William Somerset Maugham – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 10:25:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un mitomane a Parigi, in un noir https://www.carmillaonline.com/2025/10/14/un-mitomane-a-parigi-in-un-noir/ Tue, 14 Oct 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90970 di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana [...]]]> di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana delle vicende messe in scena dai grandi scrittori francesi: Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Ad affiancare quest’ultimo, nella più recente trasposizione italiana del duo francese offerta dall’editore, I vedovi, incontriamo, sotto la veste di traduttore, Ezio Sinigaglia, che è anche un bravissimo romanziere e poeta, fine facitore di intrecci assolutamente non banali nonché di un intrigante linguaggio a pastiche.

I vedovi, uscito in versione originale nel 1970, si ambienta in un’estate parigina dalle tinte fosche con sullo sfondo un solleone che si tinge di noir. Il protagonista è un giovane aspirante scrittore, Serge Mirkin il quale, oltre a presentarsi come un vero e proprio “mitomane”, è anche tremendamente geloso della bellissima moglie Mathilde, disposto persino ad uccidere a sangue freddo per eliminare ogni possibile rivale. Innanzitutto, chiarisco cosa intendo qui per “mitomane”: si tratta di una definizione utilizzata da Gian Biagio Conte per definire il protagonista io narrante del Satyricon di Petronio (I sec. d. C.), Encolpio, il quale si presenta come un narratore continuamente ingannato dal mito e dalla letteratura alta. Dal momento che si tratta di un colto studente e intellettuale catapultato in un ambiente misero e meschino, non può che vivere ogni situazione frapponendo un filtro fra sé e la realtà, un filtro che gli deriva dalle sue letture ‘elevate’: mito, poesia epica, poesia elegiaca. Fino a credersi, in alcuni momenti, un nuovo Achille o un nuovo Ulisse1. Ebbene, anche Mirkin, come Encolpio, sembra frapporre un filtro letterario fra sé e la realtà. È innanzitutto la gelosia a fargliela vedere completamente stravolta, frutto quasi di un delirio onirico, ma anche la letteratura e il cinema hanno una parte considerevole. All’inizio del romanzo lo vediamo intento a procurarsi una pistola in un sordido bar e così si esprime il personaggio che, esattamente come Encolpio, è l’io narrante dell’intera storia: “Tutto fin troppo facile! Avevo l’impressione di guardare un film di gangster. Anzi, mi muovevo in un film di gangster” (p. 9). L’immaginazione di Mirkin, forse, corre allora a un film come Grisbì (Touchez pas au grisbì) di Jacques Becker, del 1954, che, in quella fine anni Sessanta in cui molto probabilmente si svolge la storia, doveva essere già un classico (tra l’altro, con un attore iconico come Jean Gabin).

Se a Mirkin sembra di muoversi in un film di gangster, è anche vero che egli è completamente separato dalla realtà, come “un pesce nell’acquario”: “Non pensavo più a niente. Ero oltre il confine. Il viale, le auto luccicanti, la luminosità untuosa del tramonto, Mathilde, tutto era lontano; era altrove. Un pesce nell’acquario. Nuota: guarda, un occhio per volta, ora a destra ora a sinistra. Vede delle sagome, le sfiora, immerso nell’indefinito; si dissolve in un sogno liquido; è mostruosamente solo. Ecco. Tutto qui” (p. 10). Lo stesso sfondo parigino assume un aspetto vitreo e indefinito, come avvolto da una perenne nebbia nonostante il caldo estivo. È come se Mirkin si muovesse in una realtà virtuale, in una Parigi da incubo onirico, un universo in cui nemmeno lontanamente si sente l’eco di quel Sessantotto che, pure, doveva essere ben vicino. Per sbarcare il lunario, presta poi la sua voce a personaggi di radiodrammi e sceneggiati ma, in virtù della sua “mitomania”, si trova a pronunciare una frase come questa: “Il vero sceneggiato era quello che stavo vivendo in prima persona” (p. 65). Ma di che sceneggiato si tratta? Naturalmente, qui, non posso svelare più di tanto sulla trama: basti sapere che c’è di mezzo la gelosia e un omicidio compiuto da Mirkin (questo lo posso dire, c’è anche nella seconda di copertina…) spinto proprio da quest’ultima. Il personaggio, frapponendo un filtro letterario fra sé e la realtà, la trasforma come più gli aggrada; gli autori sono abilissimi nel creare questo sfondo di cartapesta allestito apposta per i movimenti scenici di Mirkin: oscuri bar e bistrot, ristoranti di periferia, eleganti palazzi di città e ville di campagna, un appartamento oscuro e livido – quello in cui abita assieme alla moglie – in cui si condensano il suo senso di insoddisfazione e la sua lancinante gelosia, la sua “follia” che “si è trasformata in dolore” (p. 99), il suo sguardo obnubilato sulla realtà circostante, sulle strade che sembrano, appunto, frutto di un “sogno liquido”. Certi angoli, certi interni, certe strade paiono uscite da un romanzo russo, da Le anime morte di Gogol’ o, meglio, da certi romanzi di Dostoevskij. Anche se il nome Mirkin possiede una certa assonanza col Myškin de L’idiota, mi viene in mente soprattutto Delitto e castigo: Mirkin, come un nuovo Raskol’nikov, si muove per le vie di Parigi (che si sostituisce a San Pietroburgo) in preda a un delirio febbrile, a una dolorosa e lancinante angoscia perdendosi in sordidi vicoli e bassifondi.

Nel romanzo di Boileau e Narcejac ha un grande spazio anche la fama letteraria nonché i più meschini sotterfugi cui un individuo può essere disposto per ottenerla: Mirkin è uno scrittore che vorrebbe sfondare a tutti i costi ma, ovviamente, in virtù della sua mitomania, è già convinto di essere bravissimo e geniale (“Sapevo di avere talento! Lo sapevo…”, p. 73). E anche il suo antagonista (ma su questo altrettanto importante personaggio davvero non posso dire di più), il ricco Patrice Garavan, appare intriso di mitomania letteraria: durante una discussione con Mirkin fa riferimento, come se niente fosse, a un personaggio di un romanzo di William Somerset Maugham, “quel funzionario che indossa ogni sera lo smoking per cenare sotto la tenda” (p. 156). Lo stesso Garavan coinvolgerà Mirkin nel lavoro di una trasposizione cinematografica di un romanzo, un lavoro da condurre assieme nella sua isolata villa di campagna, in una situazione molto simile a quella inscenata dalla serie TV Les papillons noir (2022), in cui uno scrittore accetta l’offerta di un misterioso individuo di scrivere un romanzo ispirato alla sua vita altrettanto misteriosa.

Se, nell’universo finzionale de I vedoviquei diabolici anni Settanta che vediamo nella serie TV, intrisi di violenza gratuita, sono ancora di là da venire, ne percepiamo già le prime avvisaglie: una Parigi spettrale, specchio oscuro di un film di gangster, di un radiodramma o di uno sceneggiato altrettanto oscuro e violento, in cui niente lascia intuire le proteste del vicino maggio francese e in cui si muove un personaggio vittima di una mitomania letteraria e cinematografica, separato dalla realtà, truce epigono e imitatore di vecchi gangster ma unicamente interessato alla sua sfera privata fatta di presunta fama letteraria e gelosia. E se la sfera intima e privata si sostituisce alla realtà e ne prende il posto, in un ribaltamento, una violenza che non guarda in faccia a niente e a nessuno invaderà le strade. I tempi dei veri gangster e del codice d’onore della vecchia malavita sono davvero lontani.


  1. Cfr. G. B. Conte, L’autore nascosto. Un’interpretazione del «Satyricon», Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 11-105. 

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La bella e la Bestia (Victoriana 20 / IV) https://www.carmillaonline.com/2014/01/25/la-bella-la-bestia-victoriana-20-iv/ Sat, 25 Jan 2014 22:43:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12352 di Franco Pezzini 

220px-Chemical-wedding(Qui, qui e qui le precedenti puntate.) 

Nozze alchemiche 

La prima volta Margaret ha cercato di salvarsi da sola, e ha fallito; poi hanno provato i suoi amici “giovani” e hanno fallito pure loro: a questo punto ci si aspetta che il vecchio sapiente Porhoët scenda in campo con le armi dell’occultismo e fronteggi Haddo.

Tanto più che The Magician si rifà in modo piuttosto marcato a un testo uscito pochi anni prima, il Dracula di Bram Stoker: e forse non è [...]]]> di Franco Pezzini 

220px-Chemical-wedding(Qui, qui e qui le precedenti puntate.) 

Nozze alchemiche 

La prima volta Margaret ha cercato di salvarsi da sola, e ha fallito; poi hanno provato i suoi amici “giovani” e hanno fallito pure loro: a questo punto ci si aspetta che il vecchio sapiente Porhoët scenda in campo con le armi dell’occultismo e fronteggi Haddo.

Tanto più che The Magician si rifà in modo piuttosto marcato a un testo uscito pochi anni prima, il Dracula di Bram Stoker: e forse non è un caso che nella citata introduzione al romanzo, Maugham inizi a raccontare la storia a partire da quel 1897 in cui egli supera gli esami per la professione medica, ma contemporaneamente Dracula esce in libreria. Al capolavoro di Stoker, Maugham deve moltissimo: a partire da quel tema del vampirismo che, sia pure in forma diversa, accomuna il signorotto Haddo al conte transilvano. Scopriremo anzi tra poco che Haddo mira al sangue di Margaret, inteso nel senso materiale di succo della vita: ma ad avvicinare le due opere è anche più capillarmente la dinamica tra i personaggi. C’è la giovane destinata alla morte, Margaret, come la Lucy del Dracula; c’è la sua amica-formatrice, Susie, in posizione analoga alla Mina di Stoker; c’è in entrambi i testi un fidanzato che si chiama Arthur, che però in Maugham è medico come un altro pretendente della Lucy stokeriana, il dottor Seward, e ha come lui una sorta di anziano mentore – dei cui interessi occultistici il giovane peraltro diffida. Margaret si sente divisa tra fascinazione e disgusto come in generale le vittime del vampirismo; e, come la Mina di Stoker morsa dal Conte, anche Margaret si sente infettata e sostanzialmente impura. L’iniezione di impurità reca in The Magician il frutto proibito di una vita diversa, come diversa è quella delle vittime del vampiro di Stoker: entrambe sono però nei fatti esistenze deprivate e miserabili. E ancora, in entrambe le opere troviamo una dimensione erotica compressa e torbidamente sviata in direzione del versamento di sangue: in Stoker verso una deriva orale, in Maugham nel senso di un sacrificio rituale.

Il fatto è però che qui cambiano gli equilibri: rispetto al modello angelico di Mina, Susie mantiene come detto alcune avvertibili ambiguità; mentre a fronte dell’energico Van Helsing, il timido e dubitante Porhoët appare una copia decisamente pallida e inefficace. Certo, nel corso degli incontri coi quali ora erudisce Susie sui misteri dell’esoterismo può annunciare trionfante di aver scoperto alla Bibliothèque de l’Arsenal un’opera dimenticata da cui risulta che Paracelso nutrisse gli homunculi con sangue umano – e la ragazza ha un sussulto, senza spiegargli perché. Ma Susie non riesce mai a inchiodare Porhoët su qualche affermazione convinta, qualcosa che esca dal “Chi può dirlo?”: e con un simile atteggiamento remissivo è difficile immaginare di condurre una battaglia.

Però Arthur li raggiunge, inatteso e nervosissimo, raccontando di aver incontrato Margaret: e il quadro che riporta è raggelante. Angosciato dall’irrazionale ma ossessiva convinzione che un pericolo minacci l’ex-fidanzata, Arthur ha affidato il lavoro a un collega ed è partito per lo Staffordhire dove presume che lei si trovi, nella tenuta di Haddo a Skene; e lì si ferma nel villaggio più vicino, Venning (tre miglia da Skene; nella realtà due miglia separano Boleskine dal villaggio di Foyers), dove raccoglie un po’ di voci sulla coppia. Scopre così che il signorotto locale Haddo, considerato non solo un pazzo ma anche una sorta di stregone dai minacciosi poteri, la sera fa allontanare la servitù dalla grande casa e vi resta solo con la povera moglie, dedito a strane attività nella soffitta. Viene però anche a sapere che a volte lei esce sola nel parco: così Arthur raggiunge a piedi Skene, penetra nell’area cintata e dopo aver atteso per un po’ presso una panchina di pietra che gli pare un buon posto, riesce in effetti a incontrare Margaret. Trovandola stranita e d’un pallore mortale, con uno scintillio innaturale negli occhi: gli confessa allucinazioni, lo supplica di andarsene, accenna di sapere ormai a cosa Haddo l’abbia destinata – vuole la sua vita per il grande esperimento ormai imminente, anche se si può compiere soltanto in condizioni climatiche di grande caldo, per cui lei confida di sopravvivere fino all’estate successiva. In ogni caso non può scappare, obietta all’ex-fidanzato, o tornerebbe comunque dal proprio aguzzino. Alle profferte d’amore di Arthur, la ragazza contrappone che ormai – ne è certa – quell’amore è finito con la scomparsa della Margaret di un tempo, sostituito da un mero, addolorato affetto. Lo esorta poi, quando per lei giungerà la morte, a sposare Susie che lo ama; e gli raccomanda attenzione, perché Haddo alla prima occasione tenterà di ucciderlo. Poi, terrorizzata dalla parvenza di un rumore, spinge Arthur ad andarsene.

