vampira – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/IV) https://www.carmillaonline.com/2024/03/02/theophile-e-le-visitatrici-nightmare-abbey-23/ Sat, 02 Mar 2024 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80927 di Franco Pezzini

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Théophile e le visitatrici

La fiaba dell’esorcista brutale e della reificazione dello spazio dei sentimenti a un’economia banalizzante evocata da Keats in Lamia sarà ripresa in Francia con esempi anche più noti da uno degli eredi di Nodier, il grande Théophile Gautier. Raffinato cantore di seducenti femmine oltremondane – la marchesa de T*** di Omphale, Clarimonde di La morte amoureuse e Arria Marcella dell’omonimo racconto, fino alla protagonista di Spirite – Gautier riconduce però l’esorcismo alle coordinate del fantastico nero, quale teratomachia tra un anziano maschio odiosamente [...]]]> di Franco Pezzini

(qui, qui e qui le puntate precedenti)

Théophile e le visitatrici

La fiaba dell’esorcista brutale e della reificazione dello spazio dei sentimenti a un’economia banalizzante evocata da Keats in Lamia sarà ripresa in Francia con esempi anche più noti da uno degli eredi di Nodier, il grande Théophile Gautier. Raffinato cantore di seducenti femmine oltremondane – la marchesa de T*** di Omphale, Clarimonde di La morte amoureuse e Arria Marcella dell’omonimo racconto, fino alla protagonista di Spirite – Gautier riconduce però l’esorcismo alle coordinate del fantastico nero, quale teratomachia tra un anziano maschio odiosamente severo e un grazioso mostro-femmina di natura vampiresca.

Nel raccontoLa morte amoureuse”, pubblicato nel 1836 sulla “Chronique de Paris” (23 e 26 giugno), rivista con cui l’autore ha da poco iniziato a collaborare – e unito in seguito alla raccolta Une larme du diable (1839) e poi alle Nouvelles (1845) – gioca senz’altro, malinconicamente, il dato della scomparsa dopo lunga malattia dell’amante di Gautier, la misteriosa Cidalise vittima della tisi, avvenuta proprio nel marzo 1836. Frequentatrice del giro di Gérard de Nerval che ne evoca “gli occhi cinesi” e in precedenza partner del pittore Camille Rogier, Cidalise, apparsa nelle vite degli intellettuali del Cenacolo nel 1833, viene descritta “magra, pallida, con gli occhi bistrati”, “china come un salice piangente” e usa a parlar solo a monosillabi. Si è ipotizzato si identificasse in una Eugénie detta Jenny, baronessa D. – qualche traccia emerge in un Album Amicorum 1833-1865 (vendita di Sotheby’s, Parigi 16 dicembre 2008, n. 69) dove un disegno originale di Gautier, datato “Ott. 1833”, rappresenta una giovane donna in riposo su una poltrona con l’iscrizione: “La sua anima aveva rotto il suo corpo. V.H.” (Gautier richiama questo verso di V. Hugo come epigrafe alla sua poesia Une âme nelle sue Poésies). Si tratta molto probabilmente del ritratto di Cidalise (se ne conosce solo un altro di Rogier). Tale presenza evanescente e quasi pneumatica potrà avere un ruolo di qualche rilievo non solo nel racconto di quell’anno, ma in tutto un filone di fantasie di Gautier.

Vita a parte, in “La morte amoureuse” (per la traduzione qui utilizzata, cfr. Théophile Gautier, “L’amante morta”, in Id., Racconti fantastici, a cura di Goffredo Feretto, traduzione di Maria Gioia e G. Feretto, Ecig, Genova 1989 – riporto solo i nomi dei personaggi agli originali in francese) si avvertono gli imbarazzi del Diable amoureux di Cazotte, i richiami al filone delle amanti spettrali de La sposa di Corinto goethiana e delle Notti fiorentine di Heine (dello stesso anno), e naturalmente la lezione di Hoffmann, molto apprezzato in Francia.

 

Gautier inaugure une série de récits dans lesquels il s’attache à nier la séparation des belles mortes et des vivants. Il partage en effet la « croyance philosophique » exposée par Goethe dans l’acte d’Hélène du second Faust, selon laquelle la beauté des êtres et des choses subsiste éternellement dans un au-delà situé hors de l’espace et du temps. Gautier postule que cette beauté peut être rappelée à la vie par la seule force du désir: «l’amour est plus fort que la mort, et […] finira par la vaincre». Il affirme la toute-puissance du magnétisme, de la télépathie et de la sympathie, qui permettent aux âmes de s’attirer mutuellement, de se reconnaître, de se comprendre et de s’unir, en deçà du langage, par-delà les séparations spatiales et temporelles, et par-delà la frontière de la vie et de la mort. La belle Clarimonde peut ainsi revenir du passé pour aimer le jeune prêtre Romuald, et pour nouer avec lui un lien qui défie les limites assignées à la condition humaine. Ce lien, scellé par un double pacte – des fiançailles puis un blasphème –, autorise la morte à revivre l’amour avec un vivant, et le vivant à la suivre dans l’au-delà.

(Marie-Pierre Chabanne, “La Morte amoureuse, ange romantique de la Beauté, et les dispositifs pré-cinématographiques de Gautier”, in Le dépassement des limites. Au-delà de l’humain, a cura di Laurent Gourmelen, Presses universitaires de Rennes, Angers 2021)

 

E tuttavia, in modo piuttosto trasparente, sono soprattutto Lamia e Apollonio keatsiani che tornano qui a scontrarsi nei panni rispettivi di Clarimonde, defunta cortigiana di fatale bellezza, e del severo abate Sérapion; il ruolo di Licio è invece ricoperto dal narratore Romuald, mentre l’epoca (XVII-XVIII secolo?) e il luogo (la città di S***, plausibilmente in Italia) restano evocati in termini elusivi.

Il racconto si configura in effetti come una lettura puntuale della Lamia keatsiana in chiave vampiresca, ed è interessante dedicarvi qualche attenzione. Sérapion può idealmente additarsi quale primo teratomaco su sfondo moderno: l’ambientazione della vicenda in un mondo compiutamente cristianizzato introduce infatti una variabile fondamentale per il fantastico. Diversamente che nel mondo pagano di Lamia, la dialettica non si ferma all’orizzonte di salvezza o rovina qui e ora, nella prospettiva/miraggio di un infinito virtuale, dei sensi o della psiche, promesso dalla bella seduttrice: a muovere il teratomaco è anzitutto l’ansia per la salvezza dell’anima, nell’ottica di un infinito metafisico di cui l’inquietudine dell’Autore non riesce a contentarsi. Ciò che rilegge in modo nuovo (e, come vedremo, niente affatto scontato) le questioni sull’innocenza del mostro-femmina e sulla credibilità del teratomaco: a partire dal titolo, “La morte amoureuse”, che denuncia una simpatia tutta romantica per la vampira e le sue ragioni.

Nel racconto il sacerdote Romuald, folgorato il giorno dell’ordinazione dall’incontro con Clarimonde – una donna bellissima come sortita dai dipinti veneziani dei secoli precedenti, che sembra volerlo strappare alla cerimonia e poi lo avvicina per rampognare la sua scelta – cade in una crisi profonda: a confonderlo ulteriormente è l’invito da parte di lei all’indirizzo di un “palazzo Concini”. L’infelicità si lega cioè a un passo fatale commesso (in questo caso la scelta del sacerdozio) e al vano tentativo di sottrarvisi all’ultimo momento (il turbamento durante il rito): e Romuald sta appunto consumandosi nell’angoscia sul letto della propria stanza, quando si avvede che l’abate Sérapion lo “osservava attentamente”. Dell’abate non conosciamo l’età – anche se in relazione a Romuald e in considerazione del ruolo canonico si può considerare anziano – né il pregresso rapporto col giovane prete di cui dev’essere il direttore spirituale, ma lo sguardo è ancora quello diagnostico e inquisitivo di Apollonio. Giunto ad annunciare a Romuald la nomina a parroco, Sérapion lo ammonisce gravemente a non “prestare orecchio ai suggerimenti del diavolo” e a corazzarsi di preghiere e mortificazioni ascetiche. Merita ricordare in questa sede l’episodio di Éliphas Lévi che si ritira dal sacerdozio – per consiglio del direttore spirituale – proprio perché all’ultimo si è innamorato di un’allieva del catechismo: sarebbe suggestivo che Gautier avesse tratto di lì lo spunto per la fatale ordinazione di Romuald innamorato…

L’indomani lo stesso abate Sérapion parte col giovane – ancora travolto dal pensiero di Clarimonde, ma ora sospettoso di qualche manovra del Maligno – per la parrocchia di destinazione: e mentre con due mule si allontanano dalla città, Romuald nota un alto edificio brillare alla luce di un raggio di sole come in una veduta panoramica di Francesco Guardi o in un diorama e ne domanda il nome al compagno. “«È l’antico palazzo che il principe Concini ha regalato alla cortigiana Clarimonde: vi accadono cose terribili»”, risponde Sérapion, e in quel momento sulla terrazza dell’edificio compare una forma bianca in cui Romuald crede di riconoscere la donna. In quell’“unico raggio di luce” e lontano biancheggiare si gioca il paradosso del racconto, l’ambiguità della schermaglia tra vita e morte, tra i due infiniti in gioco: lo psicopompo Sérapion conduce l’Io narrante verso la regione della morte dal mondo, lontano dalle promesse luminose e terribili di Clarimonde.

È una prospettiva di mortificazione, di affermazione dell’eterno sulla vanitas da quadro del Seicento cui sembra all’inizio intonarsi la convocazione di Romuald, poche pagine dopo, al capezzale di una misteriosa dama in agonia – e che invece finirà sovvertita come varcando uno specchio incantato. Proprio un viaggio speculare al primo (al lento cammino con le mule insieme all’abate si contrappone uno scatenato galoppo su cavalli neri con un Moro dai ricchi abiti esotici) conduce infatti lo stranito parroco a un palazzo sontuoso e al bel corpo di Clarimonde ormai senza vita: e nel corso di una veglia dal sapore onirico, stremato da dolore, fantasie ed effluvi profumati, Romuald si avvicina alla morta e la bacia sulle labbra. A quel punto, come una principessa di fiaba, Clarimonde si risveglia per il tempo di promettergli che ora potrà tornare a visitarlo – e il giovane sviene.

Quando si riprende, nel letto della stanza al presbiterio, sono ormai passati tre giorni (dove il numero allude, in questo caso, a resurrezioni molto profane): e Romuald sta ancora meditando sui fatti accaduti quando all’improvviso piomba sul posto Sérapion, informato del suo malessere dall’anziana governante. Lasciamo la parola al parroco:

 

Sebbene questa premura dimostrasse affetto e interesse per la mia persona, la sua visita non mi procurò il piacere che, normalmente, avrebbe dovuto farmi. L’abate Sérapion aveva nello sguardo un che di penetrante e di inquisitore che mi metteva a disagio. Mi sentivo imbarazzato e colpevole davanti a lui. Per primo aveva scoperto il mio turbamento interiore ed io gliene volevo per la sua chiaroveggenza. Mentre mi chiedeva notizie della mia salute in tono ipocritamente dolce, continuava a fissare su di me le pupille gialle da leone e ad affondare lo sguardo nella mia anima come una sonda. […] La conversazione non aveva chiaramente alcun rapporto con ciò che l’abate aveva intenzione di dire. Alla fine, senza alcun preavviso, come si trattasse di una notizia della quale si fosse ricordato in quel momento soltanto e avesse timore di dimenticarla dopo, mi disse, con voce chiara e vibrante che risuonò alle mie orecchie come le trombe del giudizio: «La grande cortigiana Clarimonde è morta qualche tempo fa, al termine di un’orgia che è durata otto giorni e otto notti. Si è trattato di qualcosa di diabolicamente splendido. Vi si sono ripetute le stesse abominazioni dei festini di Baldassarre e di Cleopatra. In che tempi viviamo, buon Dio! I convitati erano serviti da schiavi negri che parlavano una lingua sconosciuta e che direi veri e propri demoni. La livrea più modesta poteva servire come abito di gala a un imperatore! Da molto tempo correvano strane storie su quella Clarimonde: tutti i suoi amanti sono morti in modo tragico e violento. Si diceva fosse una ghul, una donna vampiro, ma io credo fosse Belzebù in persona». Poi tacque e mi osservò con attenzione ancora maggiore per vedere quale effetto le sue parole avessero prodotto su di me. […] Sérapion mi indirizzò uno sguardo inquieto e poi aggiunse: «Figlio mio, è per me un dovere avvertirvi che avete un piede sull’abisso: state attento a non cadervi. Satana ha le unghie lunghe e le tombe non sono sempre sicure. La pietra sepolcrale di Clarimonde dovrebbe essere sigillata con triplice sigillo: a quanto si dice, questa non è stata la sua prima morte. Che Dio vi protegga, Romuald!»

 

Il discorso dell’abate è interessante, almeno a due livelli. Il primo dei quali riguarda evidentemente il contesto culturale e religioso di riferimento: Sérapion è il direttore spirituale di Romuald, e la prudenza a cui richiama non suona strana (si pensi a tutta una letteratura monastica sulla fuga dalla tentazione) né in sé biasimevole – anche se all’Autore, antidogmatico e aperto alle spiritualità alternative del suo tempo (con tutte le contraddizioni del caso, compresi i dogmatismi delle superstizioni che personalmente lo attanagliavano) quel mondo devoto risulta distante. Ma a ben vedere le parole di Sérapion non si risolvono nei termini generici di un tradizionale quadro esortativo: ed è a questo secondo livello che Gautier, tratteggiando il personaggio (per il quale non nasconde antipatia), lo innesta nella genealogia dei cacciatori del fantastico. Oltre allo sguardo incalzante dell’Apollonio keatsiano, di quel modello sono riproposte dall’abate la parola di rivelazione (sulla natura della terribile femmina) e la brutalità astrattiva e generalizzante, che dalla caratterizzazione senile traghetta a tutto un mondo di angosce visionarie. Così il tono dolce/preoccupato dell’abate prefigura quello di infiniti buoni vecchi del genere fantastico, vampiricamente accaniti su giovani donne-mostro rivali nel possesso del protagonista (maschio o femmina che sia); la stigmatizzazione di un legame tra mostruosità, sesso e sopravvivenze oltretombali già prepara l’azione dell’ammazzavampiri come fortemente, brutalmente moralizzatrice; il brontolio di Sérapion sui tempi sottolinea non senza ironia la senescenza del personaggio, mentre la diffidenza per il diverso (gli “schiavi negri”, la “lingua sconosciuta”) concilia le suggestioni d’epoca giocate da Gautier nel tessuto narrativo e la provocazione verso la ristrettezza di certo immaginario devoto. Alla dimensione illusoria che Clarimonde ha iniziato a dischiudere sembra anzi contrapporsi un’allucinazione di segno opposto, quasi a rendere impossibile un’oggettività del racconto e preparare la schizofrenia del narratore: i fenomeni precipitano in categorie demonologiche (i servi che “direi veri e propri demoni”, la cortigiana che “io credo fosse Belzebù in persona”), e le informazioni in incontrollabili voci e sussurri (“correvano strane storie”, “Si diceva”, “a quanto si dice”). Suggestivo è anche il sospetto che Clarimonde abbia già conosciuto altre vite e altre morti, che rilegge in chiave vampiresca la questione irrisolta in Keats circa precedenti esistenze di Lamia come donna, e insieme riconduce alle successive morti e reviviscenze dei primi vampiri ottocenteschi come Ruthven e Varney, richiamati alla vita tramite bagni di luna o complicità magnetiche di loschi dottori. In sostanza, quando Clarimonde ha approcciato per la prima volta Romuald poteva essere già morta e tornata in vita…

Per l’abate, l’accostamento di Clarimonde a Romuald trova unicamente motivazioni sordide e distruttive (gli amanti “morti in modo tragico e violento”, il “piede sull’abisso”, le “unghie lunghe” di Satana): anzi Clarimonde non esisterebbe neppure in quanto tale, non ci sarebbe spazio per un’identità autonoma e tanto meno per un sentimento di lei – come nell’interpretazione di Apollonio in Lamia. Proprio il divario tra le due parallele illusioni (i mondi allucinatori di Clarimonde e di Sérapion) e insieme – come vedremo – tra le ragioni dei due (taciute o malposte, e dunque incomponibili), dilanierà la vita del parroco: ma sarà l’astrazione generalizzante di Sérapion/Apollonio a precipitare Romuald da una schizofrenia del vissuto (ennesima ma originalissima rivisitazione del tema del doppio) alla finale e invincibile schizofrenia del rimpianto.

Il discorso di Sérapion non può sradicare i sentimenti di Romuald, cui Clarimonde poco tempo dopo apparirà nel sonno. Sta tornando nel mondo e nel corpo, ella annunzia, “per la potenza della volontà”, “perché l’amore è più forte della morte e la vittoria sarà sua” (“Povera ragazza!”, commenta Romuald con candore, senza mettere a fuoco la forza della ciangottante visitatrice): e a spiegare una simile passione – inusuale in una “grande cortigiana” dalla liberissima vita – giunge la sua confidenza di aver amato il giovane prima ancora di incontrarlo, come un sogno riconosciuto in chiesa, troppo tardi, durante l’ordinazione. Se il lettore può interrogarsi sulla sincerità di tale giustificazione, non può sfuggire che si tratta, ancora una volta, di un richiamo a Lamia e al suo particolarissimo colpo di fulmine per lo sconosciuto Licio. La cifra è quella del sogno, della visione: e a Romuald è appena sfuggito dalle labbra di amare Clarimonde quanto Dio, e appunto come in sogno (quello cinese, magari, dell’Imperatore e della farfalla) si spalanca al giovane una vita parallela e un onirico sdoppiamento di personalità – di giorno parroco tormentato, di notte vanesio gentiluomo e appassionato amante di lei in una Venezia incantata. Il palazzo di Lamia è ormai dilatato a tutto un mondo alternativo di piaceri e di bellezza, che nessuna irruzione di Apollonio può violare perché saldamente radicato nell’intimo del discepolo: e le cose stanno procedendo così da qualche tempo, quando all’improvviso Clarimonde si ammala, e le risorse dell’Altrove non bastano a curarla. L’infinito virtuale si arrende alle sue fragili coordinate naturali, e sarà solo un casuale sanguinamento di Romuald, cui la dama si attacca a suggere con frenesia, a guarirla inopinatamente: ma la sorpresa di Clarimonde a quella scoperta spiazza il lettore almeno quanto il protagonista. Se non si tratta di simulazione, la meraviglia può riguardare il potere risanatorio/alimentare del sangue in sé (quasi Clarimonde apprenda solo via via le possibilità e i vincoli della propria condizione), o piuttosto il fatto che ne basti così poco a far vivere la non-morta: comunque l’episodio è sufficiente a suscitare i dubbi di Romuald. Assillato dagli ammonimenti di Sérapion nella vita diurna (“«Non contento di perdere l’anima, volete perdere anche il corpo! Disgraziato giovane, in quale trappola siete caduto!»”), anche in quella notturna il parroco vede moltiplicarsi domande e sospetti: e fingendo di aver bevuto il vino in cui Clarimonde aveva versato una polvere misteriosa, riesce ad ascoltare il soliloquio di lei che angosciata gli sottrae qualche nuova goccia di sangue, pungendogli il braccio con uno spillo mentre lo crede narcotizzato. L’episodio, che insieme allarma (Clarimonde è un vampiro) e rasserena (Clarimonde lo ama e non vuole distruggerlo) – notiamo che tali posizioni hanno diviso i critici di Lamia tra colpevolisti e innocentisti – , finirà tuttavia col far precipitare gli eventi.

