Gianni Bosio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Una storia orale del folk revival italiano degli ultimi decenni (e un cd tutto da ascoltare) https://www.carmillaonline.com/2021/01/03/una-storia-orale-del-folk-revival-italiano-degli-ultimi-decenni-e-un-disco-tutto-da-sentire/ Sun, 03 Jan 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64153 di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari [...]]]> di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari e non, cantautori che usano strumenti acustici, gruppi elettrici che utilizzano arie e temi rubati alla tradizione popolare, canzoni dialettali e canti politici finiscono tutti accomunati dalla medesima definizione. Tale confusione, come si diceva all’inizio, deriva proprio dall’ampia gamma di significati che è possibile e si è soliti attribuire al termine in questione. Situazione che non migliora affatto se poi si passa a “musica popolare” che, come ben ci insegna il termine di derivazione anglofona pop, a quel punto può contenere veramente di tutto.

Il volume di Maurizio Berselli, appena pubblicato dalle edizioni Artestampa, cerca non tanto di fare chiarezza o contribuire a stabilire certezza nell’uso della parola folk e dei suoi possibili significati, ma almeno di rendere chiaro al lettore casuale quanto a quello appassionato dell’argomento, quanto ricca e varia sia stata in Italia l’esperienza del folk revival tra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato e nei primi due decenni di quello attuale.

Per fare questo l’autore ha comunque tracciato una sintetica e utilissima ricostruzione della rinascita dell’indagine e della produzione sulla e della musica folk nel nostro paese a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 che sia accompagna poi ad una più approfondita disamina delle esperienze prodotte sia a livello musicale che di ricerca dei due decenni successivi.

Maurizio Berselli è stato uno dei promotori della riscoperta e del rilancio dell’organetto nella musica dell’Italia settentrionale alla fine degli anni ’70 ed è stato fra i primi a reintrodurre l’uso dello strumento nell’esecuzione delle musiche dei balli dell’Appennino modenese, bolognese, reggiano; repertori tradizionali antecedenti al più conosciuto liscio. Con l’Orchestra Buonanotte Suonatori e poi con il gruppo Suonabanda, nel cui ensemble suona l’organetto fin dal 1983, si è dedicato ad una approfondita ricerca sulle musiche e i balli staccati emiliani, apprendendolo direttamente dai tanti suonatori incontrati negli anni.

Nel 1984 dà vita allo “STRAbollettino”, la prima pubblicazione prevalentemente rivolta all’informazione sugli avvenimenti musicali nell’ambito del folk nell’Italia settentrionale e centrale, che contribuisce in tal modo a pubblicizzare e render noti ad un pubblico più vasto. E’ proprio nell’ambito di tale esperienza editoriale che, a partire dal 2016, matura l’idea di raccogliere memorie e conoscenze per documentare la storia e le storie del movimento del folk revival deglia nni Settanta e Ottanta e poi, ancora, di quelli successivi.

Il risultato sta tutto, e davvero non è poca cosa, all’interno di questo libro costruito letteralmente attraverso la viva voce e le testimonianze dei principali protagonisti di tale movimento. Una autentica storia orale che ben si adatta al tema trattato e che restituisce con vivacità e passione le differenti varianti, ma anche le basi comuni, dell’espressione musicale riassumibile all’interno dell’esperienza folk.
Per giungere a ciò, l’autore ha però ricostruito in maniera precisa e dettagliata, anche se sintetica, i percorsi che dagli anni ’50 hanno condotto ad una significativa riscoperta di una tradizione musicale che sembrava ormai in gran parte scomparsa. Soprattutto per quanto riguardava il canto e i suoi infiniti e, spesso, non convenzionali contenuti. In tal senso l’autore non dimentica di sottolineare l’importanza e l’influenza di ricercatori, etnografi e musicologi o etno-musicologi quali l’americano Alan Lomax (che introdusse in Italia, durante un suo soggiorno nei primi anni Cinquanta le tecniche della registrazione sul campo) e degli italiano Ernesto de Martino, Diego Carpitella, Gianni Bosio e Roberto Leidy, solo per citarne alcuni. E non dimentica il ruolo svolto da aggregazioni musicali e culturali quali “Cantacronache” (1957) e “Il nuovo canzoniere italiano” (1962 ca.), il quale ultimo darà vita e linfa all’omonima testata dedita allo studio della musica tradizionale.

Un’esperienza fondamentale che, però, tenderà a sottolineare troppo spesso, all’interno della tradizione popolare, l’aspetto “politico”, finendo così col confondere, soprattutto tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, le canzoni prodotte dal sentimento autenticamente popolare con quelle cantautorali di autori politicamente impegnati. Contribuendo così a sottolineare quell’aspetto fortemente polisemico legato all’uso del termine folk. Polisemia e scelta culturale che condurranno gli stessi protagonisti di quella stagione a non comprendere, se non addirittura a rifiutare, le esperienze portate successivamente avanti dai gruppi e dai musicisti operanti in tale ambito a partire dalla metà circa degli anni ’70.

Valga per tutti costoro la testimonianza, estremamente semplificatrice e riduttiva, di Gualtiero Bertelli, uno dei protagonisti della stagione precedente, riportata nel testo.

Verso la fine degli anni ’70, con l’aggravarsi della situazione politica (brigatismo rosso e nero) ed economica (crisi industriali, licenziamenti), queste esperienze si spensero e cadde progressivamente nell’oblio l’interesse per la canzone sociale.
Carsicamente essa ricompare in manifestazioni sindacali, in spettacoli “storici” e in eventi rievocativi. I canti di quel tempo sono oggi genericamente definiti come “le canzoni del ’68” anche se quelle in quegli anni più note furono scritte fin dal 1960 (ad esempio“Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei) e molte altre furono prodotte anche neglianni ’801.

Quello che dimentica Bertelli, o forse semplicemente non vuole vedere, è che proprio intorno alla metà degli anni Settanta tra i movimenti antagonisti produttori di lotte e cultura e la stagione in cui il Partito Comunista e i sindacati avevano rappresentato comunque i cardini dell’esperienza politica di “sinistra” (in fin dei conti anche buona parte della sinistra cosiddetta extra-parlamentare si rifaceva a quei modelli e a quel tipo di impostazione organizzativa) era intervenuta una radicale frattura, che il movimento del ’77 avrebbe portato pienamente alla luce.

E’ chiaro che una tale frattura politico-culturale avrebbe finito col determinare, o forse ne era già determinata inconsapevolmente, anche un cambiamento del gusto e delle forme musicali attraverso cui la musica tradizionale avrebbe continuato ad essere riscoperta, riprodotte e, soprattutto, re-interpretata. Motivo per cui sono proprio le oltre trecento pagine dedicate al Nuovo Folk Revival degli anni ’70 e ’80 a costituire la parte più innovativa ed interessante del testo di Berselli.

Sono pagine ricche di testimonianze, ma anche di puntigliosi elenchi degli strumenti “riscoperti” ed utilizzati, delle danze riportate in auge, di riviste e festival destinati a sostenere il movimento; con un’attenzione particolare dedita anche a sottolineare come in tale contesto l’esperienza della musica straniera ( dalla riscoperta delle radici celtiche al folk rock fino a forme deraglianti di riproposizione in chiave “psichedelica” della musica di ispirazione folk messe in atto da gruppi quali l’Incredible String Band) avrebbe contribuito a rinnovare la tradizione. Così come, tra le altre cose, beat e rock avevano già contribuito a rinnovare la canzone e la musica popolare (nel senso di pop) italiana negli anni precedenti.