Come la Lucy di Dracula, Margaret è ormai insomma vampirizzata e si avvia verso la morte – eppure, a ben vedere, le dinamiche di Maugham sono parecchio più ciniche. Anzitutto il lettore viene qui informato per bocca di Margaret – e poco importano le obiezioni di Arthur – che ormai quell’amore è morto, sfondato da una malattia dell’anima e dal mutare di profilo del suo oggetto. L’Arthur che vedremo combattere contro Haddo lo farà dunque per vendetta, forse anche per giustizia, ma insieme per chiudere una partita personale che affonda radici nella propria storia, e divorato da una furia rabbiosa che flirta con lo squilibrio.

D’altro canto ci attenderemmo che di fronte al penoso quadro del parco di Skene l’eroe di turno tentasse un’immediata, magari sterile ma temeraria azione contro Haddo: in fondo ha scoperto che la sera nella grande casa non restano servitori, e comunque nel bosco ha evidentemente facilità a incontrare Margaret da sola. E invece no: incassati da Porhoët la conferma della plausibilità di un sacrificio umano ma anche il suggerimento rassegnato di aspettare, Arthur inizia a sperare che quei terribili timori siano infondati. A quel punto Susie, che ha l’impressione che la vera urgenza sia di distrarre Arthur, gli propone una simpatica gita assieme di un paio di giorni a Chartres; Porhoët avalla l’idea, e anzi si prospetterà l’ipotesi di una successiva vacanza di Arthur con il vecchio medico in Bretagna… Al punto che quando Susie e Arthur tornano a Parigi da Chartres, lui ringrazia calorosamente l’amica per avergli permesso di riprendere il controllo di sé, allontanando l’idea assurda che Haddo voglia davvero far del male a Margaret e preparandosi a passare la questione agli avvocati per far dichiarare matto l’avversario. Ovvio, in un mondo reale è molto più probabile che una persona si comporti così piuttosto che organizzare una squadra di temerari che penetri nel castello, affronti il mostro, salvi la ragazza… Ma il punto non è questo: ciò che sottilmente Maugham sembra mettere in scena è un disinvolto abbandono della povera Margaret, con l’ex-fidanzato che si convince che il pericolo non ci sia, la cara amica che per primo obiettivo ha di conquistare l’uomo del proprio cuore, e lo pseudo-Van Helsing che si rassegna e vagheggia gite ai luoghi dell’infanzia. Dinamiche cinicamente realistiche, e che tuttavia non appaiono spesso evocate con tale sorniona, acida efficacia nella letteratura fantastica.

Certo, poi Arthur raggiunge gli amici colto da un ulteriore, improvviso presentimento – imbarazzante per un uomo tanto razionale – che a Margaret sia accaduto qualcosa di terribile, e li trascina entrambi in Inghilterra: dove in effetti si è verificata un’ondata insolita di caldo, a evocare sinistri echi di quanto detto da Margaret a proposito del grande esperimento di Haddo. Passando da Londra, attraverso cambi faticosi di treno, raggiungono infine il villaggio di Venning: e lì apprendono dalla proprietaria della locanda che Margaret è improvvisamente morta – di cuore, si dice – ed è già sotterrata. L’incontro di Arthur con il medico locale, risentito per i suoi dubbi sul referto di decesso naturale, non conduce ad alcun risultato; e neppure la visita a Skene, dove incontrano un Haddo ormai obeso fino alla deformità – quasi che le mostruose operazioni condotte stiano impattando sul suo corpo in forma di degenerazione cellulare – e che affetta un sincero dolore.

La possibilità che Margaret sia stata uccisa da un attacco di cuore in effetti non può escludersi: e Arthur esasperato, diviso tra una furia distruttiva verso Haddo e il tentativo di cercare la verità, matura una decisione estrema. Il clima malsano e claustrofobico di questi ultimi tre capitoli, con Susie e Porhoët di fronte a un uomo i cui punti fermi sono ormai tracollati, è reso con febbrile efficacia. Arthur si rende conto per esempio che quel ragazzino che tanti anni prima aveva visto morta in uno specchio magico la madre di Porhoët era proprio lui: anni di sforzi per credere nella ragione avevano censurato quel passato aperto al sovrannaturale. E ora proprio lui chiede all’anziano amico di porre in atto quelle cognizioni teoriche di magia che ha tanto a lungo studiato, per permettergli di parlare ancora una volta con Margaret e apprendere la verità: di evocare cioè l’ombra di Margaret come Eliphas Lévi aveva fatto con quella di Apollonio. Inorriditi, i due compagni devono alla fine accettare di aiutarlo.

Farei un torto al romanzo di Maugham se pretendessi di asciugare in un pedantesco riassunto la scena di grande impatto ch’egli offre. Mi limito a dire che i tre, digiuni come spesso previsto nei protocolli necromantici, si recano nel parco di Skene varcando ancora una volta i cancelli, a richiamare Margaret nell’ultimo luogo dove l’ex-fidanzato l’ha vista. Susie è terrorizzata, e si fa forza, sconvolta dalla vergogna, solo quando Arthur glielo ordina in nome dell’amore che lei prova per lui – perché è l’unico modo di dargli la pace. Preceduta dallo scatenarsi di un vento rabbioso, la chiamata della morta reca all’improvviso un silenzio totale: e al pianto di donna che segue, con la voce di Margaret terrorizzata e in agonia, fa riscontro per un attimo l’apparizione di lei piangente sulla panchina di pietra. Arthur ha così la certezza che i suoi peggiori sospetti sono confermati.

Dopo quella notte, i tre si fermano ancora a Venning: Arthur vaga da solo per la campagna, sconvolto e in preda al furioso tentativo di vendicarsi, e gli amici restano con lui in un clima di totale smarrimento, sotto quella cappa malsana e soffocante di caldo. È chiaro che la legge può ben poco, visto che il medico locale è chiaramente succube del demoniaco signorotto, e il timore è che Arthur commetta qualche follia. Ma una sera si scatena un temporale, la lampada si spegne all’improvviso – e a un tratto i tre hanno la sensazione che qualcun altro sia penetrato nella stanza. Arthur si scaglia contro l’intruso e Susie ha l’intuizione che si tratti di Haddo. Porhoët sembra bloccato, Arthur lotta corpo a corpo con l’ombra in cui anche lui ha riconosciuto il mago, ma tutto nel buio e in un silenzio assoluto – poi Arthur spezza un braccio all’avversario, ne afferra il collo enorme e vi affonda le dita con tutto il proprio peso… e a un tratto sa che il nemico è morto. Solo a quel punto Porhoët sembra ridestarsi, riaccendono la lampada ma a terra non c’è nessun corpo. Susie sviene.

Quando si riprende, però, Arthur chiede ancora che vadano insieme a Skene: Susie si rende conto che lui può in qualche modo rispondere al suo amore e si adegua. Benché stravolti dalla stanchezza e dall’emozione, i tre si sobbarcano dunque le miglia fino alla proprietà maledetta, ne varcano ancora i cancelli, penetrano nella casa, e scoprono fortunosamente un passaggio per la soffitta – da cui giunge uno strano suono. In un laboratorio da mad doctor, impregnato di un nauseante odore, trovano infine i frutti degli esperimenti di Haddo di creare la vita, uno più disgustoso dell’altro, fino a quello più impressionante e oscenamente umanoide che bercia all’interno di un grande recipiente. E per terra morto, con un braccio spezzato e segni di dita sul collo, giace Haddo – morto evidentemente nel duello in cui il medico ha ucciso il suo doppio astrale. Allora Arthur esorta gli amici a precederlo sulla strada e si ferma per un’ultima incombenza, raggiungendoli poco dopo. Sono ormai distanti, con Arthur addolcito che coccola Susie dopo tante emozioni, quando vedono le fiamme avvolgere la casa con tutti i suoi orrori.

Un finale – in qualche modo un lieto fine – che potremmo giudicare canonico, se non scontato: il cattivo è morto, i buoni si allontanano con tanto di storia d’amore sbocciante (tra l’altro molto più equilibrata, per comune maturità dei partner, di quella originale tra Arthur e Margaret), l’infezione morale sradicata. Sembra la fine di un film di mostri della Universal, con l’incendio in effetto matte: e del resto la versione cinematografica di Ingram, pur raffinatissima, ha una conclusione un po’ su questa linea, con Arthur e Porhoët che raggiungono il castello (in Francia, non in Scozia) dove Haddo ha portato Margaret, fanno irruzione in tempo per salvare la ragazza dal tavolo del sacrificio, e nel duello con Arthur il mago precipita in una fornace. Tutto molto suggestivo, ma nell’ambito di una storia dove bene e male sono chiaramente collocati, definiti e separati.

Al contrario nel romanzo, a ben vedere, anche la conclusione non è così ovvia. I tre episodi finali – cioè l’evocazione dell’ombra di Margaret, il duello con il corpo astrale di Haddo e gli orrori trovati a Skene – presentano infatti caratteristiche di un fantastico inteso nel senso più equivoco e spiazzante. Anzitutto, come già in fondo annunciato dal racconto sfuggente dell’evocazione dell’ombra di Apollonio compiuta da Eliphas Lévi, la chiamata di Margaret morta si consuma in una situazione di febbre emotiva: è assai difficile capire cosa avvenga a livello oggettivo, e cosa su un piano totalmente soggettivo, per quanto condiviso in termini allucinatori. La totale alienazione dei personaggi, schiacciati in una situazione claustrofobica e alla deriva di emozioni violente, provati da un lungo digiuno e dal ricorso a una pratica che sfida antichi tabu, e poi precipitati in un contesto molto impressionante anche sul piano ambientale, non rende affatto pacifica quella conoscenza delle cause della morte di Margaret che Arthur invece pretende di trarne. Il pianto del fantasma – se così si può definirlo – non costituisce insomma una prova che Margaret sia stata davvero uccisa, se non in senso del tutto opinabile e soggettivo.

Ma identica incertezza verte in fondo sulla sostanza dell’altra scena notturna dell’aggressione occulta da parte di Haddo, e che terminerebbe con la sua morte: nei fatti la descrizione può riguardare un’allucinazione condivisa da tre persone in un momento di crisi emotiva e relazioni malate. Certo, nell’ottica di una storia di magia la scena ha una sua precisa plausibilità, ma Maugham sa benissimo che questo racconto come l’altro gioca con l’incertezza – quell’imbarazzo che costituisce in fondo la natura più genuina del fantastico, aprendo a una pluralità di ipotesi alternative tra questo e altri mondi.

In apparenza gli orrori di Skane mostrano una “oggettività” ben diversa: eppure quelle scene raccapriccianti ed estreme che tanto contrastano con il resto del romanzo, circonfuse di un sapore improbabile – gli eroi stravolti che marciano per miglia nella notte, penetrano nella proprietà deserta, trovano mostruosità inimmaginabili, poi fuggono lasciando un incendio che spazza via ogni prova, e in ultimo vedono sorgere il sole – hanno quasi il sapore conciliatorio della soluzione onirica. A costruire, almeno nel sogno, un finale alternativo alla rabbiosa presa d’atto di non poter far nulla di fronte alla morte di Margaret, che seppellisce tutto nel silenzio. O addirittura a inventare per la tranquillità di tutti una ricostruzione assolutoria di una realtà ben diversa: quella forse in cui Arthur, ossessionato dai vaneggiamenti dell’ex-partner Margaret e dalla convinzione che Haddo l’abbia uccisa, ritiene di vendicarla – magari con la pistola che, scopriamo, ha comprato – e gli amici (e i lettori) lo coprono… Tanto più considerando che, a ben vedere, non emerge mai una prova oggettiva che inchiodi Haddo: di sicuro è uno spiacevole manipolatore, ma neppure i mostri del suo gabinetto – in fondo già troppo cresciuti per risalire a pochi giorni prima – dimostrano ch’egli abbia ucciso Margaret.

Certo la vicenda è tutta virata sulle tinte del controllo: quello ovviamente di Haddo su Margaret, ma già quello preesistente su Margaret di una serie di briglie sociali; e ancora il controllo che Arthur pretenderebbe sui propri abissi interiori, e quello con cui i personaggi tentano comunque di imbrigliare una realtà che sfugge, un rapporto tra la scienza e quell’alta marea dell’irrazionale montata alla fine dell’Ottocento in opposizione/ibridazione col positivismo. Ma insieme, proprio alla luce di questo finale, la vicenda di controllo potrebbe svelarsi quella di una paranoia da controllo, un delirio che da Margaret contagia Arthur facendogli uccidere un mago fanfarone, complice un rapporto mai armonizzato del medico con la propria fantasia. Ancora una volta la chiave ambigua del fantastico si dimostra una grande macchina per pensare attraverso la prova di un maestro della scrittura.

Se prima si è citato Dracula, va detto che un filo rosso che corre sottotesto per tutto The Magician fino agli orrori finali, evoca piuttosto un altro caposaldo del gotico, cioè Frankenstein con le sue fantasie genetiche. Anche se l’immagine paradigmatica di una vita creata nel segno del controllo, l’homunculus declinato da Maugham in varie orribili forme alla Giger – non è debitrice di orizzonti nuovi e futuristici della scienza, come quelli vagheggiati da Victor Frankenstein, ma di una scienza antica, l’alchimia, per di più venata di inafferrabili connotati magici. Che soprattutto in quella prima fase della carriera magica di Crowley l’alchimia gli interessi è un dato certo, e per esempio nell’agosto 1898 era stata oggetto di appassionate conversazioni in Svizzera tra lui e il chimico Julian L. Baker: non è dunque impossibile che Maugham stesso abbia potuto sentire la Bestia parlare del tema. Ma nella proprietà di Boleskine modello per Skene, Crowley pratica tutt’altro: l’aveva comprata per le sue interessanti caratteristiche strutturali nel 1899 onde celebrarvi i riti del già citato Libro di Abramelin, che però in apparenza Maugham non conosce – visto che non lo menziona tra i grimori della biblioteca di Porhoët.