Se Sérapion/Apollonio astrae (per di più in modo grossolano) depauperando la comprensione del particulare, l’amore di Clarimonde e il suo rapporto specialissimo con l’amato, la situazione in questo caso è anche più complicata che in Keats. Anzitutto per ciò che riguarda Romuald/Licio, che qui non solo è devastato da una schizofrenia tra piani diversi di esistenza, ma narrando in prima persona espone il racconto a tutti i possibili dubbi di fraintendimento e cedimento all’inganno (il soliloquio angosciato di Clarimonde è simulato per tranquillizzarlo, sapendo di essere ascoltata? E l’intera Venezia incantata non costituisce la fantasticheria di un uomo progressivamente dissanguato, in cui i nessi causali svaporano in desideri e illusioni?). Ma la complessità è maggiore anche da parte di Clarimonde/Lamia, non riducibile alle due possibilità alternative di donna innamorata e mostro divoratore, ma addirittura sfaccettata in una inafferrabile molteplicità, quasi dalla proiezione di una lanterna magica:

 

Possedere Clarimonde voleva dire possedere venti amanti, possedere tutte le donne, tanto era mutevole, sempre diversa, un vero camaleonte. Vi faceva commettere con lei le infedeltà che avreste commesso con altre, assumendo completamente il carattere, l’atteggiamento e il tipo di bellezza della donna che sembrava piacervi. […] Era molto ricca e non voleva che amore, un amore giovane, puro, risvegliato da lei, che doveva essere il primo e l’ultimo.

 

Si tratta in fondo di quella stessa molteplicità nel contesto di un amore primo e ultimo che spingerà Gautier per tutta la vita al medesimo incontro ideale: una donna metamorfica, di accesa sensualità o spiritualizzata dolcezza, emersa dalla fragilità dell’impossibile (poche spanne di stoffa tessuta in Omphale, la polvere di un calco pompeiano in Arria Marcella, qui semplicemente una tomba) per spalancare una dimensione più appagante della realtà..

Certo all’inseguimento e all’amore di Clarimonde non sembra attagliarsi l’interpretazione in malam partem evocata da Le Fanu in Carmilla, il continuo ritorno della vampira via via amante e assassina: ma il racconto non può che attestarsi alla lettura emozionata e innamorata del narratore, senza cercare di provare o di astrarre. Come invece farà Romuald nella sua stessa identità alternativa di gentiluomo, ammettendo che la quantità di sangue succhiatagli è minima e “la donna […] compensava del vampiro” ma insieme che “Sérapion aveva ragione”: l’astrazione generalizzante (categorie di specie, quantità, misure) ripiega ormai l’esperienza incantata verso un irreversibile tramonto. Il sacerdote infatti è in preda agli scrupoli più tormentosi e la sera lotta invano per non addormentarsi, mentre l’abate gli “faceva veementi esortazioni e […] rimproverava duramente la debolezza e il poco fervore”: e per liberare Romuald, decide di condurlo a disseppellire la morta e contemplarla nell’orrore della dissoluzione. Lo sguardo dell’esorcista o la parola di rivelazione non sono più sufficienti: occorre il ludibrio autoptico e (come vedremo) il gesto, la brutalità pornografica di una procedura materiale. Il parroco accetta, ormai esasperato, e i capoversi che seguono – senza dubbio i più gotici del testo – costituiscono idealmente la matrice per innumerevoli catabasi del vecchio ammazzavampiri.

 

L’abate Sérapion si munì di una zappa, di una leva e di una lanterna e, a mezzanotte, ci dirigemmo al cimitero […] «È proprio qui», disse Sérapion e, posata la lanterna, fece scivolare la leva fra gli interstizi della lapide e cominciò a sollevarla. La pietra tombale cedette ed egli si mise al lavoro con la zappa. Io lo guardavo, più nero e silenzioso della notte stessa: curvo sul suo funebre lavoro, grondava sudore, ansimava e il suo respiro affannoso pareva il rantolo di un agonizzante. Era uno strano spettacolo e chi ci avesse visti dal di fuori, ci avrebbe creduti dei profanatori di tombe, dei ladri di sudari piuttosto che dei preti di Dio! Lo zelo di Sérapion aveva qualcosa di duro e di selvaggio che lo faceva somigliare a un demonio piuttosto che a un apostolo o ad un angelo. Il suo volto, dai tratti austeri e nettamente stagliati dal riflesso della lanterna, non aveva nulla di rassicurante. […] Nel mio intimo consideravo abominevole sacrilegio l’azione di Sérapion ed avrei voluto che dalle nere nubi che si muovevano pesantemente su di noi uscisse un triangolo di fuoco per incenerirlo.

 

Proprio tale scena di profanazione, nel contesto di una novella che unisce una vampira e il tema di una doppia vita diurna/notturna, potrebbe aver suggerito a Gautier il nome del terribile abate, con un’allusione all’antologia Die Serapionsbruder di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, 1821: nel racconto più noto, Vampyrismus, l’allarmante Aurelia propina ogni sera un narcotico al coniuge per poi andarsene al cimitero a disseppellire e sbranare cadaveri (si tratterebbe dunque di una specie di gula – cfr. il discorso qui di Sérapion “On a dit que c’était une goule, un vampire femelle”, inteso però genericamente – più che di vampira in senso stretto), e appunto il dialogo tra i “Fedeli di San Serapione” costituisce una sorta di cornice con estesi accenni al tema vampiresco.

I due profanatori giungono così alla bara dove il corpo intatto della bella Clarimonde reca ancora una piccola goccia rossa all’angolo della bocca.

 

Sérapion, a quella vista, s’infuriò. «Eccoti demonio, cortigiana impudica, bevitrice di sangue e d’oro!», e asperse d’acqua benedetta il corpo e la cassa, sulla quale, con l’aspersorio, tracciò una croce. Non appena la povera Clarimonde fu toccata dall’acqua santa, il suo corpo divenne polvere: non restò più che un miscuglio orribilmente informe di cenere e di ossa semicalcinate.

«Ecco la vostra amante, signor Romuald! – disse l’inesorabile prete, indicandomi le tristi spoglie –. Sarete ancora tentato di andare a passeggio al Lido o a Fucina con la vostra bella?» Io abbassai la testa: un enorme vuoto si era creato dentro di me.

 

Come Lamia, Clarimonde scompare sotto l’esorcismo del nemico: incalzato dalle astrazioni, l’incanto fragile dell’infinito virtuale collassa. Più che una vittoria del bene sul male, la scena descritta dal coinvolto narratore evoca i confini “naturali”, esistenzialmente noti, di ogni risveglio violento dall’esperienza unica – a qualunque sentimento o gloria essa attenga, e con un rimpianto che sembra conservare (come ombra, o negativo fotografico) qualcosa di quello stesso infinito e parlarne il linguaggio. Ma parole e gesti non sono sufficienti all’esorcismo: e occorre un segno materiale delle categorie di Sérapion, l’acqua santa, perché il bel corpo sia ricondotto alla polvere. Senza riuscire a dilavare da Romuald il dolore, e ad evitargli un’ultima apparizione dell’amata.

 

«Sciagurato! Sciagurato! Che cosa hai fatto! Perché hai dato ascolto a quello stupido prete? Non eri felice? Che male ti avevo fatto perché tu violassi la mia tomba e mettessi a nudo le miserie del mio nulla? Ormai ogni contatto fra le nostre anime e i nostri corpi è definitivamente interrotto. Addio, mi rimpiangerai!» Si dissolse nell’aria come il fumo e non la rividi mai più.

 

Nell’ambiguità oggettiva dell’esperienza narrata, l’apparizione rappresenta per il lettore quanto più assomiglia a una risposta definitiva sull’onestà dei sentimenti della morta vivente Clarimonde. E se il vivente morto Romuald potrà ora giungere a una qualche “pace dell’anima”, l’orrore che resta, assai più che nelle macabre memorie cimiteriali, è quello esistenziale dell’irreversibile rimpianto.

La ricerca di una Bellezza dal volto di donna, la frustrazione di non riuscire ad aderirvi in pienezza e anzi di lasciarla sfuggire, il divario incolmabile tra realtà e ideale, lo sgomento per la morte e il tempo impietoso e un “personale, intimo dissidio tra esuberanza e disincanto” (Ludovica Cirrincione d’Amelio) rappresentano elementi privilegiati e quasi ossessivi della produzione di Gautier tra il 1834 e il 1845 – e tuttavia continueranno a emergere anche in opere successive, con un’avvertenza persino più convinta delle ragioni dell’Altrove.

È il caso di Arria Marcella, 1852, dove il mondo incantato si trasferisce nella Pompei dell’impero di Tito: ancora una volta c’è una bella non-morta, la cui natura vampiresca rimane oggetto di semplice ipotesi e ancora richiama a Lamia,  e un anziano esorcista del suo stesso mondo antico. Nel racconto infatti, stavolta in terza persona, il sensibile viaggiatore Octavien in visita notturna alle rovine precipita inaspettatamente nei giorni animati precedenti l’eruzione pliniana: e complice la suggestione di un calco – l’impronta di un seno di donna nel coagulo della cenere, rinvenuto nella villa di Arrio Diomede – il giovane avrà la ventura di incontrarne nientemeno che il modello originale. In apparenza la bellissima Arria Marcella (tale il nome della signora) nota il giovane a teatro e lo induce a raggiungerla nel lusso della propria villa: ma presto Octavien apprenderà come quella Pompei vividissima non appartenga esattamente al passato storico. Infatti la giovane donna non reca cibo alle labbra, e beve unicamente “un vino rosso scuro, simile a sangue rappreso” (cfr. Théophile Gautier, Arria Marcella – Ricordo di Pompei, in Id., Racconti fantastici, cit.), sollevandone la coppa con un braccio “freddo come la pelle di un serpente o il marmo di una tomba”. Confessando poco dopo a Octavien:

 

«Oh! […] Quando, al museo, ti sei fermato a contemplare quel pezzo di lava indurita che conserva la mia forma e il tuo pensiero si è appassionatamente rivolto a me, il mio spirito lo ha percepito, nel mondo in cui mi aggiro, invisibile agli occhi del volgo. La fede crea il dio e l’amore la donna. Non si è veramente morti se non quando non si è più amati: il tuo desiderio mi ha reso la vita; la potente evocazione del tuo cuore ha cancellato la distanza che ci separava!»

Il concetto di evocazione amorosa, di cui parlava la giovane donna, faceva parte delle teorie filosofiche di Octavien, teorie che non siamo lontani dal condividere. In verità nulla muore, tutto sempre esiste: nessuna forza può annullare ciò che una volta è stato. Ogni azione, ogni parola, ogni forma, ogni pensiero cade nell’oceano universale delle cose e dà luogo a cerchi che vanno allargandosi fino ai confini dell’eternità. La raffigurazione materiale sparisce soltanto agli sguardi volgari e gli spettri che se ne allontanano popolano l’infinito.

 

Se tale è la natura delle belle ospiti di Gautier, si comprende come Sérapion possa biasimarne, prima ancora che un’eventuale sete di sangue, proprio la propensione pagana al ritorno e il vitalismo carnale. E infatti Octavien ha appena proclamato alla donna eterno amore (letteralmente: “ciò di cui sono ben certo è che tu sarai il mio primo e il mio ultimo amore”, espressione che richiama quella usata da Romuald per Clarimonde: “non voleva che amore, un amore giovane, puro, risvegliato da lei, che doveva essere il primo e l’ultimo”) quando qualcuno interrompe l’idillio.

 

Improvvisamente gli anelli di bronzo della tenda che chiudeva la stanza scivolarono sull’asta e un vecchio, dall’aspetto severo, ricoperto da un ampio mantello scuro, comparve sulla soglia. La barba grigia era divisa in due bande, come quella dei Nazzareni, e il viso pareva solcato dalla sofferenza delle macerazioni; una piccola croce di legno nero gli pendeva dal collo e non lasciava dubbi sulla fede da lui professata: apparteneva alla setta appena sorta dei discepoli del Cristo.

[…] «Arria, Arria – disse l’austera figura, in tono di rimprovero –, il tempo della vita non è stato sufficiente per la tua dissolutezza al punto che ora i tuoi amori infami travalicano anche i confini di secoli che non ti appartengono? Non puoi lasciare i vivi nel loro mondo? La tua cenere non si è dunque ancora raffreddata dal giorno in cui moristi, senza pentirti, sotto la pioggia di fuoco del vulcano? Duemila anni di morte non ti hanno dunque ancora calmata e le tue braccia voraci attirano ancora sul tuo petto di marmo, privo di cuore, i poveri sciocchi inebriati dai tuoi filtri?»

«Grazia, Arrio, padre mio. Non mi tormentate nel nome di quella cupa religione che non è mai stata la mia. Io credo nei nostri antichi dei che amavano la vita, la gioventù, la bellezza, il piacere: non mi fate precipitare nuovamente nel pallido nulla. Lasciatemi godere quest’esistenza che l’amore mi ha restituito!»

«Taci, empia, non parlarmi dei tuoi dei che sono demoni. Libera quest’uomo incatenato dalle tue impure arti di seduzione; non attirarlo più fuori dal cerchio della vita che Dio gli ha tracciato; torna nel limbo del paganesimo con i tuoi amanti asiatici, romani o greci. Giovane cristiano, allontanati da questa larva che, se potessi vederla com’è veramente, ti sembrerebbe più ripugnante di Empusa e di Forchia». […] «Mi obbedirai Arria?» gridò imperioso il gran vecchio.

«No, mai», rispose Aria, con gli occhi scintillanti, le narici dilatate, le labbra frementi, stringendo il corpo di Octavien con le belle braccia di statua, fredde, dure e rigide come il marmo. […]

«Allora, sciagurata, dovrò ricorrere alle maniere forti e rendere il tuo nulla palpabile e visibile a questo ragazzo ammaliato». E pronunciò, con tono autoritario, una formula d’esorcismo che fece sparire dalle guance di Arria le tinte rosate che il vino nero del vaso di murra vi aveva fatto salire.

In quell’attimo, la campana lontana di un villaggio della costa o di un borgo sperduto negli anfratti della montagna fece udire le prime note dell’Angelus. Un rantolo di agonia uscì dal cuore spezzato della giovane donna. Octavien sentì allentarsi le braccia che lo tenevano avvinto, mentre i drappi che la coprivano si ripiegavano su se stessi, come se la forma che li sosteneva si fosse afflosciata.

L’infelice nottambulo non vide più accanto a sé, sul letto del piacere, che una manciata di cenere mista a poche ossa calcinate, fra le quali brillavano bracciali, monili d’oro e resti informi come quelli che vennero ritrovati durante lo scavo della casa di Arrio Diomede: lanciò un urlo tremendo e perse conoscenza.

Il vecchio era scomparso: il sole si stava alzando e della sala tanto sfarzosa non restava che un rudere.

 

In modo anche più evidente che nel La morte amoureuse, l’Altrove – esotico nel tempo e nello spazio, a marcare la distanza dalla meschinità quotidiana in una fuga che in realtà è immersione in più profonde regioni interiori e anteriori – vedrebbe finalmente appagato il cultore della Bellezza: ma a distruggerlo basta l’interpello del tempo, la riconduzione alle categorie del “cerchio della vita”, di cui l’esorcista risulta garante. Di fronte a quelle istanze generali e astratte, normative, la Bellezza inseguita collassa nel grottesco (l’Empusa dell’antico esorcismo filostrateo a monte della trascrizione keatsiana di Lamia) e resta annichilita: e la minaccia di Arrio alla figlia, “dovrò… rendere il tuo nulla palpabile e visibile”, richiama la scelta di Sérapion di mettere – come rimproverava Clarimonde – “a nudo le miserie del mio nulla”. Laddove però il turista Octavien non poteva sperare (o piuttosto temere) in un padre spirituale che lo salvasse imponendogli una simile autopsia, è paradossalmente proprio l’effrazione temporale di Arria Marcella a permettere all’esorcista del passato (il passato storico, del tempo impietoso) di raggiungerla e annientarla. Anche se poi nulla, neppure un matrimonio in apparenza perfetto, potrà liberare Octavien dal ricordo di quell’abbraccio.

Nell’incontro continuamente impedito, ostacolato, esorcizzato con la donna dell’Altrove, il brio e l’amarezza sembrano però abbandonare via via le riserve verso il vampiro: e in un’opera più tarda, come in un estremo sussulto di ribellione, Gautier riuscirà finalmente a sfuggire al Sérapion interiore. Nel romanzo breve Spirite, 1866, sei anni prima della morte, il protagonista Guy de Malivert potrà infine unirsi all’incantevole entità che l’ha chiamato dall’oltretomba, proclamando non solo le consolidate convinzioni dell’Autore su un approccio di Bellezza all’immortalità, ma, tramite echi del classico Swedenborg e sirene dello spiritismo montante, le nuove attenzioni all’occulto del fantastico europeo.

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L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/III) https://www.carmillaonline.com/2024/02/17/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-iii/ Sat, 17 Feb 2024 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81213 di Franco Pezzini

(qui e qui le puntate precedenti)

Donne-serpente sull’orlo di una crisi di nervi

Mostro-femmina e cacciatore, in particolare, saranno interessati dalle originali soluzioni del poemetto narrativo Lamia di John Keats, scritto nel 1819 e pubblicato nel luglio del ’20, pochi mesi prima della morte del poeta: un’opera di febbrile potenza onirica che sappiamo debitrice di attente letture del dizionario di Lemprière e soprattutto – attesta Keats – del testo a lui caro di Burton. In quest’opera circonfusa di malinconia romantica, l’innominata lamia/strega diviene, semplicemente, Lamia, peraltro molto diversa dall’originale orchessa greca; e “Menippo Licio”, cioè di [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le puntate precedenti)

Donne-serpente sull’orlo di una crisi di nervi

Mostro-femmina e cacciatore, in particolare, saranno interessati dalle originali soluzioni del poemetto narrativo Lamia di John Keats, scritto nel 1819 e pubblicato nel luglio del ’20, pochi mesi prima della morte del poeta: un’opera di febbrile potenza onirica che sappiamo debitrice di attente letture del dizionario di Lemprière e soprattutto – attesta Keats – del testo a lui caro di Burton. In quest’opera circonfusa di malinconia romantica, l’innominata lamia/strega diviene, semplicemente, Lamia, peraltro molto diversa dall’originale orchessa greca; e “Menippo Licio”, cioè di Licia (almeno in Filostrato), appare presente come Licio di Corinto. Se la complessità dei problemi dell’opera e la sua altissima dignità letteraria non permettono in questa sede che cenni fuggevoli, già un riassunto offre indicazioni interessanti per lo sviluppo che andiamo delineando. La vicenda inizia dunque con l’arrivo a Creta del dio Hermes, bramoso di sedurre una bellissima ninfa locale già desiderata invano da torme di spasimanti semidivini, e che egli stesso non riesce a rintracciare: trova invece un serpente, che lamenta la propria condizione con parole inattese quanto struggenti.