Valga invece da esempio per le storie contenute all’interno della ricerca la testimonianza di Franco Ghigini, etnomusicologo e musicista della Val Trompia.

“Nei primi anni Ottanta […] mi dedico con crescente interesse all’ascolto di musiche acustiche dai più o meno espliciti rimandi tradizionali: il folk revival anglo-celtico e francese; il bluegrass americano e la contemporary guitar music.
[…] decido di applicarmi allo studio della fisarmonica diatonica, strumento di cui apprezzo soprattutto l’adozione nel folk-revival francese. Introdotto alla pratica strumentale da Guido Minelli […] del gruppo Èl Bés Galilì e poi da Riccardo Tesi, mi perfeziono con Alain Floutard negli stages organizzati periodicamente a Cervasca dall’Accademia del Bordone di Sergio Berardo. Suono per il ballo folk – nel Bresciano s’è fatto un discreto giro di folkettari dediti al ballo – insieme ai sodali Angelo Arici e Giovanni Foresti, oggi animatori del gruppo Hòfoch & Hstòfech. Il repertorio comprende standard francesi e occitani, ma anche valzer, polche e monfrine tradizionali della Valle Trompia. La frequentazione di appassionati bergamaschi – fra essi, i musicisti del mai abbastanza valorizzato gruppo Magam – è all’origine del progetto Bandalpina, prefigurato proprio in Valle Trompia, a Bovegno, in occasione della prima edizione della rassegna ‘I Suoni delle Prealpi’. […] Partecipo alla Bandalpina per tre anni, vivendo un’intensa esperienza musicale e umana.
[…] Il coinvolgimento nel variegato mondo revivalistico m’induce parallelamente ad approfondire
la conoscenza delle musiche di tradizione orale.[…] mi laureo in etnomusicologia con Roberto Leydi. Contribuisco a nuove fonoregistrazioni della Famiglia Bregoli e studio i repertori strumentali tradizionali e le musiche cosiddette popolaresche documentando per anni nel Bresciano anziani fisarmonicisti e mandolinisti, orchestrine, bande e bandini. Tale ricerca, tuttora foriera di interessanti acquisizioni, mi permette di comprendere la ricchezza e l’ampia articolazione – dalle forme propriamente tradizionali sino alle musiche ready-made di dischi e radio – di una ‘memoria musicale’ popolare novecentesca modulatasi sui comportamenti conservativi ed evolutivi tipici dell’oralità.”2

Chiude la vasta esposizione e parata di esperienze sonore, sociali e personali, un’attenta ed inedita ricostruzione del movimento degli anni 2000: La Mazurka Klandestina e le nuove realtà giovanili del bal folk3.
Va poi ancora sottolineato come il testo sia accompagnato da un ricco apparato iconografico, un’esaustiva bibliografia su tutti gli argomenti trattati e, non ultimo, un apparato di indici utile a rintracciare tra le sue pagine autori, gruppi e storie folk, appunto. La USB card che accompagna il libro arricchisce poi ulteriormente l’opera, rendendola assolutamente indispensabile per chiunque si interessi o voglia interessarsi dell’argomento. Sia in particolare che in generale.

Quasi contemporaneamente all’uscita del libro è stato anche ristampato in cd, ad opera dell’Associazione culturale Barabàn (info@baraban.it – www.baraban.it), il disco, originariamente registrato a Brescia e pubblicato nell’aprile del 1980, del gruppo musicale Èl Bés Galilì. Il nome del gruppo richiama la tradizione leggendaria del serpente galletto che secondo la tradizione dell’area bresciana abiterebbe i boschi montani. Il nome scelto dal gruppo indica già di per sé la scelta di un canone musicale ed espressivo estremamente differente da quello cui si richiamava la testimonianza di Bertelli riportata più sopra.

Il gruppo, certamente uno dei migliori dell’epoca, formato da Bernardo Falconi (violino, ghironda, dulcimer, salterio ad arco, voce), Guido Minelli (organetto diatonico, plettri, tastiere, arpa celtica, percussioni, voce), Marisa Padella (voce, flauti diritti e traverso, tin whistle, percussioni) e Luisa Pennacchio (voce, bodhran, percussioni) è chiaramente ispirato, oltre che dalla riscoperta della tradizione delle valli bresciane, dalla musica celtica cui si è precedentemente accennato e dallo psych-folk di matrice anglo sassone. Come sottolineato dalle parole, riportate nel testo di Berselli, di uno dei membri del gruppo, Guido Minelli, che nel 1975 con Marisa Padella, Placida “Dina” Staro e Bernardo Falconi aveva già fondato il gruppo Il Paese delle Meraviglie.

“Dall’incontro nel 1975 con il giovane violinista Bernardo Falconi e con Placida Staro nacque il gruppo ‘Il Paese delle Meraviglie’ che sviluppò un repertorio ispirato inizialmente al folk revival britannico e irlandese (Incredible String Band, Steeleye Span tra i maggiori ispiratori) e anche alle danze del carnevale di Bagolino. Nel gruppo entrò ben presto anche Luisa Pennacchio alla voce, percussioni e whistle. Per un breve periodo si unì a noi alla chitarra anche Beppe Casciotta, purtroppo prematuramente scomparso. Nella famiglia di mia moglie, originaria di Vobarno in Valsabbia, il papà era violinista e la mamma e gli zii avevano un vasto repertorio di ballate popolari da cui traemmo ispirazione per impostare successivamente un repertorio basato su tale patrimonio italiano. Il gruppo cambiò così il nome in ‘Èl Bés Galilì’ e impostò il proprio repertorio sulla tradizione del Nord Italia, utilizzando però lo stile e gli strumenti tipici del folk revival anglosassone. Nel 1978 iniziammo le registrazioni del nostro disco eponimo, che uscì nel 1980.[…] Alle registrazioni partecipò anche Giovanni Padella al violino, papà di Marisa, con cui facemmo alcuni concerti in Italia e in Francia. Per un certo periodo, dal 1979 al 1981, si unì al gruppo anche Giuliano Illiani, maggiormente noto col nome d’arte Donatello, conosciuto a Brescia durante le registrazioni di un suo disco. Con Giuliano avviammo una collaborazione in quanto anche lui aveva
fatto delle ricerche sul campo simili alle nostre, ma sulla musica tradizionale piemontese, in particolare quella di Tortona. Il gruppo Èl Bés Galilì si sciolse nel 1982”4.

Accompagna il cd un libretto ricco di informazioni, sia sull’esperienza musicale del gruppo che sulla storia e la tradizione dei brani interpretati. Aspetto quest’ultimo che rende ancora più piacevole l’ascolto, contribuendo a inquadrare il suono in un contesto antico e allo stesso tempo ancora estremamente attuale per chiunque non voglia accontentarsi dell’omogeneizzazione dominante e della banale offerta musicale contemporanea.


  1. G. Bertelli, Il canto sociale tra ricerca e nuove canzoni in M. Berselli, Storie Folk, p.26  

  2. in M. Berselli, op. cit. pp. 189-191  

  3. Op. cit, pp. 337-370  

  4. in op. cit., p. 187  

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Voci, suoni e protesta dell’America profonda https://www.carmillaonline.com/2019/05/23/voci-suoni-e-protesta-dellamerica-profonda/ Wed, 22 May 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52633 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono infatti 92 brani registrati, nel corso degli ultimi cinquant’anni, sia durante concerti che manifestazioni oppure “sul campo” ovvero direttamente là dove erano eseguiti (abitazioni private, luoghi di lavoro, campagne, chiese o piazze) da esecutori spesso poco conosciuti oppure anonimi, da New York alla California, dal Kentucky all’Oklahoma, cominciando con le voci dei manifestanti contro Nixon nel 1969 e finendo con quelle dei ragazzi che scendono in piazza contro l’uso indiscriminato delle armi e le stragi nelle scuole, passando per i minatori in sciopero in Virginia e gli studenti nativi americani che rivendicano terra e scuola in Colorado.