Sembra d’altronde estremamente probabile che proprio dallo spunto offerto da Maugham di una generazione magica Crowley abbia deciso di scrivere il proprio romanzo Moonchild (1917, pubblicato 1929): dove però sposta il campo dall’alchimia alla magia cerimoniale in una scatenata satira dei vecchi nemici della Golden Dawn, e si ripropone come personaggio, non più vilain ma protagonista, nei panni del giovane Cyril Grey (oltre che – forse – in quelli del suo maestro, l’anziano occultista Simon Iff, già peraltro mattatore di una serie di novelle poliziesche imbevute di magia scritte dalla Bestia alla fine del 1916).

La connessione virtuale ma plausibilmente anche genetica tra The Magician e Moonchild è stata del resto valorizzata in recenti opere di genere. Si pensi al film Chemical Wedding di Julian Doyle, UK 2008 (negli USA, Crowley), basato su una sceneggiatura di Bruce Dickinson, quello del complesso heavy metal Iron Maiden: a distanza di cinquant’anni un esperimento di realtà virtuale manipolato da un seguace di Crowley fa tornare il mago (John Shrapnel) in carne e sangue di un innocuo professore massone di Cambridge, Oliver Haddo (Simon Callow, grandissimo); e il moonchild verrà annunciato dal display di un computer alla fine del film. Ma un esempio persino più pirotecnico è offerto dalla graphic novel di Alan Moore Century – che vede proprio Haddo lavorare per l’avvento di un moonchild anticristico che si rivelerà (tremate) Harry Potter. E qui è proprio il caso di fermarci.

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La bella e la Bestia (Victoriana 20 / III) https://www.carmillaonline.com/2014/01/18/la-bella-la-bestia-victoriana-20-iii/ Sat, 18 Jan 2014 22:03:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12129 di Franco Pezzini

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(Qui e qui le prime due puntate. Mi si dice che Il mago di William Somerset Maugham, di cui si offre in questa sede un riassunto con commento, sia al momento fuori commercio: chi sia interessato può comunque leggerlo nel limpidissimo inglese dell’originale sul sito del Project Gutenberg. Mentre qui è al momento visibile la già citata, celebre e bellissima trasposizione di Rex Ingram.) 

Il signor Haddo e gentile signora

Se la prima e più ampia sezione di The Magician [...]]]> di Franco Pezzini

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(Qui e qui le prime due puntate. Mi si dice che Il mago di William Somerset Maugham, di cui si offre in questa sede un riassunto con commento, sia al momento fuori commercio: chi sia interessato può comunque leggerlo nel limpidissimo inglese dell’originale sul sito del Project Gutenberg. Mentre qui è al momento visibile la già citata, celebre e bellissima trasposizione di Rex Ingram.) 

Il signor Haddo e gentile signora

Se la prima e più ampia sezione di The Magician è dedicata alla conquista di Margaret da parte di Haddo, la seconda vede il consolidamento della situazione di controllo.

Cominciamo pure con un bel dramma sentimentale – e con l’amica Susie smarrita davanti al biglietto, spedito quel mattino stesso dalla Gare du Nord (all’epoca le poste hanno evidentemente una celerità diversa dall’attuale) in cui Margaret comunica di essere in viaggio per Londra. In quelle poche righe la ragazza spiega di aver sposato Haddo, di amarlo come non ha mai amato Arthur, e di essersi comportata così perché con l’ex-fidanzato le cose erano andate troppo avanti per poter rompere con spiegazioni e chiarimenti: “Please tell him”.

Quando l’ignaro Arthur arriva come da appuntamento, Susie è ancora così frastornata da prender tempo e inventare una scusa per l’assenza di Margaret. Si domanda se lo scritto sia vero, tanto evidente è la sua insensibilità, e conduce una piccola indagine: scoprendo indignata che Margaret non solo si è portata via tutto il guardaroba comprato in vista del matrimonio con Arthur, ma lo ha pagato (ovviamente) coi soldi di lui… Le frequenti assenze di Margaret, scopre ancora Susie, non erano per visitare l’acciaccata signora Bloomfield, e al consolato il matrimonio con Haddo risulta confermato. Susie pensa allora di rivolgersi a Porhoët, ma poi si rende conto di doversi assumere l’onere richiesto da Margaret – anche se le pesa spaventosamente di essere lei, tra tutte le persone possibili, a dover comunicare la notizia ad Arthur.

Ovviamente la scena è straziante, Arthur resta distrutto ma è pronto a rimproverare Susie quando esce in parole durissime verso l’(ex-)amica; non immagina ovviamente che il combustibile di quell’indignazione sia proprio la passione che Susie prova per lui, visto che l’ha sempre considerata solo in termini un po’ marginali come amica della fidanzata. Susie si meraviglia che Arthur ami ancora Margaret dopo un tradimento tanto meschino, e incalza sulle accuse venendo nuovamente ripresa – si scusa, in subbuglio, ma a quel punto arriva Porhoët. Che resta stupefatto: è stato invitato lì per le cinque da un telegramma di Haddo che annuncia “High jinks” (“Gran baldoria”).

Ricordando la repulsione fisica provata inizialmente da Margaret per il mago, Susie si domanda cosa possa essere accaduto nel cuore dell’amica: ma Arthur ammonisce a non essere ingiusti verso Haddo, come invece probabilmente sono stati in passato. Se le eccentricità di lui li irritavano, evidentemente la sua persona non si esaurisce in tali aspetti – né sul versante delle capacità né dello status, che in effetti garantisce a Margaret un buon matrimonio. Come rileva il narratore, lo straziato Arthur sta ovviamente cercando di giustificare Margaret anche per placare se stesso, visto che il tradimento sarebbe meno intollerabile a fronte di avvertibili qualità dell’avversario. Anche se poi lui stesso, pensando ad Haddo, ci crede poco; e lo stesso Porhoët commenta che a voler immaginare una vendetta orribile contro una donna, non penserebbe a nulla di più crudele che di lasciarle sposare il mago.

Diverso è l’atteggiamento di Susie, che rammenta l’episodio del cane e lo sguardo di odio che Haddo aveva saettato prima di affettare le proprie scuse – e individua in quel motivo di vendetta contro Arthur il motore dei fatti poi incalzati. Il che in fondo conferma il tema della responsabilità dei “buoni”: se Arthur non avesse riempito di botte Haddo per il calcio a un animale che in fondo l’aveva morso; se Margaret e Susie non l’avessero impietosamente lasciato fare, senza neppure provare a fermarlo; se i “buoni” non avessero considerato ovvio che fosse Haddo, già riempito di botte e umiliato, a chiedere scusa; se Arthur non si fosse limitato ad ascoltare quelle scuse, tranciando poi giudizi sulla vigliaccheria dell’uomo che non si è difeso – se insomma tutto questo non fosse avvenuto, Margaret sarebbe ancora lì. E laddove ora Arthur, sia pure per consolarsi, avanza qualche blanda autocritica (ma non, si badi, sul fatto di aver menato Haddo), Susie non ne è capace: non trova spazio per rimproveri a se stessa, Haddo è soltanto un mostro.

Il che innesca una domanda interessante: quanto a fondo Maugham conduce la critica ai propri personaggi “buoni”? Indubbiamente il futuro autore di commedie brillanti e ciniche attribuisce loro ambiguità e note stonate; ce ne mostra limiti e fragilità, che finiscono con l’offrire corda al controllo del vilain; e comunque presenta nella scena del cane uno snodo drammatico del loro rapporto con Haddo. Resta però il fatto che in nessun punto del romanzo, neppure alla fine, troviamo una vera autocritica dei personaggi su quella violenza odiosa. Maugham sta sottilmente lasciando alla capacità analitica del lettore la percezione di una corresponsabilità di tutti nel male, oppure vede nell’episodio una sorta di “incidente”, sia pure sciagurato ma giustificabile sulla base di regole sociali (tipo: mai dare un calcio al cane di una signora)? Pur propendendo per la prima interpretazione, dal testo non è facile capire l’esatta intenzione dell’autore: e quest’ambiguità sottesa rappresenta un’ulteriore provocazione nell’apologo della bella ragazza in balia di un mostro.

Susie, che in un primo momento si è tanto indignata con Margaret, deve però riconoscere che quella trasformazione così strana di una persona prima leale e trasparente possa spiegarsi con qualche forma di costrizione. Ma le cognizioni teoriche di Porhoët sugli incantesimi e quelle di Arthur in tema di ipnosi servono poco di fronte al dato fattuale e giuridico di un matrimonio di Margaret in apparente possesso delle proprie facoltà mentali.

In ogni caso, nulla trattiene più Arthur a Parigi. Distrutto, decide di partire subito e lascia a Susie un messaggio per Margaret: non le porta rancore, e sarà sempre pronto a fare ciò che lei desidera. Quanto a Susie, sarà sempre contento di rivederla.

A sua volta desolata, Susie stessa parte, va in Italia per l’inverno: e si trova a Roma quando casualmente riceve notizie sul passaggio in città di Haddo e della sua bellissima moglie, le loro spese non sempre puntualmente pagate, la loro eccentricità – ma i due, spariti un giorno all’improvviso, sarebbero ora a Montecarlo. A quel punto la curiosità ha la meglio sulla volontà di non incontrarli, e si dirige là: e alla fine li vede a un tavolo da gioco. O meglio, Margaret gioca e il mago le resta alle spalle a guidarne i movimenti: e in effetti qualcosa di vizioso trasuda nel viso della ragazza tanto pura d’un tempo, quasi ella veda letteralmente con gli occhi del partner. Margaret veste con ricercatezza e ricchezza eccessive, e qualcosa di enigmatico sedimenta nella sua bellezza. I due frequentano giri strani ed eccentrici, stranieri equivoci, gente di dubbia fama; e circolano voci non solo di orge nel salotto oscurato dell’albergo, tra nobili e viziosi del posto, ma di terribili cerimonie organizzate da Haddo a riproporre quelle viste in Oriente, di pratiche magiche e negromantiche e dei suoi blasfemi tentativi, attraverso l’alchimia, di creare creature viventi.

Sul ménage, non manca chi parla di brutalità e crudeltà di Haddo verso la moglie – che però in apparenza ride tranquilla anche alle sue scene più spiacevoli. Susie coglie pure una strana notizia, da uno scambio di battute tra allegroni: il matrimonio dei coniugi Haddo non sarebbe mai stato consumato.

Quando però i due, sempre più isolati dalle voci losche che li riguardano, spariscono all’improvviso anche da Montecarlo, Susie decide di tornare almeno un periodo in Inghilterra. In realtà desidera rivedere Arthur, benché non osi confessarlo neppure a se stessa, e conta di mantenere con lui almeno un rapporto da buona amica. Giunta a Londra lo contatta, e lui – evidentemente per rendere l’incontro meno intimo – la invita in un chiassoso ristorante: Susie lo trova invecchiato, col volto tirato dalle veglie su cui la sofferenza si è ormai irreversibilmente stampata: la tranquilla affidabilità di un tempo ha lasciato il posto a uno sforzo continuo per controllarsi – anche se è più gentile di un tempo, e il suo successo professionale è in continua crescita. Declina però l’invito a un incontro da Susie per parlare di argomenti più personali, e accetta soltanto di invitarla una sera all’Opera – dove la musica allevia il suo dolore.

Lo spettacolo è appena terminato quando i due si imbattono in un comune amico, il faceto oculista Arbuthnot, che chiede un favore: due commensali a una cena da lui organizzata al Savoy hanno dato buca, e chiede a Susie ed Arthur di sostituirli. Ovviamente Arthur sbianca e Susie resta costernata quando si accorgono che al foyer per la cena sono presenti anche i coniugi Haddo: anzi il mago, ulteriormente ingrossato e vestito con eccentricità, li accoglie con buonumore e apparente cortesia, e fa maliziosamente sedere Margaret accanto ad Arthur. Nessuno ha interesse a fare scenate, il faceto oculista non si accorge di nulla e la vivacità di Haddo, l’abitudine di Susie di controllare i propri sentimenti e il silenzio annichilito di Arthur fanno procedere la cena senza incidenti. Ma Susie ha modo di esaminare Margaret: vestita ormai come una cortigiana, ciangotta e ride con una leggerezza tra l’affettato e l’insensibile; e mentre la storiella raccontata a un tratto dal marito suona argutamente immorale, lei se ne esce a un tratto in una di pura volgarità. Arthur è in terribile disagio, e a fine cena incassa muto l’invito di Margaret all’albergo Carlton dove sono alloggiati. Poi l’invito arriva anche a Susie, che però le sibila indignata di guardare come abbia ridotto l’ex-fidanzato, e le augura di soffrire quanto ha sofferto lui. Margaret ribatte beffarda che dovrebbe esserle grata, che sa benissimo quanto Susie fosse innamorata di lui già a Parigi e anche ora lo ami più che mai. Poi, lasciando l’ex-amica trasecolata per la scoperta di quel segreto che credeva nascosto nel cuore, si allontana con una risata amara. 

