Pinelli, un po’ simmetrica e un po’ decentrata rispetto alla bomba, colpisce mirando ed è un monito per tutti, fitta di segni che parlano di allineamento, di ubbidienza non solo governativa. L’uomo che quel giorno va tranquillo coi poliziotti in questura, fiducioso in un chiarimento, ne uscirà cadavere dopo un interrogatorio che viola ogni norma procedurale.

In carcere, additato come il mostro, finirà un altro anarchico innocente, Pietro Valpreda; ci vorranno anni e una modifica legislativa per tirarlo fuori. Ci si renderà conto, finalmente, che le leggi sono ancora quelle fasciste e che un detenuto può sparire senza garanzie. E insieme c’è la giustizia, così inadeguata che alla verità processuale su quel 1969 mancano ancora pagine importanti. La spiegazione corrente su Pinelli sarà un ossimoro osceno, il malore attivo, in cui – come nei Promessi sposi, con le febbri pestilenziali – l’indicibile si sposta sull’aggettivo. Qualcosa si muove, qualcuno fa, insomma c’è un che di attivo, in quella morte. Ma il sostantivo è incolpevole e sa di vecchio, di malfermo: il malore, meno grave della malattia, più svenevole di un dolorino. Pinelli era quarantenne. Da rivedere, sulla giustizia, il film Processo politico di Francesco Leonetti.

Un quarto di secolo dalla rifrequentazione di un tremendo archivio segreto. Fra il 1943 e il 1945 gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti fascisti uccidono italiani in una quantità mai davvero calcolata: probabilmente almeno trentamila. Nel 1945 si decide di concentrare indagini e prove a Roma, negli uffici della giustizia militare, per far meglio chiarezza. Negli anni immediatamente successivi i fascicoli sono usati per celebrare pochissimi processi, poi sono lasciati alla polvere, nel silenzio di tutte le strutture partitiche, politiche, sindacali, combattentistiche. Molti sanno, tutti tacciono, qualcuno manovra. È uno scandalo senza paragoni nell’Italia postunitaria, forse nella storia europea: un paese occulta le prove di due anni di massacro dei suoi cittadini, di ogni età e condizione, compresi i bambini, i militari fedeli al governo legittimo, i partigiani, il clero, gli ebrei.

Un giornalista battagliero, Franco Giustolisi, chiamerà questa cosa orribile Armadio della vergogna, un’espressione fulminante. Dopo che l’Armadio è stato riaperto si muovono commissioni d’inchiesta, si scrivono relazioni, eppure restano oscure sia le implicazioni di un’inerzia così lunga, sia le modalità dell’improvvisa rifrequentazione dell’archivio. Avviene, appunto, nel 1994: cioè dopo il Trattato di Maastricht e dopo la trattativa Stato-mafia con la notte in odor di golpe denunciata da Ciampi, e dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. Soprattutto, a breve distanza dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca, e subito dopo l’arrivo di Berlusconi al governo. In quell’anno i Modena City Ramblers cantano Quarant’anni: «Ho visto bombe di Stato scoppiare nelle piazze e anarchici distratti cadere giù dalle finestre. Ho venduto il mio didietro ad un amico americano. Ho massacrato Borsellino e tutti gli altri. Ho protetto trafficanti e figli di puttana. Ma ho un armadio pieno d’oro, di tangenti e di mazzette, di armi e munizioni, di scheletri e di schifezze».

La rifrequentazione non ha neppure una data sicura. Di altri misteri italiani si conosce almeno il giorno; nel 1994 l’Armadio ricompare senza un verbale, senza una fotografia. Negli anni che seguono si celebrano una ventina di dibattimenti, l’ultimo termina nel 2015; va in prigione solo un sottufficiale. La Germania non paga nessun risarcimento; anzi, alla Corte internazionale dell’Aia fa condannare l’Italia per lesa maestà, perché uno studio legale ha ipotecato una villa tedesca a Como. Attenzione. La posta in gioco non è solo di crediti italiani e di una villa: con quella sentenza la Corte, cioè la voce giudiziaria dell’Onu, dice che gli Stati non possono mai essere condannati a pagare, neppure per crimini di guerra o contro l’umanità. Vale per il passato e per il futuro, per Sant’Anna di Stazzema e per la Siria. È il 2012: la crisi economica dilaga, terrorismo e destabilizzazioni fanno il doppio gioco sul sangue di interi paesi, e Wikileaks, col Cablegate e coi documenti sull’Afghanistan e l’Iraq, ha svelato intrighi e massacri. Ecco che sul tavolo anatomico dei giuristi, all’Aia, le stragi di italiani dal 1943 al 1945 sono dissezionate e manipolate per fabbricare un salvacondotto legale a quelle future, ovunque. Gli apprendisti stregoni cuciono i lutti della Seconda guerra mondiale col fil di ferro del formalismo; ne esce un mostro alla Frankenstein, servizievole alla ragion di Stato. Sangue assolve sangue.

Settant’anni dalla fondazione della Nato. Voluta contro un blocco politico-economico che non esiste più da un trentennio, è sopravvissuta al suo nemico e continua a condizionare il presente. I responsabili di crimini nazifascisti commessi in guerra sono stati protetti e adoperati; la strategia della tensione è stata l’area in cui la Nato ha incontrato il nazifascismo bellico e la protezione postbellica della sua impunità, cioè l’ombra silenziosa dell’Armadio della vergogna.