 

«Potrò mai destarmi da questa tomba coperta di fiori,

muovermi in un morbido corpo adatto alla vita,

all’amore, al piacere, alla calda lotta di cuori

e di bocche! Infelice son io!».

 

La minuziosa descrizione del serpente rappresenta in qualche modo l’esito estremo del lungo processo di concretizzazione della seduttrice, da demone/spettro a melusina/strega a rettile vero e proprio (per quanto, vedremo, inabitato da un’entità pneumatica); ma insieme ne delinea l’estremo limite di ambiguità ontologica e caratteriale, al di là d’ogni tipizzazione da dizionario mitologico. Di un’ambiguità ontologica, anzitutto, che la qualifica compiutamente per mostro, entità mutante equivoca e sfuggente: se la creatura anguiforme è affamata d’amore e dotata di voce dolcissima, bocca e (plausibilmente) occhi di donna, arriverà addirittura a confidare precedenti esistenze in forma umana.

 

«Sono già stata donna, e per una volta ancora

vorrei la bella forma femminile d’allora.

Amo un giovane di Corinto – ah, che dolcezza!

Concedimi forma di donna [Give me my woman’s form], la bellezza,

e poi lasciami lì dove lui si trova […]»

 

Si tratta di versi, nota Silvano Sabbadini,

 

molto interessanti sia perché suggeriscono una durata temporale di Lamia precedente e, come vedremo, posteriore alla sua storia con Licio, sia perché mettono in crisi la lettura di Lamia semplicemente come serpe mascherata.

 

“Se Keats potesse avere la certezza di Burton che lei è soltanto un serpente che ha assunto forma di donna, ci basterebbe trapassare con lo sguardo illusioni e finzioni come fenomeni che non fanno altro che nascondere una bruttezza primaria. Ma dal momento che l’esistenza di Lamia come donna precede la sua esistenza come serpe, siamo costretti a chiederci se, dopotutto, lei non è proprio quella forma di bellezza che sembra essere. E tuttavia, poiché dice soltanto d’essere stata donna “once” e non originariamente, la possibilità d’una esistenza precedente come serpe dietro alla sua prima incarnazione umana non è mai del tutto esclusa” [T. Rajan, Dark Interpreter: The Discourse of Romanticism, Ithaca 1980, cit. da Sabbadini].

 

Sul filo dei versi che più avanti evocheranno le esperienze da lei vissute in spirito “quando, imprigionata dentro il serpente, / ogni cosa desiderava, ricca o sorprendente” si può supporre di ravvisarvi un’entità disincarnata, condannata a risiedere in un corpo di rettile ma periodicamente in grado – per concessione divina, e non per propria forza – di sostituirlo con uno femminile; al punto che forse il nome Lamia, par suggerire il testo, connota la sola identità di donna (semplice pseudonimo, magari già usato in precedenza, o “vero” nome dello spirito?), e non anche la preesistente vita animale. Comunque la creatura conclude con Hermes un accordo giurato, aiutandolo a vincere il sortilegio d’invisibilità della ninfa e ottenendo in cambio la propriamy, dice Lamia – “forma di donna” (intende semplicemente la stessa forma che aveva assunto in passato, o intrinsecamente la sua?): e dopo una drammatica metamorfosi che ne distrugge la bellezza di rettile, la vediamo riapparire col fascinoso sembiante umano nei dintorni di Corinto. Ma, si è detto, ci troviamo anche agli estremi limiti dell’ambiguità caratteriale: e non a caso la critica appare radicalmente divisa tra quanti enfatizzano l’immagine della cruel lady – come Lamia verrà definita nell’ambito della schermaglia per sedurre Licio – e altri che ne sottolineano la sostanziale innocenza (si vedano le diverse interpretazioni di Bate – “innocentista” –  e di Evert e Stillinger – “colpevolisti” – citate da Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.). Keats presenta la sua eroina come “vergine, con labbra pure, ma nelle cose d’amore / sapiente”, ciò che ben evoca il gioco sottile tra innocenza e disinvoltura che sostanzia la seduzione al di là d’ogni facile stereotipo sulla vamp; e comunque, lungo il filo di tutto il poemetto, non offre certezze sugli esiti ultimi dell’eros di Lamia, eventualmente vampirici o divoranti. Eppure il sentimento trascinante per quel Licio incontrato in spirito, durante le peregrinazioni eteriche dell’avatar-serpente, non permette di assimilare Lamia alla meretrice nera delle antiche favole – e anzi pare difficile che la donna umiliata della Parte II del poemetto, ormai succube dell’amante, intenda davvero mangiarselo. Certo Keats attinge alla mitologia delle lamie divoratrici e la presuppone, ma per poi contrapporre provocatoriamente alla cruel lady della fase seduttoria il maschio “perverso” (perverse) che prova “un piacere voluttuoso al dolore di lei” e impone il matrimonio quale equivoca celebrazione del trofeo erotico. La stessa divisione in dittico dell’opera sembra sottolineare tale dialettica e ribaltamento tra i conduttori del gioco, nel segno di un’innocenza o almeno simpatia e spezzata sofferenza del mostro-femmina, e della sua sottomissione al compiacimento del maschio. Anche se, in realtà, la questione resta aperta: e non potrebbe neppure escludersi l’ipotesi d’un teatro delle crudeltà (come poi certi sviluppi gotici, Carmilla in particolare) nel quale la soavità dolente dell’innamoratissima Lamia si concilî con la prospettiva alimentare ai danni dell’amante, per soccombere in ultimo al fanatismo altrettanto vampirico del vecchio Apollonio. Qualunque interpretazione si scelga, la leggiadria maltrattata della Lamia di Keats finisce con l’enfatizzare per contrasto la brutalità del “cacciante”/cacciatore, molto diverso dal santo filostrateo.

La storia in effetti prosegue con l’avvicinamento del giovane sulla strada fuori città, la sua calcolata seduzione e il ritorno notturno in Corinto: ed è allora che la coppia incrocia un uomo con “barba grigia, ricciuta, occhi pungenti, / il cranio calvo, liscio, passi lenti, / una tunica da filosofo”, da cui Licio non vuol farsi riconoscere e che ispira a Lamia un tremito inquieto.

 

«Dimmi», disse lui [=Licio], «amore, perché miseramente

tremi, e la tua tenera palma s’imperla di rugiada?»

«Sono stanca», disse la bella Lamia, «e poi quello

chi è, dimmi, quel vecchio?

Nella mente non trovo le sue fattezze.

Oh, Licio, perché ti nascondi al suo mobile sguardo?»

E lui: «È il saggio Apollonio,

la mia guida fidata, un maestro di riguardo,

ma che stanotte a quello spettro rassomiglia

della follia che ai miei dolci sogni s’appiglia».

 

Certo Lamia finge di abitare a Corinto, e l’affermazione di non ritrovare “Nella mente […] le […] fattezze” di Apollonio può semplicemente significare che non l’ha mai visto; ma un senso ulteriore potrebbe ravvisarsi nell’impenetrabilità della sfera del filosofo alle visioni astrali della seduttrice-serpente, e in ultima analisi a un orizzonte mentale antitetico e irriducibile. Una presenza, comunque, o meglio uno sguardo al quale Lamia trasale (un’angoscia autoconservativa, se non di premonizione) e Licio prova imbarazzo nella nudità delle proprie emozioni e fantasie: ciò che può riecheggiare in nero una diversissima pagina su donne e serpenti, il nascondersi a Dio di Adamo ed Eva consci d’essere nudi (Gn 3,8). Ma a differenza del Dio del Genesi, Apollonio risulta qui il padre (di elezione) equivoco, e ci si può domandare se Keats non avvertisse il paradosso d’una lettera corinzia sull’amore tanto amaramente antitetica a quella paolina del celeberrimo inno di 1 Cor 13, 1-13 – a maggior ragione in un contesto tanto fitto di richiami alla visione, magari negata o confusa quasi in a glass darkly (traduceva re Giacomo e avrebbe ripreso Le Fanu nel titolo della sua raccolta ultima, appunto In a Glass Darkly: nella moderna tradizione interconfessionale in lingua corrente, LDC/ABU 1985, il richiamo è reso: “Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio”, 1 Cor 13, 12).

In ogni caso il “mobile sguardo” di Apollonio sviluppa un motivo già filostrateo con forza particolare: e sarà l’occhio e lo sguardo, prima ancora della parola che lo suggellerà, il vero motore dell’esorcismo. Al drammatico epilogo conduce in realtà lo stesso Licio, non soddisfatto dell’estasi appartata nel palazzo incantato di Lamia, e voglioso d’imporre lo spettacolo della propria fortuna agli occhi dei conoscenti: e dopo una vana resistenza, la bella amante è piegata alle nozze. Il pericoloso momento di passaggio esistenziale che nelle versioni di Filostrato e Burton appariva desiderato e anzi accelerato della protovampira, ansiosa di porre il sigillo sulla vittima per meglio divorarla, in Keats diviene un evento che Lamia non riesce a evitare: l’occasione minacciosa d’un confronto col mondo esterno che può porre in crisi – e lo farà – lo spazio chiuso dell’incanto, il suo carattere di fragile assoluto. Lamia strappa all’amante solo la promessa di non invitare Apollonio, di tenerla nascosta da lui (“from him keep me hid”), e invano Licio cerca di capirne il motivo; quando però allo sfarzo incantato del palazzo affluiranno a frotte gli invitati, anche il filosofo indesiderato farà la sua comparsa.

 

Entravano in fretta, stupiti, curiosi, attenti,

tutti tranne uno,

che guardandosi attorno con occhio severo

procedeva a passi lenti, placido e austero.

Era Apollonio: a volte tra sé e sé ridacchiava,

come se qualche problema intricato

che aveva sfidato il suo pensiero paziente

cominciasse ora a sciogliersi, rendendosi patente.

Sì, era proprio come aveva pensato.

 

Il “problema intricato” (knotty problem) richiama naturalmente la “forma gordiana” (gordian shape) con la quale il serpente innamorato si presentava a Hermes all’inizio del poemetto: un rimando al nodo del re Gordio e alla figura di Alessandro Magno “che, non diversamente da Apollonio, sta a indicare la forza violenta della semplificazione razionalistica contro la ricchezza e la indistinzione del mondo preanalitico” (Silvano Sabbadini). E torna l’occhio, severo ma capace di brillare di compiacimento al risolversi del “problema”, alla conferma del quadro ipotizzato alla luce della fredda ragione – certo sulla natura dello spettacolo nel palazzo e soprattutto di Lamia.

Apollonio affetta di scusarsi con il discepolo per l’autoinvito e Licio incassa spiazzato, ha inizio la festa sontuosa: ma – Keats ci avverte – la ghirlanda adatta ad Apollonio sarebbe piuttosto di gramigna e cardo, considerando come gli incanti dileguino “al semplice tocco della fredda filosofia”, capace di dissacrare i misteri della natura e della fantasia. Dove il richiamo alle armi impoetiche della misurazione, “riga e squadra”, evoca un paradosso che forse l’autore non avrebbe sospettato: mentre cioè l’antico esoterista Apollonio assurge in Lamia a campione di razionalità fanatica, proprio gli strumenti qui emblematici d’un approccio di concretezza al mondo, quelli geometrici e di misura, finiranno in seguito col suggerire all’immaginario del grande pubblico (tramite la volgarizzazione di romanzi e pellicole popolari) un sapore di esoterismo mistico-irrazionalistico dalle radici comunque presettecentesche – si pensi al compasso dell’Anziano di giorni raffigurato da Blake e a tutta un’iconografia massonica e rosicruciana. E proprio guardando a tale spazio simbolico, esteso lungo un vasto arco di esperienze culturali (spesso in opposizione reciproca, come nelle diverse posizioni delle logge massoniche, regolari o di frangia, verso l’occultismo), matureranno varie figure di epigoni di Apollonio, medici psichici come il dottor Taverner o John Silence, pronti a cacciare le nuove lamie con strumenti più magici che razionali.

Il poemetto precipita ormai verso la drammatica conclusione: e ancora una volta è lo sventato Licio a innescare la crisi, quando con un’occhiata al momento del brindisi implora “uno sguardo dal viso rugoso / del suo vecchio maestro”.

 

Il filosofo calvo, con occhi di doglio

Fissava la bellezza inquieta della sposa,

e senza un batter di ciglia, senza un movimento,

ne intimidiva le belle forme turbandone il dolce orgoglio.

 

Sembra ora difficile dire chi, tra Lamia e Apollonio, assomigli più a un serpente, in una riproposizione emblematica dell’opposizione tra diversi vampirismi e mostruosità – anzi accentuati nella gelosia del vecchio maschio verso la rapitrice (giovane e donna) dell’allievo. Licio si accorge dello smarrimento di Lamia, la sente gelida, chiede invano se conosca “quell’uomo”, la vede annichilire – e con lei la festa, e persino il mirto emblema dell’amore. Davanti alla compagna ormai priva di coscienza e come inaridita, Licio urla ad Apollonio di chiudere “quegli occhi incantatori”, minacciandolo col castigo della cecità dagli dei:

 

«[…] per la loro potenza a lungo offesa,

per la tua logica empia e altezzosa,

per le tue magie illecite, le tue bugie lusinghiere.

Guardate, Corinzi, questo fattucchiere dalla barba grigia,

Vedete come, possedute, le sue palpebre senza ciglia

si distendono attorno ai suoi occhi diabolici! guardate!

La mia dolce sposa avvizzisce sotto la loro potenza».

«Pazzo!» disse il sofista, a voce bassa, rauco nello sdegno.

Gli risponde con un gemito di morte, Licio,

mentre colpito al cuore e perduto

cade supino accanto allo spettro dolorante.

«Pazzo! Pazzo!», ripeté il vecchio cavilloso,

ma lo sguardo restava implacabile, cocciuto.

«Da ogni male della vita t’ho sino a oggi preservato,

e dovrei vederti preda d’un serpente? »

Esalò Lamia l’alito della morte.

L’occhio del sofista come una lancia acuta

La trafisse, affilato, crudele, pungente.

Lei, per quanto la debole mano un intento

Potesse accennare, gli fece cenno di tacere;

inutilmente, che lui la guardava fisso,

la fissava continuamente. – No!

«Un serpente!» ripeté, e la parola non era finita

che con un grido orrendo Lamia era svanita.

 

E a Licio stroncato dal dolore sarà infine sudario il manto nuziale. La scena, di straordinaria potenza drammatica, incalza con paradossi furiosi: il fanatico razionalista Apollonio si trasmuta, nelle accuse sconvolte di Licio, in uno stregone (si potrebbe persino pensare, in via virtuale, che Keats giochi a costruire così l’icona dell’Apollonio mago); il giovane “salvato” muore proprio a causa del salvataggio; l’immagine classica della teratomachia, con la lancia di san Giorgio che trafigge il drago-serpente, si ripropone in esplicita, paradossale metafora tra l’occhio del vecchio e una creatura probabilmente innocua. Certo la rivelazione che Lamia sia solo un serpente appare banalizzante, cioè non coglie né lo specifico d’una situazione originaria, né la dinamica del rapporto tra Lamia-donna e il suo uomo; ma insieme è derealizzante, cioè nega Lamia nella sua individualità (legata al nome proprio usato da Keats e da Licio) per rigettarla alla deriva d’un generico nome di specie, in un sostanziale ed effettivo annichilimento. La parola, peraltro, fa collassare nel drammatico esito un esorcismo anzitutto visivo: e ritroveremo quell’occhio implacabilmente indagatore (anche se raramente in forme tanto estreme) tra i successori di Apollonio, tesi a smascherare e fare autopsia dei mostri via via incontrati. La costellazione ottica del mito gorgonico si ripropone così quale sguardo entro lo specchio oscuro delle proprie categorie asfittiche, che vanifica pericoli e ricchezze dell’incontro fascinatorio in una visione brutale e parziale – come quella che appiattisce il mistero dell’amante incantata a mero nome zoologico di specie, e disattiva l’oggettivo rischio (ma anche le possibilità e la bellezza) del rapporto tra Licio e Lamia nel segno dell’aridità esistenziale e ideologica. Ed è proprio l’intervento brutale di Apollonio a strappare al lettore la possibilità di sapere se Lamia sia davvero pericolosa, ma anche – in radice – a rendere impossibile uno sviluppo del rapporto tra i protagonisti, in senso distruttivo o invece vitale.

Non è del resto un caso che il contrapporsi tra “immaginazione” e “realtà” – o, in termini moderni, tra istanze dell’individuo e società – intessuto nel testo keatsiano abbia spesso conosciuto letture critiche fuorvianti:

 

schiacciare il poemetto Lamia sul personaggio Lamia, e identificare l’illusione di Licio con quella di Keats, costruendole come illusioni soggettive di contro a un reale “pubblico” e oggettivo, non farebbe che raddoppiare l’errore di Apollonio nel corso del poemetto stesso, ossia schiacciare Lamia su una qualsiasi lamia, e cioè non rendersi conto che anche un’illusione privata è sempre e comunque prodotta da e all’interno di una realtà sociale, e deve quindi essere letta all’interno di un sistema a forze concentriche e non opposte. La spiegazione del poemetto non potrà allora consistere nel riproporre le sue antitesi, come troppo spesso è avvenuto nella sua ricezione critica, semplicemente schierandosi per una di esse, per la poesia o l’immaginazione contro la realtà, o, al contrario, riducendolo a una «denuncia pessimista dei pericoli del sogno, dei sovrainvestimenti nell’illusorio, e della impossibilità di una fuga dalle realtà della condizione umana», ma nel cercare di capire il meccanismo che le ha costituite in una opposizione che entrambe le tiene: Hermes, Licio, Apollonio, e, paradossalmente, Lamia stessa, non rappresentano scelte e posizioni alternative, ma un unico meccanismo sociale astrattivo che, progressivamente realizzandosi, nel doppio senso di un processo verso la realtà ma anche verso la sua feticizzazione, trasformano una potenzialità mitica e innominabile in una singolarità povera ed empiricamente tangibile con il nome comune di “serpente”, seguendo quella stessa logica che ha trasformato ogni Valore in “borsa valori”: che la massima comprensibilità e circolarità del nome, “comune” appunto, coincida con la sparizione delle soggettività individuali messe in campo, la dice lunga sui processi di maturazione e di educazione alla realtà evocati da tanta critica apologetica del “reale”.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit. Per la citazione riportata («denuncia pessimista dei pericoli del sogno […]»), cfr. J. Stillinger, The Hoodwinking of Madeline and Other Essays on Keats’s Poems, Urbana 1971.]