Il veleno di Haddo ha insomma trasformato Margaret: ai tormenti della presa di controllo della prima parte del romanzo, dove seguiamo i meandri interiori di Margaret, segue in questa seconda la contemplazione di un dominio ormai consolidato del mago sulla sua vittima – percepita ormai dall’esterno, prigioniera com’è dell’inconoscibile alterità di Haddo. Il che ci conduce però, attraverso l’immagine della strana coppia di avventurieri esuli per il mondo, a uno dei più intriganti retroscena di questo romanzo – su cui la critica generalmente latita.

Se infatti la prima parte di The Magician viene innescata dalle frequentazioni parigine attorno a uno stesso ristorante tra Maugham e Crowley, anche questa seconda parte sembra rimandare in termini di libera reinvenzione a fatti reali. Certo, il tema di una bella ragazza in balia di un mago non è affatto nuovo, basti citare il notissimo Trilby di George du Maurier, 1894, ambientato a metà Ottocento in una Parigi bohémien, e dove il terribile ipnotista Svengali (una spiacevole maschera antisemita) dominava la giovane inglese Trilby: una storia insomma piuttosto simile, e che nel ’27 vedrà il plagiatore interpretato al cinema dallo stesso Paul Wegener mago nel film di Ingram. Tuttavia, al di là delle caratteristiche generali, è probabile che lo spunto ispiratore del romanzo di Maugham sia più puntuale di quanto egli desideri raccontare – per una serie di motivi.

Torniamo all’introduzione A fragment of autobiography. Dopo il periodo parigino, lo scrittore rammenta, è contento di tornare a Londra: e lì – probabilmente nei primi sei mesi del 1907 – mette mano a The Magician, apparso in libreria l’anno dopo. I suoi ricordi però, all’epoca di A fragment, sembrano essersi fatti vaghi: Maugham spiega di non ricordare perché avesse scelto di ispirarsi proprio a Crowley per il personaggio di Haddo, né in generale cosa l’avesse spinto a scrivere quel romanzo – anzi, racconta che non ricordava più il romanzo, e si è deciso a rileggerlo solo in vista della nuova edizione. Affannandosi a spiegare che una volta chiuse le bozze, a un romanzo non pensa più: e nel complesso potrebbe essere sincero, in fondo sono passati cinquant’anni. Eppure, come Maugham stesso dovrà ammettere nel ’38, nelle sue opere “realtà e finzione sono così intrecciati che, guardando indietro, riesco a malapena a distinguere l’una dall’altra”. E in effetti qualcosa potrebbe ben spiegare, all’epoca di A fragment, la sua presa di distanza e i proclami di aver dimenticato tutto.

Si è già detto dell’amicizia di Maugham con il pittore Gerald Kelly – più precisamente oggi rammentabile come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista celeberrimo e tra i preferiti della famiglia reale inglese. Nel corso della loro lunga amicizia, Maugham e Kelly si ritrarranno reciprocamente parecchie volte, il primo ispirandosi direttamente al pittore per personaggi di vari romanzi e il secondo dedicando allo scrittore ben diciotto ritratti. La confidenza tra i due dev’essere grande fin dai primi tempi della conoscenza, appunto al tempo del soggiorno parigino di Maugham: nulla di strano, dunque, a pensare che Gerald non faccia mistero con Somerset dei dettagli della strana storia della propria sorella maggiore, Rose.

Rose Edith Kelly si era sposata con un tale maggiore Skerritt del Corpo Sanitario dell’Esercito di parecchio più vecchio di lei, morto però dopo solo un paio d’anni di matrimonio: dunque nel 1901 la vedova ventisettenne ha già raggiunto il fratello Gerald a Parigi per restarvi sei mesi. Non è qui però che la sua vita conosce la svolta più imprevista, ma durante la villeggiatura in Scozia nell’agosto 1903, quando invitato da Gerald giunge anche Crowley dalla vicina Boleskine. Rose e Aleister già si conoscono, ma ora le confidenze di lei – che ha avuto un’imprudente relazione con un uomo sposato, per cui la famiglia per evitare altri scandali vuole imporle un matrimonio che lei non desidera – spingono Crowley a offrirle con guasconeria una soluzione sostitutiva: sarà lui a sposarla pro forma, e lei potrà continuare a tenersi l’amante. Ciò che forse i due non hanno considerato è che presto entrambi si innamoreranno davvero.

Le foto ci restituiscono il ritratto di una donna dai capelli ramati, vezzosa, un modello di bellezza d’epoca: ed è questa donna che l’11 agosto 1903 fugge con Crowley, sparendo all’improvviso come la Margaret del romanzo, e sposando il mago il giorno dopo, per salvarsi da un matrimonio combinato in qualche modo simile a quello previsto con Arthur. Certo, l’età di Rose l’avvicina di più alla trentenne Susie che alla giovanissima Margaret, ma è difficile non vedere in questi eventi che Maugham deve conoscere tanto bene un legame preciso col libro – a partire dal fatto che entrambe queste inglesine dai nomi floreali (Margaret, Rose) sono sedotte da un unico modello d’uomo. Avvisato il giorno della fuga, Gerald Kelly pensa a uno scherzo e solo la prolungata assenza dei due lo vedrà piombare – ma troppo tardi – a manifestare tutta la sua indignazione. Nei fatti il matrimonio di Rose con Crowley terrorizza la famiglia Kelly e rovina l’amicizia tra Gerald e Aleister.

Inizia comunque per la coppia una prolungata luna di miele a base (ricorda Crowley) di “ininterrotti stravizi sessuali” che può aver suggerito le torbide avventure dei coniugi Haddo – e che da Boleskine, attraverso Parigi, Marsiglia e Napoli, nel novembre 1903 li condurrà in Egitto. Al Cairo Crowley si pavoneggia con spilla di diamanti al pennacchio del turbante, abito di seta e una sopravveste di tessuto d’oro, più la spada talwar ingioiellata al fianco, e due vistosi lacchè a precedere la carrozza per fargli strada. Fa anche pubblicare un avviso, in cui informa che un potentato d’Oriente l’ha insignito del rango di principe Chioa Khan (Chioa è la traslitterazione della parola ebraica per bestia, dunque il titolo può tradursi come “Grande Bestia”): ma soprattutto si occupa di magia, constatando con soddisfazione che Rose, riciclata in principessa e ora incinta, è capace di entrare in trance. Tra invocazioni al dio Thot, speculazioni visionarie e febbrili speranze, è insomma in questa situazione che Rose conduce il marito alla fatale vetrina del Boulaq Museum con la stele lignea di Ra-Hoor-Khuit, reperto numero 666 – una sorta di sincronicità in cui Crowley legge un segno preciso.

Rose insiste con l’augusto consorte che il dio egizio Horus effigiato sulla stele voglia parlargli, e Crowley felice risponde all’appello. Paludato di bianco, scalzo e ingioiellato, con una ciotola di sangue di toro e una spada sull’altare casalingo, invoca l’antica Potenza secondo le istruzioni della moglie, per l’occasione assurta a un altro ruolo, Ouarda (cioè Rose in arabo) la Veggente… e proprio attraverso lei riceve l’annuncio che è giunto l’Equinozio degli Dei, incomincia un’Epoca nuova per l’umanità e lui in persona viene eletto per avviarla. Già nella sua tenuta scozzese a Boleskine, coi riti del Libro di Abramelin, Crowley aveva tentato di comunicare col proprio Angelo Custode: ora qualcuno che si presenta per tale appare a Ouarda e in seguito a lui, incaricandolo di trascrivere quanto avrebbe udito. Per tre giorni consecutivi a partire dall’8 aprile 1904, per la durata di un’ora per volta, l’entità non-umana chiamata Aiwass, Capo Segreto col grado di Ipsissimus, gli detta dunque la propria rivelazione: quel cosiddetto Liber AL vel Legis che abbraccia tre capitoli d’invettive nel segno del Fa’ Ciò Che Vuoi – cioè la ricerca della Volontà vera, che di ogni individuo-stella è l’orbita personale – e di una sorta di diritto nietzschiano dei forti sui deboli. Nasce insomma lì il culto filosofico/religioso del Thelema, al cui nome Crowley resta ormai associato: e Rose diviene la prima di quelle Donne Scarlatte poi partner della Grande Bestia Crowley e ipostasi della Babalon Madre di Abominazioni.

Se è difficile capire fino in fondo con quale impatto queste notizie giungano a Gerald Kelly e quali discorsi egli possa fare all’amico Maugham, è davvero improbabile che questi, pure a distanza di cinquant’anni, non ricordi il motivo della scelta di Crowley come modello di Haddo, o in generale cosa l’abbia spinto a scrivere The Magician. È piuttosto credibile, invece, che egli preferisca non infierire sulla memoria della sorella di Gerald, che pure gli ha offerto uno spunto tanto promettente per il romanzo: tanto più che la deriva di Rose non riguarda solo il suo sprofondare nell’occulto, ma un più generale tracollo esistenziale dovuto in particolare all’alcolismo. La prima bimba della coppia, chiamata verbosamente Nuit Ma Ahathoor Hecate Sappho Jezebel Lilith, nasce nel luglio del fatale 1904, e morirà nel 1906; una seconda, Lola Zaza nasce in quell’anno, e la vita la condurrà lontano dall’ingombrante padre. Una lettera di Crowley del 1908, anno di uscita del romanzo di Maugham, ci informa delle pessime condizioni di Rose che insulta gli ospiti, usa un linguaggio osceno coi domestici, racconta atroci menzogne sul marito: e pur prendendo con le molle la testimonianza di chi non è certo un santerellino, possiamo richiamare il quadro alle condizioni di Margaret – che gorgheggia oscenità tra gli ospiti e presto sosterrà che il marito Haddo la vuole addirittura sacrificare. L’anno dopo, 1909, Rose e Aleister infine divorzieranno, ma nel 1911 la donna verrà ricoverata per demenza alcolica. Una volta dimessa, Rose uscirà completamente dalla vita di Crowley sposandosi una terza volta, ora con il cattolico dottor Gormley, ma il demone dell’alcool tornerà ancora a incombere su di lei. Quando Maugham scrive la nota introduttiva a The Magician, Rose è ormai morta da anni, nel 1932: e se Crowley, come abbiamo visto dai citati brani delle Confessions, ha capito benissimo che Margaret è un alter ego di Rose, a Maugham spiace rievocare quelle vecchie storie – e la logica dei “Non ricordo” pare la soluzione più prudente.    

Ma torniamo al romanzo – siamo al capitolo 12 – dove Arthur, vincendo ogni incertezza, si reca davvero a trovare Margaret all’hotel Carlton: evidentemente lei non se l’aspetta, e la prima reazione è di innervosita rigidità. Però in breve Arthur si rende conto che la ragazza è atterrita, ridotta in soggezione da un coniuge-padrone a cui è impossibile nascondere alcunché.

Nonostante le apparenze, la giovane è sinceramente straziata dall’aria distrutta del suo ex-fidanzato, ma conferma che è per colpa di lui e di quella violenta aggressione nell’appartamento a Parigi che Haddo l’ha resa sua schiava – proprio per vendicarsi di Arthur. Poi gli svela come il mago abbia invaso la sua vita; sfida lo scetticismo del medico raccontando dei poteri del terribile coniuge – basti dire che il luogo del sabba a cui Margaret ha assistito a Parigi, e che lei non aveva mai visto, si è poi rivelato un luogo reale, quello della tenuta di Haddo a Skene nello Staffordhire (ricordiamo che il nome della tenuta di Crowley era Boleskine, sulla costa sudest del Loch Ness in Scozia); ma soprattutto rifiuta di abbandonarlo perché, nonostante lo odî e ne provi disgusto, lei paradossalmente ama Haddo con tutta l’anima e prova per lui un’attrazione fisica violenta.

D’altra parte, confessa con vergogna, Haddo l’ha conquistata al vizio – e cita il gioco, ma in un contesto più vasto di minacciosa allusività; e persino la battuta volgare proclamata alla cena poche sere prima era frutto dell’impulso di lui. Come se in Margaret vivessero ormai due persone, e la parte pulita e gentile che un tempo Arthur aveva amato fosse ogni giorno più fragile, fino a far presagire in prospettiva il dilagare dell’altra anima, quella lussuriosa, in un corpo sia pure vergine. In realtà Margaret sospetta che il motivo per cui Haddo non ha ancora consumato il matrimonio sia proprio di usare la sua verginità per qualche rito magico. Racconta poi qualcosa delle ripugnanti abitudini di lui, del sua sadico piacere di far soffrire gli altri – e l’orribile scoperta che la madre di Haddo è pazza e chiusa in manicomio…

Arthur insiste, ci sono tutti gli elementi per un divorzio e Margaret deve fuggire subito, prima di impazzire a sua volta. Se la porta dunque via così com’è, e la lascia da Susie chiedendo che la assista; la conducono poi in un piccolo cottage dell’Hampshire, affittato per l’occasione, anche se Margaret sembra troppo esaurita per poter beneficiare del bel posto. Intanto Arthur fa istruire la causa di divorzio – e apparentemente nessuna reazione giunge da Haddo. Almeno finché il mago un bel giorno non appare all’ambulatorio del rivale: gli è giunta la citazione della causa, e informa Arthur di voler a sua volta presentare un ricorso contro la moglie e contro di lui come corresponsabile. Nel contesto giuridico dell’epoca, si tratta di un’accusa di adulterio che potrebbe rovinare la carriera di Arthur: ma questi ribatte che la minaccia è vana, perché la causa viene in pratica decisa in camera di consiglio. Haddo pare incassare e si lascia condurre fuori. Si noti che ancora in questo dialogo Arthur ricorda ad Haddo di avergliele suonate, peraltro senza alcun segno di ripensamento e anzi con baldanzoso orgoglio.