Lo stragismo nazista e fascista, sempre antipopolare, sempre collaborazionista, ha disseminato di ingiustizia e reticenza un secolo segnandone le tappe. Durante la guerra è stato usato per fabbricare il complesso di colpa per la Resistenza, la squalifica profonda degli italiani, e per gettare le basi di un senso di inferiorità contrario al Risorgimento, al socialismo e alla democrazia; da rileggere, le pagine di Giuseppe Dossetti su Marzabotto come delitto castale. Dopo la guerra ha stravolto l’ingresso del paese nella modernità, costruendo col metodo terroristico la minaccia del colpo di Stato, lo scacco alle conquiste sindacali e democratiche, la difesa a oltranza dei privilegi di classe. Dopo la dissoluzione del blocco socialista e la riunificazione della Germania, i contraccolpi di quel sangue e quei silenzi hanno continuato a pesare. I segreti della strategia della tensione e l’impunità delle stragi nazifasciste in tempo di guerra hanno ricevuto una protezione solida, dentro l’abitudine del potere all’utilizzo indiscriminato della criminalità organizzata e del fascismo; abiti intercambiabili, in Italia, e sempre con l’ornato di una cultura prostituita alla distrazione. Da rivedere l’intervista al regista (Orson Welles), in La ricotta di Pasolini: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». La ricotta comincia col Vangelo di Marco: «Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare; e niente accade occultamente, ma perché si manifesti».

Ancora da sondare, i rapporti fra le coperture dell’Armadio della vergogna e il reimpiego del fascismo negli anni della conflittualità armata, come le relazioni fra crimine, fascismo e affarismo – riciclaggio, privatizzazione di beni pubblici, traffico di droga e armi – nella prima metà degli anni Novanta, in concomitanza coi delitti più vistosi (Falcone, Borsellino). Tutti da affrontare, i legami con altri delitti che hanno segnato la situazione europea poco prima della liquidazione del socialismo o nell’immediatezza (omicidi Olof Palme, Alfred Herrhausen, Detlev Rohwedder).

Le stragi fasciste dal 1919 preparano la dittatura, che prepara i massacri sociali, coloniali, bellici. Le stragi belliche, massacri dentro l’immane massacro, sorreggono l’occupazione militare, la schiavizzazione, la deportazione, il saccheggio, la repressione materiale e morale. Le stragi della strategia postbellica orientano il cambiamento dell’Italia in conformità alla spartizione del mondo in blocchi. Le stragi del 1992-1993 chiudono quella stagione, mettendo a tacere chi sa troppo e aprendo la strada a un nuovo quadro di potere, che serve alla penetrazione economica nei paesi ex socialisti e alla distruzione dell’originale socialdemocrazia italiana, coi suoi specifici miti e pilastri (democristianesimo, eurocomunismo, partecipazioni statali, banche pubbliche). Questo lunghissimo sacrificio umano ha per costante l’eliminazione mirata di notabili (uomini d’ordine antifascisti, politici onesti, sindacalisti impegnati, intellettuali coraggiosi, magistrati scomodi) e il massacro casuale, indiscriminato, contro il popolo, che la strategia del sangue riduce a massa informe di carne.

Davvero, tanti anniversari. Eppure, a leggerli insieme si capisce meglio. Un uomo diritto che visse per amore, patria e poesia, e morì d’esilio in povertà: «Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, “Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”». Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 17 marzo.

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Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

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Gli sbirri hanno sempre ragione https://www.carmillaonline.com/2016/04/16/gli-sbirri-sempre-ragione/ Sat, 16 Apr 2016 20:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29853 di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla [...]]]> di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla memoria dei lettori e della critica.

Scrittore scomodo come il già citato Céline, con cui ha condiviso stessa la colpa di aver ricordato la simpatia con cui una parte significativa della società francese guardò al nazismo (e all’antisemitismo). Scrittore ripreso oggi anche dallo statunitense Ellroy che, nel suo ultimo romanzo,1 sembra volergli rifare il verso parlando delle sofferenze e le deportazioni nei campi di concentramento inflitte ai cittadini americani di origine giapponese dopo l’attacco di Pearl Harbour e l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941.

andre helena Con una differenza fondamentale però: Ellroy non può fare a meno di manifestare simpatia nei confronti degli agenti della Città degli Angeli corrotti, violenti e fascisti, mentre Héléna, fin dal titolo di un suo romanzo pubblicato in Francia nel 1949, 2 non può fare a meno di mostrare tutto il suo disprezzo per un organismo arrogante, cinico, persecutorio e ipocrita che esercita il proprio potere sui poveracci e non serve affatto a difendere gli interessi dei normali cittadini.

Oggi infatti non siamo qui per parlare di letteratura, ma, ancora una volta, proprio per sottolineare come, dopo l’assoluzione ottenuta ieri per gli agenti di polizia e i carabinieri imputati per la morte di Giuseppe Uva nel 2008, l’Italia sia il paese in cui gli sbirri hanno sempre ragione. Dove, dalla morte dell’anarchico Pinelli alla scuola Diaz e da Stefano Cucchi a tutti gli altri morti “in maniera misteriosa” a causa di maltrattamenti, colpi d’arma da fuoco partiti “accidentalmente” e torture psicologiche e non solo, una lunga striscia di sangue sottolinea da anni l’impunità delle forze del disordine.

Ora se tutto questo fosse relegato al solo territorio italiano sarebbe già sufficiente a far venire i brividi o a suscitare una enorme e sana incazzatura, ma, purtroppo, non è così. Non basta. Come non cogliere, ad esempio, nel colossale balletto di indagini, depistaggi e falsi “incidenti diplomatici” sviluppatosi intorno all’omicidio di Giulio Regeni, le conseguenze delle politiche di “tolleranza”, nei confronti delle violenze poliziesche, messe in atto nei tribunali e dai governi italiani?

sbirri 1 Come può uno Stato, con le mani lorde del sangue dei propri cittadini pretendere da un dittatore come Al Sisi, la verità pur mantenendo il silenzio di rigore sulle violenze nelle carceri, nelle caserme e nelle piazze d’Italia? Quale “verità per Giulio Regeni” se non si riesce nemmeno ad ottenere la verità sugli omicidi e sulle violenze della Polizia in casa nostra? Con quale autorità un Ministro degli Esteri screditato e colluso con gli interessi degli imprenditori italiani può minacciare ritorsioni economiche là dove , in questi giorni e solo per fare un esempio, Trenitalia pubblicizza sconti del 10% sui voli EgyptAir abbinando biglietti di treno ed aereo?