 

In effetti la corrispondenza di Keats nel periodo di composizione dell’opera testimonia un’acuta attenzione al tema della trasformazione dell’arte in produzione artistica, e alla connessa dinamica tra scrittore e mercato – in relazione a una più ampia riflessione sull’autonomia dell’arte nel mondo uscito dalla rivoluzione industriale.

 

Dietro la superficiale affermazione che i grandi romance keatsiani del 1819 mettano in scena l’opposizione tra illusione e realtà, sta di fatto l’illusione critica, ben più inconsapevole delle “illusioni” keatsiane, che l’equazione tutta storica e borghese tra letteratura e falsità come regno del soggettivo-illusorio, contrapposte a una realtà-fattualità come mondo dell’oggettività, sia un dato naturale, un principio, appunto, di realtà cui sarebbe maturo sacrificare ogni principio del piacere. Ma in Keats, molto più problematico dei suoi critici, la trasformazione borghese dell’immaginazione in fantastico, del creativo in fittizio, è problema politico per eccellenza, in quanto metafora della trasformazione di tutti i rapporti umani in rapporti mercantili.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.]

 

E proprio la logica commerciale dell’economia dei desideri – i reciproci favori di Hermes e Lamia, i “desideri triangolari” di Hermes per la ninfa (bramata da Satiri e Tritoni) e di Licio per Lamia (da ostentare come trofeo) – conduce allo svuotamento finale. Dall’iniziale, insoddisfatta indifferenziazione di serpente/donna, la Mutante diviene donna concreta, poi oggetto feticistico e quindi (violentata dalla banalizzazione astrattiva di Apollonio) nudo nome comune, “serpente”, senza che la progressiva definizione comporti arricchimenti nel segno della fecondità esistenziale o della comprensione della realtà – e al contrario, il culmine della sequenza vede Lamia svanire, letteralmente cancellata.

 

Una volta trasformato in oggetto, feticizzato e usato come mezzo di scambio, ogni personaggio, secondo una necessità narrativa fortissima, passa questa maledizione astrattiva a un altro, secondo una socializzazione che non fa nessuna differenza tra dei, ninfe, umani e filosofi, sino alla massima astrazione finale, quella di Apollonio, che per riavere Licio lo riduce a una spoglia nel medesimo istante in cui trasforma Lamia e Lamia a “una lamia”, e cioè poemetto e personaggio a un semplice inganno semantico.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.]

 

Come nel mondo economico il richiamo alla concretezza trascina (al tempo di Keats o a maggior ragione oggi) alle astrazioni del denaro e della finanza, così la mozione al buon senso e alla realtà concreta segna la banalizzazione e anzi il dileguamento delle diverse soggettività nella deriva astratta di generici nomi e categorie. La Corinto della concretezza, gli abitanti e lo stesso Apollonio si svelano del resto fin dall’inizio almeno altrettanto onirici e persino più spettrali della Mutante e del palazzo incantato, in una prefigurazione di rara lucidità della nostra civiltà di fantasmi finanziari ed ectoplasmi mediatici. Il gioco di sentimenti e sogni inscenato in Lamia appare in sostanza un encausto amaro sullo spazio concesso all’immaginario all’interno delle società industriali: dove la crisi delle illusioni (con la paradossale, ironica scelta del genere romance, tipicamente associato al mondo dell’immaginario, per sceneggiare la crisi del medesimo) non conduce alla “realtà”, al trionfo dell’umano sul sogno, ma a una sconfitta generale e a un panorama di vuoti e nude spoglie. “Lamia, insomma, è il sogno erotico di una città commerciale; non la sua antitesi, ma piuttosto il suo compimento” (ivi): dove il poeta svela non solo i procedimenti di costruzione dell’oggetto erotico/estetico, ma il fatto che tale modalità sia la medesima che per qualunque altra merce, “cosicché il fantastico non s’opporrà più al mercato, ma ne diverrà uno dei prodotti principali” (ivi). Ciò che pare almeno interessante per la comprensione di molte contrapposizioni e teratomachie celebrate sul palcoscenico dell’immaginario contemporaneo.

La bella seduttrice, dunque, svanisce – e dal testo di Keats non è chiaro se possa sopravvivere in qualche altra forma, pneumatica o animale. Difficilmente col suo nome proprio, in apparenza legato all’aspetto umano e con esso imploso: eppure nell’eco di tale notissimo precedente letterario e insieme dello stereotipo velenoso e rapace della donna-serpente, le lamie torneranno con frequenza nell’arte (si pensi ai vittoriani come John William Waterhouse, col suo Lamia del 1905) e nella letteratura fantastica per serrati confronti coi cacciatori, spesso (non sempre) maschi. Se in effetti nel febbricitante romanzo di Bram Stoker The Lair of the White Worm, 1911, la fatale Lady Arabella March si trasmuta in una creatura anguiforme imparentata ai draghi, la rilettura del personaggio nel film omonimo di Ken Russell, 1988, la apparenterà proprio alle lamie con venature vampiriche: interpretata da Amanda Donohoe, asservita a un grande serpente-idolo e talora adorna di attributi ermafroditi come l’arcaica orchessa greca, verrà addirittura incantata con una musica orientale per serpenti, prima dello scontro presso la tana, della grande esplosione mutuata dal romanzo e del beffardo finale aperto. Dove il collegamento – più tenue in Stoker, marcato in Russell – tra le due triadi san Giorgio/drago/principessa e Apollonio/Lamia/discepolo, vede la distruzione del “verme” non più col classico fuoco purificatore, ma con il moderno esplosivo – capace di dissolvere poco meno d’uno scongiuro. Per altri avatar della seduttrice anguiforme, si rammenti The End of the Story, 1930, di Clark Ashton Smith, il grande autodidatta epigono di tutta una dinastia di visionari attivi in California (fu discepolo di George Sterling, oggi meno noto ma al tempo figura centrale di una vivace Boemia letteraria californiana, come questi lo era stato di Ambrose Bierce) che seppe giocare una raffinata sensibilità simbolista nei fasti della letteratura popolare e fu uno dei cosiddetti tre moschettieri della leggendaria rivista “Weird Tales”: certo memore dell’esorcismo della Clarimonde di Gautier (sulla quale torneremo), il racconto vede la bella lamia Nicea fuggire innanzi all’aspersorio del priore Hilaire, ma illesa e pronta a riaccogliere l’amante-vittima Christophe (“Essa è antica come il paganesimo e già i greci la conoscevano; fu esorcizzata da Apollonio di Tyana e se tu potessi vederla come realmente è, vedresti, al posto del suo magnifico corpo, le spire di un immondo e mostruoso rettile”, avverte invano il priore). Libere eco della seduttrice riemergeranno in The Stress of her Regard, di Tim Powers, 1989, che inscena suggestivamente gli incontri di Byron, Shelley e Keats con la belle dame sans merci, pericolosa musa dei poeti; mentre in Circus of the Damned di Laurell K. Hamilton, 1995, a confrontarsi con l’ambigua donna-serpente Melanie è un epigono femmina di Apollonio, cioè l’ammazzavampiri Anita Blake nel corso di un complicato conflitto tra leader non-morti. Laddove poi The Journal of Professor Abraham Van Helsing di Allen Conrad Kupfer, 2004, giunge a identificare nell’inquietante Malia/Lamia l’antica seduttrice mesopotamica Lilith o Lilitu che, inviata dai Turchi, avrebbe infettato Dracula, siamo ormai arrivati al cuore simbolico della moderna caccia al mostro.

(3-continua)

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(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed elemento terra, pianeta Saturno e segno Scorpione, nell’ambito di un “sistema di corrispondenze e […] visione simbolica del mondo di cui la dottrina umorale è una sorta di semiotica generale” (così Attilio Brilli, Prefazione a Robert Burton, Malinconia d’amore, Rizzoli, Milano 1981) – ciò riguarda un’articolata casistica patologica su mente e corpo dell’umano vivente: per quanto riguardi una patologia del mostro, in particolare il non-morto, non si può che rinviare ai dotti studi di Vito Teti in tema di rapporto tra vampiri & malinconia (a partire idealmente da La melanconia del vampiro, manifestolibri, Roma, 1994). Rilevando al contempo l’importanza di tale oggetto in tempi come i nostri, in cui la depressione – sorella minore e meno nobile della malinconia – va fin troppo spesso a braccetto con una non-vita dall’alta marea farmacologica, frutto di infezione vampiresca sociale, economica e malaffettiva. Come sulla carcassa marina di Coleridge, Morte e Vita-in-Morte continuano la loro infausta partita scatenate spesso (ecco l’impatto sociale) dagli arconti di una politica inaffidabile e un’economia succhiasangue, leviatani e begemotti scippatori di speranza, da meccanismi di malafamiglia e relazioni malate, da tutte le teste dell’apocalittica bestia della paura di fronte alle crisi della storia.

Ma il rapporto con la melancolia va ben oltre l’onda lunga delle depressioni epocali: il termine aggrega un’intera costellazione di sofferenze interiori, da quella che oggi etichettiamo come depressione clinica a ossessioni, deliri, patimenti interiori. Del resto malinconiche sono le ombre che specie da un certo punto della vita in avanti ci insidiano, proiettate da passati conclusi, da perdite e lutti non esauriti nei decessi fisici ma scanditi in tutti gli strappi dell’esistenza, da nostalgie a tratti laceranti: davvero Burton – pastore protestante dotto e ironico, ma personalmente provato per tutta la vita da un’afflizione malinconica – è uno di noi, e semplicemente certe dimensioni le racconta meglio.

A detta sua, la malinconia è “una malattia così frequente […] nei nostri tempi miserabili, che pochi sono quelli che non ne sentono la pena” (sembra davvero che parli dei nostri tempi): la sua stessa grande opera è volta a offrire prescrizioni contro “una malattia, un morbo epidemico, che così spesso, così tanto crocifigge il corpo e la mente”. Salvo poi ammettere che i rimedi servono a poco…

Nato nel 1577 sotto la grande Elisabetta, vissuto sotto il re erudito e demonologo Giacomo I e morto nel 1640 alla fine del cosiddetto Periodo del governo personale di Carlo I prima della rivoluzione, Burton conosce un’Inghilterra di processi alle streghe e convulsioni politiche: la stessa voce circolata a Oxford che muoia suicida può essere una fantasia – va da sé – malinconica.

Miniato tra altre mille dottissime citazioni, l’episodio che ora ci interessa è citato in relazione agli amori attribuiti a spiriti e demoni: e pur registrando, con puntiglio barocco, le posizioni critiche (per esempio di Johann Wier), Burton vi contrappone prudentemente i sostegni dottrinali, di una pletora di autorità, da Agostino fino a Erasto, Sprenger, Bodin ma anche Paracelso e Cardano. E Filostrato, appunto, del quale offre una perifrasi sul racconto di “Menippo Licio” e della bella seduttrice. Una perifrasi fedele almeno nella prima parte, ma che poi continua:

 

Fra gli altri, alle sue nozze venne anche Apollonio il quale, seguendo un suo sospetto,  scoprì che lei era un serpe, una strega [lett. una lamia: «who by some probable conjectures found her out to be a serpent, a lamia»] e che tutto ciò che le apparteneva era come l’oro di Tantalo descritto da Omero, una semplice illusione. Vistasi smascherata, lei pianse e implorò Apollonio di mantenere il segreto. Ma poiché questi non si lasciò commuovere, la donna, il desco, la casa e tutto quello che conteneva, svanirono d’incanto…

[Robert Burton, Malinconia d’amore, cit. (The Anatomy of Melancholy Libro III) II, I, I]

 

Non è chiaro quanto Burton si renda conto di mutare gli assetti del racconto filostrateo, e in effetti le variazioni parrebbero lievi. Tuttavia un’analisi puntuale riserva sorprese, e permette di cogliere qualcosa di rilevante per la genesi del cacciatore di mostri del fantastico moderno.

Un primo aspetto riguarda la nemica di Apollonio, che dall’originario statuto fantasmatico-demoniaco acquisisce sempre più fisicità, prefigurando idealmente le vampire del gotico. In effetti l’avvertimento del teurgo a Menippo, nel testo filostrateo, «accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te» pare da intendersi in senso ampio, più metaforico, nel senso dell’insidia letale, che non tipologico, in riferimento a qualche categoria di demoni-serpenti o alla magica trasmutazione d’un serpente in senso proprio. L’Apollonio filostrateo sembra dire in sostanza che Menippo, abituato dalla propria avvenenza a una certa disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso (“«Tu […] sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano…»”) in questo caso sta correndo un brutto rischio (“«…ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”). Benché l’interpretazione tipologica non si possa escludere – per l’arcaico legame dell’aspide alla dea della morte e la confusione delle fonti antiche tra empuse e lamie associate al serpente – il riferimento sembra in Filostrato troppo generico, non supportato da puntuali disquisizioni demonologiche (che potremmo attenderci dal testo) e neppure sviluppato sul piano narrativo. D’altra parte, il riferimento esplicito di Filostrato alle empuse non permette di assumere quale dato scontato un richiamo tipologico al rettile: in via prioritaria sono altre, come abbiamo visto, le bestie assimilate a tale tipo di spettri dalla mitologia classica – anche se l’età tarda del testo filostrateo, la sua ottica peculiare e la possibilità di un uso generico del richiamo demonologico potrebbero giustificare un’ampia libertà di rilettura. La stessa Lamia/lamia (quale figura-matrice o singolo esemplare della relativa “specie”) che i rilettori di Filostrato almeno a partire da Burton sovrapporranno all’Empusa, conosce solo progressivamente l’assimilazione ai serpenti poi trattenuta nell’immaginario moderno, e parte piuttosto da arcaiche connotazioni canine.

L’orchessa Lamia, in relazione con l’inquietante Lamme sumerica, l’àccade Lamashtu e il Lamo capostipite dei cannibali Lestrigoni, regina di Libia figlia di Belo ed ex-amante di Zeus, potrebbe costituire un aspetto sanguinario di Atena ma è certo imparentata con Ecate; talune caratterizzazioni falliche l’avvicinano ulteriormente alla Gorgone (anch’essa legata/contrapposta all’Atena minacciosa tramite il gorgoneion), della cui figura è probabile che condivida la storia remota (per una sintesi sul profilo e i relativi sviluppi, cfr. qui). Sulle maschere da incubo di Lamia e Gorgone, e sulla costellazione occhi/sonno/veglia nei due miti paralleli parecchie considerazioni sarebbero da fare; almeno in una versione, poi, anche Lamia viene abbattuta con un colpo alla testa, da Euribato per salvare il giovane Alcioneo di Delfi a lei portato in sacrificio per ordine di Apollo. Dalla sua testa spaccata (non decapitata) si dice sgorgasse la sorgente di Sibari, preludio al sorgere dell’omonima città nel segno della connessione mitica tra Lamia, una morte e istanze di fondazione (Antonino Liberale, Transformationes, 8): ciò che, applicato analogicamente alle concatenazioni fantastiche che andiamo esaminando (l’immagine moderna del cacciatore di mostri e la fiction sulle vampire, paradigmaticamente inaugurate attraverso la maschera di Lamia) pare più che appropriato.

Rapitrice, assassina e divoratrice di bambini – i suoi li aveva uccisi la gelosa Era, direttamente o suscitando in Lamia una follia omicida – la Terribile libica veniva considerata un’icona eminente di lascivia, e delle lamie (come delle empuse) si sottolineava la capacità di trasformarsi in donne avvenenti e procaci. Se, in riferimento ai giochi etimologici alla base di tali narrazioni – quelli che per esempio Pausania (Viaggio in Grecia, I, 1, 3) attesta in riferimento alla città chiamata Lamia –

 

uniamo il «divorare» del punico laham con la «ingordigia» (lamyros) e la «gola» (laimos), avremo già la composizione di una figura di vampiro, che, al femminile, non può che connotare anche lascivia. Ed ecco allora la vicenda di Lamia che si unisce con Empusa, figlia di Ecate, e assieme si giacciono con giovani viandanti di cui succhiano il sangue mentre dormono.

[Silvano Sabbadini, Introduzione a John Keats, Lamia, Marsilio, Venezia 1996]

 

Ma appunto già Pausania aveva rubricato sotto il termine “lamia”, oltre a spettri e figure metaforiche, vari animali tra i quali un pesce: e nel tempo la natura attribuita alle lamie conoscerà progressivi slittamenti verso un più puro orizzonte teratologico/pseudozoologico, come nel volume inglese The Histories of Four-Footed Beasts del 1607 che ne presenta la bizzarra immagine – capo e seni di donna ma ermafrodita, corpo quadrupede da fiera con zampe anteriori artigliate e zoccoli alle posteriori, e coperta di squame di pesce o serpente. Certo Burton ripete ancora, con Filostrato, che la seduttrice pesca in un mondo di ectoplasmi e illusioni, virati ormai ai chiaroscuri di una demonologia antistreghesca: ma il richiamo un po’ sbrigativo (“scoprì che lei era un serpe, una strega/lamia”) per un pubblico che già ritiene di conoscere la specie in questione, finisce con l’evocare dagli scaffali dei dotti tutta una zoologia infarcita di meraviglioso, dal bestiario dei classici – si pensi ai serpenti parca, iaculo e anfesibena affrontati in Africa dai soldati di Catone nella Farsaglia –, fino alle Melusine e ad altre fate serpente, lamie appunto comprese, dei racconti folklorici medioevali (di riferimento è qui ovviamente l’articolatissima analisi di Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Einaudi, Torino 1989). Un panorama peraltro in cui l’animale (a maggior ragione il serpe, oggetto della condanna di Gn 3, 14-15) è icona concreta, in carne e sangue, di diverse dimensioni e valori: dove dunque l’arcaicissima associazione tra donna & serpente appare ulteriormente rafforzata dallo stereotipo pseudocristiano della seduttrice, sorta di compenetrazione tra Eva e il tentatore edenico (più che voluto richiamo alla Lilith rabbinica), e immaginata come anche più potente nel peccaminoso mondo tardopagano dell’episodio corinzio. Con un passo successivo su tale linea di “concretizzazione” della lamia, la Bibliotheca classica di John Lemprière, 1788, ne descriverà la figura con volto e petto da donna, e il resto del corpo da serpente:

 

certi mostri d’Africa, che […] Allettavano gli stranieri perché venissero a loro, così da poterli divorare; anche se non erano dotate della facoltà di parola, i loro sibili erano gradevoli e intriganti. Alcuni le ritenevano streghe, o piuttosto spiriti maligni, che sotto le spoglie di belle femmine, attiravano i giovani e li divoravano.