Margaret sembra migliorare, con la speranza di riacquistare libertà – ma a un tratto, con l’approssimarsi del processo, ha una sorta di ricaduta in un nervosismo silenzioso e depresso, con un senso incombente di minaccia. Susie, sempre più preoccupata e turbata dal pensiero ossessivo di Haddo, ma anche in qualche modo innervosita che Arthur giudichi ovvio sacrificare lei a Margaret, gli chiede di venire a vederla.

Però la mattina dopo Margaret non è più nel suo letto e un biglietto conferma che è andata a consegnarsi ad Haddo, giudicando la propria situazione senza speranza; e poco dopo appare Arthur, allertato da una scatola di cioccolatini con un biglietto sfottente del mago. Susie comprende che Margaret è in scacco di un potere misterioso e più forte di loro: per cui, nonostante il persistente scetticismo di Arthur, decide di correre a Parigi a consultare l’esperto dell’occulto Porhoët.  

(Continua.)

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La bella e la Bestia (Victoriana 20 / II) https://www.carmillaonline.com/2014/01/08/la-bella-la-bestia-victoriana-20-ii/ Wed, 08 Jan 2014 21:40:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11874 di Franco Pezzini

The_Magician(Qui la prima puntata.)

Boxing Margaret

Come molti romanzi gotici e orrifici, The Magician è una storia di controllo: anzi possiamo idealmente ripartirla in un preambolo di presentazione dei personaggi – i primi due capitoli – e poi tre parti corrispondenti ad altrettante fasi dell’assoggettamento di Margaret e tentativi falliti di liberazione.

C’è dunque una prima e più ampia parte – capp. 3-9 – che vede la ragazza, dopo una vana resistenza, cadere preda di Haddo; segue una seconda – capp. 10-12 – che inizia con il matrimonio tra i due, descrive lo sbigottimento degli [...]]]> di Franco Pezzini

The_Magician(Qui la prima puntata.)

Boxing Margaret

Come molti romanzi gotici e orrifici, The Magician è una storia di controllo: anzi possiamo idealmente ripartirla in un preambolo di presentazione dei personaggi – i primi due capitoli – e poi tre parti corrispondenti ad altrettante fasi dell’assoggettamento di Margaret e tentativi falliti di liberazione.

C’è dunque una prima e più ampia parte – capp. 3-9 – che vede la ragazza, dopo una vana resistenza, cadere preda di Haddo; segue una seconda – capp. 10-12 – che inizia con il matrimonio tra i due, descrive lo sbigottimento degli amici e l’abbrutimento di Margaret a fianco del mago, e vede un primo e fallimentare tentativo di liberarla; e infine una terza – capp. 13-16 – con il soccombere di Margaret e la (sia pur tardiva) distruzione del mostro. Analizzeremo dunque il romanzo proprio in riferimento a queste tre parti, che offrono interessanti provocazioni sottotesto; ed è inevitabile iniziare con un riassunto relativamente dettagliato, proprio per cogliere le dinamiche meno ovvie.

Al ristorante Chien Noir, Susie ha appena introdotto Arthur alla buffa fauna degli artisti radunati, quando irrompe Haddo: questi si impone all’attenzione dei connazionali sgomitando con sarcasmo tra i presenti, si scontra sul tema della magia con lo scettico Arthur che riesce a pungerlo sul vivo – un po’ volgarmente, a proposito dell’obesità del mago – e soprattutto mette gli occhi su Margaret. Così, quando il gruppetto si allontana per sfuggirlo, con abilità da stalker consumato riesce ad apparire ossessivamente sul loro cammino. È lui a causare dapprima una strana reazione di panico nel cavallo della vettura che dovrebbe portarli via, e che cessa solo quando allontana la mano dall’animale; poi, nella confusione di una fiera, entro il baraccone di un incantatore di serpenti, ancora lui li stupisce facendo sparire senza danno la ferita recatagli da un aspide – e per sfida all’incredulità di Burdon fa subito dopo azzannare al serpente un coniglietto, che cade morto davanti all’inorridita Margaret.

Non è dunque strano che l’indomani a casa di Porhoët, che ha invitato i giovani amici nell’alloggio traboccante di libri occulti, anche Haddo appaia non invitato come la fata cattiva della fiaba – in tempo per sentire che l’incuriosita Susie lo vorrebbe ospite a un tè nell’alloggio che condivide con Margaret. La donna è estremamente intrigata dal mago, che Porhoët accoglie benevolo; al contrario Margaret ha già confidato agli amici di non aver mai incontrato nessuno che la riempia di disgusto quanto Haddo, e sente che le porterà sfortuna; e Arthur, che prova per il mago un disprezzo profondo e torna a lanciargli una frecciata sull’aspetto fisico, è innervosito anche dalle concessioni di Porhoët a ciò che considera vuota superstizione.

Il vecchio studioso, che pure tratta l’argomento con ironica lievità da salotto e lo tempera con qualche dubbio prudente, racconta però allora un episodio occorsogli molti anni prima in Egitto: tramite uno specchio magico e lo sguardo vergine di un ragazzino – aveva scelto un figlio d’amici, per evitare trucchi del chiaroveggente di turno – aveva appreso con dettagliata descrizione la morte della propria madre, in seguito confermatagli da una lettera del prete del paese.

È a questo punto che Haddo narra a sua volta la storia dell’evocazione da parte di Eliphas Lévi dell’ombra di Apollonio da Tiana. Un racconto di grande fascino e tra l’altro di intrigante onestà, che Maugham trae dai ricordi dello stesso Lévi (Dogme et Rituel de la Haute Magie): la descrizione dell’ombra apparsa, di fronte alla quale il mago francese prima sprofonda in un dormiveglia, poi ha la sensazione di cogliere risposta alle proprie domande e la risposta è “dead”/“morto”, ha in fondo più i caratteri dell’esperienza visionaria interiore che di un vero sensazionalismo sovrannaturalistico. Ma quell’evocazione che Lévi controlla solo fino a un certo punto e apre a una dimensione altra, una dimensione all’insegna della morte e che lascia diversi, diviene già preannuncio di ciò che accadrà alla fine del romanzo: richiamate le ombre, entreremo in un terreno dove le dimostrazioni valgono quel che valgono e qualcosa dell’aldilà passa nella nostra anima. Spiazzante come al solito, Haddo chiude però il racconto ricordando di aver evocato in tal modo l’ombra del proprio padre, per scoprire cosa cercasse affannosamente di dirgli al momento della morte: e ne riceve il consiglio su una speculazione finanziaria che si rivelerà rovinosa, facendogli concludere che nell’aldilà le tendenze di borsa restano inafferrabili come in questa vita… Ancora una volta Arthur si accorge dell’impossibilità di capire quando Haddo sia serio e fino a che punto: e le notizie richieste a un amico che anni prima ha studiato con il mago – qui Maugham utilizza abbondantemente le notizie su Crowley, sia pure caricando i toni – finiscono col confermare il quadro paradossale di un uomo tanto spocchioso e insopportabile quanto temerario, avventuroso e in fondo di avvincente e magnetica presenza.

Invitato al tè a casa delle due inglesi, Haddo si fa precedere da un fiume di fiori per Margaret, cosa che il pragmatico Arthur non ha mai pensato di fare (e del resto non interessa particolarmente Margaret) ma che tuttavia lo turba. Intanto Susie ha imparato ad apprezzare sempre più Arthur, non solo riconoscendo una sua intima sensibilità che lo rende per certi versi ben più indifeso di Margaret, ma comparando a quella dell’amica fortunata la propria situazione in apparenza irreversibile di single bisognosa d’amore. Ovvio che l’apprezzamento per il fascinoso fidanzato dell’amica carina diventerà in breve tempo una passione coi controfiocchi, sia pure censurata nel silenzio del cuore.

Arriva anche Porhoët e infine appare Haddo – che spiazza tutti mostrandosi sinceramente garbato, apprezzando gli schizzi di Margaret con osservazioni equilibrate e acute, e cercando di piacere con racconti di viaggio finalmente divertenti e allegri. Susie però è incuriosita dall’Haddo esoterista, e lo stuzzica interpellando Porhoët su uno studio sugli alchimisti che le ha imprestato. Inizia così uno scambio sull’alchimia e Paracelso; e dopo un prolungato silenzio, Haddo risponde al sarcasmo di Arthur sottolineando come ciò che davvero quegli uomini cercavano fosse il potere. Eccitato da qualcosa che gli sta evidentemente molto a cuore, racconta dunque della più incredibile tra le operazioni vagheggiate da Paracelso e perseguite dai suoi epigoni, cioè la creazione di homunculi, creature vive artificiali: e il resoconto di uno di questi esperimenti praticato nella seconda metà del Settecento, per quanto connotato da particolari disgustosi, gli fa infine confessare il proprio sogno febbrile di emularli e l’ossessione di creare la vita come Dio.

La veemenza del suo discorso crea una situazione di sghembo disagio, Porhoët si defila; ma il cane di Margaret, che già all’arrivo di Haddo era apparso inquieto, gli morde la mano. Il mago lo scuote via e gli dà un calcione lasciandolo dolorante, Margaret grida indignata; e a quel punto Arthur perde il controllo e sferra un pugno ad Haddo che crolla per terra. Anzi, poi il medico lo afferra per il collo e continua a colpirlo con tutte le sue forze – e Haddo non si difende. Mentre Margaret piangendo coccola il cagnolino contuso, alla fine il mago si rialza con fatica: e il suo primo sguardo traboccante odio lascia il posto a un inquietante sorriso. Poi, inaspettatamente, si scusa per la reazione scomposta al morso doloroso del cane, e con dolorosa umiltà ammette di essersi meritato i cazzotti di Arthur – quindi si allontana.

L’episodio ha però lasciato un’ombra pesante, e Susie è rimasta insospettita da quella remissività preceduta da uno sguardo di tanto odio. Arthur, dal canto suo, liquida sbrigativamente il mago come un codardo senza il fegato di difendersi; e Margaret, incontrato Haddo per strada, finge semplicemente di non riconoscerlo. Ma un apparente telegramma di un’amica giunta a Parigi ha allontanato Susie, quando Margaret assiste in strada a un episodio in apparenza drammatico: Haddo, incrociato di nuovo, sembra avere un attacco di cuore e la ragazza si trova indotta a portarlo nel proprio appartamento.

Certo, man mano che l’uomo si riprende il senso di pietà lascia il posto al fastidio: ma la scena di lui che, sofferente, fa per allontanarsi colpisce la ragazza nei sensi di colpa. Haddo incalza chiedendo ancora perdono per la scena del cane, osserva che Margaret lo crede un ciarlatano perché si occupa di cose a lei sconosciute e che non offre credito alla lotta da lui condotta per un grande scopo – e “His voice was different now and curiously seductive”. Qualcosa, nei toni carezzevoli e profondi coi quali il sofferente le rimprovera il suo atteggiamento di disgustato disprezzo, la tocca in modo misterioso: l’obesità di Haddo non le sembra più repellente, i suoi occhi le appaiono teneri, la bocca segnata dall’infelicità – insomma Margaret lo vede con occhi nuovi, si sente un mostro e lo prega di restare.

A quel punto l’uomo, con abilità da istrione (perché è evidente che ha finto tutto, sta recitando), di fronte a una riproduzione della Gioconda lì appesa inizia a declamare le parole dedicate al dipinto da Walter Pater – a esaltare una bellezza che dall’interno affluisce alla carne, cellula su cellula, con tutti i malanni dell’anima e l’esperienza di una storia grondante sensualità e misticismo. La magia di quella voce musicale offre a Margaret la sensazione di capire solo ora quel brano, che continua paragonando la Gioconda a un vampiro, morta molte volte (sono i vampiri alla Ruthven, alla Varney), ma anche a Leda madre di Elena di Troia e sant’Anna madre di Maria.

Poi Haddo incalza parlando di pittura, e il suo tono visionario e febbrile evoca dai recessi dei quadri le ansie inappagate degli artisti, le pulsioni e crudeli indolenze dei volti dipinti, le ossessioni che Margaret non aveva mai saputo notare in quei tratti e colori – e invece a quelle parole acute e musicali svelano un senso totalmente nuovo. Haddo evoca la fascinazione delle carni corrotte e malformate, le notti dell’anima, gli intrecci e le tinte dei peccati di Roma e del Rinascimento: e Margaret sprofonda in una sorta di eccitata apnea per quelle dimensioni che si schiudono. Non più la pittura come qualcosa di freddamente tecnico, ma il lussureggiare dell’immaginazione che sboccia, e il fascino dell’uomo che la fissa magnetico negli occhi… fino a farla ritrovare senza forze e in sua balia.