E proprio questa caratteristica rivela la grande vitalità e diffusione di una musica popolare che è spesso multietnica, tradizionale e moderna allo stesso tempo. Ovvero proprio ciò che l’autore, ispirato sia dall’opera di raccolta che sia Gianni Bosio in Italia che Alan Lomax negli Stati Uniti e in giro per il mondo hanno impostato (il primo seguendo le indicazioni del secondo durante la permanenza italiana di Lomax negli anni Cinquanta), intende fare con questo lavoro che non esiterei a definire monumentale.

Già docente di Letteratura americana presso l’università “La Sapienza” di Roma, Portelli è presidente del Circolo Gianni Bosio, un’organizzazione indipendente di ricerca, studio e proposta della musica popolare nata a Roma nel 1972. Oltre a ciò l’autore può essere ritenuto uno dei maggiori esponenti della ricerca sulla storia orale a livello internazionale e, sicuramente, uno dei massimi esperti e studiosi della canzone popolare americana. E’ stato collaboratore dell’Istituto Ernesto De Martino e proprio in tale veste ha curato diverse registrazioni e pubblicazioni per I Dischi del Sole.

Proprio dal primo disco curato per quelle edizioni musicali insieme a Ferdinando Pellegrini nel 1969, L’America della Contestazione, provengono le prime 19 tracce del quarto cd, a testimonianza di un interesse e di una passione che hanno accompagnato cinquant’anni della vita dell’autore e della cultura americana, dal folk a Dylan e Springsteen e dal blues rurale e urbano al bluegrass e ai canti di protesta di Occupy Wall Street.

Il testo di Portelli costituisce il quinto capitolo, se così vogliamo chiamarlo, della collana I giorni cantati curata proprio dal Circolo Gianni Bosio e che riprende il suo titolo dalla gloriosa rivista trimestrale di cultura popolare e cultura di massa già pubblicata almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Suddiviso in quattro parti, quanti sono appunto i cd che lo accompagnano, il libro analizza nella prima (intitolata We Shall Not Be Moved, dal titolo di una delle più famose canzoni di protesta e di resistenza dal basso della tradizione folk americana:  non ci sposteremo, non cederemo, come un albero piantato sulla riva del fiume) canzoni di lotta e di carattere sindacale, politico e di rivendicazione delle minranze etniche. Nella seconda (Lonesome Dove. Blues, old time e worksongs), il cui titolo è ispirato sia da una delle canzoni in esso contenute che dal romanzo western più famoso di Larry Mc Murtry (qui la sua recensione su Carmilla), sono esplorate la tradizione della canzone popolare americana e la sua trasmissione, fino ai nostri giorni, attraverso voci singole o corali, quasi sempre poco note o sconosciute del tutto.

Nella terza parte (Amazing Grace. Gospel bianco e nero), intitolata ad una delle canzoni più famose e belle della musica religiosa tradizionale degli Stati Uniti (di cui vengono qui riportate diverse versioni), si analizza la presenza della religione e dei temi biblici nella canzone popolare americana; cosa spesso poco considerata, e ancor meno compresa dalla cultura italiana, nei suoi risvolti sociali sia per la cultura afro-americana che per quella dei lavoratori e dei poveri bianchi.
Nella quarta e ultima parte, infine, (L’America della contestazione. Un viaggio nel 1969 e un ritorno) si ricollegano le esperienze personali dell’autore e quelle dei movimenti contestativi americani, di ieri e di oggi.

Le canzoni raccolte nei cd, commentate una per una nelle pagine del libro e accompagnate dalla riproduzione tipografica del testo di ogni singolo brano, sono sia frutto della composizione di autori conosciuti quanto della rielaborazione o dell’inventiva di autori anonimi o collettivi e costituiscono un mosaico sonoro e culturale di grandissimo impatto.
La qualità del suono varia a seconda delle occasioni e delle situazioni in cui i brani sono stati registrati (dallo studio discografico alla piazza o nelle abitazioni private) e l’umore degli interpreti è importantissimo nel definire l’interpretazione (dall’entusiasmo della lotta al feeling che si crea tra reverendi e presenti alle funzioni religiose fino a Barbara Dane che conclude un brano sbattendo la chitarra sul tavolo avendo dimenticato alcune parole del testo).
Come afferma lo stesso Portelli nella Premessa:

Questi quattro CD rappresentano quasi cinquanta anni di registrazioni americane, da gennaio 1969 ad aprile 2018. Sono registrazioni di qualità variabile perché provengono da contesti diversi (in strada, in casa, in chiesa, nelle manifestazioni, nei concerti…) e ne recano il segno, compresi i disturbi e le incertezze […] E sono state realizzate con gli strumenti disponibili di volta in volta, a seconda delle situazioni e delle tecnologie, dal gelosino domestico, rimediato in casa di Ernie Marrs, agli apparati professionali della sessione con Barbara Dane e Mable Hillary a New York, e tutto quello che c’è stato di mezzo.
Il testo che accompagna i CD è un racconto che ripercorre soprattutto il rapporto più con le persone che con i suoni, ed esplora retroterra e ramificazioni. Molly McSweeney ha fatto un incredibile lavoro di trascrizione dei testi, qualche volta ingarbugliati e biascicati al limite dell’incomprensibilità. Le traduzioni sono funzionali alla comprensione del testo, non parola per parola (specie quando le parole si ripetono, come avviene soprattutto nei brani gospel o di derivazione gospel).

Siamo però, in tutti i casi, all’interno di un’autentica fucina della musica popolare americana e tutta l’opera ce ne restituisce la grandiosa e commovente immediatezza.
Il tutto accompagnato da un corredo fotografico dovuto sia agli scatti dello stesso autore che a quelli di  Giovanni e Vilma Grilli che, come afferma ancora Portelli, si sono sempre rivelati

appassionati viaggiatori per le strade e i suoni di un’America vicina alle “radici d’erba” della vita di tutti i giorni e della marginalità sociale, sempre animata da una creatività irreprimibile che si manifesta nelle piccole cose, nei dettagli, come nei capolavori. La loro America è uno spazio di strade, insegne, finestre, murali, edifici, e soprattutto persone, dove lo straordinario sta nel quotidiano e dove individui ordinari e comuni, con le mani su uno strumento, ci fanno intuire quanta meraviglia può esserci in un essere umano. Si tratta solo di essere, come loro, straordinarie persone normali, o almeno di avere come loro occhi per vederlo e cuore per riconoscerlo.

Un’opera unica nel suo genere, almeno in Italia, e assolutamente irrinunciabile per chiunque si interessi, sia per motivi di studio che per piacere personale, al vasto, complesso e polifonico universo di cui è espressione.

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Una storia di musicisti e suonatori dimenticati https://www.carmillaonline.com/2017/10/25/storia-musicisti-suonatori-dimenticati/ Wed, 25 Oct 2017 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41122 di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo. Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo.
Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business musicale e del mainstream pop giovanile. Che di popolare, specie qui in Italia, hanno poco e molto di più, invece, rivestono i caratteri della programmazione mediatica richiesta dall’industria musicale.