 

Dove, tralasciando le suggestioni esotiche (i mostri-femmina africani che allettano gli stranieri, icona d’innumeri seduzioni mortali da romanzo popolare), la glossa sovrannaturalistica di “Alcuni le ritenevano…” non eclissa un più banale statuto teratologico: sorta di strani serpenti, insomma, che con suoni “gradevoli e intriganti” attirano i malcapitati per aggredirli. Proprio il passaggio dall’associazione letteraria filostratea tra serpente metaforico e demone/spettro (l’empusa) alla soluzione burtoniana di un serpente concreto con statuto demoniaco/streghesco (la lamia), prelude al capolavoro di Keats e alla dialettica tra fantasmatico e corporeo delle vampire del gotico, i mostri-femmina che tanti turbamenti recheranno agli epigoni di Apollonio: è suggestivo osservare come lo stesso Burton ricordi di sfuggita, poco dopo l’episodio filostrateo (e immediatamente di seguito al cupo racconto d’un tal Florilegus, Ad annum 1058, plausibile fonte per il celebre capolavoro del gotico, La Venere di Ille), quella vicenda di Filinnio e Macate dal De rebus mirabilibus di Flegone menzionata insieme all’avventura di Menippo/Licio (nel senso che il Menippo di Filostrato divenuto in Burton “Menippo Licio” si trasfigurerà in ultimo nel Licio di Keats) in tutte le summae sul vampiro letterario. Richiami che, incastonati in un’opera sulla malanconia, già preannunziano idealmente un tratto distintivo del più fascinoso mostro dell’immaginario occidentale, insieme sua condanna esistenziale e minaccia del medesimo al singolo e alla società.

D’altro canto, proprio la “concretizzazione” via via accentuata della lamia in mostro-femmina fa transitare la figura di Apollonio dall’antico ruolo di esorcista a quello di cacciatore di mostri. Ciò che interessa anzitutto i rapporti polari tra personaggi: è interessante notare come il trio di attrazioni e opposizioni incrociate (anche sessuali) del filosofo, di Menippo/Licio e della lamia finisca col rileggere in termini calibrati alle nuove inquietudini la classica triade di san Giorgio, principessa e drago. Ciò trova conferma nello stesso svolgersi delle eventi, in particolare attraverso la rimozione nel testo di Burton di ogni riferimento agli scongiuri del teurgo. L’illusione spettrale appare dissipata dalla sua stessa denuncia: la parola che distrugge il sortilegio non è una formula esorcistica (come in Filostrato) ma una rivelazione di verità, che Apollonio non tace nonostante ogni supplica e lacrima del mostro-femmina. Il motivo fantastico di atti e parole fatali (rivelazioni o domande legate a gravi conseguenze magiche) punteggia in realtà l’immaginario occidentale dalle trascrizioni folkloriche alla letteratura cavalleresca, e non stupisce che la melusina corinzia possa conoscerne il mistico impatto. Se poi in Burton ella si dimostra assai più fragile e disarmata che nell’originale filostrateo, limitandosi a pianti e suppliche desolate (al punto che le intenzioni distruttive di lei rimangono implicite in una notoria pericolosità della categoria classica “lamia”), ciò finisce con l’enfatizzare il dato dell’inflessibilità di Apollonio: un atteggiamento di durezza che, requisito di trionfo maschile sulle arti delle seduttrici e ben documentato in tutta una letteratura religiosa sulla lotta alla tentazione, conoscerà sviluppi persino allarmanti nella fiction popolare (si pensi all’immaginario nazista sul maschio insidiato: cfr. Klaus Theweleit, Fantasie virili. Donne Flussi Corpi Storia. La paura dell’eros nell’immaginario fascista, il Saggiatore, Milano 1997).

D’altro canto, lo scabro riferimento di Burton (“seguendo un suo sospetto, scoprì”), di per sé aperto a varie soluzioni interpretative/narrative, finisce col sottolineare il sapore razionale dell’intervento di Apollonio, e anzi l’inesorabilità della ragione che fa dileguare gli spettri, compresi quelli della sensualità. Mentre poi Filostrato taceva la sorte dell’empusa, Burton sottolinea come la lamia scompaia col resto del suo equivoco ologramma, col paradosso almeno apparente di un’acquistata concretezza fisica (il serpente) che però esplicitamente dilegua nella deriva dell’inconsistenza. Apollonio in sostanza perde il carattere originario di esorcista per apparire anzitutto l’indagatore acuto, il dissolutore di illusioni e – alla fine – il distruttore di mostri, serpi o streghe che siano: e con tali caratteri si accrediteranno i suoi figli letterari e cinematografici.

(2-continua)

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L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/I) https://www.carmillaonline.com/2024/02/03/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-i/ Sat, 03 Feb 2024 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81029 di Franco Pezzini

L’esorcista nel caleidoscopio

Avevo intrapreso un viaggio a Londra, per sfuggire all’inquietudine interiore e dedicarmi senza interferenze alla scienza. […] Mi chiesero subito di fare mirabilia, come se fossi un ciarlatano, e rimasi un po’ scoraggiato, perché, a dirla francamente, lungi dal pretendere di iniziare altri ai misteri della Magia Cerimoniale, mi ero ritratto dal fronte delle sue sfinenti illusioni. Inoltre, tali cerimonie richiedevano attrezzature costose e difficili da reperire. Mi seppellii quindi nello studio della Cabala trascendente e non mi preoccupai oltre degli adepti inglesi.

 

1854: il mago francese Éliphas Lévi, all’anagrafe Alphonse Louis Constant, cristiano [...]]]> di Franco Pezzini

L’esorcista nel caleidoscopio

Avevo intrapreso un viaggio a Londra, per sfuggire all’inquietudine interiore e dedicarmi senza interferenze alla scienza. […] Mi chiesero subito di fare mirabilia, come se fossi un ciarlatano, e rimasi un po’ scoraggiato, perché, a dirla francamente, lungi dal pretendere di iniziare altri ai misteri della Magia Cerimoniale, mi ero ritratto dal fronte delle sue sfinenti illusioni. Inoltre, tali cerimonie richiedevano attrezzature costose e difficili da reperire. Mi seppellii quindi nello studio della Cabala trascendente e non mi preoccupai oltre degli adepti inglesi.

 

1854: il mago francese Éliphas Lévi, all’anagrafe Alphonse Louis Constant, cristiano (non è stato ordinato prete solo perché all’ultimo si è innamorato di un’allieva del catechismo, e il suo direttore spirituale gli ha consigliato di risolvere prima la delicata situazione) e poi massone, nonché socialista libertario, arriva in Inghilterra, accolto dallo scrittore Edward Bulwer-Lytton e da un corteggio di appassionati e cultori di esoterismo. Un po’ stizzito per le attese che questi gli caricano addosso, neanche fosse un imbonitore di stramberie magiche, in generale Lévi sconsiglia le evocazioni e spinge i discepoli verso una magia essenzialmente speculativa: tuttavia si lascia convincere – appunto dopo la fornitura di “attrezzature costose e difficili da reperire” da parte di un’agiata vecchia signora, cioè un gabinetto magico completo – a evocare l’ombra del grande teurgo Apollonio da Tiana, e probabilmente la vede come occasione di crescita personale per incontrare un sommo filosofo. Nell’opera Dogme et Rituel de la Haute Magie, offrirà dell’episodio una memoria di grande fascino e tra l’altro di rara onestà: la descrizione di un’evocazione che lui controlla solo fino a un certo punto e apre a una dimensione altra, una dimensione all’insegna della morte e che lascia diversi. All’apparire dell’ombra il mago prima sprofonda in un dormiveglia, poi ha la sensazione di cogliere risposta alle proprie domande e la risposta è “dead”/“morto”: qualcosa che ha in fondo più i caratteri di una catabasi interiore che di un vero sensazionalismo sovrannaturalistico. Maugham farà narrare l’episodio al vilain Haddo nel suo romanzo Il mago (1908), e ne trarrà ottimi spunti narrativi su un terreno dove le dimostrazioni valgono pochino e qualcosa dell’aldilà passa nella nostra anima.

Ma coi tempi che corrono, l’antico teurgo non smette di apparire ben oltre i limiti del gabinetto magico di Lévi. Il suo principale anfitrione inglese, Bulwer-Lytton l’ha menzionato in The Last Days of Pompeii e in Zanoni (1834 e 1842); all’epoca dell’evocazione, Flaubert sta già meditando sul suo lisergico La tentazione di sant’Antonio, dove Apollonio epifanizza in forma allucinatoria solo diversamente disturbante davanti all’attonito eremita; e infinite altre chiamate dai morti del “Cristo pagano” incalzeranno tra letteratura ed esoterismo.

Curioso pensare alla mirabolante avventura nell’immaginario di un personaggio storicamente documentato del I secolo dopo Cristo, recuperato a polemiche religiose tardoantiche e all’immaginario esoterico ottocentesco eppure ancora piuttosto sfuggente. Si sta parlando di Apollonio di Tiana, “mago e stregone abilissimo” secondo Dione Cassio, o piuttosto sapiente maestro di vita, come lo celebra Filostrato in una biografia commissionata dall’imperatrice Giulia Domna (e ultimata, sembra, dopo la morte di lei avvenuta nel 217) nell’età meticcia dei Severi: una figura di filosofo, mistico e taumaturgo il cui occhio indagatore, attraverso un caleidoscopio di maschere ed epigoni, resterà a incalzare i mostri del fantastico di consumo come già la Lamia letteraria di Keats. Infatti, proprio l’episodio (notissimo, e più volte riletto nei secoli) della liberazione di un discepolo corinzio da un’insidiosa seduttrice disincarnata si raccorda in termini diretti con tutta una prassi di caccie al mostro letterarie e cinematografiche – in particolare di caccie alla vampira, attraverso le più note elaborazioni di Le Fanu e Stoker. Il profilo di Apollonio, dunque, presenta un rilievo particolare in riferimento all’incubazione di motivi e suggestioni poi infinitamente richiamati.

Lo splendido, policromo testo filostrateo (mi baso qui sull’edizione Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Adephi, Milano 1988), atipico quale biografia e non totalmente rispettoso dei canoni del romanzo, sarebbe tratto primariamente dall’ipotetico diario d’un Damis di Ninive, sorta di Sancio Panza o di Watson per l’immenso interlocutore lungo il filo delle sue peregrinazioni: dove l’itinerario nella sapienza – nel segno del fascino di nuove latitudini teosofico-sincretiste e (forse) di un’onesta conservazione di parole ed echi del vero Apollonio – si sposa inestricabilmente a quello nel meraviglioso, nutrito di esotismo ed erudizione dal chiaro sapore d’intrattenimento. Caratteri, questi, che certo rispondono e in qualche modo compensano culturalmente il malessere di un’epoca, a fronte di strutture sociali e politiche affette da gigantismo e in continua crisi e di tutto un mondo-labirinto oppressivo e angosciato: e d’altro canto non si riducono a una facile deriva nel mirabile/misterico, riproponendo invece in termini originalissimi un’eredità peculiarmente greca di curiosità, ricerca della sapienza e amore per la libertà. Al punto che, con accenti non scontati in un’opera di committenza imperiale, il maestro spirituale Apollonio dagli straordinari poteri legati all’ascesi – e non alla magia in senso becero, sottolinea Filostrato – si mostra insieme campione della libertà individuale contro i tiranni.

 

Nella scena del processo di Apollonio davanti a Domiziano, l’opera (…) trova il suo colpo d’ala. (…) Prima e durante la prigionia il sapiente ha animosamente sostenuto la sua polemica antitirannica; quando Domiziano dichiara di assolverlo ma vuole trattenerlo presso di sé, egli scompare prodigiosamente, sottraendosi al suo potere. Alla rivendicazione della libertà spirituale corrisponde la liberazione fisica.

[Dario Del Corno, Introduzione a: Filostrato, op. cit.]

 

Colui che già in precedenza, alla domanda del feroce Tigellino sul perché non temesse Nerone, aveva risposto: «Perché il dio che ha concesso a lui di ispirare paura, a me ha concesso di non provarla» (il prefetto del pretorio Eliano, amico di Apollonio, “finì per convincersi che quell’uomo non avrebbe provato paura nemmeno se gli avessero levato contro la testa della Gorgone”), afferma anzi di esorcizzare demoni e fantasmi nello stesso modo in cui affronta gli uomini malvagi ed empi. Alla sapienza serena del Tianeo si dissolvono le angosce, dileguano malattie e demoni, si rialzano morti veri o presunti – al punto da permettere la collocazione della sua immagine nel larario dell’imperatore Severo Alessandro con quelle di Abramo, Orfeo e Gesù, e addirittura un arruolamento postumo quale contraltare pagano di quest’ultimo (benché non siano mancate neppure forzature in senso opposto, come quella improbabile a profeta di Cristo presentata da Giorgio Sincello). Certo le interpretazioni contraddittorie – mago/stregone o sapiente illuminato – offerte di Apollonio in età antica possono ricondursi a una complessa unità in letture e travisamenti della figura storica dell’iniziato pitagorico e delle sue pratiche ricche di simboli arcaici: e d’altro canto esse vedranno nel tempo continue riproposizioni, tra esaltazioni devote del santo pagano e denigrazioni rabbiose a visionario, fanatico o arcimpostore.

La complessità del quadro sembra peraltro riflettersi sulla stessa, estrema varietà di incontri/scontri tra Apollonio e minacciose entità sovrannaturali. Filostrato inizia dunque mostrando il sapiente, in viaggio tra il Caucaso e l’Indo, affrontare un’empusa (protovampira “che prendeva ora questo, ora quell’aspetto, e talvolta svaniva nel nulla”) con una munita batteria d’insulti, e ordinare ai compagni “di fare lo stesso, poiché questo è il rimedio contro un incontro di tal genere” – tanto che “l’apparizione se ne fuggì stridendo, come fanno i fantasmi”.

Più avanti, in India, al Tianeo è sottoposto un caso di possessione da parte d’un demone “di indole beffarda e menzognera”, sedicente spettro d’un morto inquieto e forse innamorato del bellissimo sedicenne in cui ha preso dimora, che il teurgo però esorcizza con un infuocato scritto di minaccia: se la curiosa dignità apotropaica d’una lettera minatoria si fonda sull’idea del peso magico della scrittura, in realtà tutto l’episodio rivela una robusta consonanza antropologica – e una plausibilità storica in relazione al vero Apollonio – con resoconti di possessioni ed esorcismi repertoriati persino in anni recentissimi, anche in Italia (per un quadro recente, cfr. Domenico Scarfoglio e Simona De Luna, La Possessione Diabolica, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2003).

D’altra parte non meno inquietante, per le eco di caccia al mostro-untore d’una prassi plurisecolare (e insieme magari, ai nostri occhi moderni, di leggenda metropolitana nutrita di paura e simboli irriconosciuti), è l’episodio che Filostrato colloca a Efeso devastata dalla pestilenza: il Tianeo smaschera sotto cenci da mendicante addirittura il demone del contagio, che lapidato dai cittadini lascerà a terra un corpo canino grande quanto “un enorme leone” – certo un richiamo ai cani sacri della neolitica Signora della morte e poi di Ecate, e insieme, forse, alle teratomachie di quell’Eracle cui Apollonio s’era rivolto in preghiera (come poi terrà a sottolineare nel testo di autodifesa davanti a Domiziano). Con Ecate, del resto, si confonde o connette quale inviata o accompagnatrice anche Empusa («colei che afferra, viola, si introduce a forza»), figura orrifica di aspetto variabile – giovenca, mula, cagna o donna bellissima, eventualmente luminosa come il fuoco ma con un piede di bronzo e l’altro in sterco di mulo – e tipo/matrice di un’intera specie di demoni succubi assimilati alle lilim («figlie di Lilith») palestinesi dalle natiche d’asino: e appunto un’empusa sarebbe, come abbiamo visto, lo spettro esorcizzato da Apollonio durante il viaggio in oriente. Se sull’equivoco rapporto tra singolo e legione, pluralità caotica ed emanazione di larve aggressive, la demonologia occidentale s’interrogherà per secoli, già i documenti antichi faticano a distinguere le empuse dalle lamie, altre pericolose sfiancatrici di maschi in cui si moltiplica similmente la canina Lamia: laddove poi i caratteri mostruosi e distruttivi di Empusa rammentano quelli di Medusa in una comune contiguità/identificazione con Ecate, l’utilizzo folklorico e persino parodistico della prima la confina in differenti – e meno illustri – ambiti mitici. Sembra probabile che la demonologia filostratea rilegga con una certa libertà i dati tradizionali (un po’ come avverrà secoli dopo nello scarto tra il vampiro del folklore e quello dell’esoterismo colto: cfr. qui), ma la fama seduttiva delle empuse – come il carattere licenzioso del demone possessore del giovane indiano – contribuisce a evocare lo spazio di un eros nero, vampirico e distruttivo contro il quale Apollonio e i suoi epigoni si misureranno per secoli. Lo spazio del mostro sembra aprirsi lì.

Filostrato prosegue narrando come nella Troade il teurgo intavoli una conversazione piacevolmente urbana con il temuto fantasma di Achille, ad Atene liberi un altro invasato da un demone dissoluto e appunto a Corinto salvi da una fine miserabile il bel venticinquenne Menippo di Licia, indirizzatogli con altri discepoli dal filosofo cinico Demetrio.

La vicenda è nota e repertoriata in ogni studio su vamp e vampire, ma è opportuno riproporla brevemente. A Menippo si accompagna una donna “bella ed elegante”, in apparenza straniera e ricca, che l’ha abbordato su una strada isolata e gli si concede nella propria casa in un sobborgo: però Apollonio, dopo aver lungamente osservato il discepolo (e su questo sguardo dovremo tornare) lo spiazza con parole inattese. “«Tu invero» gli disse «sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano: ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”. Il teurgo rincara la dose sostenendo che Menippo non può sposare la donna, e gli chiede se davvero è convinto dell’amore di lei – al che il discepolo ribatte, in termini pragmatici, che si comporta proprio come una donna innamorata. Menippo conferma anzi che le nozze saranno celebrate presto, fors’anche l’indomani, ed è interessante osservare come il tempo delle nozze, nei rapporti col mostro (dal folklore fino al cinema) rivesta un’importanza particolare: non solo, evidentemente, quale momento esistenziale forte in senso generico, ma come delicata fase di passaggio in cui il mostro tende l’agguato e che insieme custodisce – una sorta di terzo incluso che si contrappone ai partner (coppia o singolarmente presi) ma insieme ne è specchio oscuro, doppio e guardiano della soglia, non solo in relazione alla sessualità. Apollonio attende dunque il banchetto nuziale, e lì domanda a chi appartenga la ricchezza della sala, sentendosi rispondere da Menippo che tutto è proprietà della donna.

 

Riprese allora Apollonio: «Conoscete i giardini di Tantalo, che ci sono pur senza esistere?» «Sì, dai racconti di Omero,» risposero «dato che non siamo mai discesi nell’Ade.» «Di tal genere fate conto che sia anche tutto questo fasto» disse Apollonio «perché non è realtà, bensì apparenza di realtà. E affinché comprendiate ciò che dico, quest’ottima sposa è un vampiro [lett.: un’empusa], come quelli che la gente chiama fantasmi e streghe. Questi esseri s’innamorano, e il loro amore è rivolto ai piaceri del sesso, ma soprattutto alla carne umana: e con quei piaceri allettano coloro che essi vogliono divorare».