Quando Haddo la fa sedere in poltrona e si reca al pianoforte, Margaret semplicemente obbedisce – e naturalmente lui suona in modo meraviglioso, con effetti impossibili e conturbanti di emozione. A toccare proprio ciò di cui lei avverte più bisogno, per trascinarla poi lontana in Orienti da visione drogata, popolati dalle figure vampiresche dei quadri poco prima evocati: Monna Lisa, Salomè…

Quando Haddo smette di suonare, Margaret tenta “an effort to regain her self-control” (ecco il tema del controllo), osservando con apparente disinvoltura di iniziare a credere che davvero Haddo sia un mago. Lui ribatte che potrebbe mostrarle strane cose, affronta le sue difese ironiche con il racconto visionario di ciò che la magia ha rappresentato nei secoli, la avvince con la seduzione della propria voce – al punto che Margaret, senza quasi rendersi conto di parlare, gli chiede di mostrare i suoi poteri.

La parte che segue, ancor più della precedente, andrebbe citata per esteso perché presenta una straordinaria riscrittura di un tema caro al fantastico nero tra narrativa e pittura, cioè la visione del Sabba – e la riassumo qui solo per sommi capi. Haddo mostra alla ragazza alcuni strani effetti fisici, con polveri, fiammelle e vapori che evidentemente spalancano gli occhi a visioni. Margaret si ritrova così in un luogo lontano e mai visto, prima terrorizzata e poi stranita, di fronte a una folla di ombre: le appaiono schiere di tiranni e dark ladies, guerrieri e dame dagli angoli più bui della Storia, e poi legioni ancora più ampie degli oppressi di tutti i secoli con le loro sconcertanti miserie. Poi tutti spariscono e l’attenzione di lei si concentra su un grande albero spezzato, morto ma misteriosamente sofferente, che a un tratto cambia nella ciclopica figura di Pan: prima osceno e ferino, poi trasmutato in bel giovane titano icona in qualche modo di Lucifero. Anche quell’immagine alla Aubrey Beardsley però svanisce, per lasciar spazio a una folla di mostri leggendari e baccanti tra grida e gemiti d’agonia – e Margaret ha la sensazione che la propria anima voli via, e venga misteriosamente sostituita da un’altra nuova e turpe.

È forse specialmente a proposito di queste scene che Maugham a distanza di anni parlerà perplesso di stile “lussureggiante e turgido”, forse non inadatto al tipo di soggetto ma echeggiante in chiave d’imitazione certi toni del decadentismo francese. Anche se, rileggendo The Magician, dovrà ammettere che gli appare più interessante di altre proprie opere giovanili.

In mezzo all’orrore di quel Sabba, infine Haddo invita Margaret a non aver paura e la ragazza si ritrova nel proprio appartamento. Il buio è calato, il mago accende le candele: Margaret, turbata da ciò che ha visto a fianco di lui e dall’intollerabile vergogna di quell’esperienza che sente insozzarla, scoppia in lacrime chiedendogli di andarsene. Haddo sorride, le lascia il proprio indirizzo per quando vorrà vederlo, e a un tratto non c’è più. La ragazza si mette a pregare disperatamente.

Si noti che nel film di Ingram la parte del Sabba è naturalmente stilizzata in termini poetici, perdendo ovviamente qualcosa dell’originario, demoniaco Bignami di tutta una letteratura decadente distillato da Maugham; ma per altri versi la soluzione è brillantemente creativa. La visione di Margaret viene evocata da Haddo davanti alla testa modellata del fauno/Pan spezzata all’inizio, che prende vita agli occhi della ragazza avviando un selvaggio baccanale dal sapore lubricamente pagano: e nel bacio con caschè da parte del demone che conclude la fantastica scena, di fronte agli occhi del mefistofelico voyeur Haddo, Margaret è costretta a trovare una perturbante rievocazione dell’iniziale seppellimento/amplesso sotto la statua. 

Ma torniamo al romanzo. L’arrivo di Susie scocciata – l’amica attesa non è comparsa, e Margaret non l’ha raggiunta – la obbliga a reagire. Però invece di raccontare la verità, Margaret afferma di aver avuto una terribile emicrania, spiega che lì non è venuto nessuno, e fa sparire il foglietto con l’indirizzo del mago: per quanto turbata all’idea di mentire a Susie, qualcosa di più forte di lei la spinge al silenzio. Quando poi giunge Arthur, il sollievo che sia lui e non Haddo di ritorno la rende insolitamente appassionata – anche se la sua voce reca una nota strana che non sfugge al fidanzato, e all’improvviso scoppia in lacrime. Se la cava minimizzando, e il pragmatismo di Arthur non gli fa attribuire importanza alle paure di lei – che cerca invano di spiegare di aver bisogno di lui, e lo supplica di sposarla subito. Arthur, insopportabilmente pacato e ragionevole, le ricorda che mancano poche settimane e non possono accelerare i preparativi; e a Margaret non resta che concludere, con gli occhi pieni d’angoscia, che se accadrà qualcosa la colpa sarà di lui. Arthur promette che non accadrà nulla.

Arriviamo così, col cap. 9, alla svolta di questa prima parte del romanzo. Margaret ha ormai intuito che il messaggio per allontanare Susie e l’apparente crisi di cuore di Haddo facevano parte di un piano preciso – eppure non riesce a provare rabbia contro di lui, non riesce a toglierselo dalla testa. Le parole di Haddo hanno come seminato in lei una pianta infestante o un avvelenamento che le dilaga ormai nel corpo; disprezzo e disgusto si sono congiunti a un sentimento che la inorridisce, la repulsione fisica è sparita e cerca di lottare contro il desiderio violento di tornare dal mago. Si sente impedita a chiedere aiuto ad Arthur o a Susie: corre invece da Porhoët, ma non è in casa… e dopo una dura lotta interiore, sconfitta, si trova trascinata da se stessa all’indirizzo di Haddo. Lui l’accoglie dicendo che l’aspettava, alle sue proteste di voler essere lasciata in pace mostra la porta aperta – e poi, ancora una volta, inizia a parlare. Di fronte agli orizzonti esotici, affascinanti, pericolosi spalancati dal suo narrare, la prospettiva di un futuro come moglie di Arthur svela all’improvviso un carattere asfittico; e quando il mago si alza e la bacia, Margaret cede con voluttà. Con voce roca, confessa di credere d’amarlo – ma poi Haddo proclama che lei deve andare, e dunque la ragazza torna a casa.

Nei giorni seguenti è irrefrenabilmente spinta a tornare, a ricercare nei baci di lui quell’estasi fisica mischiata a repulsione, ad ascoltare parole che paiono sollevare l’angolo di un velo a schiudere barlumi di terribili misteri: comprende il senso faustiano della dannazione per la conoscenza, ma Haddo le resta inconoscibile. In compenso scopre quanto sia facile ingannare i propri amici che nulla sanno, prendere a raccontare bugie – sempre più facili da sostenere, giorno dopo giorno; e se a tratti è colta dalla vergogna verso Arthur, il confronto con Haddo le pare tutto a svantaggio del fidanzato col suo atteggiamento banale verso la vita e la sua incomprensione di cosa avrebbe potuto trovare – cercandolo – nella dimensione interiore di lei. Del resto, si dice Margaret, le cose sono ormai andate troppo oltre: eppure, quasi per forza d’inerzia, continua con Arthur i preparativi di un matrimonio che (ormai sa) non avverrà mai. E nascondendo il proprio segreto finisce invece con lo scoprire il segreto di altri: si accorge cioè da piccoli ma inequivocabili indizi che Susie è proprio di Arthur perdutamente e silenziosamente innamorata – per cui Margaret si convince che l’amica è una mentitrice come lei. 

Ma la partita di Haddo è giunta quasi allo scacco: annuncia alla ragazza ormai succube che sta per partire, e davanti alla sua costernazione le propone di sposarlo. Margaret si accorge allora di quanto lo disprezzi e lo tema, cerca di reagire al desiderio fisico di lui, gli dice che vuole andarsene – e il mago la scaccia. Stravolta, Margaret cerca invano sollievo in una chiesa e si convince che Dio l’ha abbandonata. Il giorno dopo torna infine da Haddo, pronta a sposarlo, e lui le ordina di essere felice: a quel punto le pare che la lotta tra bene e male si sia conclusa in lei con la vittoria del secondo, e si sente stranamente sollevata.

La cena di compleanno di Arthur vede Margaret più bella e sensuale del solito infierire con un ostentato bacio al fidanzato sui sentimenti nascosti di Susie: ma la ragazza sa già di mancare all’appuntamento dell’indomani, perché sarà partita, ormai moglie di Haddo.

E qui dobbiamo fermarci. Si è detto che The Magician è una storia di controllo: una storia che anzi gioca sui paradossi del controllo. E il primo è sicuramente il rapporto sghembo ma febbrile tra attrazione e repulsione: un rapporto insomma vampiresco – sul tema dovremo tornare – che trova epifania nello scarto fisico tra bellezza di Margaret e ripugnanza di Haddo. Margaret viene infettata da questa visione schizofrenica – viene in mente il brano di San Paolo (Rm 7, 15-25) sulla duplice legge contrastante nel cuore umano – e che in fondo rafforza il controllo di Haddo su di lei. A differenza dell’omonima – e probabilmente non è un caso – Margherita di Faust, Margaret non conosce la dialettica di colpa e pentimento, e affonda.

Haddo, si è visto, è il grande manipolatore: è indubbiamente lui il vilain della storia, colui che porta l’infelicità e diffonde appunto una sorta d’infezione interiore – è insomma difficile pensare a una lettura buonistica del suo personaggio. Eppure, se ci fermassimo all’assunto della pura malvagità del mago, perderemmo molto della sottigliezza della storia offerta da Maugham.

Margaret infatti cade preda di Haddo per la presenza condizionante, a monte, di tutto un terreno sfavorevole, in uno spaccato d’ambiente ironicamente amaro che prefigura il pessimismo cinico di opere successive dell’autore. C’è infatti un secondo paradosso del controllo, laddove troviamo il successo di Haddo reso possibile e in realtà favorito dai suoi avversari, i “buoni” della storia – attraverso una sorta di aridità da loro coltivata e incarnata, e la preesistenza di relative e parallele dinamiche di controllo, sia pure accettate socialmente e moralmente.

Rimasta priva di una figura paterna, Margaret è fidanzata col più maturo e protettivo Arthur, icona di responsabilità e intelligenza pratica, a spese del quale è cresciuta. Per amore di Margaret, lui arriva a cogliere dimensioni di bellezza prima ignote, ma più come occasione di fragilità e inquietudine (indicativo è l’episodio in cui è colto da acuta melanconia di fronte a una statua del Louvre che sembra richiamare il volto di lei) che non di gioia e libertà: in effetti – vedremo – la stessa rigidità pragmatica e scientista di Arthur si rivelerà il frutto di antiche paure e sensi di perdita, il tentativo di corazzare una fragilità del profondo. In questa sede ci può interessare fino a un certo punto che Arthur, medico come il suo autore, ne sveli forse le antiche ferite: ma in ogni caso la sua risposta alla gioia di vivere di Margaret è fin troppo dimessa e meditabonda. Con un partner del genere, surrogato di un padre, ripiegato in grevi autocensure, grigiamente pragmatico, rigido ma interiormente fragile, Margaret ha ogni motivo di sentire la propria vita fortemente condizionata. Se poi è ingiusto – e frutto dell’infezione morale covata – il pensiero di Margaret che Arthur la spinga a sposarlo per ripagarlo della sua “beneficenza”, certo anche quella dinamica di riconoscenza non favorisce la libertà di un rapporto.

Ma c’è di più. Fin dall’inizio della conoscenza con Haddo, l’atteggiamento di Arthur verso di lui è stato spiacevolmente insultante, non solo in tema di convinzioni teoriche ma persino a proposito dello sgraziato aspetto fisico dell’interlocutore. E l’episodio del cane che ha morso il mago ricevendone un calcione, vede una reazione brutalmente spropositata del “buono” Arthur che infierisce a botte su Haddo, mentre Margaret continua desolata a coccolare la vergine cuccia e Susie lascia fare; anzi, quando Haddo si scusa, non una parola giunge da Arthur che in seguito liquiderà la mancata difesa dell’altro come vigliaccheria. Che il mago possa insomma nutrire una certa ostilità verso un simile campione del “razionale” è almeno comprensibile; e per contro l’ottusa brutalità di Arthur finisce col rafforzare il grande mestatore che si finge vittima.

C’è poi Susie, già insegnante e punto di riferimento per Margaret: e che a ben vedere, lasciando il suo incarico e raccogliendo i frutti di una piccola rendita, si è presa una sorta di perpetua vacanza dismettendo il ruolo della responsabilità verso l’amica (tranne che per la scelta degli abiti e altre amenità). Forse, quand’era insegnante, la sua resistenza al male era più attenta: ma ora non solo non protegge l’inorridita Margaret da Haddo, ma anzi gli facilita con gorgheggiante leggerezza il compito d’intrufolarsi. Di più: benché onestamente affezionata all’amica, Susie si concede con sospetta frequenza fantasie (sia pur caste) su quell’Arthur che è più o meno suo coetaneo – col risultato di innamorarsene senza speranza. Se Margaret, scoprendo il suo segreto, si mostrerà ingiustamente feroce verso di lei, non avrebbe però torto nel rimproverare a Susie qualche ambiguità o imprudenza.