Forse minacciando di dissuadere i cittadini italiani dal recarsi in vacanza sul Mar Rosso, dove la grande imprenditoria italiana del turismo è la prima investitrice internazionale? A questo ci ha già pensato l’Isis, con ben più convincenti e coercitivi strumenti. Oppure come può un governo debole e malaticcio opporsi vigorosamente ad un regime che può esse l’unico garante del rientro sicuro delle compagnie petrolifere italiana in Tripolitania? Come può farlo un governo alleato di un Hollande e di una Francia che ,anche e proprio, sulla debolezza italiana e sull’incidente diplomatico con l’Egitto di Al Sisi, stanno andando a ricostruire una rete di protezione dei propri interessi (petroliferi e non solo) nel Nord Africa e in Libia? E cosa non sarebbero disposti a fare il nostro governo e Confindustria per un po’ di petrolio, così come prova l’indagine su Tempa Rossa giunta ormai a toccare il numero due del “sindacato” degli imprenditori italiani?

Forse a breve, in una sede istituzionale o su una piazza, come l’altro giorno presso la Corte di Assise di Varese dove si celebrava il processo Uva, si leverà il grido “Maledetti!” ad opera dei parenti e degli amici di Giulio, vittima sacrificale di intrighi ed interessi politico-economici e diplomatici, di cui il Presidente Mattarella ha gia scritto l’epitaffio: “Nessuno dimentichi Regeni”. “Nessuno dimentichi”? In un paese in cui l’amnesia politica e la perdita di ogni memoria storica e di classe è il programma principale dei governi della Massoneria, delle banche e delle compagnie petrolifere? In cui il Presidente del Consiglio si atteggia in pose mussoliniane senza avere nemmeno il coraggio di citare l’ispiratore ultimo del suo pensiero e del suo agire?

Consoliamoci però, anche il colosso tedesco deve chinare il capo di fronte ad un altro alleato altrettanto sbirresco e dittatoriale come Erdogan. Che in cambio del mantenimento della calma sulla rotta balcanica dei profughi ha potuto richiedere ed ottenere la testa del comico tedesco Jan Bohemermann, autore di una canzone satirica nei confronti del nuovo sultano di Ankara.
Così le “democrazie occidentali” potranno ancora fingere di non avere le mani sporche del sangue dei siriani, dei curdi, dei profughi o, un tempo, del popolo armeno, mantenendo sul loro trono di sangue dittatori in divisa come Al Sisi o in doppiopetto come Erdogan.

sbirri 2 Non vi basta? Volete ancora altro su cui meditare a proposito delle impunità per gli uomini in divisa? Allora pensate alle parole dell’avvocato difensore del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare italiana, Giuseppe De Giorgi, precipitato a capo fitto nell’inchiesta sul petrolio e sulle spese pazze della marina: “Siamo soddisfatti, i pubblici ministeri di Potenza hanno ascoltato con attenzione le dichiarazioni spontanee dell’ammiraglio”. E ci mancava che non lo facessero, noblesse oblige.

sbirri 3Siete abbastanza incazzati? Bene! Ora alzate il culo dalla sedia su cui siete seduti e, se non l’avete ancora fatto per pigrizia, delusione o indecisione, precipitatevi al vostro seggio elettorale per dare retta, almeno una volta nella vita, al consiglio del Presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, e fare il vostro dovere di cittadini. Potrebbe sembrarvi non un gran che come risposta, ma potrebbe sempre costituire una bella sassata tirata in faccia ad un premier ed un governo già scaduti. Come il petrolio e i suoi maledetti guardiani.


  1. James Ellroy, Perfidia, Einaudi 2015  

  2. André Héléna, Les flics ont toujours raison, pubblicato in Italia da Aisara nel 2002 con il titolo Gli sbirri hanno sempre ragione  

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Un granello di sabbia/4 https://www.carmillaonline.com/2015/12/15/un-granello-di-sabbia4/ Tue, 15 Dec 2015 06:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27340 pinellidi Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Era quasi menzanotte e cadiu nella corti e strisciò lu cornicioni ch’era sutta a lu balconi. Era mortu n’allìstanti stiso in terra malamenti e pareva fossi mortu un’istanti prìcidenti. Lu questuri dissi poi non l’abbiamo ucciso noi !” (Franco Trincale)

“Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi !”. È la mattina del 16 dicembre 1969, sono passati quattro giorni dalla strage di Piazza Fontana, e poche ore dal volo di Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano [...]]]> pinellidi Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Era quasi menzanotte e cadiu nella corti e strisciò lu cornicioni ch’era sutta a lu balconi. Era mortu n’allìstanti stiso in terra malamenti e pareva fossi mortu un’istanti prìcidenti. Lu questuri dissi poi non l’abbiamo ucciso noi !” (Franco Trincale)

“Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi !”. È la mattina del 16 dicembre 1969, sono passati quattro giorni dalla strage di Piazza Fontana, e poche ore dal volo di Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano della Questura di Milano, in via Fatebenefratelli. L’autore della ’excusatio non petita’ è Marcello Guida, questore di Milano, che aggiunge: “Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee. Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico”.

Notte bianca per il questore Guida, passata a intrattenere i giornalisti assieme al commissario aggiunto Luigi Calabresi, al capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra ed al tenente dei carabinieri Savino Lograno. Notte insonne per avvalorare una tesi già strillata dai principali quotidiani, che fin da subito – Corsera in testa – avevano attribuito agli anarchici la paternità politica della bomba. La sera stessa della strage erano stati istruiti in tal senso.

Pinelli3

Enrico Baj: Funerali dell’anarchico Pinelli, 1972. Particolare.

A Guida, quella notte, non rimane dunque che arricchire un copione già in atto con il ‘suicidio’ di un anarchico, da rivendere alla stampa come una palese ammissione di colpa. “Era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato… non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma…”. Rincarano la dose AllegraLo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per gli attentati del 25 aprile”, e Calabresi “Lo credevamo incapace di violenze, invece… è risultato collegato a persone sospette… le sue erano implicazioni politiche…”1.