Un testo, quello di Franco Ghigini, che ha richiesto circa vent’anni di lavoro di indagini, interviste e consultazione di archivi, e che si propone come modello di ricerca sia per quanto riguarda la musica tradizionale vera e propria, sia per quanto riguarda la “popular music” nella sua più ampia accezione. In un contesto sociale e culturale, quello italiano, che se da un lato ha visto un grande sviluppo degli studi sulle musiche e le tradizioni popolari tra gli anni cinquanta e settanta, sulla base dei lavori di Ernesto De Martino, Gianni Bosio, Roberto Leydi (tutti variamente influenzati da Alan Lomax, forse il più importante etnomusicologo statunitense insieme al padre John, durante il periodo di assenza dello stesso dagli Stati Uniti a causa della caccia alle streghe del senatore McCarthy), vede oggi una minore attenzione della ricerca (e soprattutto del mercato culturale e librario) nei confronti di tale settore.

Eppure attraverso questo tipo di ricerche la grande Storia (le trasformazioni socio-economiche e culturali avvenute nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, il dramma della Prima Guerra Mondiale, l’avvento del fascismo, la Resistenza e la caduta del regime, i primi anni della Repubblica con tutte le loro contraddizioni politiche e sociali) incrocia realmente la storia individuale, delle piccole comunità e delle classi sociali meno ricordate dalla storiografia ufficiale. E tale incrocio di grande e di “piccolo”, anche se tale il secondo non è, restituisce al lettore non soltanto un curioso quadretto sociale ma, piuttosto, il quadro reale di come tali eventi sono stati assorbiti o rigettati, riletti e trasformati oppure passivamente accettati da una parte consistente della Nazione. Di solito quella inizialmente più rimossa dalle memorie storiche.

Perché un ricerca come quella di cui si parla non ridona solo la voce ai gruppi corali, famigliari e non, oppure musicali, ricordandocene i suoni, gli strumenti e i brani “più celebri” (almeno in loco).
Una ricerca del genere, anche soltanto per questo motivo indubbiamente degna di attenzione, ridona la voce a classi sociali e individui, marginali e non, che spesso soltanto attraverso la spontanea creazione musicale sono riusciti o tuttora ancora riescono a dare voce ai propri sentimenti e alle proprie opinioni.

Dalla fine dell’Ottocento, in sintonia col rinnovarsi d’istanze politiche e culturali, si moltiplicarono ovunque bande, fanfare, orchestre mandolinistiche e società filarmoniche. Esse promuovevano peculiari repertori e nuove consuetudini esecutive: un’espressività popolare “moderna”, diversa da quella propriamente etnica o tradizionale, che durante il Novecento sino al secondo dopoguerra evolverà assumendo susseguenti connotazioni stilistiche.

Nello specifico il volume, promosso dall’Associazione Valtrompiacuore ed edito dalla Comunità Montana di Valle Trompia, illustra le molteplici esperienze musicali di ambito popolare nella prima metà del Novecento a Gardone V.T. e in Valle Trompia, opportunamente contestualizzate a livello provinciale e nazionale.

L’opera, accompagnata da un ricchissimo apparato iconografico, ripercorrendo le tradizioni musicali della Val Trompia, dalla fine dell’Ottocento fino agli albori della musica giovanile o beat degli anni ’60, traccia quindi un quadro interessante, variegato e spesso per nulla scontato delle trasformazioni avvenute in un contesto in cui i grandi cambiamenti del ‘900 si sono sommati alla trasformazione di una comunità inizialmente agricolo-montanara, basata sostanzialmente su un’economia di sussistenza, in cui un precoce sviluppo dell’industria metallurgica e dell’economia monetaria aveva rapidamente portato ad una società in cui il lavoro industriale era diventato predominante. Si potrebbe dire dal coro famigliare alla banda e all’orchestrina, anche se ancora in anni recenti tutte e tre queste tradizionali aggregazioni musicali non erano ancora da considerarsi del tutto scomparse.

Data la particolarità dell’opera si ritenuto giusto dare voce all’autore della stessa, attraverso l’intervista che si propone qui di seguito. In calce alla stessa, e per i lettori interessati, seguono le modalità per poterne acquisire una o più copie.

1) Qual è il senso della ricerca etnomusicologica oggi?
Preferisco parlare di funzione piuttosto che di senso. Ritengo che oggi la funzione sia la medesima del passato, ovvero documentare – evidenziandone specificità e correlazioni – le manifestazioni musicali (i repertori, i contesti esecutivi, le modalità conservative ed evolutive, le valenze antropologiche) di un’area geografica, una comunità, un aggruppamento etnico o sociale. La nobile vocazione di generazioni di etnomusicologi – tuttora valida e meritoria – a valorizzare musiche di tradizione spesso marginalizzate, misconosciute e affatto diverse da quelle cosiddette “colte” e “di consumo”, s’offre oggi anche a una nuova declinazione. È quella della popular music, disciplina che mutatis mutandis s’applica con medesimi obiettivi alle innumerevoli forme della fruizione musicale contemporanea, laddove però viene a cadere la netta separazione fra musiche “di consumo” e “altre”. Risulta invece assai interessante studiare quanto e come la musica – non importa se nel villaggio globale o in un ristretto contesto locale – influenzi i comportamenti sociali e da essi sia informata, quali istanze trattenga e quali compiti assolva. Ritengo perciò che – oggi come ieri – l’etnomusicologia ed egualmente la popular music siano una preziosa opportunità conoscitiva per superare grossolane generalizzazioni e intendere l’espressività musicale, oltre che nelle peculiarità formali ed estetiche, come condizione variegata e mutevole che si relaziona fortemente a ragioni culturali e sociali.

2) Quanto tempo hai dedicato alla tua ricerca e quanto tempo hai impiegato per darle l’attuale veste definitiva?
La ricerca presentata nel volume – in precedenza e parallelamente ne ho condotte altre più mirate e assai meno impegnative – è iniziata nel 1995 e ha avuto nel 1996 un primo riscontro nella mia tesi di laurea in Etnomusicologia presso il D.A.M.S. di Bologna. Negli anni successivi ho proseguito, in modo discontinuo, la raccolta di documenti. Dal 2012 ho ripreso la ricerca con nuove interviste biografiche a testimoni, l’acquisizione di ulteriori fondi fotografici familiari e più approfondite indagini in emeroteca e archivi, concludendola durante i mesi di stesura del volume. Mi piace ricordare come non mi sia mai mancato in questi ultimi anni il sostegno filantropico dell’Associazione Valtrompiacuore, anche promotrice del volume. La ricerca e il volume “Quando suonavano strade e piazze” sono stati perciò il mio cimento e il mio rovello per oltre un ventennio: lunghi periodi a tempo pieno e altri in cui vi riservavo sere e fine settimana; in mezzo, alcune pause per svolgere altre ricerche. Segnalo che oggi l’intero repertorio documentario da me raccolto è consultabile presso l’archivio multimediale S.I.B.C.A. della Comunità Montana di Valle Trompia, editore del volume, e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale A.E.S.S. della Regione Lombardia, ente cofinanziatore il volume.

3) Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano nel realizzare una ricerca di questo genere?
Stiamo parlando di una materia specialistica, quindi non è facile far comprendere il valore e la professionalità del tuo impegno; il riconoscimento, in primis quello economico, è perciò da scordare. Vi sono poi le difficoltà – intendo i tempi e contrattempi – di un approccio inevitabilmente laborioso poiché applicato a differenti fonti documentarie: archivistica, bibliografica, materiale, storico-iconografica e, con ruolo tutt’altro che secondario, orale. Sono convinto che la ricerca etnografica debba configurarsi in servizio alla comunità e negli anni ho sperimentato una metodologia che chiamo partecipata. Essa si qualifica concretamente a più livelli: creazione di rapporti consapevoli coi testimoni titolari delle interviste biografiche, in corso d’opera coinvolti in una vera e propria équipe impegnata attivamente nella ricerca; illustrazione della ricerca in un report che, dettagliando nominativi, incontri e contenuti, sia documento dirimente a futura memoria; restituzione comunitaria che si formalizzi, oltre che in un volume, una mostra o un docufilm, in un archivio multimediale (videoregistrazioni di interviste, scansioni digitali di fotografie) ordinato, catalogato e pubblicamente consultabile. Ho perfezionato così una buona prassi che oggi condivido formando gruppi di storia locale: come si conduce un’intervista biografica, si ordinano e catalogano le fotografie storiche, si produce un archivio. Operare secondo questi criteri comporta sicuramente maggiore dedizione e tempi più lunghi.

4) Da cosa ha avuto origine la tua passione per la musica popolare?
Inizialmente – lo accenno nella prefazione – c’è stata una fascinazione quasi romantica: il guardare le montagne e la valle in cui vivo ed emozionarmi nell’immaginarne il passato, un mondo preindustriale animato da cantori e suonatori di musiche poi dimenticate. C’è stato pure – lo confesso – il piacere di vivere un’avventura quasi elettiva: il paradosso, infatti, è che la musica popolare o di tradizione, il cosiddetto folk, oggi risulta minoritaria e che il folk-revival, se escludiamo felici esperienze d’interazione virtuosa con permanenze propriamente tradizionali, è di fatto pratica di nicchia. Niente a che fare quindi, all’inizio della mia storia, con un’attitudine vorrei dire gramsciana. Un provvidenziale indirizzo è stata la ricerca promossa dalla Regione Lombardia nei primi anni Settanta – presentata nel volume “Brescia e il suo territorio” e in alcuni dischi Albatros – che ha documentato repertori tradizionali del Bresciano quali i canti e le musiche della Famiglia Bregoli di Pezzaze e il Carnevale di Bagolino. Dopo sono arrivati il rigore metodologico e le riflessioni sul ruolo del ricercatore.

5) Qual è stata la tua formazione e quale il percorso che ti ha condotto a diventare etnografo ed etnomusicologo? Quali sono i tuoi maestri ideali?
L’interesse per le musiche di tradizione, coltivato ascoltando dischi, leggendo libri e riviste nonché svolgendo le prime registrazioni sul campo, è cresciuto e ho sentito indispensabile darmi una più solida preparazione teorica. Allora, negli anni Ottanta e Novanta, il D.A.M.S. di Bologna era l’approdo più autorevole. Per me sono state quindi fondamentali le lezioni in università di Roberto Leydi che considero il mio maestro decisivo. Le ho seguite per tre anni: lavorando, scendevo a Bologna per gli esami e appositamente per le lezioni sue e di pochi altri. Ricordo con grande piacere anche quelle del filologo e medievalista Piero Camporesi, un intellettuale straordinario oggi considerato meno di quanto meriti, e quelle di Gianni Celati. Da Leydi ho appreso come l’attenzione metodologica non debba disgiungersi dallo stupore nella scoperta e dalla generosa apertura all’incontro umano. Non posso non citare pure i testi di Ernesto De Martino, illuminanti per comprendere quanta e quale forza interpretativa del mondo stia nei saperi popolari.

6) Tu hai “praticato” la musica popolare, sia come musicista che come organizzatore di eventi e festival. Vuoi parlare di questa tua esperienza?
Nel 1984 ho deciso che mi sarei dedicato alla musica studiandola e suonandola, organizzando concerti, scrivendo di essa. Ho così interrotto, poco prima della laurea, gli studi in medicina e mi sono buttato nello studio della fisarmonica diatonica. Dal 1990 sono stato per alcuni anni docente di questo strumento in Svizzera, presso la scuola di Musica Popolare ACP Valle Verzasca. Per tre anni ho pure partecipato con entusiasmo – suonando un po’ in tutta Europa – al gruppo Bandalpina, tuttora in attività. Negli anni Novanta ho scelto uno studio ritirato, applicandomi alla composizione; alcune mie musiche sono state utilizzate in film, documentari e produzioni teatrali. Nel 2001 ho smesso di suonare poiché non ne ero più motivato. Avevo già chiuso, nel 1997, anche con l’organizzare concerti. In proposito ricordo con soddisfazione il successo delle tre edizioni del festival “Suoni nella Valle”, fra le prime vetrine per l’allora nuova generazione del folk-revival italiano (La Ciapa Rusa, Cantovivo, Baraban, Calicanto, Re Niliu, Riccardo Tesi, ecc.), e delle dieci edizioni della rassegna internazionale “I legni, le pietre… i suoni”, in cui s’è sperimentato un suggestivo cortocircuito fra tradizione, proposte revivalistiche e nuove musiche. Un’intensa attività, quella dell’organizzare concerti, che ho svolto operando nella Cooperativa A.R.C.A. di Gardone V.T.

7) Hai anche sviluppato un grande amore per la musica folk anglosassone, al di qua e al di là dell’Oceano. C’è un collegamento tra i tuoi ascolti musicali e l’impegno propriamente etnomusicologico?
Continuo tuttora ad acquistare dischi e ascoltare molta e varia musica. Del resto mi sono formato come ascoltatore negli anni Settanta. Allora l’unica distinzione, per me e tanti coetanei, era fra musica “leggera” e musica “alternativa”. Nella nostra colonna sonora generazionale convivevano il british blues e il southern rock, la perfetta canzone beatlesiana e le dilatazioni lisergiche californiane, la “cassa in quattro” dell’hard rock e le poliritmie del progressive, i timbri acustici del folk e l’elettronica del kraut-rock tedesco, la canzone d’autore italiana e il jazz. Ho però riservato, ritengo per indole, l’ascolto più attento alle musiche acustiche e al folk-revival anglo-celtico e francese: anche da lì parte l’interesse per l’etnomusicologia.

8) Condividiamo una grande passione per la musica rock nelle sue infinite varianti, ma il tuo libro si ferma nel momento in cui anche nelle valli del Nord Italia iniziano a formarsi i primi gruppi beat. È un’altra storia oppure è la musica popolare che, soprattutto, negli anni Sessanta assume un’altra forma e dimensione?
Non dobbiamo dimenticare che le musiche di tradizione e, in modo più evidente, quelle più genericamente di diffusione popolare dicono di un’espressività che è insieme conservativa ed evolutiva. È tipica dell’elaborazione in ambito popolare una continua rielaborazione che sedimenta e si formalizza in stilemi e repertori, ma che sa accogliere nuove sollecitazioni e aprirsi addirittura a radicali cambiamenti. Sono state due le rivoluzioni musicali nel Novecento, in evidente concomitanza con importanti accelerazioni economiche e sociali. La prima, che analizzo nel volume, s’impone all’inizio del secolo e si rinnova per alcuni decenni in una sorta di onda lunga: è caratterizzata dalla diffusione di nuovi repertori sovralocali e nuove forme di apprendimento – alla trasmissione orale s’aggiunge o sostituisce la notazione musicale – attraverso bande, circoli mandolinistici, corali, accademie filarmoniche. Con questa musica “moderna” cosiddetta popolaresca – a spartito – il suonatore afferma una propria emancipazione culturale e sociale. La seconda rivoluzione, negli anni Sessanta, è quella del beat. Si tratta di una vera cesura: un nuovo linguaggio, nuovi strumenti, una lingua misteriosa – l’incomprensibile inglese cantato dai giovani per imitazione fonetica – e l’apprendimento a orecchio, da radio e dischi, nelle cantine. Anche in questa seconda rivoluzione la musica è perentoria dichiarazione identitaria e generazionale.