E ancora c’è il mite e benevolo Porhoët, dotato in teoria non solo di esperienza di vita ma di sapienza esoterica: è stato il primo a conoscere Haddo, e le sue doti dovrebbero renderlo maggiormente avvertito dei pericoli corsi da Margaret. Il problema è che gli studi occulti sono per Porhoët occasione d’interesse erudito e occasione di piccoli numeri sussiegosi in salotto, ma l’uomo resta di sostanziale inefficacia di fronte all’ingombrante collega di studi o alle reazioni sbagliate dei giovani amici. Anzi, quando davvero servirebbe, Porhoët non c’è o si defila.

Fin qui i personaggi; ma deficitarie sono, a monte, anche le loro dinamiche in senso generale – e qui appare il pessimismo di Maugham. Come nella amara constatazione che per cogliere negli altri dimensioni di sofferenza si debba nutrire qualche interesse specifico in tema di attrazione o ostilità: è per esempio l’invaghita Susie, e non la fidanzata Margaret, a cogliere la vena sofferta del carattere di Arthur; mentre a sua volta Arthur liquida come fisime femminili l’angoscia della partner. D’altro canto Margaret crede di ravvisare sofferenza in Haddo solo quando inizia a esserne attratta; e in compenso gode con ferocia la sofferenza di Susie ostentando passione col fidanzato che ha già deciso di abbandonare.

Le dinamiche di controllo ci vengono insomma mostrate in tutto un tessuto relazionale e una dinamica nel tempo degli eventi: al punto che è lecito chiedersi se lo stesso Haddo avrebbe perseguito il demoniaco piano che via via scopriremo, in presenza di un altro atteggiamento dei “buoni”. Interessante è una notazione di Maugham – una delle pochissime a tradire qualcosa della personalità di Haddo dietro il velo delle apparenze – registrata quando il vilain sta proclamando a Margaret le glorie della magia: egli sembra affabulare (ci viene detto) con l’unico scopo di nascondere alla ragazza che lui in quel momento sta usando tutto il suo potere. La magia insomma come estrema e paradigmatica forma di manipolazione degli altri, più che della realtà – ciò che conferma l’ottica relazionale privilegiata dall’autore.

Una dimensione dialettica che d’altra parte conduce al senso proprio di una narrazione fantastica, che non si esaurisce mai acriticamente nel messaggio moralistico-ideologico, nella denuncia di un positivo e un negativo a tutto tondo. Sarebbe per esempio falsante, insomma, intendere come bene l’atteggiamento superficiale degli amici di Margaret verso l’arte, e come male l’approccio immaginoso di Haddo, astraendoli in quanto tali da un più ampio tessuto relazionale. Mentre l’uno e l’altro rappresentano solo polarità di un unico dramma dove bene e male, nonostante le apparenze, conoscono almeno ampie zone d’ombra.

(Continua.)

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La bella e la Bestia (Victoriana 20 / I) https://www.carmillaonline.com/2014/01/01/la-bella-la-bestia-victoriana-20-i/ Wed, 01 Jan 2014 21:01:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11781 di Franco Pezzini 

TheMagicianMaugham[Il tema dell’edizione 2013 del ToHorror Film Fest ha riguardato controllo e paranoie da controllo. E proprio su questi argomenti e in collaborazione con il ToHorror è stata presentata la relazione che segue, nel corso del ciclo Le avventure del controllo organizzato dalla Libera Università dell’Immaginario di Torino.]  

Introduzione: Aleister Crowley colpisce ancora 

La nostra storia inizia a fine autunno ai giardini del Luxembourg di una Parigi inizio secolo: un giardino da quadro d’epoca, coi ragazzini che corrono dietro i cerchi, le balie, i gentiluomini a passeggio lungo viali tappezzati [...]]]> di Franco Pezzini 

TheMagicianMaugham[Il tema dell’edizione 2013 del ToHorror Film Fest ha riguardato controllo e paranoie da controllo. E proprio su questi argomenti e in collaborazione con il ToHorror è stata presentata la relazione che segue, nel corso del ciclo Le avventure del controllo organizzato dalla Libera Università dell’Immaginario di Torino. 

Introduzione: Aleister Crowley colpisce ancora 

La nostra storia inizia a fine autunno ai giardini del Luxembourg di una Parigi inizio secolo: un giardino da quadro d’epoca, coi ragazzini che corrono dietro i cerchi, le balie, i gentiluomini a passeggio lungo viali tappezzati di foglie in languido sbriciolare – o piuttosto da cartolina, perché il bozzetto che Somerset Maugham propone ai suoi lettori inglesi all’inizio del romanzo The Magician, 1908, è proprio quello elegante e un po’ di maniera che loro possono attendersi. Diciamolo subito, non stiamo parlando di alta letteratura e il romanzo Il mago, per quanto gradevole, intrigante e ben scritto, non è tra le opere “grandi” dell’Autore, ma un testo giovanile che quasi flirta col divertissement: e d’altra parte proprio il fatto che Maugham non sia considerato, e in effetti normalmente non sia, un autore di genere fantastico (e tanto meno di horror) ha permesso una fortuna di questo romanzo tra lettori di tipo diverso, e usi piuttosto a frequentare le sue commedie acri di pessimismo, con spaccati di costume cinici e ironici.

Un giardino di Parigi, dunque, in cui passeggiano chiacchierando due personaggi, uno anziano e freddoloso e l’altro giovane e rampante. Sono entrambi medici, e il giovane è amico di famiglia dell’anziano, che lo guarda con la tenerezza di un vecchio zio insieme ammirato e divertito. Ammirato perché a dispetto dell’età tanto giovane, Arthur Burdon è un notissimo chirurgo inglese nato in Oriente (si parla di un “Levantine merchant who was Arthur’s father”), di abilità prodigiosa, e che ha potuto consacrarsi totalmente alla medicina – lui stesso non lo nega – per una compiaciuta mancanza d’immaginazione e comunque di altri interessi. Ma l’anziano, il dottor Porhoët, è anche sinceramente divertito: perché ora nella vita di Arthur ha fatto irruzione la Bellezza, nel sembiante angelico dell’incantevole Margaret Dauncey, che oltretutto di interessi ne ha eccome – in particolare artistici –, completando così idealmente l’orizzonte prima un po’ limitato di Arthur. Porhoët non capisce soltanto perché i due non si siano già sposati: ma Arthur, con il suo solido buon senso, ha preferito che Margaret prima del matrimonio possa insieme coronare un sogno e acquisire maturità studiando arte per due anni in una scuola di Parigi. Il che ci porta, in termini di linguaggio fantastico, al tema-simbolo del periodo di prova: un rito di passaggio dove, al solito, troveremo un Custode della soglia, un mostro da affrontare.

Al contrario del giovane Arthur, il vecchio Porhoët che pure ha avuto i suoi successi avrebbe potuto fare molto più carriera, se non ne fosse stato distolto dalle proprie passioni erudite. Porhoët è un umanista curioso, con interessi che insoddisfatti dalle discipline tradizionali l’hanno condotto all’esoterismo:  come in fondo gli piace lasciar emergere con un pizzico di sussiego e di vanità gentile, su quel fronte ha un’enorme cultura e tra l’altro (scopriremo) una ricchissima biblioteca magica. Del resto Porhoët per nascita è bretone, e un anziano sapiente legato alla Bretagna conduce ovviamente i lettori di Maugham (che non sono abituali frequentatori dell’occulto e si muovono tra opere classiche) a un’ideale area-Merlino – tanto più che il suo pupillo si chiama Arthur, come Artù. D’altra parte Porhoët è tanto freddoloso perché è vissuto a lungo in Egitto, con tutto ciò di esotico, misterioso e magico che questo tipo di sfondo possa evocare.

Anzi, scopriamo che Porhoët ha pubblicato un volumetto sugli alchimisti dopo lunghe ricerche alla Bibliothèque de l’Arsenal a Parigi: e Maugham sa bene, dai suoi contatti parigini, che proprio all’Arsenal si conserva un importantissimo corpus di testi esoterici, per cui a cavallo tra Otto e Novecento la biblioteca è meta di pellegrinaggio degli occultisti. Pur avendo poco in comune con il mite bretone Porhoët, un altro celta – ma soprattutto celtofilo – di carattere ben più tignoso, l’esoterista Samuel Liddell MacGregor Mathers, uno dei leader dell’Hermetic Order of the Golden Dawn, aveva tradotto in inglese proprio dalla copia parigina dell’Arsenal, nel 1897, un testo poi molto utilizzato nei riti del suo Ordine: quel Libro della Magia Sacra di Abramelin Mago dove il narratore viene iniziato – guarda caso – proprio in Egitto. Questo testo avrà importanza incalcolabile nella storia dell’occultismo moderno: non ci sono prove che Maugham ne abbia sentito parlare o che i trascorsi egiziani di Porhoët ne trattengano memorie perché non è citato tra i testi magici in suo possesso, eppure dovremo tornare a parlarne. Per inciso la copia del libro manoscritta e in francese conservata all’Arsenal si può leggere oggi solo su microfilm perché l’originale è sparito.

Ovviamente, con il suo scettico pragmatismo scientista, il giovane chirurgo considera incomprensibile che un uomo stimabile come Porhoët perda tempo con simili interessi – e il vecchio lo sa benissimo. È però a questo punto che incrociano un bizzarro individuo – alto, massiccio, un cappotto chiassoso – che saluta compitamente Porhoët e si allontana. Un inglese come Arthur, spiega il vecchio, si chiama Oliver Haddo: l’ha conosciuto proprio all’Arsenal, ed è rimasto colpito dalla sua incredibile erudizione esoterica. Sa anzi di sfidare il fastidio del giovane amico riferendogli la pretesa di Haddo di essere nientemeno che un mago… The Magician del titolo, appunto. 

Questo l’inizio del romanzo di Maugham – ma la nostra storia potrebbe cominciare anche in un altro modo. Nella splendida e un po’ libera trasposizione cinematografica che ne trarrà Rex Ingram nel 1926, l’avvio della vicenda non è in un giardino ma proprio nello studio d’artista di Margaret nel Quartiere Latino: e partiamo subito nel segno del visionario, perché l’enorme statua con basamento cui la ragazza sta lavorando è il ritratto accucciato e grottesco del dio Pan. C’è qualcosa di eccessivo, onirico e torbido in quella colossale effige di sensualità ferina: inevitabile pensare a certe grottesche demoniache dell’espressionismo tedesco, e non a caso a interpretare Haddo è proprio uno dei mattatori del cinema espressionista, il grandissimo Paul Wegener che in Germania ha già offerto i propri tratti spigolosi, quasi asiatici alla maschera del Golem in due o forse tre film, e negli anni successivi riproporrà l’immagine del manipolatore nei ritratti dell’ipnotista Svengali e del folle scienziato di Alraune. E in effetti, dopo aver visto il film di Ingram, è soprattutto lo strabordante Haddo di Wegener a restarci nella memoria: autoritario, istrionico, magnetico, vanesio.

Ma torniamo allo studio, dove Margaret si ferma sotto la statua per alcune rifiniture: e troppo tardi l’amica Susie avverte che una crepa si è aperta silenziosa nella massa plasmata. La testa mostruosa rovina addosso a Margaret, tra l’orrore di Susie e di quanti si affrettano al soccorso: ma a salvare la ragazza dalla paralisi a seguito delle lesioni riportate è qui appunto il brillante giovane Arthur, astro della chirurgia, che si innamorerà di lei ovviamente corrisposto. Nel film (per motivi funzionali al lieto fine) manca il divario di età tra i due innamorati presente nel libro, dove Margaret è una ragazzina a cui il facoltoso e più maturo Arthur si trova sostanzialmente a far da tutore, prendendola a carico perché lei ignora di essere rimasta nullatenente: anzi, le chiede di sposarla solo quando, cresciuta ma non troppo, ha ormai scoperto tutto. Al contrario nel film la figura piuttosto convenzionale di maturo e paterno tutore della ragazza è identificata in Porhoët, il cui profilo di esoterista si consuma in poche suggestioni per renderlo una semplice spalla dell’eroe. Ma la scena dell’impatto drammatico della statua di Pan nella vita di Margaret, che trasfigura liberamente l’epifania del dio lubrico a un certo punto del romanzo, già prefigura quel che poco tempo dopo accadrà con la comparsa di un rapitore di ninfe persino più ingombrante, cioè il pessimo Haddo.  

Il libro, il film. Eppure la nostra storia potrebbe iniziare anche in terzo modo – e sempre a Parigi. La città dove, per inciso, Maugham era nato, nel 1874 – o meglio nell’ambasciata britannica di Parigi, quindi tecnicamente su suolo inglese, perché il padre che vi lavorava come avvocato voleva così preservarlo dalla coscrizione sotto bandiera francese in caso di conflitto. Solo alla morte dei genitori il giovanissimo Somerset si è trasferito in Inghilterra – con un impatto peraltro pessimo, per l’ambiente gelidamente vittoriano a casa dello zio tutore, e il sarcasmo dei compagni per la sua bassa statura e il cattivo inglese da immigrato. Recatosi poi a studiare in Germania, vi è stato svezzato sessualmente da un giovane connazionale di dieci anni maggiore di lui; e anche in seguito vivrà molto all’estero, per cui il mondo di questi inglesi trapiantati e comunque di viaggiatori in perenne esilio dal proprio passato – come Porhoët o lo stesso Arthur – è in qualche modo realmente il suo. Il Mago è (potremmo dire) il Camera con vista di Maugham, farcito del suo pessimismo, dei suoi traumi e delle insicurezze trascinate: e la terra straniera è insieme Paradiso perduto da cartolina e luogo della prova – anche sessuale, con quanto di plagio e manipolazione possa irrompere nella sfera dei sentimenti.