Licia Pinelli, che in quel momento sta correndo in ospedale, non sa che suo marito è morto, e nemmeno che in questura stanno cercando di ucciderlo ancora, sporcandone il nome. Licia ha saputo dai giornalisti, che sono andati a svegliarla a casa, che suo marito è caduto da una finestra della questura. È stata lei a dover chiamare via Fatebenefratelli per averne conferma. “Perché non mi ha avvisata?”, ha chiesto a Calabresi. “Ma sa signora – si è sentita rispondere – abbiamo molto da fare”. All’ospedale, davanti al corpo di Pino senza vita, sua suocera l’avverte: “Licia, vedrà domani i giornali … gli daranno la colpa di tutto”. Ed ha ragione. Di lì a poco l’arresto di Valpedra è la quadratura del cerchio: un anarchico è colpevole di strage, un altro si suicida sentendosi incastrato.

Il 17 dicembre il ‘Corriere d’informazione’ (edizione pomeridiana del Corriere della Sera) titola accanto alla foto di Valpreda: ‘La furia della bestia umana’. L’articolo che segue è forse più becero del titolo: “La macchina del terrore è saltata, ormai si tratta soltanto di raccoglierne le schegge. La bestia umana che ha fatto i quattordici morti di piazza Fontana e forse anche il morto, il suicida di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata: la sua faccia è qui, su questa pagina di giornale, non la dimenticheremo mai”.

Dalla RAI anche Bruno Vespa (ebbene si ! Imperversava anche allora !) emette la sentenza: “Pietro è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma“. Tutta la stampa, ad eccezione di Lotta Continua, diffonde senza alcuna obiezione o perplessità le veline delle questure, compresi nuovi dettagli sulla dinamica della morte di Pinelli e sulla sua prodigiosa agilità. Con uno scatto felino, eludendo la sorveglianza di cinque agenti, il ferroviere anarchico si sarebbe tuffato oltre la finestra, dopo aver appreso da Calabresi che l’amico Valpreda aveva confessato la propria colpevolezza per la strage. Prima di lanciarsi, avrebbe gridato “Allora è la fine dell’Anarchia !”

Pinelli2

Enrico Baj: Funerali dell’anarchico Pinelli, 1972. Particolare.

Non tutti però credono alle veline. Duemila persone sfilano al funerale, coi pugni chiusi e le bandiere nere. Pochissimi in confronto ai cortei dell’epoca, ma a Licia sembrano “tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. All’Università solo in 23 avevano firmato quella lettera in cui dicevano di non credere al suicidio di Pino. E tutto il quartiere era circondato da polizia e carabinieri. Polizia dappertutto2.

Pian piano però le testimonianze di chi l’ha conosciuto, cominciano a farsi strada. Persone insolite frequentavano questo pericoloso anarchico: intellettuali cristiani, quali Bruno Manghi e Luigi Ruggiu, e Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico. Tutti ne ricostruiscono la generosità smisurata, l’apertura mentale, la curiosità, l’umanesimo, la purezza.

Pino PinelliGozzini così lo ricorda: “Io gli parlavo di ‘società basata sull’egoismo istituzionalizzato,’ di ‘disordine costituito,’ di ‘lotta di classe’ e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell’uomo e nella necessità di edificare ‘l’uomo nuovo,’ lavorando dal basso…. Viveva del suo lavoro, povero ‘come gli uccelli dell’aria,’ solido negli affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli: ‘anarchico individualista,’ è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l’individualismo delle coscienze addomesticate: lui, ateo, aiutava i cristiani a credere; lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici….È orribile pensare che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho mai creduto. Alla notizia ho pensato che ‘fosse stato morto,’ ecco quello che ho pensato3.

Mentre la statura umana di Pino Pinelli riemerge dal fango sotto cui stampa e questura intendevano seppellirla, dalle pagine di Lotta Continua si comincia a smontare il teorema imbastito contro gli anarchici, ad indicare i fascisti e i servizi come gli esecutori della strage, e a collocare gli attentati all’interno di un progetto politico finalizzato a fermare le spinte rivoluzionarie del ’68 e’69, utilizzando la paura e la diffamazione dei movimenti. Un golpe strisciante, meno evidente e più subdolo, perché “i colpi di stato si fanno in molti modi. Non sempre vanno bene i carri armati che possono dar fastidio a una parte della borghesia4 … “un piano politico (attentato e strage) che, dando l’illusione di accontentare la destra e di favorirne l’azione, è in effetti lo strumento più funzionale ad una stabilizzazione moderata, ad una involuzione « legale e costituzionale », che non è il colpo di stato dei colonnelli“.

Giorno dopo giorno, man mano che emergono sempre più le contraddizioni e l’inconsistenza probatoria della pista anarchica, si sgretolano anche le affermazioni infamanti sulla figura di Pinelli. Anche Calabresi cambia versione smentendo il suo stesso questore: “Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo.”

LC - paracadute

Paracadutismo. Tratto da: Lotta Continua del 28/02/70.

Ma in questo modo fa crollare uno dei pilastri a sostegno dell’ipotesi del suicidio, il cui movente risiedeva nel fatto che Pinelli si sentisse incastrato a fronte di gravi indizi di colpevolezza. Fra l’altro, l’ipotesi del suicidio già traballa da tutte le parti, sia perché l’alibi di Pinelli per il 12 dicembre è confermato, sia perché le modalità di  caduta da quella finestra del quarto piano somigliano proprio tanto ad una discesa a peso morto .