 

Invano la donna cerca di tacitarlo e di ridicolizzarlo: ricchezze e servitori si dissolvono “agli scongiuri di Apollonio” (il particolare, come vedremo, è importante) e a quel punto “lo spettro fingeva di piangere: pregava di non torturarlo e di non costringerlo a rivelare chi fosse” (le suppliche dello spirito impuro e la costrizione a rivelare il nome – cioè la forza propria del possessore – appartengono a tutta una tradizione esorcistica e sono documentate anche nei Vangeli).

 

Poiché quello [= Apollonio] insisteva e non lo lasciava libero, [la presunta donna] ammise di essere un vampiro, e di saziare Menippo di piaceri per poi divorarne il corpo. Era infatti sua abitudine cibarsi di corpi belli e giovani, poiché il loro sangue è più puro. Ho ritenuto necessario riportare per esteso questo episodio, perché è il più celebre della vita di Apollonio. Molta gente lo conosce, dato che accadde nel cuore della Grecia: ma viene tramandato in modo approssimativo, poiché ci si limita a dire che Apollonio a Corinto vinse un vampiro, ma poi si ignora che cosa questo facesse e che il fatto accadde a Menippo. Così lo racconta Damis, e io dalla sua storia l’ho ripreso.

 

Benché evidentemente, come si è visto, gli elementi ricalchino resoconti di genere, pare plausibile che l’episodio rielabori un autentico caso di esorcismo dell’Apollonio storico su un giovane fascinato (l’esame del teurgo sembra teso più a ricercare tracce psichiche che elementi di debilitazione fisica o i classici morsi vampirici della fiction): ma ciò che interessa è il forte radicamento del racconto in una prassi di liberazione spirituale. Tutto il testo filostrateo avalla esplicitamente l’interpretazione esorcistica, il richiamo a una liberazione che giunge essenzialmente dal Dio – come nel caso del demone-contagio di Efeso e appunto (sottolineerà Apollonio nella difesa davanti a Domiziano) in quello a Corinto, entrambi affrontati grazie a Eracle: non insomma grazie alle pratiche dei maghi, giacché simili “sciagurati sogliono […] dedicare tali atti agli abissi e alle divinità di sotterra, da cui Eracle va tenuto ben distinto, poiché è puro e propizio agli uomini […] e apportatore della loro salvezza”. Se però l’orizzonte è spirituale, il testo di Filostrato e in particolare la pagina corinzia già evocano in termini di elegante vivacità romanzesca una dialettica tra corpi, un filone che conoscerà via via enfatizzazioni più marcate: l’esorcismo dell’empusa (della quale Filostrato non racconta la sorte, ma che immaginiamo dileguata come qualunque altro demone ritualmente scacciato) diverrà insomma, nel tempo, una caccia al mostro-femmina dalle forti provocazioni fisiche.

I casi teratologici di Apollonio continuano con un neonato siracusano a tre teste (interpretato quale presagio della crisi politica postneroniana e delle brevissime avventure imperiali di Galba, Ottone e Vitellio), un’affascinante riflessione razionalistica sui giganti e il bizzarro episodio – ancora nel segno dell’erotismo nero – della doma di un satiro. In quest’ultimo, ambientato in Etiopia, Apollonio sta cenando coi compagni in un villaggio quando, all’improvviso, esplodono strilli di donne e grida di allarme degli uomini.

 

In effetti, già da dieci mesi il villaggio era frequentato dal fantasma di un satiro, che smaniava per le donne; e si diceva che ne avesse uccise due, di cui sembrava particolarmente innamorato. La compagnia era spaventata; ma Apollonio disse: «Non abbiate paura; sono i furori di un satiro che abita questi luoghi».

 

Egli però conosce il sistema per placare la creatura e fa versare quattro anfore di vino nell’abbeveratoio del villaggio, poi chiama il satiro “rimproverandolo con qualche formula segreta”: ed ecco il liquido scemare come bevuto da una presenza invisibile. A quel punto il Tianeo suggerisce di far la pace col satiro, che ha ormai smesso di far follie, e lo mostra addormentato in un vicino antro, “proibendo di percuoterlo o di offenderlo” (cfr. l’episodio taumaturgico di Tarso in cui è salvato dalla rabbia non solo il giovane infettato ma lo stesso cane aggressore, a mostrare una sensibilità di Apollonio simpaticamente umana). Se può stupirci la benevolenza verso la lasciva creatura fallica che ha ucciso due donne, a fronte del sarcasmo ostentato nei confronti del mostro-femmina divoratore di maschi, il contrasto non può che ascriversi entro un quadro culturalmente consolidato di simboli e istanze sessuali: Filostrato e probabilmente anche l’Apollonio storico restano tributari a un tradizione di simpatia verso il corteo di Dioniso e i ferini spiriti silvestri, e di ovvia diffidenza verso la legione oltretombale di Ecate. D’altro canto pare interessante la notazione aggiunta – “Se a qualcuno capita di leggere la lettera che [Apollonio] scrisse a un giovane intemperante, dove afferma di avere ridotto alla ragione il demone di un satiro in Etiopia, ricordi questo racconto”– che potrebbe denunciare anche in questo caso una fonte tecnico-esorcistica dell’episodio (la possessione di un uomo da parte d’uno spirito licenzioso?) in un’epistola attribuita allo stesso Tianeo.

Fin qui Filostrato: ma, come per un ennesimo prodigio, le gesta del grande teurgo continueranno a interpellare critica e fantasia dell’occidente mutando di continuo il significato degli atti, le intenzioni del protagonista, le tipologie di spiriti in gioco. Nelle singole riapparizioni, dunque, Apollonio diventa via via stregone o illuminato, cialtrone o santo, visionario o razionalista, in una giostra di volti alternativi che avrebbe divertito lui per primo; e d’altra parte, nella libertà delle riletture non stupisce realmente che del variegato quadro filostrateo si finisca col rammentare soprattutto l’episodio di Corinto.

(1-continua)

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Ho scelto te una vampira per amico. Per i vent’anni di Carmilla. https://www.carmillaonline.com/2023/02/06/ho-scelto-te-una-vampira-per-amico/ Sun, 05 Feb 2023 23:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75789 di Fabio Ciabatti

E siamo arrivati a 20. Venti anni di “Carmilla on line” che seguono quelli della pubblicazione, iniziata nel 1995, della “Carmilla” cartacea. Nel 2003 il trasferimento della rivista sul web poteva sembrare una soluzione di ripiego e probabilmente fu vissuta inizialmente in questo modo. Ma questa scelta si è rivelata lungimirante anticipando una tendenza che di lì a breve si sarebbe generalizzata.

Ma perché Carmilla? Intendo dire, perché Valerio Evangelisti ha scelto questo nome per la sua rivista che, come recita ancora il sottotitolo, doveva occuparsi [...]]]> di Fabio Ciabatti

E siamo arrivati a 20. Venti anni di “Carmilla on line” che seguono quelli della pubblicazione, iniziata nel 1995, della “Carmilla” cartacea. Nel 2003 il trasferimento della rivista sul web poteva sembrare una soluzione di ripiego e probabilmente fu vissuta inizialmente in questo modo. Ma questa scelta si è rivelata lungimirante anticipando una tendenza che di lì a breve si sarebbe generalizzata.

Ma perché Carmilla? Intendo dire, perché Valerio Evangelisti ha scelto questo nome per la sua rivista che, come recita ancora il sottotitolo, doveva occuparsi di letteratura, immaginario e cultura di opposizione? Si è trattato di un nome per nulla casuale che ci dice alcune cose significative sull’opera narrativa e politica del creatore di Eymerich.
In questa ricorrenza vorrei fare delle considerazioni (che, come costume di questa rivista, non impegnano la redazione) su questa scelta basandomi principalmente su alcuni articoli di Evangelisti. Ma prima di arrivare alla nostra Carmilla partiamo con quella che potrebbe sembrare una digressione. Evangelisti non sceglie un nome come Mompracem, nonostante sia un ammiratore di Salgari e della sua capacità di creare una letteratura popolare che “resiste ancora”, nel duplice significato di una narrativa che resiste al tempo e alla colonizzazione dell’immaginario. Anche se riconosce la grandezza di Salgari, Evangelisti non pensa di rappresentare la sua impresa editoriale attraverso figure come quelle di un Sandokan “che più romantico non si può” o di uno Yanez, “che più ironico non si può”.1 No, sceglie la vampira Carmilla, una figura senz’altro perturbante in linea con la sua convinzione che per combattere la colonizzazione dell’immaginario è necessaria “una narrativa massimalista, autoconsapevole, che inquieti e non consoli”.2 Il personaggio creato nel 1871 da Joseph Sheridan Le Fanu, infatti,

Allude più volte alla natura selvaggia e non contrastabile dei propri istinti, che sazia eccitando gli istinti altrui. Ruba il sangue per riempire di vita la propria morte, perpetua la lussuria sua e di altri, cerca, più che anime dannate, compagne di giochi, seppur defunte, che la salvino dal peso dell’ombra.3

Evocando questa figura Evangelisti cerca di immaginare “una sinistra che della vampira Carmilla condivida il potere seduttivo, trasgressivo, lunare e libertario”.4 Se il conte Dracula è, marxianamente, la mostruosa personificazione del capitale che ci succhia il sangue condannandoci a una non morte, la salvezza, sostiene lo scrittore bolognese, non può arrivare da un Van Helsing qualsiasi.

Secondo un vecchio, ma sempre interessante articolo di Franco Moretti dedicato a Frankenstein e Dracula, The Dialectic of Fear,5 la letteratura del terrore è nata proprio dalla profonda paura suscitata dalla lacerazione della società e dal desiderio di restaurare l’equilibrio infranto. A tal fine intervengono gli antagonisti del mostro che, secondo Moretti, sono sempre rappresentativi della mediocrità del diciannovesimo secolo: nazionalisti, stupidi, superstiziosi, filistei, impotenti e autocompiaciuti. Ma soggiogato dall’orrore per il mostro, il pubblico accetta tutti questi difetti senza fiatare. La terribile creatura serve dunque a rimuovere gli antagonismi e gli orrori dall’interno della società e a dislocarli al di fuori di essa in quanto la minaccia proviene da ciò che appare come l’assolutamente sconosciuto. Chiunque osi combattere il mostro diventa immediatamente rappresentativo dell’intera società ricostruendone un’immaginaria coesione.

L’obiettivo dell’attività narrativa e politica di Evangelisti non è certo quello di difendere l’ordine dominante minacciato. Per questo non può affidare, come fa Bram Stroker, il ruolo di antagonista di Dracula a Van Helsing, con tutto il suo armamentario di aglio, paletti e crocefissi. La lacerazione di cui ci parlava Moretti non va sanata, ma approfondita. “Solo un vampiro può sconfiggere un altro vampiro”6 e per questo bisogna scatenare Carmilla contro il vecchio conte Vlad e tutto ciò che rappresenta. Insomma, bisogna rispondere “ai morsi con i morsi”.7
Nella visione politica e nella poetica di Evangelisti non c’è spazio per un ingenuo ottimismo, né per alcuna indulgenza verso il mito del buon oppresso. In fin dei conti anche gli sfruttati possono essere dei lupi feroci. Ed è bene che lo siano al momento giusto. Tutto il contrario di quello che ci propone “questa epoca di sinistre virtuali e non reali”.8 Ce lo ricorda in Black Flag, quando Pantera riesce finalmente a vedere con chiarezza la vera natura dei suoi nemici:

Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità […] pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque.9

Gli oppressi, al pari dei loro oppressori, devono avere “la volontà, la determinazione, la capacità di lacerare la notte con lo sguardo penetrante del lupo o del felino”.10 Gli oppressi, possiamo chiosare, non devono rinunciare a un lucido odio di classe. Ma, ci ricorda Evangelisti, Carmilla è soprattutto “amore e intelligenza”. Amore perché le sue vittime, che sono in realtà sue compagne di giochi, andranno incontro a una vita certamente difficile, ma ricca di profumi, sapori, sensualità. Intelligenza, termine su cui Evangelisti insiste, perché bisogna opporsi allo “stato di catalessi” che caratterizza la vita “nel gigantesco luna park dell’immaginario colonizzato”.11

Odio, amore, intelligenza. È possibile tenere insieme cose apparentemente così differenti? Chiamiamo in causa un altro autore di fantascienza, China Mieville, che afferma con forza l’inevitabilità dell’odio da parte degli oppressi di fronte allo svolgimento della storia umana e, in particolare, alle dinamiche del nostro sistema caratterizzate da crescenti crudeltà.12 Se si vuole resistere a queste mostruosità l’assenza di una massa critica di odio può essere un significativo ostacolo. Citando Aristotele, Miéville sostiene che l’odio non provoca desiderio di vendetta, ma il desiderio che il suo oggetto non esista. Ciò, riportato a temi politici dei nostri tempi, non comporta la volontà di annichilire gli individui, ma il desiderio di sradicare la borghesia come classe. Tuttavia è necessario entrare in empatia anche con l’odio individualizzato. Denunciarlo come mero fallimento etico significa richiedere agli oppressi una quantità irragionevole di santità. In fin dei conti, possiamo aggiungere, si può arrivare a odiare una classe solo passando attraverso le sue incarnazioni individuali.
Eppure, prosegue Miéville, non ci si dovrebbe mai fidare dell’odio perché esso può essere facilmente interiorizzato, diventando mortifero disprezzo verso sé stessi, o esternalizzato, rivolgendosi contro chi meno lo merita. L’odio può trasformarsi in rabbia cieca o in apocalisse senza cervello. Per questo deve essere integrato in una logica strategica ed essere supportato da una base etica che, per quanto riguarda il comunismo, è rappresentata dall’idea che la libertà di tutti è condizione e non limite per la libertà di ciascuno. In altri termini solo attraverso gli altri possiamo arrivare veramente a noi stessi arricchendo la nostra libertà individuale invece che diminuirla. A livello personale questa etica, come è stato sostenuto da Terry Eagleton, è nota come amore. È proprio l’amore il sentimento che guida il vero rivoluzionario, ebbe a dire Che Guevara, pur consapevole che con questa affermazione rischiava di sembrare ridicola.

Dunque abbiamo visto che odio e amore, anche nell’ambito della lotta di classe, non si escludono a vicenda e che entrambi hanno bisogno di essere guidati da una notevole dose di lucidità E qui torniamo a Evangelisti per dire che c’è una differenza fondamentale tra lo stato di “catalessi”, di cui abbiamo già parlato, e quello di “veglia sognante” che lo scrittore bolognese chiama in causa per spiegare come, attraverso la migliore letteratura, “figure immaginarie acquistano l’evidenza di cose reali”.13 Un grande potere seduttivo, infatti, viene esercitato da chi, come i maestri della narrativa popolare, è capace di pescare, in modo più o meno consapevole, in forme di narrazione più antiche, talora ancestrali. In questo modo è infatti possibile rendere “il lettore non solo immediatamente familiare con la materia, ma anche straordinariamente aperto a una suggestione che, legandosi ad altre già presenti nella sua mente, penetrerà a fondo nella sua fantasia e, forse, lo condizionerà in futuro”.14 Nella veglia sognante c’è spazio per l’intelligenza, per la lucidità, nello stato di catalessi ogni capacità di discernimento viene messa a tacere.

Evangelisti tutto questo ce lo narra nei suoi romanzi. In Nicolas Eymerich, inquisitore il magister si scontra contro le seguaci dell’antico culto di Diana, la dea della fertilità, del contatto con la terra, del profumo dei boschi, della luce lunare e degli istinti, che si oppone al dio maschile, freddo e ragionevole. Nella scena finale, la dea invocata da una moltitudine di donne riunite sta finalmente per materializzarsi, acquistando “l’evidenza di una cosa reale”. Ma Eymerich, approfittando dello stato di “catalessi” della folla riesce a manipolare i suoi sogni e trasformarli in un incubo: alla fine ad apparire non è Diana ma Satana.
In Cherudek Friedrich von Spee, dopo aver affermato che l’esistenza di un immaginario condiviso da tutti è la sola ipotesi che dia ragione delle allucinazioni collettive, sostiene:

Bisogna che quelle visioni facciano parte degli archetipi che hanno sempre popolato le fantasie umane. Si tratta in effetti di risvegliare, per così dire, quel tipo di immagini. Di portarle a evidenza. Per fare questo, la mia limitata esperienza non mi suggerisce che un modo. Indurre la cavia, singola o collettiva, in uno stato trasognato. E poi trasmetterle l’immagine che vogliamo farle visualizzare.15

Lo stato trasognato, però, non coincide necessariamente con uno stato di incoscienza. Sempre in Cherudek, l’alchimista Rupescissa, il nemico di turno di Eymerich, fa un’importante precisazione:

La quinta essenza delle sostanze non è difficile da ricavare. Quello che è difficile è prendere coscienza della propria quinta essenza, del proprio spirito. Guidare cioè l’anima, la psyche, in un viaggio lucido nel mondo spirituale con cui siamo a contatto, osservando con consapevolezza ciò che di solito percepiamo solo confusamente in sogno.16

Ciò di cui parla Rupescissa sembra proprio assomigliare a quella veglia sognante che può aiutarci a evadere dall’immaginario colonizzato a condizione che sia possibile rispondere, come voleva Evangelisti evocando la vampira Carmilla, “all’ipnosi con la seduzione, all’animalità con l’intelligenza, all’omologazione con l’impulso di rivolta”.17


  1. Cfr. V. Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora, in Id., Le strade di Alphaville, a cura di Alberto Sebastiani, Odoya, Città di Castello 2022, p. 182. 

  2. V. Evangelisti, Una narrativa adeguata ai tempi, in Id. Le strade di Alphaville, cit. p. 78. 

  3. V. Evangelisti, Carmilla, Robespierre e il piacere aristocratico, in Id. Le strade di Alphaville, cit., pp. 153-154. 

  4. V. Evangelisti, …Et mourir de plaisir, in Id. Le strade di Alphaville, cit. p. 61. 

  5. Cfr, F. Moretti, The Dialectic of Fear, in “New Left Review”, n. I/136, nov.-dic 1982, pp. 67-85. 

  6. V. Evangelisti, …Et mourir de plaisir, cit., p.60. 

  7. Ivi, p. 62. 

  8. Ivi, p. 60. 

  9. V. Evangelisti, Black Flag, Einaudi, Torino 2008, p. 180. 

  10. V. Evangelisti, …Et mourir de plaisir, cit., p.60. 

  11. Ivi, p. 61. 

  12. C. Miéville, Odio mosso da amore, in “Jacobin Italia”, 1° dicembre 2022. 

  13. V. Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora, cit., p. 183. 

  14. Ibidem. 

  15. V. Evangelisti, Cherudek, in Id., Eymerich. Libro uno, a cura di A. Sebastiani, Mondadori, Milano 2019, edizione Kindle, cap. VI. 

  16. Ivi, cap. 17. 

  17. V. Evangelisti, …Et mourir de plaisir, cit., p. 62. 

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Le due città (Victoriana 36/II) https://www.carmillaonline.com/2022/05/28/le-due-citta-victoriana-36-ii/ Sat, 28 May 2022 20:25:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72112 di Franco Pezzini

Incursioni laterali sui fianchi della realtà

J.-H. Rosny aîné, La giovane vampira e altri misteri, a cura di Elena Furlan, postfaz. di Ivo Torello, pp. 230, € 15,90, Hypnos, Milano 2020.