In ogni caso è solo alla riedizione 1956 di The Magician che Maugham, dopo quasi cinquant’anni, decide di premettere una breve nota per spiegare come è nato il romanzo. Il titolo del pezzo è A fragment of autobiography, e il punto di partenza è quel 1897 in cui il Nostro si trova a passare gli esami per la professione medica: certo, presto la abbandonerà, però tale dato professionale ci aiuta a collocare meglio il fatto che le due figure maschili positive del racconto, il giovane Burdon e il vecchio Porhoët siano entrambi medici. Votatosi alla scrittura, in seguito ad alcune buone prove, il giovane Somerset di poco denaro ma di belle speranze si trova accolto nei giri vivaci dell’intellighenzia culturale di Londra – la stessa che più avanti, a fronte dei suoi straordinari successi di commedie considerate leggere, prenderà invece a snobbarlo. È comunque in questa fase di euforia che lo scrittore, trentenne, decide di mollare tutto per trasferirsi nella più stimolante Parigi – prima in un albergo economico sulla Riva Sinistra, poi in un piccolo appartamento; e una delle primissime novità di un soggiorno che è in qualche modo anche un ritorno alle radici, riguarda l’amicizia con un giovane connazionale pittore, Gerald Kelly – non solo talentuoso e colto (ha studiato a Eton e Cambridge), ma umanamente vivo, loquace e pieno di entusiasmo. Ricordiamocelo, Gerald Kelly, perché la sua storia sembra intrecciarsi a quella del romanzo più di quanto normalmente si creda.

È proprio Kelly a parlare a Maugham del ristorante Le Chat Blanc in Rue d’Odessa, vicino alla Gare Montparnasse, luogo di ritrovo abituale di tutta una comunità di artisti; e lì il Nostro prende a recarsi tutte le sere per cena come un certo numero di altri habitué. Ci sono però anche presenze occasionali, che appaiono qualche volta per poi sparire: e tra questi Aleister Crowley, il famoso (o famigerato) occultista, amico di Kelly fin dai tempi di Cambridge e tornato a Parigi nel novembre 1902, subito dopo il temerario ma sfortunato tentativo di raggiungere la vetta del K2. Negli anni precedenti ha avuto varie avventure in tutto il mondo; e in particolare tra Londra e Parigi nella primavera del 1900 è stato partecipe di una delle più grottesche vicende della storia della magia, la grande rissa all’interno della Golden Dawn che vedeva schierato da un lato il vecchio capo Mathers – il già citato traduttore del Libro di Abramelin – con tutti i suoi sortilegi, e dall’altro i ribelli inglesi. Anzi era stato proprio Crowley a far saltare il tappo di una situazione già tesa, facendosi iniziare al Secondo Ordine – il livello avanzato della gerarchia magica della Golden Dawn – a Parigi dal grande capo Mathers contro il parere dei confratelli oltre Manica, e poi tentando senza fortuna di riconquistare per il vecchio leader la sede londinese dell’Ordine al 36 Blythe Road. Al rientro a Parigi nel 1902, il clima dei rapporti con Mathers sarà assai meno amichevole, fino a evolvere – si dice – in scontro magico diretto; e Crowley resterà in città fino all’aprile 1903, prima di ripartire per la propria tenuta di Boleskine in Scozia.

Sia come sia, il Crowley che sta passando l’inverno a Parigi e che Maugham conosce a Le Chat Blanc è un personaggio equivocamente fascinoso, un poseur sconcertante e magnetico che tracima col suo sarcasmo, la spocchia e i racconti pirotecnici. Divoratore bisessuale, capace insieme di scandalizzare e divertire con discorsi d’inarrivabile sconcezza e circonfuso di un alone sulfureo, fisicamente torreggiante e massiccio, Crowley sembra fatto apposta per ispirare uno scrittore: e per quanto a Maugham fin dal primo momento non piaccia, pure dovrà confessare che gli suscita interesse e divertimento. Crowley, spiega Maugham nella citata prefazione al romanzo, parla molto bene e sa farsi ascoltare, anche se l’aspetto attraente della prima gioventù è ormai sepolto sotto chili di troppo e l’incalzare della calvizie; e il suo modo di fissare le persone come passandoci attraverso con lo sguardo è particolarissimo. “Crowley raccontava storie fantastiche delle sue esperienze” racconta Maugham “ma era difficile dire se stesse raccontando la verità o semplicemente prendendoti in giro”. Infatti per quanto appaia fasullo in atteggiamenti e pretese, in realtà non lo è del tutto: “era bugiardo e sconvenientemente borioso, ma la cosa bislacca era che aveva fatto davvero alcune delle cose delle quali si pavoneggiava”. E non solo in salotto, dove viene stimato il più abile giocatore di whist mai visto, ma in incredibili avventure esotiche – compresa quell’ascensione al K2 senza particolare equipaggiamento che, pur non raggiungendo la cima, lo porta più in alto di chiunque altro in precedenza. Maugham mostra poi un certo apprezzamento per il Crowley poeta, con un innegabile dono per la rima e versi “non del tutto senza meriti” – certo molto influenzato da Algernon Swinburne e Robert Browning, ma in modo intelligente e non banalmente imitativo.

C’è poi, certo, il fronte della magia, su cui le affermazioni di Crowley restano ancora meno giudicabili. Tanto più che Maugham, pur documentandosi su un buon corpo di opere, dispone di informazioni da estraneo ai giri esoterici. Se a Parigi, constata, è esplosa una moda del magico e del satanico che lui sospetta nutrita dal successo del sulfureo romanzo di Joris Karl Huysmans, Là Bas, 1891, sembra però ignorare l’esistenza di tutto un mondo inglese dell’occulto: e persino quando fa raccontare ad Haddo la storia dell’evocazione dell’ombra di Apollonio da Tiana da parte del mago francese Eliphas Lévi in trasferta a Londra, 1854, trascura di dire che era stato accolto oltre Manica da un nome eccellente di politica e letteratura britanniche, quell’Edward Bulwer-Lytton che di occulto si dilettava e aveva anzi scritto uno dei più famosi romanzi esoterici di lingua inglese, Zanoni (1842). Tornando comunque a Crowley, Maugham ricorda ancora: “Durante quell’inverno l’ho visto varie volte, ma mai dopo aver lasciato Parigi per tornare a Londra. Un giorno, parecchio tempo dopo, mi arriva un suo telegramma che suona così: ‘Per favore manda subito venticinque sterline. La Madre di Dio e io affamati. Aleister Crowley’. Non l’ho fatto, e lui ha tirato poi avanti per molti disgraziati anni”.

È in ogni caso Crowley che Maugham sceglie per modello di Oliver Haddo, il mostruoso mago manipolatore del romanzo – che dell’occultista conosciuto a Parigi, del suo modo di parlare, dei vezzi e delle ironiche eccentricità, tanto ben osservate dallo scrittore, è in effetti un buon alter ego. Anche se dobbiamo sfuggire alla tentazione di sovrapporli in modo puro e semplice, perdendo di vista le peculiarità dell’uno e dell’altro. “Ho reso il mio personaggio – spiega Maugham – più impressionante nell’aspetto [compresa la misura dell’obesità], più sinistro e più crudele di quanto Crowley non sia mai stato. Gli ho attributo poteri magici che Crowley, nonostante quel che sostenesse, certamente non ha mai avuto. Comunque Crowley si è riconosciuto nella creatura di mia invenzione per quel che era, e ha scritto un’intera pagina di recensione al romanzo su Vanity Fair, firmandola ‘Oliver Haddo’. Non l’ho letta, e ora mi piacerebbe averlo fatto. Oserei dire che si trattava di un grazioso pezzo di insulti, ma probabilmente, come le sue poesie, intollerabilmente verboso”.

Maugham fa il disinvolto, ma l’articolo di Crowley che appare appunto a firma “Oliver Haddo” sulla rivista Vanity Fair il 30 dicembre 1908 con il titolo How to Write a Novel! (After W. S. Maugham) riguarda qualcosa di piuttosto preciso. Ciò che Crowley/“Haddo” contesta a Maugham è di aver inserito nel romanzo una certa quantità di materiale plagiato da varie fonti, da The Island of Dr Moreau di H.G. Wells, 1896, al romanzo The Blossom and the Fruit. A True Story of a Black Magician della teosofa Mabel Collins, 1887, ad alcune opere peraltro notissime del pensiero esoterico e della sua storia (The Kabbalah Unveiled del cabalista cristiano Christian Knorr von Rosenroth, nella traduzione dal solito Samuel Liddell MacGregor Mathers; la traduzione The Life of Paracelsus dell’opera dell’occultista e teosofo tedesco Franz Hartmann; Dogme et Rituel de la Haute Magie di Eliphas Lévi, tradotto in inglese da un altro autore legato alla Golden Dawn, Arthur Edward Waite, col titolo Transcendental Magic, its Doctrine and Ritual, 1896).

In effetti Maugham, rileggendo il romanzo dopo quasi cinquant’anni per scrivere la nota introduttiva, mostra di stupirsi di tutto il materiale sull’occulto che trasuda dalle pagine – “Devo aver passato giorni e giorni a leggere nella biblioteca del British Museum” – e proprio sull’uso di quelle letture punta il dito Crowley, collazionando stralci delle opere usate e passi del romanzo dove ne riemerge una traccia più o meno pesante. In seguito Crowley, nelle proprie Confessions pubblicate a partire dal ’29, racconterà che l’articolo era in origine più lungo e circostanziato, stigmatizzando la sua riduzione a due pagine e mezzo e sostenendo a proposito di Maugham che “Nessun autore, anche di mediocre fama, ha mai rischiato la propria reputazione per simili flagranti stupri” (cap. 63). A difesa dello scrittore si può facilmente osservare che i tre casi di imprestito più marcato denunciati nell’articolo entrano a far parte del romanzo all’interno di chiacchierate erudite sull’esoterismo quasi come documenti al testo, e non riguardano lo sviluppo della storia (i copia/incolla oggi tollerati sono spesso assai più pesanti); mentre negli altri casi si tratta di un normale influsso in termini di ispirazione. D’altra parte l’evidente livore di Crowley, che in chiusura ipotizza abbastanza gratuitamente simili plagi anche per altre opere di Maugham, e la stessa cattiva fama dell’accusatore contribuiranno a un generale disinteresse per tali lamentele – che insomma non recheranno allo scrittore alcun tipo di discredito.

Più interessante è ciò che Crowley, tornando sul tema, scrive ancora nelle Confessions. Certo, si compiace di constatare che “The Magician è stato nei fatti un riconoscimento del mio genio quale mai avrei sognato di ispirare. Mi ha mostrato quanto sublimi fossero le mie ambizioni e rassicurato su un punto che qualche volta mi preoccupava – se cioè il mio lavoro valesse la pena di fronte al mondo” (cap. 63 cit.). Ma rivendicando in realtà come proprie, solo poche righe prima, gran parte delle argute osservazioni di Haddo: e incalzando con la constatazione che “Maugham aveva preso alcuni degli eventi più privati e personali della mia vita, del mio matrimonio, delle mie esplorazioni, delle mie avventure di caccia, delle mie opinioni in fatto di magia e ambizioni e prodezze, e così via. Aveva aggiunto una certa quantità delle parecchie, assurde leggende che mi vedevano protagonista. Aveva poi cucito tutto questo insieme con innumerevoli striscioline di carta ritagliate dai libri che avevo detto a Gerald di comprare”. E se ne esce poi in una frase su cui le presentazioni di The Magician in genere non si sono soffermate abbastanza: “Ha mostrato che io abbia trattato mia moglie come Dumas mostra Cagliostro trattare la sua, al fine di produrre homunculi, creature umane artificiali” (ibidem) – e che meriterà in prosieguo qualche interessante riflessione a parte.

A voler fare proprio le pulci a Maugham, un’altra somiglianza si può in effetti ravvisare – ma anche in questo caso è dubbio che si possa parlare di plagio. In un’opera di Crowley scritta prima dell’uscita di The Magician, cioè nel romanzo satirico-pornografico Snowdrops from a Curate’s Garden, composto sotto pseudonimo nel 1904 e pubblicato privatamente pare nello stesso anno, il citato locale Le Chat Blanc degli incontri parigini con gli artisti diventa Chien Rouge (Cane rosso): e lì troviamo un personaggio a nome “L…”, modellato sull’autore, che gode di umiliare con arguto sarcasmo gli avventori – in tandem con un “D…” modellato su Gerald Kelly. Una situazione che riflette – ovviamente dal punto di vista molto parziale di Crowley – ciò che davvero accade nelle serate a Le Chat Blanc presente Maugham, con Crowley che sgomita e tira frecciate. Non è dunque necessario immaginare un ulteriore plagio, stavolta da questo Snowdrops (che pure Maugham può avere letto, perché Kelly deve averlo in libreria) quando all’inizio di The Magician troviamo una scena molto simile, con l’entrata in scena di Haddo nel ristorante Chien Noir (Cane nero) – dove il mago suscita ribrezzo in Margaret, astiosa irritazione in Arthur e divertita curiosità in Susie Boyd, amica ed ex-insegnante che ha accompagnato Margaret a Parigi per dividerne l’alloggio.

E la storia che seguirà è appunto quella delle relazioni e degli scontri tra queste quattro persone, Arthur, Margaret, Susie e Haddo. 

(Continua.)

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