A ciò si aggiunge la testimonianza di Pasquale Valitutti, fermato assieme a Pinelli, che afferma di  aver sentito provenire dalla stanza dell’interrogatorio di Pino “dei rumori sospetti come di una rissa”. Rumori piuttosto strani per un colloquio ufficialmente civile e tranquillo. Valitutti smentisce inoltre la versione di Calabresi, che ha sempre sostenuto di essere uscito da quella stanza prima del ‘balzo felino’5, e le sue dichiarazioni, sempre coerenti, contrastano con quelle degli inquisitori, che invece mutano in continuazione:

Prima versione: «quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma non ci siamo riusciti ». Seconda versione: abbiamo tentato di fermarlo « ma ci siamo riusciti solo parzialmente ». Terza versione: «abbiamo tentato di fermarlo e il brigadiere Vito Panessa con un balzo cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida ». E bravo il brigadiere Vito Panessa ! Abile e veloce, ma un po’ miope forse, dal momento che non ha visto che il Pinelli aveva 3 scarpe. Le persone che si sono avvicinate al corpo del «suicida », nell’aiuola del cortile della Questura, affermano infatti di aver visto chiaramente ai piedi di Pinelli le due scarpe di pelle scamosciata. Come si spiega allora la scarpa rimasta in mano al brigadiere Vito Panessa? A meno che questi anarchici non abbiano addirittura tre piedi; gente strana d’altronde, da cui ci si può aspettare qualsiasi cosa”.6

Lotta Continua analizza quotidianamente ogni incongruenza delle versioni ufficiali. Per i suoi redattori (e non solo per loro) non ci sono dubbi: Giuseppe Pinelli è stato assassinato. Ne sono responsabili Guida, Allegra e Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli, assieme al tenente dei C.C. Savino Lograno.

LC - Calabresi 3

Ma Dotto’! .. che fa spinge ? Tratto da: Lotta Continua del 28/02/70.

Il giornale evidenzia come in tutte le inchieste sulle bombe dell’ultimo anno (bomba del 25 aprile al padiglione Fiat della stazione centrale, bombe sui treni dell’8 e 9 agosto) si riscontri la presenza del giudice Amati, di Calabresi o Guida, impegnati a perseguitare gli anarchici seguendo teoremi dall’esito infruttuoso, tralasciando invece le piste neofasciste7.

Si denunciano lunghe carcerazioni di anarchici basate su prove false, si raccolgono testimonianze sui pestaggi che coinvolgono gli stessi poliziotti presenti all’interrogatorio di Pinelli:

Ma quello che più ha influito nel farmi firmare i verbali scritti dalla polizia sono state le percosse e le minacce. Era la prima volta che subivo violenza fisica. Sono stato schiaffeggiato, colpito alla nuca, preso a pugni, mi venivano tirati i capelli, e torti i nervi del collo. Rendeva più terribile le percosse il fatto che avvenivano all’improvviso dopo aver fatto chiudere le imposte, e venivo colpito al buio. In particolare ricordo di essere stato colpito dal dr. Zagari che mi accolse al mio arrivo da Pisa alle 3 di notte con una nutrita scarica di schiaffi, e dagli agenti Mucilli e Panessa. Quanto alle minacce, consistevano nel terrorizzarmi annunciandomi, codice alla mano, a quanti anni di carcere avrei potuto essere condannato, cioè fino a venti anni. Tali minacce mi furono ripetute in carcere da parte del dr. Calabresi”.8

Infine, sulle pagine di L.C. non manca mai, per Calabresi, lo sberleffo della satira.

Nel frattempo, la ‘giustizia’ sul caso Pinelli fa il suo corso … verso un vicolo cieco: il procuratore Caizzi conclude con un’archiviazione l’istruttoria preliminare per la morte del ferroviere, avvalorando in toto la versione della questura. Caizzi non permette nemmeno ai familiari di Pinelli di costituirsi parte civile. In questura tutti sono rimasti al loro posto, in posizioni tali da poter inquinare prove e imbastire provocazioni. Strani interrogatori ai vicini di casa dei Pinelli sembrano ricercare prove di immoralità della madre e della moglie, ree di aver denunciato il questore Guida per le infamie dette sul loro congiunto (denuncia che non avrà nessun seguito).

Ogni via giudiziaria sembra chiudersi, tranne una. Perché Calabresi querela Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta Continua, per diffamazione continuata e aggravata. E commette un errore. (Continua)

LC - questura di Milano

A Dotto’ ! Me lo potevate dire ch’ era un confronto. Tratto da Lotta Continua.

 

 


  1. Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, 1971, pp. 3/4. 

  2. Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009, p. 22. 

  3. Camilla Cederna, op. cit., p. 5. 

  4. Lotta Continua, 17 gennaio 1970. Lotta Continua, 24 marzo 1970. 

  5. Cederna, op. cit., p. 7. 

  6. Lotta Continua, 21 febbraio 1970 

  7. Lotta Continua , 24 marzo 1970, p. 5. 

  8. Lotta Continua, 1° maggio 1970. 

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Un granello di sabbia/3 https://www.carmillaonline.com/2015/08/04/un-granello-di-sabbia3/ Tue, 04 Aug 2015 00:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24138 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

2Doveva essere febbrile, in quell’autunno caldo, l’attività di via Giacosa, sede torinese dei così detti “Servizi Generali” della Fiat.

C’era molto lavoro: analizzare i rapporti delle spie di reparto infiltrate fra gli operai, interrogare i vicini di casa dei soggetti da sorvegliare, ma anche i parroci, i negozianti del quartiere, le portinaie, i messi comunali. Bisognava annotare le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, le frequentazioni, l’osservanza religiosa, le abitudini private e sessuali, non solo degli operai Fiat e degli [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

2Doveva essere febbrile, in quell’autunno caldo, l’attività di via Giacosa, sede torinese dei così detti “Servizi Generali” della Fiat.

C’era molto lavoro: analizzare i rapporti delle spie di reparto infiltrate fra gli operai, interrogare i vicini di casa dei soggetti da sorvegliare, ma anche i parroci, i negozianti del quartiere, le portinaie, i messi comunali. Bisognava annotare le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, le frequentazioni, l’osservanza religiosa, le abitudini private e sessuali, non solo degli operai Fiat e degli aspiranti tali, ma anche dei loro familiari, e poi di politici della sinistra, sindacalisti, giornalisti. Occorreva stilare le liste dei proscritti, o al contrario, quelle dei fascisti da preferire nelle assunzioni.