Senza scomodare necessariamente la Guerra dei cent’anni, la dialettica tra francesi e inglesi è un topos da romanzo portato in scena ora in forma di bonario completamento reciproco (per esempio in Jules Verne, emblematico il rapporto tra il compito Phileas Fogg e il neoassunto cameriere francese Jean Passepartout nel ‘Giro del mondo in 80 [...]]]> di Franco Pezzini

Incursioni laterali sui fianchi della realtà

J.-H. Rosny aîné, La giovane vampira e altri misteri, a cura di Elena Furlan, postfaz. di Ivo Torello, pp. 230, € 15,90, Hypnos, Milano 2020.

Senza scomodare necessariamente la Guerra dei cent’anni, la dialettica tra francesi e inglesi è un topos da romanzo portato in scena ora in forma di bonario completamento reciproco (per esempio in Jules Verne, emblematico il rapporto tra il compito Phileas Fogg e il neoassunto cameriere francese Jean Passepartout nel ‘Giro del mondo in 80 giorni’, 1872-73, o tra i giornalisti Alcide Jolivet e Harry Blount, rispettivamente francese e inglese, inizialmente rivali e poi amici, in ‘Michele Strogoff’, 1876), ora di ostilità più o meno esplicita. Quando poi ci si mette l’esplosione di un ménage le cose assumono risvolti anche più complicati: come nel caso del belga francofono Rosny aîné, partito per Londra nel 1874 e lì sposatosi senza troppa fortuna. Si trasferirà a Parigi nel 1883, e qui scriverà nel 1911 il già citato racconto La jeune vampire, edito nel 1920.

Il racconto, che abbiamo visto chiudere almeno idealmente la citata raccolta La Belle Époque dell’esoterismo ne apre una seconda, stavolta nel segno della narrazione pura: un’antologia di racconti di Rosny aîné – uno dei candidati, ma poco plausibilmente, all’identità del misteriosissimo Fulcanelli – che permette di apprezzarne la vena in qualche modo gotica. Per quanto proposto da Romain Rolland (forse con eccessivo entusiasmo) al Nobel per la letteratura, va detto che Rosny aîné non presenta la polita, tagliente perfezione di un Maupassant nei suoi racconti nerissimi, l’elegante nettezza del Mérimée fantastico, e neppure il lussureggiante, eccessivo, istrionico teatro macabro di Dumas quando scrive d’orrore (perché nell’Ottocento la narrativa d’orrore in Francia c’è eccome, e bella tosta): ma è un ottimo professionista della penna. Viene dal Belgio dei grandi visionari, Jean Delville, James Ensor, Fernand Khnopff, Armand Rassenfosse e Félicien Rops, e arriva in una Parigi dove gli scrittori popolari stanno producendo meraviglie. Il feuilleton sta mostrando la libertà esuberante dei generi – storico, poliziesco, orrifico, fantascientifico… con curiose ibridazioni e toni spesso lividi – e traghetta idealmente verso le emozioni da palcoscenico del Grand Guignol in cui spicca il lavoro del Prince de la Terreur André de Lorde (1869-1942): un mondo insomma dove si può sperimentare senza eccessivi pudori.

E Rosny aîné sperimenta. Anzitutto nel campo della fantascienza, dove si guadagna idealmente il secondo posto in Francia dopo Verne: la mancata pubblicazione in tempi utili dei suoi testi in inglese ne conterrà notevolmente l’impatto sul genere, ma l’importanza della sua esperienza resta (e, per dire, in Les Navigateurs de l’Infini compare per la prima volta il termine “astronautique”). Sempre nell’ambito di soluzioni piuttosto sperimentali restano i suoi cinque romanzi di ambientazione preistorica, tra il 1892 e il 1930 (tra i quali il famoso La Guerre du Feu, 1909, alla base del film omonimo di Jean-Jacques Annaud, 1981). Nessuno stupore dunque che di vaghi echi fantascientifici riverberi La giovane vampira, a evocare un vampirismo come paradosso neurologico e mutazione genetica trasmissibile. Anche se almeno un’altra componente risulta mixata tra le righe.

Nella Francia romantica, e in particolare nei giri di Paul Lacroix (1806-1884) – cioè il “Bibliofilo Jacob” della cerchia di Nodier, autore di varie opere sulla stregoneria del medioevo – e dell’erudito editore Isidore Liseux (1835-1894), aveva incontrato grande successo il dotto trattato di padre Ludovico Maria Sinistrari d’Ameno (nel senso che era nato ad Ameno nel Novarese: 1622-1701), De Daemonialitate et Incubis et Succubis, 1680, più tardi tradotto in francese (De la démonialité et des animaux incubes et succubes, Liseux, Parigi 1875). Sedurrà letterati come Huysmans, influirà sulla mitologia degli Efialti come supra definiti e affascina ancor oggi con le sue pagine pruriginose sull’erotica di incubi e succubi, oltre a fornire suggestioni all’immaginario sui vampiri (aperti ad affinità sensuali con gli spiriti meridiani). Teniamo presente che se in Gran Bretagna il mito vampirico è modellato ampiamente dal folklore (sia pure con abbondanti libertà letterarie, fino all’istituzione del canone stokeriano che con qualche adattamento detterà legge al cinema), in Francia al contrario la lettura in generale dipende fortemente da istanze esoteriche, fino agli sviluppi tardivi di Ambelain e Bourre. Un vampirismo di possessione e spossessamento identitario, di fantomatiche alchimie del sangue, di gruppi almeno tangenti al luciferismo.

Ecco insomma virtualmente l’altra stirpe a cui appartiene la protagonista del racconto, “fantasticamente graziosa” e pallidissima: che pure sembra divenuta tale dopo una dichiarazione di morte vergata da ben due medici, e un principio di decomposizione rilevato la terza sera e curiosamente riassorbito. Il suo corpo pare ora occupato da un’identità altra, e nella sua “nuova” vita Evelyn Grovedale attinge alle energie dei propri cari con delicata attenzione, quasi a ricordare la gentile Clarimonde di Gautier. “Qualunque sia il posto da cui vengo, appartengo a un’umanità. So di essere straniera in questo mondo, ma so anche di essere una donna. E amo la mia nuova vita, soprattutto da quando vivo con voi”: non insomma un mostro da distruggere, ma un’interlocutrice da capire. In compenso pare di udire echi di Carmilla quando Evelyn confida rabbrividendo: “Ho paura della mia altra vita! Sento che di là mi è capitato qualcosa di terribile, tanto che la mia anima ha dovuto fuggire. È inesprimibile e orrendo”. Troviamo anche un maturo esperto, il sussiegoso neurologo Percy Coleman, “lo Charcot scozzese” (ad ammiccare ai richiami a Charcot nel Dracula), che tenta invano di risolvere il caso, pratica trasfusioni e pregusta il botto ai convegni scientifici; ma soprattutto troviamo una bufera identitaria, con lei che a un certo punto non riconosce più il marito, mentre il corpo avvenente ospita in apparenza un’altra persona (“sono stata assente sei mesi e il mio corpo non mi ha seguita!”). Fino al rischio di un’esplosione della coppia, ma il finale fortunatamente riserverà sorprese.

La giovane vampira è il racconto più lungo della raccolta, e anche il più interessante. Certo, viene il sospetto che l’alterità riguardi in prima battuta il rapporto con Albione e i suoi modi, visto che la carica beffarda del racconto sta proprio nella sua collocazione inglese, a proiettare oltremanica la terra dei vampiri letterari e di un matrimonio fallito; ma poco importa il dato contingente, considerando l’ampio ventaglio di più sottili provocazioni sul tema identitario incastonate in una storia che ha il passo un po’ sghembo degli effettivi casi clinici. Il tema dell’altra stirpe e i relativi turbamenti – specchio in fondo di crisi che il trapasso da un secolo all’altro spariglia tra la dimensione psicologica, personale e quella sociale, collettiva – tornano però in La figlia della Naiade (1904) e in Un altro mondo, che ammicca alla fantascienza (1898); e il tema del travaso di energie si ripropone ne Il mago rustico (1914). Amore e paradossi temporali ricorrono ne Il Mistero (1901), mentre sulle rivelazioni della morte (“non bisogna credere che qualcosa ci sia estraneo. Non ci sono altri mondi. Tutto si tocca”) si ritorna, delicatamente, ne Il giardino di Mary (1895).

Un intero corpus di novelle sembra invece flirtare con il coevo Grand Guignol: c’è L’impiccato (1904), confessione di un assassino destinato plausibilmente alla ghigliottina per avere – colmo dell’orrore nella cattolica Francia – ammazzato ferocemente un prete; Il chiodo (1912), storia di una vendetta nel contesto convulso della guerra franco-prussiana; In fondo ai boschi (1912) vede una ragazza divorata dai maiali selvatici; nuovamente una “morte da chiodo” e il set di un manicomio emergono ne Il maggiolino (1912); Il dormiente torna sul tema della morte – atroce – portata da un bambino (1912); L’assassino sovrannaturale traghetta a letture occultistiche e al tema classicissimo del doppio (1923), mentre La morte più bella (1912) pare suggerire la frequentazione dei terribili racconti di soldati di Bierce.

Per un registro del tutto diverso, Il malocchio gioca con la commedia borghese, puntando maliziosamente alla “sola disgrazia che non rechi sofferenza a una debole donna” (1914); mentre Il leone e il toro (1912), richiamando un bizzarro episodio di campagna, pare muovere visionariamente da suggestioni mitologiche e iconografiche (certi bassorilievi con duelli tra animali esistenti e figure immaginarie, certe fantasie di Tarasque) nello scontro tra un uomo-leone e un toro scatenato. A colpire però, a parte i soggetti più o meno crudi è il clima, l’ambientazione rurale, le paludi dalle acque ferme, le case isolate di una provincia dove i fantasmi sorgono dalle nostre stesse fibre. Sulla base di leggi del grande Tutto – a dirla con Zola – che sfuggono ai nostri manuali di filosofia e alle gerarchie della spocchia umana: naturalisticamente, potremmo dire.

A chiudere il volume, va infatti segnalato il breve ma intenso e appassionato saggio J.-H. Rosny aîné. Dal Naturalismo al Merveilleux scientifique: un’evoluzione inaspettata, di Ivo Torello, le cui provocazioni su un’inattesa eredità (iper)naturalista di Zola meritano senz’altro attenzione. Scrive Torello:

 

Nel 1886 [in L’Opera, attraverso l’alter ego Pierre Sandoz] Zola, volente o nolente, non importa se ironizzando o no, conscio o meno, mette nero su bianco il primo abbozzo di manifesto del Merveilleux scientifique. La scienza come metodo d’indagine. L’universo senza limiti come orizzonte. L’antropocentrismo come idiota gerarchia. Quattro anni prima della nascita di H.P. Lovecraft, in Francia questi temi sono già materia rovente. Ma si tratta di una patata bollente di cui Zola si sbarazza in fretta, tornando alla pura e semplice brutalità della bestia umana.

Ci sono però due spiriti liberi pronti a ricevere la medesima patata bollente. Maurice Renard e il belga Joseph-Henri Honoré Boëx [cioè appunto J.-H. Rosny aîné]. Sta per nascere il Merveilleux scientifique, ovvero il weird quarantanni prima di Weird Tales.

 

Mentre Maurice Renard (nel 1914):

 

La caratteristica del Merveilleux scientifique non è di anticipare, quanto ad avanguardia, il trascorrere del tempo, ma di fare incursioni laterali sui fianchi della realtà, di pattugliare a margine della certezza, non per acquisire la conoscenza del futuro, ma per ottenere una migliore comprensione del presente. La sola ambizione di un romanziere del Merveilleux scientifique è di arrivare a far debordare un po’ il noto sull’incerto, a far splendere appena un po’ di luce nella penombra, come in una vetrata i vetri più luminosi sembrano “mangiare” il bordo dei loro vicini più scuri e sconfinare nel loro recinto.

È soltanto un’illusione. Ma ci cattura; ma ci alimenta. Gioia dell’inganno che fa ridere lo spirito, lo eccita alla curiosità divina, soddisfa allo stesso tempo la sua smania di conoscenza e la sua sete di fantasmagoria.

 

Eredità inattesa (tanto più considerando l’attacco del “Manifeste des cinq”, 1887, cofirmato da Rosny aîné che tra l’altro accusa Zola di ignoranza scientifica) ma stringente: e del resto, per quel matraccio sobbollente che è la letteratura del tardo ottocento francese, occorre ricordare le frequentazioni tra Zola e Huysmans, che a sua volta se ne allontana a un certo punto. Immaginarli in dialogo di primo acchito è difficile, eppure per tutta una prima fase Huysmans muove proprio dal tronco del naturalismo. Per crescere poi in una direzione tutta sua (ma non certo isolata, in quella Francia: si pensi a Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, a Léon Bloy…), con un’influenza che dilagherà nell’immaginario ben oltre i confinanti della Manica.

(2. continua)

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Lo sguardo della vampira (2/2) https://www.carmillaonline.com/2021/04/12/lo-sguardo-della-vampira-2-2/ Mon, 12 Apr 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65918 di Paolo Lago

[Qua la prima parte 1/2] Continuava a fissarmi con le luci blu dei suoi occhi e continuava a restare in silenzio. Non so come, trovai il coraggio di chiederle: “Sei una vampira?”. “Sì” – mi rispose – “e non devi avere paura di me”. “Non devi avere paura di me! Queste parole rimbombarono nella mia mente come dei tuoni, quegli strani fenomeni atmosferici che appartenevano al mondo di prima. Come era possibile non avere paura di una vampira? Era uno degli esseri più pericolosi al mondo! Gli [...]]]> di Paolo Lago

[Qua la prima parte 1/2] Continuava a fissarmi con le luci blu dei suoi occhi e continuava a restare in silenzio. Non so come, trovai il coraggio di chiederle: “Sei una vampira?”. “Sì” – mi rispose – “e non devi avere paura di me”. “Non devi avere paura di me! Queste parole rimbombarono nella mia mente come dei tuoni, quegli strani fenomeni atmosferici che appartenevano al mondo di prima. Come era possibile non avere paura di una vampira? Era uno degli esseri più pericolosi al mondo! Gli addetti governativi, nei talk show che dominavano i maxischermi, dicevano continuamente che i vampiri erano i principali nemici dell’umanità! Eppure, adesso avevo davanti a me una vampira che mi diceva che non dovevo avere paura di lei. Azzardai un’altra domanda: “Come ti chiami?” “Mi chiamo Lisa” – fu la risposta.

“Come è possibile che io non debba avere paura di te? Ci dicono continuamente che voi vampiri siete pericolosissimi per gli uomini…” – continuai. “Vedi” – mi disse lei – “quello che dicono è una grande bugia. Le bugie sono fatte per tenere sotto controllo gli esseri umani, per farli stare più tranquilli e, insieme, per creare delle nuove paure. Noi vampiri non siamo assolutamente pericolosi, vorremmo soltanto essere amici degli uomini. Vedi, noi siamo gli unici che potrebbero far tornare il mondo come era prima. Non siamo assolutamente un pericolo per gli uomini, potremmo invece essere la loro salvezza. In tanta disumanità che ci circonda, siamo gli unici, forse, ad avere conservato un po’ di umanità”. Finì di parlare e si mise lentamente a sedere su una vecchia poltrona di pelle del salone che si trovava al piano superiore del mio appartamento. “Scusa, ma sono molto stanca” – disse dopo, più piano. Eppure, quegli occhi che all’inizio mi sembravano completamente disumani, pervasi di una luce bluastra così innaturale, lentamente, diventarono più familiari, si fecero largo nella spessa cortina fumosa della mia memoria. Mi riportarono a un giorno di una primavera lontana, nel cortile di una scuola, ma poi non riuscii a ricordare più nulla. Era davvero strano che, in un mondo senza ricordi come il nostro, l’unico essere che me ne suscitava uno fosse una vampira.

Anch’io mi sedetti su una poltrona vicina a quella dove si era messa Lisa. Volevo saperne di più su quanto mi aveva detto, riguardo al fatto che i vampiri fossero gli unici che avrebbero potuto liberare il mondo dalla attuale situazione. Ma poi – mi chiedevo – perché “liberare”? non stiamo forse bene? Non abbiamo forse il sistema governativo che soddisfa tutti i nostri bisogni? “Ma Alf” – continuò lei, come se mi avesse letto nel pensiero – “non ti rendi conto che il mondo come è adesso è una grande prigione sull’orlo della catastrofe? Tutto è artificiale, tutta la natura è ricreata in laboratorio, a uso e consumo quasi esclusivo delle classi sociali più ricche.” Come parlava, questa vampira? Le sue parole sembravano uscite da vecchissimi trattati di economia politica dei quali mi avevano parlato alcuni dei miei compagni durante il “Grande Internamento”. “Noi siamo gli unici in grado” – continuava – “per mezzo del nostro DNA, di far tornare gli esseri umani e le specie animali e vegetali al mondo di prima…”. Quasi istintivamente, mi alzai e le chiesi di seguirmi. Le volevo mostrare la mia video-cartolina. La condussi fino alla stanza in fondo al mio appartamento, dove mi ritiravo a scrivere. La video-cartolina era lì, sul tavolo. Gliela porsi e, mentre la guardava, dagli occhi azzurri di Lisa – adesso infinitamente più umani – cominciarono a scendere due lacrime d’argento. Anche lei aveva dei ricordi, probabilmente confusi, legati al mondo di prima. Eppure, quanto più la guardavo tanto più aumentava la mia convinzione di averla già vista. E poi, come faceva a sapere che mi chiamo Alf? Non glielo avevo detto. E allora, come in un lampo, mi venne in mente che, forse, era proprio Lisa la fanciulla lontana della mia adolescenza alla quale scrivevo le mie lettere notturne. Lo pensai, ma non le dissi nulla né, tantomeno, le mostrai le lettere. “Ricordati Alf” – mi disse – “solo noi vampiri siamo capaci di salvare il mondo e l’umanità dal suo inferno, un inferno che ormai avete talmente interiorizzato che vi sembra la più normale delle esistenze. Ti sembra una vita la vostra? Uscite solo per recarvi al lavoro, costretti nelle vostre tute antiossidanti e con il volto coperto dalle maschere di ossigeno! Noi vampiri usciamo solo di notte nei luoghi più pericolosi e tetri delle città, ma siamo più liberi di voi”. Ciò detto, Lisa si allontanò rapidamente e se andò.

Il giorno dopo, al lavoro, George mi fissava in modo insolito, infatti non aveva mai dimostrato una grande attenzione nei miei confronti. Mentre me ne stavo tornando a casa, finito il mio turno (che era lo stesso di George, quel giorno), lo incontrai all’angolo di una strada. Senza avvicinarsi troppo, attraverso la maschera di ossigeno, mi disse: “Senti Alf, ieri è venuta a farti visita Lisa, non devi avere paura di lei. Stasera lei tornerà e verrò anche io a casa tua, è importante. Mi confermi il tuo indirizzo? Quartiere Zeta 9, isolato G 24, giusto? Alf Abronsius, giusto?” “Sì” – dissi con un filo di voce – “è tutto giusto”.