9) Ritieni che i dischi e, più in genere, la musica registrata industrialmente abbiano valore documentario anche per l’evoluzione della musica popolare oppure tendano piuttosto a castrare l’originaria creatività dal “basso” che questa esprimeva?
Trovo che la distinzione fra musica popolare e musica “di consumo” vada intesa in modo non riduttivo e dogmatico. Certo, la musica popolare ha usufruito – soprattutto in passato – di precipue modalità espressive, comunicative e conservative. Esiste e presumo sempre esisterà un fare musica che si sottrae alle leggi delle mercato o quanto meno mantiene una distanza critica. Penso peraltro che la separazione sia infine fittizia. Pur considerando l’innegabile impronta orientativa e coercitiva dell’industria musicale, ritengo che a dare forza a un’esperienza – disco o non disco – siano la consapevolezza degl’interpreti e una creatività che si traduca in percepibile e condivisibile visione del mondo.

10) Nel documentare il rapporto con la “grande” Storia, quella delle bande, dei circoli mandolinistici e delle orchestrine ha più significato se analizzata dal punto di vista delle storie personali, dei testi o della scelta degli stili e dei generi musicali seguiti?
Sono convinto – dico peraltro un’ovvietà – che la più provveduta e interessante indagine sulla “grande” Storia debba affidarsi alla dettagliata documentazione di come essa si sia estrinsecata a livello locale. Nelle innumerevoli connessioni comunitarie fra realtà istituzionali e composito ordito sociale, nelle vicende minime di gruppi e d’individui, proprio lì possiamo intendere pienamente le ragioni e le implicazioni di fenomeni sovralocali e nazionali. Nella modalità di diffusione capillare dei repertori, negl’incontri conviviali, nelle osterie e nei teatri di paese, proprio lì ci è dato comprendere il senso dei grandi cambiamenti musicali novecenteschi. Il volume ha una duplice valenza che spero venga considerata: di comunità, offrendo una lettura dell’evoluzione sociale e culturale precisamente gardonese e della Valle Trompia; più generale, poiché racconta di vicende ovunque simili. V’è inoltre la presunzione che questo volume possa offrirsi come plausibile paradigma di un’efficace divulgazione etnografica.

11) Ti occuperai ancora di ricerca sul campo sia in chiave etnomusicale che etnologica?
Con questo volume ho dato compimento a un percorso che ho voluto fosse esemplare di ciò che intendo per ricerca etnografica, nello specifico anche etnomusicologica. Ora sto terminando la curatela di un altro volume, poi penso mi fermerò qualche tempo per capire dove ancora andare. Saranno importanti i nuovi incontri che spero d’avere. Confesso che m’affascina l’idea di raccontare, usando le medesime chiavi d’accesso di “Quando suonavano strade e piazze”, ovvero la dettagliata documentazione locale congiunta all’ampia contestualizzazione sovralocale e nazionale, la rivoluzione giovanile del beat negli anni Sessanta. Ho già raccolto un po’ di documentazione e potrebbe essere un viaggio emozionante come quello di “Quando suonavano strade e piazze”.

Reperibilità del volume
Franco Ghigini
Quando suonavano strade e piazze. Bande, orchestrine e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento
Edizioni Comunità Montana di Valle Trompia, 2017
15,00 Euro

Il volume è reperibile presso i seguenti recapiti
(anche per spedizione postale: 15,00 Euro + spese di spedizione).

Comunità Montana di Valle Trompia
Via Matteotti, 327
25063 Gardone V.T. (BS)
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Nuova Libreria Rinascita
(vendita esclusiva per Brescia)
Via della Posta, 7
25122 Brescia
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Il volume è nel catalogo on-line IBS Internet Bookshop Italia
https://www.ibs.it

Info e contatti con l’autore
ghigini.franco@gmail.com

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La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / seconda parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/29/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-seconda-parte/ Mon, 28 Aug 2017 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40067 di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa Balistreri, Gualtiero Bertelli, la mondina Giovanna Daffini e suo marito Vittorio Carpi (suonatore ambulante di violino), reggiani di Santa Vittoria di Gualtieri, Caterina Bueno, Ciccio Busacca, Sandra e Mimmo Boninelli1 , gli ex Cantacronache2 Fausto Amodei-Michele Luciano Straniero-Emilio Jona-Sergio Liberovici-‘Margot’, Alberto D’amico, Giorgio Gaslini, Sandra Mantovani ; mentre nella fase iniziale d’attività anche Dario Fò ed Enzo Jannacci sono stati canzonieri militanti e gruppi musicali (Canzoniere del Lazio, Nuovo Canzoniere Bresciano, Canzoniere Popolare Veneto, Gruppo Padano di Piadena, Canzoniere Pisano, I Giorni Cantati di Calvatone e Piadena, Canzoniere di Rimini, Canzoniere Popolare di Bergamo, Canzoniere Popolare della Brianza, Canzoniere Popolare Romano, Canzoniere Popolare Modenese) hanno raccontato, affiancato, sostenuto, con ballate, lettere musicali, racconti orali, canzoni, rappresentazioni teatrali, la vita, le lotte, le storie della classi subalterne. Anche Franco Fortini e Umberto Eco sono stati ispiratori pratici di questo progetto. Oltre ai protagonisti, anche alcune delle loro realizzazioni-rappresentazioni hanno inciso sul tessuto socio culturale di quest’Italia. Si sono già ricordati gli allestimenti di ‘Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane’ e ‘L’altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova’. Altrettanto importanti sono stati ‘Pietà le morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964 ‘, ‘Ci ragiono e canto’ (Rappresentazione popolare in due tempi su materiale originale curata da Cesare Bermani e Franco Coggiola) e’La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche’ (Rappresentazione teatrale in due tempi su materiale raccolto da Cesare Bermani, Gianni Bosio, Franco Coggiola con allestimento, testo e interpretazione del Collettivo Teatrale di Parma). Infine, ‘Il bosco degli alberi. La storia d’Italia dall’ Unità a oggi attraverso il giudizio delle classi popolari’ (Rappresentazione in due tempi a cura di Gianni Bosio e Franco Coggiola).

Già sul finire degli anni cinquanta (1957) Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese, pensavano di costituire una struttura stabile e polifunzionale dove far convergere, organizzare, raccogliere e conservare tutto il diverso materiale (libri, riviste, pubblicazioni sparse, dischi, manifesti, spettacoli teatrali-musicali, fotografie e filmati) frutto del lavoro già compiuto e di quello futuro ancora da svolgere. Il “Centro di documentazione e studio delle arti e tradizioni popolari” è stato (anche se solo in bozza) il precursore ed anticipatore dell’ Istituto Ernesto de Martino.