Il tutto in mezzo al via vai dei fattorini, impegnati a portare in Questura e alla Caserma dei CC i pacchi di schede già intestate con i nominativi da ‘attenzionare’. Gli agenti e funzionari dell’ordine pubblico le avrebbero riempite con solerzia riversandovi il contenuto degli archivi polizieschi.

Insomma, in via Giacosa l’attività ferveva, soprattutto in quegli anni turbolenti. Anni in cui i cortei interni raccoglievano migliaia di operai e la fabbrica risuonava del rumore dei tamburi. Al loro arrivo tacevano le macchine, si fermavano i forni, le frese, le saldatrici. “Agnelli, l’Indocina ce l’hai in officina” gridavano gli operai, e i capi scappavano, scappavano1. La produzione crollava sotto i colpi del gatto selvaggio.

1969 Assemblea a Mirafiori.

1969 Assemblea a Mirafiori

Probabilmente l’unico reparto che ancora funzionava a pieno ritmo era proprio quello dei ‘Servizi Generali’.

La produttività dell’ufficio era triplicata rispetto agli anni ’50, quando si concentrava sulla persecuzione dei comunisti, degli ex partigiani e dei membri delle Commissioni Interne da avviare al licenziamento o ai reparti confino.

L’immigrazione dal sud e l’emergere dell’operaio massa avevano ampliato il campo di indagine a dismisura: dalle 203.422 schedature del periodo 1946-66 si era passati alle 150.655 nel solo quadriennio ’67-’71, portando la media annuale da 12.000 a 37.500. Fino a quando nell’agosto ’71 un incidente di percorso2 permise l’irruzione di Raffaele Guariniello nei locali di via Giacosa. Davanti al giovane pretore si stagliò un immenso archivio.

Il 13 novembre di quell’anno il Teatro Alfieri non riusciva a contenere la gente. L’assemblea dal titolo “La città deve sapere”, indetta dai sindacati, traboccava di pubblico. Al tavolo della presidenza, l’avvocato Bianca Guidetti Serra.

Sul palco si alternavano gli interventi degli operai, molti di quegli 812 licenziati per rappresaglia politico/sindacale3 dagli stabilimenti torinesi degli Agnelli. A un militante di Lotta Continua il compito di fare i nomi e i numeri dello spionaggio e della corruzione. Ciò che colpiva non era solo l’entità dell’opera di schedatura, ma la natura degli informatori: in pratica al soldo del servizio informativo della Fiat risultava l’intero apparato repressivo di Torino4.

Cariche davanti a Mirafiori.

Cariche davanti a Mirafiori.

Il dossier di LC denunciava quasi tutti i questori della città dal ’53 in poi, compreso Marcello Guida, già tristemente noto per le cariche di Corso Traiano, e che sarebbe poi assurto a peggior gloria come questore di Milano nel giorno della defenestrazione di Pinelli5.

Guida, denunciava LC, riceveva dalla Fiat circa un milione all’anno. I più pagati risultavano Ermanno Bessone e Aldo Romano, rispettivamente capo e commissario dell’Ufficio Politico della Questura, con cifre aggiuntive allo stipendio pubblico che andavano dalle 250.000 alle 400.000 lire mensili (ai tempi in cui un salario operaio era di 120.000).  Più scarna la busta paga mensile del tenente colonnello Enrico Stettermajer, capo del nucleo speciale dei CC di Torino e referente del S.I.D., che raggiungeva le 150.000 lire. E poi c’erano il Colonnello dei CC (altro appartente al S.I.D.) Alessandro Astolfi, e il capo gabinetto della Questura dott. Stabile.

L’archivio dei loro uffici era a completa disposizione del committente, così come altri servigi: Stettermajer era indicato da Lotta Continua come l’artefice di montature contro i propri militanti, Astolfi come mandante dell’infiltrato in LC Salvatore Cieri6, mentre di Bessone e Romano si sottolineava l’accanimento nel guidare le cariche durante i cortei ed ordinare gli arresti7. Fra le causali dei versamenti delle loro provvigioni, i contabili della Fiat annotavano le formule “aiuto durante uno sciopero“, “aiuto durante una manifestazione“. L’ ‘aiuto’ consisteva nella a violenza poliziesca contro gli scioperanti.

Oltre ai dirigenti, la Fiat beneficiava anche la a truppa, con 150 stipendi extra per agenti e funzionari dell’ordine pubblico, che collaboravano in perfetta osmosi con lo staff dei ‘Servizi Generali’, composto in maggioranza da ex poliziotti, ex militari ed ex CC.  Lo stesso Cellerino, dirigente dei “Servizi Generali”,  era stato per 18 anni a capo del nucleo Sios Aeronautica, dipendente dal S.I.D.

Ermanno Bessone dirige la piazza

Aldo Romano durante una manifestazione.

L’azienda non tralasciava inoltre di sovvenzionare gli uffici di polizia e carabinieri pagandone le manutenzioni, fornendo la cancelleria, e le bevande calde alle guardie impegnate contro i picchetti operai. Infine, la Fiat omaggiava la sua rete informativa con migliaia di benefit da quattro soldi – cioccolatini, bottiglie di Cinzano, profumi, orologi e regalucci – che venivano inviati per le festività a migliaia di carabinieri, poliziotti, vigili urbani, questori di altre città, ufficiali e sottoufficiali di Esercito, Aeronautica e Servizi, dipendenti dei Ministeri, dei Comuni, delle Prefetture e tribunali, dell’ACI e Motorizzazione Civile. A tutti i magistrati era assicurato uno sconto sull’acquisto dell’auto.

Questa immensa opera di corruzione andò a processo, ma non a Torino, per evitare, disse il procuratore generale, la reazione delle “masse operaie che presumono, a torto o a ragione, di essere controllate nella loro vita privata da organi del patronato in collusione con le forze di polizia”. “Non di minore rilievo assume il fatto che dovrebbe essere incriminato un imponente numero di appartenenti al corpo di PS e all’Arma dei Carabinieri, quasi tutti svolgenti compiti di polizia giudiziaria e pertanto necessari e costanti collaboratori della magistratura torinese”.8

Il procedimento venne dunque spostato a Napoli per ‘legittima suspicione’, a debita distanza dalle parti lese. Se ne abbiamo notizia, nonostante la congiura del silenzio a cui aderì la quasi totalità della stampa italiana, è grazie anche agli avvocati di parte civile Pier Claudio Costanzo e Bianca Guidetti Serra.