Quella sera ero in apprensione. Non riuscivo proprio a fare nulla, a concentrami su niente, perfino i discorsi e le chiacchiere che si avvicendavano sul maxischermo mi sembravano troppo complicati e astrusi per poterci capire qualcosa. Improvvisamente sentii un rumore provenire dalla stanza più lontana dell’appartamento. Drizzai le orecchie. Probabilmente era stata forzata la finestra. Non senza un certo terrore mi incamminai verso la mia stanza della scrittura. Le luci erano accese e, seduti sul lettuccio da bambino, vidi Lisa e George. “Bene George” – dissi – “ormai non mi sorprendo più di fronte a nulla. Scommetto che anche tu sei un vampiro”. “No, non lo sono” – mi rispose il mio collega di lavoro – “sono un essere umano come te. Un essere umano che però ha aperto gli occhi, un essere umano che non vive più succube del maxischermo governativo e della paura”. Mi guardava e sorrideva. Era giusta l’opinione che avevo avuto: George era una brava persona, gentile, affabile e simpatica. “Vedi Alf, io faccio parte di un gruppo segreto di ribelli, un’organizzazione internazionale che si oppone al potere assoluto del Governo. Stiamo cercando da tanti anni un modo per annientare le paure, per debellare il controllo e i loschi esperimenti scientifici che gli scienziati governativi continuano incessantemente a operare sul nostro DNA. Per questo abbiamo cercato un’alleanza con i vampiri. Anche fra di noi ci sono valenti scienziati, che ti credi? Sono proprio loro ad aver scoperto che i vampiri possiedono nel loro DNA delle particelle che possono aiutare gli esseri umani a tornare come prima, più forti, senza la necessità di proteggersi continuamente dai raggi del sole. Che possono far rinascere la vegetazione e ripulire i mari, i laghi e tutti i corsi d’acqua. Ti chiederai perché siamo qui e perché sto dicendo tutte queste cose proprio a te. Ebbene, perché tu sei uno dei pochi esseri umani che possiedono i ricordi. Me lo ha detto Lisa”. “Ehi, un momento” – dissi – come diavolo fa a saperlo, Lisa? Ora i vampiri sanno leggere anche nel pensiero?” “No” – intervenne lei, che finora era stata in silenzio – “lo so perché spesso sono stata qui, nascosta in un angolo buio, dietro un vecchio armadio, seduta su arcaico ballatoio, aggrappata alla finestra del tuo studio in fondo alla casa, e ti guardavo. Ti guardavo scrivere e scrivere nella notte, scrivere senza fine. Una notte, quando sei uscito dalla stanza, mi sono incuriosita e sono andata a leggere le tue lettere. È grazie alle tue lettere che ho capito che tu, ancora, possiedi dei ricordi. Ti rivolgi continuamente a una lontana fanciulla che dici di aver dimenticato, e invece porti impressa nella tua memoria più forte che mai. Lo so perché quella lontana fanciulla sono io. Vuoi sapere il mio nome, Alf? Eccolo, è Lisa, è Lisa, te lo vorrei dire mille volte, in tutte le lingue del mondo. Tu possiedi dei ricordi e i tuoi ricordi possono aiutarci nella lotta. Devi unirti a noi Alf, devi venire a lottare con noi”.

Il giorno dopo e poi per molti giorni ancora non vidi più né Lisa, nelle notti trascorse in solitudine nel mio grande appartamento, né George, al lavoro. Al suo posto vi era un grassone antipatico, dall’improbabile nome di Sam. Eppure, per le strade, qualcosa stava cambiando. Gruppi di persone si trattenevano fuori più del tempo consentito, sfidando gli ordini governativi. Gruppi consistenti di persone cominciavano anche a uscire di notte, durante il coprifuoco, sfidando le pattuglie dei “Vampire Killers” le quali, paradossalmente, invece di dare la caccia ai vampiri, dovevano rivolgersi contro gli uomini. In molti furono arrestati. In molti continuarono a uscire. I “Vampire Killers” a volte reagivano con violenza per cui la gente cominciava a non avere più fiducia in loro: non era vero, allora, che erano i nostri custodi e salvatori. Come potevano trattare degli esseri umani – che, in tutta evidenza, non erano vampiri – in modo così violento? E così, anche molta gente comune, stanca di questi soprusi, cominciò a scendere in piazza contro il governo.

Una notte, dopo un po’ di tempo, rividi Lisa nel salone del mio appartamento. Era vestita di scuro e l’azzurro dei suoi occhi aveva un che di abbagliante ma anche di più umano. Da blu e luminosi si erano fatti di un azzurro intenso, meno fosforescente. Mi disse che lei se lo ricordava, sì, se lo ricordava quel giorno lontano che io rievocavo nelle mie lettere. Eravamo nel cortile della scuola, in un giorno di maggio, e lei si ricordava di me. Anche lei, ragazzina, venne condotta nei silos del “Grande Internamento” ma fece parte del gruppo “cavie” per gli sperimenti degli scienziati. È così che divenne una vampira. I vampiri altro non erano che esseri umani sottoposti a crudeli esperimenti, nel corso del “Grande Internamento”, per cercare di ovviare in qualche modo alla catastrofe ambientale che stava avvolgendo il mondo. “Gli scienziati facevano tutto questo per il nostro bene, ma sulla nostra stessa pelle. Quel bene divenne un male inestirpabile. Per questo, Alf, non ci si vide più dopo quel giorno. Ero ormai diventata una cavia. Ma a noi divenuti vampiri i ricordi non potevano essere estirpati, ecco perché siamo sempre stati considerati pericolosi. Eravamo pericolosi per il potere, non per gli altri esseri umani. Potevamo, con la nostra stessa vicinanza, con le nostre menti piene di ricordi e di verità, far emergere una coscienza nella mente delle persone, una coscienza di verità contro le grandi bugie decantate nell’onnipresente spettacolo dei maxischermi. E ora ho tanta voglia di leggere le tue lettere”.

Così disse Lisa, mentre si apprestava a uscire dal mio appartamento. Era notte fonda ma dalle finestre riuscivo a vedere ormai fiumi di folla che si riversavano nelle strade. “Vieni con me, Alf, la tua capacità di ricordare deve unirsi a noi nella lotta, tu devi unirti a noi nella lotta, per un futuro migliore. Qui sotto, in piazza, ci sono anche George e la sua famiglia, una famiglia vera, come quelle di una volta, fuori dai vincoli istituzionali. Chiunque, se lo vuole, può costituire una famiglia. Una famiglia è chiunque si voglia bene”. Aprii i cassetti della scrivania, presi le lettere e gliele diedi. Uscimmo e scendemmo per strada. Non avevo mai visto tanta gente tutta insieme, e per di più in piena notte. Ma non avevo paura, perché avevo dei ricordi, perché Lisa aveva le mie lettere e le avrebbe lette, perché i suoi ricordi si univano ai miei, ed erano quelli di un mondo in cui c’era ancora qualche residuo di umanità. Non avevo paura, avevo solo voglia di lottare, adesso, in quelle strade e in quelle piazze perché tutto lo sguardo azzurro di Lisa era insieme a me, quella notte, e mi era vicino, tutto lo sguardo di una vampira. La strada non era facile, c’erano ancora mille dolori da affrontare, ma quello sguardo mi diceva che non bisognava smettere di lottare.

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Lo sguardo della vampira (1/2) https://www.carmillaonline.com/2021/04/05/lo-sguardo-della-vampira-1-2/ Mon, 05 Apr 2021 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65695 di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva [...]]]> di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva emesso queste parole in uno stanco singulto, e poi si era spenta del tutto. Era una testimonianza di come era il mondo almeno venticinque anni fa, prima della catastrofe che aveva cambiato tutto. La posai sul tavolo, e con essa posai anche i miei flebili ricordi, perduti nella nebbia di ere.

Mi ricordavo veramente poco del mondo di prima, dei prati e dei boschi, degli antichi paesi ritratti in quella cartolina. C’era stata una grande epidemia vegetale che aveva distrutto completamente la vegetazione, inquinato i fiumi e le sorgenti. L’inquinamento, sempre più persistente, aveva avvolto il mondo di prima fino a distruggerlo e a devastarlo. Dopo le epidemie, che si erano susseguite a un ritmo vertiginoso nel giro di pochi anni, erano arrivate le povertà e le carestie e poi le guerre civili, sparse in tutto il mondo. Una delle poche volte che sono uscito, prima del “Grande Internamento” imposto dal Governo, ero un ragazzino e mi ricordo scontri terribili a ogni incrocio della mia città: manifestanti e polizia si fronteggiavano nelle strade con ogni tipo di armi e dappertutto c’era l’odore acro dei fumogeni e delle bombe. Anche io, come quelli della mia generazione, avevo passato gran parte della mia adolescenza e giovinezza chiuso negli spazi di aggregazione predisposti dalle autorità: enormi silos di metallo dotati di tutti i comfort dove era stata dislocata la popolazione superstite. Eravamo tutti in attesa della costruzione del nuovo mondo: quello che c’è adesso qui fuori. Gli scienziati avevano previsto proprio tutto, tranne una cosa sola: l’arrivo dei vampiri.

Quella dei vampiri era una nuova specie, creata dai più svariati esperimenti chimici che erano stati messi in atto per cercare di arginare l’epidemia vegetale. Gli scienziati avevano mescolato diversi DNA per creare un antidoto efficace alla continua mutazione genetica del virus che aggrediva le più svariate specie vegetali e animali per contaminare, in alcuni casi, anche l’uomo. Di loro si sapeva poco o nulla, nessuno li aveva mai visti. Si sapeva soltanto che si aggiravano dopo il calar del sole perché erano fatti in gran parte di una sostanza fotosensibile. I governi di tutti i paesi avevano creato delle leggi particolari che imponevano ai cittadini di non uscire non appena sopraggiungevano le tenebre. I vampiri erano pericolosissimi perché potevano uccidere – così si diceva – solo con il loro sguardo. E così l’umanità si era riadattata alla nuova vita dopo il disastro ed era felice, o almeno così sembrava. La scienza era riuscita a ricreare degli habitat a misura d’uomo dove un tempo c’erano le città: le grandi unità abitative, formate da migliaia di palazzi, erano protette da capsule di vetroresina che servivano a proteggere dai raggi diretti del sole, divenuti ormai pericolosissimi a causa delle manipolazioni genetiche attuate sui corpi degli individui. Gli antidoti avevano permesso la sopravvivenza delle piante e dei corsi d’acqua all’interno delle grandi capsule ma avevano mutato irrimediabilmente il DNA umano, creando delle persone più fragili e più esposte alle malattie. Si poteva girare per le strade soltanto muniti di maschere di ossigeno e si poteva rimanere all’esterno solo per un tempo limitato. I più ricchi avevano degli appartamenti spaziosi, nei quali avevano ricostruito diversi ambienti artificiali che ricreavano prati e giardini. I più poveri vivevano in baracche di ferro poste ai limiti della grande capsula, in enormi quartieri fatiscenti dove vigevano la violenza e la prevaricazione.

Io non mi potevo lamentare. Vivevo in un grande e vecchio appartamento, a un piano alto, dal quale vedevo spuntare, come un arcaico fantasma, un vecchio campanile ancora rimasto intatto, in mezzo alle nuove costruzioni in vetroresina. Percorrevo i lunghi corridoi con circospezione, con la paura di incontrare i vampiri che, a quanto dicevano i maxischermi che il governo aveva installato in tutte le abitazioni, potevano penetrare furtivamente nelle case durante la notte. I corridoi del mio appartamento erano attraversati da scale e soppalchi, pieni di mobili provenienti da tempi remoti, poltrone di pelle, lunghi tavoli di legno scuro sui quali posavano candelabri intagliati nel tempo, lampadari penduli da soffitti altissimi, oscuri, nereggianti di intarsi barocchi, vecchi quadri alle pareti, scalinate lignee che portavano a vuoti saloni, pesanti porte che celavano stanze piene di armadi, di mobili oscuri e fatiscenti, di oggetti posati negli angoli, dimenticati da un tempo in cui l’essere umano era davvero un essere umano. A volte mi recavo a scrivere in una stanza lontana, al capo opposto dell’appartamento e raggiungerla era un vero e proprio viaggio attraverso i filamenti polverosi di una coscienza. Era così come l’avevo trovata nel momento in cui ero entrato per la prima volta in quell’appartamento: sembrava la stanza di un bambino o, comunque, di un adolescente. C’era un lettino sormontato da un armadio, un tavolino attaccato alla parete, con una piccola e semplice lampada da lettura. Sui vetri della finestra erano appiccicati degli adesivi che rappresentavano, forse, i personaggi di alcuni fumetti e cartoni animati di ere lontane. Fuori dalla finestra vedevo un fiume che scorreva, in un’ansa verdeggiante, ma sembrava il tetro fiume artificiale di una periferia industriale, emblema della buia realtà che, come un simulacro, riempiva le nostre vite.

Scrivevo, non facevo altro che scrivere lettere a una remota fanciulla della mia adolescenza che forse intravidi in un giorno di sole, nel cortile della scuola, prima che scattasse il “Grande Internamento”. Frequentavamo le scuole medie e, nel corso del primo anno, cominciò il grande divieto: la razza umana non poteva più esporsi all’aria aperta a causa degli esperimenti che gli scienziati stavano compiendo “per il nostro bene”. Seduto al tavolino della stanza in fondo alla casa scrivevo lettere mai spedite che iniziavano sempre con queste parole: “Sono Alf, del quartiere Zeta 9, nell’isolato G 24, nell’oscuro silenzio di una notte al fosforo, ricordo i tuoi occhi di tanto tempo fa, ricordo solo un azzurro intenso e un cielo sereno che forse era sopra di noi e il vento e un odore di fiori nell’aria. Possiedo una video-cartolina di quel tempo, vorrei che anche tu la vedessi, forse abbiamo dei ricordi in comune, vorrei soltanto sapere il tuo nome…”. Erano poche le persone che avevano dei ricordi in comune, dei ricordi degli altri. Per le strade nessuno si riconosceva e nemmeno si conosceva, ognuno era anonimamente perduto dietro la maschera di ossigeno che portava, avvolto nel proprio mantello antiossidante che non lasciava intravedere neanche un lembo del corpo. Lo stesso concetto di “amicizia” non esisteva più. C’erano, sì, le famiglie, simili a quelle di un tempo ma esistevano soltanto a un livello formale: quelle ricche trascorrevano tutto il tempo nei loro spaziosi edifici; quelle povere, spesso, stavano ammassate in una sola stanza nei quartieri fatiscenti.

Io, come tanti altri, ero rimasto fuori dall’inglobamento delle famiglie, avvenuto in un tempo in cui ero ancora “internato”, per cui trascorrevo la mia esistenza da solo, ma andava bene così. Non guardavo quasi mai il maxi-schermo governativo sul quale diversi annunciatori riferivano i dati scientifici sulle potenzialità delle capsule che inglobavano le città. Era infatti necessario che fossero sottoposte a un continuo processo di manutenzione da parte di tecnici e scienziati, perché non si consumassero con il passare del tempo. Ne andava veramente della vita di tutti. Ogni giorno era uno snocciolare di numeri e di dati che indicavano il funzionamento del grande sistema che garantiva la nostra sopravvivenza. Fuori dalle capsule c’era il vuoto, il nulla o, meglio, lande desolate percorse da venti pestilenziali, portatori di malattie che potevano provocare la mutazione in vampiro, la cosa più temuta al mondo, insieme alla morte. Gli annunciatori dei maxischermi affermavano in continuazione che, molto probabilmente, orde di vampiri si erano infiltrate nelle città, forse nei quartieri più malsani e meno controllati, e la notte potevano girare indisturbate per le strade. Di notte, in circolazione, c’erano solo le pattuglie speciali della polizia, i “Vampire Killers”, con le loro vetture blindate dotate di armi di ultimissima generazione. Gli squadroni dei “Vampire Killers”, come diceva la propaganda governativa, erano i custodi delle nostre vite e a loro dovevamo tutto. Ripeto: non guardavo quasi mai il maxischermo. Nei momenti liberi dal lavoro, che svolgevo nell’isolato G 23 (facevo l’addetto di un call center per la manutenzione dei maxischermi), non facevo altro che scrivere le mie lettere.

E poi c’erano i ricordi degli altri. Come ho detto, nessuno possedeva il ricordo degli altri, non esisteva l’altro nella propria coscienza. Non esistevano luoghi di aggregazione, bar, cinema o palestre come nel mondo di prima (e di cui io stesso avevo solo un flebile ricordo): le persone si potevano sfiorare solo nelle grandi strade, camminando senza mai parlarsi, oppure si potevano incontrare nei luoghi di lavoro. Ma i governi mondiali avevano predisposto qualsiasi posto di lavoro in modo che nessuno potesse avere dei contatti con gli altri perché, in definitiva, chiunque potrebbe sviluppare, in qualsiasi momento, il processo di mutazione in vampiro. Questo lo dicevano gli scienziati, lo diceva il maxi-schermo ma nessuno aveva mai visto un vampiro. E, comunque, come dicevano saggiamente gli scienziati che affiancavano i governanti mondiali, ciò non vuol dire che non esistano. Anzi, esistono, e sono pericolosi. Nel mio lavoro al call center c’era George, nella postazione accanto alla mia. Lo vedevo soltanto attraverso il vetro che ci divideva, sapevo che si chiamava George grazie alla targhetta col nome che portava sulla camicia. Allo stesso modo, grazie alla mia targhetta, lui sapeva che mi chiamavo Alf. Ho sempre pensato, chissà perché, che George fosse simpatico, che fosse una brava persona, anche se con lui non ho mai scambiato neanche una parola.

Una sera stavo percorrendo il lungo corridoio del mio appartamento per recarmi a scrivere nella stanza più lontana. Le luci erano fioche, giallastre e riflettevano sulle pareti strane e tetre figure spettrali. Camminavo e, contemporaneamente, stavo all’erta. Come ho detto, ho sempre avuto un certo timore a muovermi, nel buio, nella mia grande casa. L’illuminazione non riusciva a rischiarare ogni cosa, a rendere riconoscibile il lungo corridoio e i saloni che si trovavano al piano superiore. Sentii un rumore. Mi fermai. Proveniva, per l’appunto, dal piano di sopra. Non potevo rischiare: dovevo accertarmi che non ci fosse nessuno. Salii lentamente le scale e mi ritrovai nel salone buio. Accesi la luce. In un angolo, le luci blu di due occhi mi fissavano intensamente. Rimasi pietrificato dalla paura, come di fronte allo sguardo di Medusa. La luce che si andava accendendo, lentamente, rivelò una figura vestita di scuro. Era una ragazza con un lungo vestito nero, con i capelli neri a caschetto e con due occhi di un azzurro intenso. Mi fissava, e restava in silenzio.

(continua)

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