Bosio e Cirese costituiscono ‘legalmente’ l’Istituto il primo gennaio 1966, convenendo di affidare la direzione a Roberto Leydi.3 Divergenze di opinioni e metodologie distinte portano al distacco di Leydi dai due promotori del progetto e rallentano l’inizio delle attività dell’Istituo, che slitta al primo luglio dello stesso anno. Nel 1965 era morto Ernesto de Martino 4 antropologo,5 etnologo,6 storico delle religioni, studioso, professore universitario, uomo di cultura nel senso più ampio del termine. Tra lui e Cesare Pavese intercorre un corposo carteggio relativo a come impostare e gestire la mitica Collana Viola dell’ editore Einaudi (poi passata a Bollati Boringhieri) “collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici7 . La ‘viola’, riuscì a far appassionare lettori ed esperti, veicolando nel paese scienze fino ad allora semi-sconosciute: etnologia e storia delle religioni, conferendo tagli ed impostazioni disciplinari particolari: psicologia religiosa e studio dei dislivelli culturali.

Ma de Martino è stato anche un militante politico che affrontava rilevanti questioni teoriche e ne discuteva con, ad esempio, Pietro Secchia8 , il ‘rivoluzionario eretico’ che dialogava con molti, nonostante gli sciocchi appellativi con cui veniva etichettato: l’ uomo che sognava la lotta armata, l’ultimo stalinista, l’amico di Giangiacomo Feltrinelli (sottinteso in odore di guerriglia).

Gli uomini, le donne, i collettivi citati non sono tutti i protagonisti di questo viaggio culturale-umano-storico-musicale-teatrale-letterario e politico. Ci sono stati abbandoni, distacchi e, in alcuni casi, ritorni. Alcuni hanno compiuto solo un breve tratto di strada comune, altri un tragitto più lungo, i più convinti il percorso completo. Così come non è stato ‘ricostruito’, in maniera totale, tutto il ‘movimento’ che, partito dalle intuizioni-elaborazioni-realizzazioni di Gianni Bosio si è organizzato attorno a lui. Si è voluto, però, offrire un panorama il più rappresentativo possibile.
Oggi, l’Istituto, è un insieme di “…gruppi collegati: dalla Lega di Cultura di Piadena, al Circolo Gianni Bosio di Roma, alla Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino di Venezia, ad altre nate negli ultimi anni come gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo o la recentissima L’altra Cultura di Orta San Giulio9
Di seguito, per completezza parziale, alcuni esempi di ‘eredi’ non diretti, esperienze cioè che, con il lavoro dell’innovatore culturale mantovano, hanno tratti comuni. Ad esso, sostanzialmente, si richiamano o ispirano. Oppure compiono una traiettoria simile.

Eredi ‘paralleli’

Nel dicembre 1963 nasce a Reggio Emilia con un primo numero ciclostilato ‘Il Cantastorie. Rivista di tradizioni popolari’, come continuazione di un saggio monografico di Giorgio Vezzani, fondatore e attuale direttore, dedicato ai cantastorie allora numerosi e presenti sul territorio emiliano. Con l’anno successivo la rivista viene stampata in tipografia e continua fino ad oggi con periodicità semestrale.10

Dopo il 2000 si sono formate, oltre alla direzione centrale di Reggio Emilia, altre due redazioni a Milano e a Roma. Il 2013 segna la chiusura definitiva della storica Rivista per decisione del suo fondatore che continua la sua attività di ricerca. I cinquantanni di attività sono certificati con un convegno. “I cinquant’anni della rivista ‘Il Cantastorie’ (1963-2012)” i cui atti e relazioni sono stati raccolti e pubblicati nel 2012, come quaderno n. 13, da “Il Giorno di Giovanna”.
Ed inizia la pubblicazione di ‘Foglio Volante’ nuovo strumento ‘elettronico’ informativo della rivista di tradizioni popolari “Il Cantastorie on line”11 che continua tutt’oggi. Ultimo numero diffuso è il 13 dell’aprile 2017.

A Montecchio Emilia, paese reggiano al confine con la provincia Parmense, Bruno Grulli stampa, nel maggio1979, il numero 1 di “La Piva dal carner. Foglio volutamente rudimentale di cultura popolare, ricerca, comunicazione e dintorni a 361°”. La prima serie prosegue fino al n. 74 dell’ottobre 2012 che pubblica la ricerca sulle 18 pive emiliane superstiti e che di fatto avviava il nuovo corso della PdC. Nell’aprile del 2013 viene pubblicato il primo numero della nuova serie e viene leggermente modificato il sottotitolo: ‘Foglio rudimentale di comunicazione a 361°’. In questo n. 1 si segnala un saggio di Gianpaolo Borghi: “Due recenti studi sui cori delle mondine”. Nel n. 7 (ottobre 2014) Franco Piccinini, in ‘Non solo folk’, racconta la storia di Ferruccio Reggiani, migrante per reato di antifascismo, e del suo salone da parrucchiere in rue Faubourg St. Denis a Parigi: “Un covo di antifascisti, boxeurs, magnaccia e prostitute”.
Sul n. 8 del gennaio 2015, un contributo di Stefania Colafranceschi racconta di “Sant’ Antuone, Sant’ Antuone, lu nemiche de lu demonie”. “La copertina è dedicata a Sant’Antonio Abate, santo col quale la PdC intrattiene uno speciale rapporto nella ricorrenza del 17 gennaio consumando il “tradizionale” ZAMPETTO che quest’anno raggiunge la 30^ seduta. Lo zampetto è connesso con la pratica della macellazione del suino che culmina in questo periodo secondo l’ operatività di una cultura materiale antichissima. «Tradizionale» è una parola della quale andrebbe chiarito il significato. Gli attribuiamo semplicemente il valore «…che avviene calendarialmente e regolarmente da tanto tempo…». Oggi però si inseriscono nel tradizionale anche cose di recente origine, prive di un reale retroterra e fissate da esigenze commerciali o ludiche e pertanto ci chiediamo quale veramente sia la portata di quella parola. Optiamo dunque per una distinzione tra ciò che deriva dalla «cultura popolare operativa» e ciò che è «qualcosa d’ altro». Le feste patronali, i balli antichi, la fiaba, ecc. a quale categoria appartengono?” E’ quanto chiariscono in presentazione d’opuscolo, GianPaolo Borghi e il direttore di testata Bruno Grulli. Il n. 9 (aprile 2015) titola: “Cantar bisogna. Canto sociale e canzoni partigiane a Reggio Emilia”. Sull’ultimo numero, luglio 2017, Riccardo Varini ricorda cosa si fa “Nelle ultime osterie del medio Appennino Reggiano”.

Nel 1984, Saverio Tutino, giornalista, ex inviato de ‘L’Unità’ e di altra stampa comunista, ha l’idea di fondare a Pieve Santo Stefano (Ar) un luogo in cui accogliere le scritture autobiografiche degli italiani, per concedere il diritto di parola ai ‘senzastoria’. Lo chiama Fondazione Archivio Diaristico Nazionale12 ed istituisce il Premio letterario ‘Pieve’. “Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future. Naturalmente cerchiamo documenti autentici, non rielaborati né corretti da altri”.13 Il premio si svolge dal 1986, ed è giunto alla 33° edizione. Dall’edizione 2012 è diventato Premio Pieve Saverio Tutino-Diritto di memoria, in omaggio al suo fondatore, scomparso nel novembre 2011. L’autore vincitore, viene premiato ogni anno con la pubblicazione del ‘diario’ prescelto. L’efficace motto che accompagna il ‘Premio’ è: ‘sostieni la causa della memoria’.