Le schedature FiatNon fu facile neanche per loro intervenire nel processo. L’accesso agli atti era protetto da un rigidissimo segreto istruttorio che impediva, di fatto, la costituzione di parte civile degli operai licenziati per rappresaglia, perché non avendo accesso alle schede, essi non potevano dimostrare di essere stati schedati e che da tale schedatura fosse derivato il licenziamento politico. Ma per la prima volta nella storia Costanzo e Guidetti Serra riuscirono a far passare la costituzione di parte civile delle forze sindacali come rappresentanza collettiva.

Per più di quaranta udienze gli avvocati di parte civile si alternarono, percorrendo chilometri e chilometri nel lungo viaggio da Torino a Napoli e ritorno, senza avere certo a disposizione gli aerei privati della Fiat, come avevano i colleghi difensori. Si scontrarono con i tentativi di insabbiamento, con i mille ostacoli burocratici e rinvii, e finanche con il segreto politico militare apposto su una parte degli atti.

Arrivarono a sentenza nel febbraio del 1978, con trentasei condannati per corruzione e violazione del segreto d’ufficio, tra cui cinque dirigenti Fiat e un alto dirigente della Questura. “Pene estinte dalla prescrizione dopo le attenuanti concesse in sede di appello l’anno successivo. I reati più lievi erano già stati cancellati dall’amnistia, e nessun imputato venne seriamente danneggiato dal processo. Tutti restarono al loro posto, salvo alcuni pubblici ufficiali trasferiti ad altre sedi in ruoli equivalenti…. Ma non era questo che ci interessava” – scrisse Bianca Guidetti Serra – “l’importante, invece, è che si fosse svolto il processo come momento di verità“.9

Bianca raccolse questo momento di verità in un libro, che come il processo, ebbe un iter egualmente travagliato. ‘Le schedature in Fiat’, scritto per Einaudi, venne infatti stampato ma, all’ultimo momento e per ragioni ignote, mai messo in distribuzione. Per vederlo in libreria, l’autrice dovette rivolgersi a un altro editore.

Il processo alla Fiat non fu l’unica occasione in cui l’avvocato Guidetti Serra si trovò a combattere per la giustizia in fabbrica. Fu infatti tra i primi legali ad occuparsi del tema delle nocività, sostenendo le parti civili contro l’Ipca di Ciriè in una causa pilota nata dalla caparbietà di due lavoratori.

IpcaL’Industria Piemontese dei Colori di Anilina, proprietà delle famiglie Ghisotti e Rodano, era attiva dal 1922 per la produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche, potenti cancerogeni vescicali, la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn. Nocività note, dunque, già dalla fondazione dell’Ipca, ma non per questo i padroni adottarono provvedimenti. “I Ghisotti di tutto questo non se ne dettero per inteso. La loro fabbrica continuò a lavorare come prima, gli operai erano a mani nude, senza tute, senza maschere. Polvere e colori impregnavano i loro corpi, avvelenavano le loro vite”.10

Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.

Ipca di Cirié.

Ipca di Cirié.

Non si durava molto là dentro: “Ho 44 anni. Sono sposato e ho un figlio di tre anni. All’Ipca ci sono stato dal 1960 al 1962. Lavoravo nel magazzino delle materie prime. Per non sentirci male, ogni tanto scappavamo fuori a prenderci un po’ di fiato. L’anno scorso, a distanza di 15 anni da quando sono uscito da quell’inferno, ho incominciato a orinare sangue.11

Intervistato sulle condizioni in fabbrica, Silvio Ghisotti rispondeva al giornalista: “Lei mi insegna, che nulla è più dannoso per un’industria che gettar via soldi inutilmente”. Parole di uno che sente di non aver nulla da temere. Non dal Comune di Ciriè, che nel ’67 cazziò violentemente gli operai che avevano chiesto aiuto al gruppo consiliare del PCI. Non dalla Provincia, che smarrì distrattamente la denuncia inviatale dalla Commissione Interna. Non dall’Inail, né dall’Ispettorato del Lavoro, che negò di aver mai fatto controlli, a fronte di più di un centinaio di morti. Né dal medico di fabbrica, che prescriveva agli operai che pisciavano rosso di bere meno vino e più latte. In compenso l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Torino, pubblicò un ricerca allarmante sui tumori all’Ipca … ma senza dire, per ‘riservatezza’, il nome della fabbrica.12

Gli operai capirono che dovevano fare da soli. Nel 1968 due di loro, Albino Stella e Benito Franza si licenziarono. Per qualche anno girarono tutti i cimiteri della zona, annotando i nomi dei compagni morti. Ne trovarono 134, e decisero che erano abbastanza.

La fabbrica del cancroDovevano sbrigarsi a fare denuncia: anche loro erano dei “pissabrut“, dei “pisciarosso”, come venivano chiamati i condannati dell’Ipca. La loro inchiesta fu alla base dell’apertura del processo, che riguardò 37 casi di morte avvenuta e 27 di grave malattia in corso.  Tutti gli altri omicidi erano andati in prescrizione, o amnistiati.

Benito Franza non arrivò alla sentenza, ma fece in tempo a lasciare testimonianza : “Mi sono impiegato all’Ipca, come primo lavoro, nel 1951. Ero addetto alla produzione di betanaftilamina, e usavo materiali che mi hanno fatto venire, come ho saputo 15 anni dopo, il cancro alla vescica. Lavoravo in questo modo: con una paletta a manico corto prelevavo il beta naftolo in polvere e caricavo così, insieme ad altri elementi, un’autoclave…. La miscela bollente entrava a contatto con l’aria e sollevava una gran nube di vapore velenoso che passava in tutti i reparti, e che veniva respirato da tutti gli operai…”.

E testimoniarono anche altri: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi. I topi che entravano morivano con le zampe in cancrena. I topi non portano zoccoli“.

Sulle mie lenzuola e sul cuscino conservo ancora l’impronta del corpo di mio marito. Infatti, pur lavandosi e facendosi il bagno prima di coricarsi, la notte tutti quei colori che aveva in corpo uscivano, trapassavano il pigiama e le lenzuola rimanevano impregnate… Dormendogli accanto, sentivo un forte odore acido emanato dal suo respiro...”

Ipca di Ciriè

Ipca di Ciriè.

“Il medico mi chiedeva solo se mangiavo, se fumavo, se bevevo … Una volta che sono svenuto mi ha misurato la pressione, e siccome era bassa, invece di avvertirmi che era colpa dell’ammoniaca, mi ha detto solo di mangiare di più...”13

Durante la prima udienza – ricorda Bianca Guidetti Serra – il pubblico era così folto che si dovette cambiare aula. Venne accolta per la prima volta (e fece precedente) la costituzione del sindacato come parte civile in una causa per omicidi bianchi, e solo poche famiglie accettarono il risarcimento offerto dai Ghisotti per chiudere il contenzioso. La maggior parte resto’ dentro il processo. Spesero molto, i Ghisotti, negli onorari dei principi del foro, nelle perizie di illustri scienziati, ma non bastò ad evitare le condanne di quattro dirigenti e del medico di fabbrica. Un altro precedente giuridico, perché per le morti da malattia professionale non era mai successo.

In quell’occasione, gli avvocati delle parti civili destinarono i propri onorari alla costituzione della “Fondazione Benito Franza”. Era nello stile di Bianca evitare di arricchirsi col mestiere.

Del resto, la sua clientela abituale non era particolarmente danarosa: “In quegli anni avevo un calendario fittissimo di processi e mi spostavo di continuo tra Torino, Genova, Pisa, Lucca, Firenze, Milano e molte altre città per affrontare casi legati quasi sempre a manifestazioni di piazza di studenti e operai. Erano gli anni delle occupazioni, degli scioperi, degli sgomberi, delle assemblee, ma in quel periodo difesi anche molti obiettori di coscienza, erano i tempi in cui diversi giovani venivano arrestati per non aver risposto alla chiamata di leva… mi capitò di difendere Adriano Sofri per blocco stradale davanti al municipio …14.

E le capitò anche di difendere Pio Baldelli, direttore responsabile di “Lotta Continua“, dalla querela per diffamazione avanzata dal commissario Luigi Calabresi, indicato dal giornale come uno dei principali responsabili dell’omicidio di Pinelli. Un occasione insperata, per LC, per poter confutare, con il rilievo di un pubblico dibattimento, la tesi del suicidio del ferroviere anarchico. (Continua)

 


  1. Si partiva. Si andava verso quelle squadre che eravamo sicuri avrebbero scioperato, battendo ritmicamente sulle latte usate come tamburi, e così il corteo si annunciava, le altre squadre lo sentivano arrivare da lontano e si preparavano fermandosi. Gridavamo slogan: Ho Ho Hochiminh, Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina, slogan che nascevano dalle riunioni con gli esterni, con gli studenti… si battevano i tamburi, e quando incontravamo un caporeparto gli ci si metteva tutti intorno come gli indiani, a battere e a ballarci attorno, finché questo non si ubriacava e finiva dentro al corteo… man mano che li facevi i cortei diventavano sempre più grossi, la gente ci trovava non tanto un mezzo per ottenere più soldi e ferie, quanto la libertà”. Da Gabriele Polo, I tamburi di Mirafiori, Cric, 1989, pp. 63/64. 

  2. A sollevare il caso fu la vertenza di un dipendente dei ‘Servizi Generali’, tal Caterino Ceresa, che, in seguito al licenziamento, fece vertenza contro la Fiat perché lo aveva inquadrato come semplice fattorino, mentre lui svolgeva le superiori funzioni di spia. Per sostenere le sue ragioni, Ceresa mostrò ai giudici alcune schede, spiegando nei minimi dettagli funzionamento e funzioni del suo ufficio. 

  3. La stima è per difetto. 812 è il numero di licenziati Fiat del periodo 1948/66 che ottennero il riconoscimento previsto dalla legge 36/74. Sui licenziamenti degli anni ’50 a Torino: Donato Antoniello, Da Mirafiori alla S.A.L.L. Una storia operaia, Jaca Book, 1998, p. 220. 

  4. Lotta Continua, Anno III, n. 17/18, 16 novembre 1971, p. 10. Per il dibattito parlamentare sulla questione: Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, Seduta di venerdì 29 ottobre 1971

  5. E’ il primo ad arrivare all’ospedale Fatebenefratelli dove impone la presenza di un poliziotto al capezzale di Pinelli. Poche ore dopo dichiara il falso alla TV: “era fortemente indiziato, il suo alibi era crollato” . Poi aggiunge: “Vi giuro: non l’abbiamo ucciso noi”. Pochi mesi dopo viene promosso ad incarichi ministeriali e trasferito a Roma“. In: Agnelli ha paura e paga la questura. I documenti dello spionaggio e della corruzione in Fiat, Edizioni Lotta Continua, 1972. 

  6. Una spia si confessa, in “Lotta Continua, anno III, n. 6, aprile 1971, p. 23. 

  7. Agnelli ha paura…, Op cit. 

  8. Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronacheRosemberg & Sellier, 1984, pp. 18/19. 

  9. Ibidem, p. 13. 

  10. Breve storia dell’Ipca. Come nasce una fabbrica della morte, Lotta Continua, n. 11, 1978, p.6. 

  11. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p.116. 

  12. Tecnici e classe operaia, in “Lotta Continua”, 23 giugno 1978, p. 10. 

  13. INAS-CISL (a cura di), La fabbrica descritta dagli operai. Il caso IPCA, Almeno so di cosa morirò, Torino, 1973. 

  14. Stefano Moro, Tessere il filo della democrazia. Intervista a Bianca Guidetti Serra, 16 novembre 2010.  

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