La ricerca folklorica, contributi allo studio della cultura delle classi popolari’, è la rivista trimestrale che La Grafo Edizioni di Brescia, con direttore responsabile Glauco Sanga, inizia a pubblicare dall’aprile 1980. Il n.1, dedicato a ‘La cultura popolare’, contiene contributi dello stesso Sanga, ‘Due note sulla cultura contadina’, di Diego Carpitella, ‘Comunicazione e mentalità orale’ e Bruno Pianta, ‘Ricerca sul campo e riflessioni sul metodo’. Collaborano a questo primo numero anche, ma non solo, Umberto Cerroni, Alberto Mario Cirese, Roberto Leydi. Il n° 70 (2015) è l’ ultimo numero rintracciato. Dal numero 41 (aprile 2000) ha modificato denominazione, grafica e ‘testata’: non più il precedente titolo per esteso, bensì le iniziali ‘pronunciate’ di R(icerca) e F(olklorica). Ed è diventata ‘ErreEffe’.

A Motteggiana (Mn) dal 1994 si svolgono gli incontri denominati “Il Giorno di Giovanna”, dedicati alla mondina-cantastorie mantovana Giovanna Daffini. Nata, il 22 aprile 1914, esattamente a Villa Saviola frazione di Motteggiana, anche se, dal 1936, dopo essersi sposata con il violinista di strada Vittorio Carpi, si stabilisce a Gualtieri (Re) dove muore il 7 luglio 1969. Contemporaneamente agli incontri, vengono consegnati i premi ai vincitori del ‘Concorso nazionale Giovanna Daffini per testi inediti da cantastorie’. I premiati andrebbero ricodati tutti, purtroppo per esigenze di spazio, e notorietà, citiamo i ‘conosciuti’: Franco Trincale, nel 1997 con ‘La Resistenza’, Sandra Boninelli, nel 2004 per ‘Con te’ e nel 2011 con ‘O rondinella se passi di qua’. Nel 2016 lo speciale premio della giuria è stato conferito a Mehta Jagjit Rai (amico-collaboratore della Lega di Cultura di Piadena) per “melismi di altre terre che narrano il dramma degli emigranti” . Il 4 giugno 2017, durante il 23° Concorso Nazionale sono stati attribuiti questi riconoscimenti. Premio speciale fuori concorso a ‘Lega di Cultura di Piadena’ “nel 50° della sua fondazione”; a ‘I Giorni Cantati’ il “premio continuità e tradizione”. Ancora a Meha Jagjit Rai il 1° premio per “Nessuni mi ha detto spegni la luna’ “tra memoria e ironia”.

Dal 2001, il Comune di Motteggiana-Archivio Nazionale “Giovanna Daffini”, in occasione de “Il Giorno di Giovanna”, diffonde un quaderno monografico con, oltre al programma della giornata, nomi dei vincitori e loro composizioni e contributi e notizie varie sul mondo dei cantastorie e degli ‘ambulanti’ delle note.
Dei ‘quaderni’, giunti al 17 numero (tutti preziosi e dal n. 7, del 2007, con allegato Cd contenente l’esecuzione, da parte degli autori stessi, dei brani vincitori) si segnalano il n. 14 del 2014: “Giovanna Daffini: celebrando il centenario della sua nascita nel ventennale del suo giorno” e il ‘fuori collana’, “Giovanna Daffini. L’amata Genitrice. Le canzoni di Giovanna Daffini dall’archivio di Roberto Leydi (1963-1965)” con Cd allegato. Ristampa della precedente edizione storica registrata da “I Dischi del Mulo”.

L’ultimo richiamo, forse atipico, è riservato ad un gruppo musicale di ‘combat-rock’, i Gang dei fratelli Severini14. Amici e collaboratori di Alessandro Portelli ed Ambrogio Sparagna si rifanno a “Quella scuola cha ha radici nei lavori di De Martino, di Carpitella, di Alan Lomax, di Gianni Bosio fino appunto a ‘I Giorni Cantati’ (la rivista, nda). Portelli è stato e resta il guru dei Gang, una guida spirituale e scientifica”. 15
Del resto “sono solo dei vecchi Comunisti”.

Io e Bosio

Saranno circa vent’anni, forse meno/e proprio a casa mia/c’era il Gianni Bosio/che io chiamavo Giuan/gli occhiali sul naso/gli scivolavano via/fumava e chiaccherava/il Bosio, il mio Giuan/E io per fare il grande/restavo lì a guardare/e mi rompevo le palle/di tutto quel gran parlare/tra il Gianni e mio fratello/e gli altri che erano lì/ma quello che loro dicevano/non potevo capire”.
Così, nella primavera del ’72 (non ancora diciottenne) ad un anno dalla sua morte, ho conosciuto Gianni Bosio. Attraverso quelle ballate che Ivan Della Mea aveva raccolto e inciso nel disco “Se qualcuno ti fa morto”. Dopo averlo ascoltato, e riascoltato, mi sono detto: “non ho capito nulla”. Della Mea era, per me, colui che aveva scritto e cantato “Cara moglie” e proprio non riuscivo a capire quel suo poetare e mischiare Giuan con i socialisti, i Maggi di Costabona e Che Guevara. Ma è stato proprio da lì, dalla prima volta che ho sentito parlare di quell’ animale strano che ho imparato a conoscerlo.

Gianni Bosio, me l’hanno insegnato : Ivan, attraverso le sue canzoni e scritti, Cesare Bermani, il curatore privilegiato della pubblicazione dei suoi scritti postumi, gli animatori della Lega di Cultura di Piadena, con cui collabora strettamente. Per un’altra realtà di base piadanese, il Gruppo Padano, cura la pubblicazione in vinile di “I Giorni Cantati”. Un disco in cui sono raccolte canzoni e comportamenti delle genti che abitano quella porzione di terra racchiusa fra due fiumi, il Chiese e l’Oglio, “paesi come Calvatone, Piadena, Voltido, San Paolo, Canneto, Vho, Bizzolano, Acquanegra con tante osterie, differenti situazioni di lavoro e uomini incerti tra l’antica fatica dei campi e la pressione che viene dai nuovi insediamenti industriali”.

E’ ancora Ivan Della Mea che, pochi mesi dopo (maggio 1972) aver cantato “Se qualcuno ti fa morto”, riprende e prosegue, per me, il dialogo ‘a distanza’ con Gianni. Con lui ripercorre idealmente gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra, quelli della ricostruzione, i bei tempi di buriana (bufera) che contraddistinsero il ’48, gli anni del Fronte Popolare, dell’illusione della sinistra (PCI-PSI) al potere e dell’effige di Giuseppe Garibaldi che, soprattutto nella Padania lombarda ed emiliana, campeggiava ovunque: edifici di città, baite di montagna, cascine, fienili. Con ‘Sent un po’, Giuan te se ricordet…‘ racconta otto anni della nostra storia (‘dalla parte del torto’) dal 1948 al 1956 , e canta le speranze dei giovani che, in qualsiasi occasione e situazione, abbracciati, cantavano Bandiera Rossa ed esternavano le loro aspirazioni. Ma anche allora e proprio in quel mese primaverile “han vint i pret cont i bali e i orazion”. Questo, d’altronde, era stato l’epilogo del 18 aprile 1948.

Il 14 luglio sparano a Togliatti in parlamento. Si è, forse, sull’orlo della guerra civile. Ma a Parigi Bartali taglia per primo il traguardo. Si aggiudica il Giro di Francia e così il vicino di casa che il pomeriggio caldeggiava l’occupazione delle piazze, la sera, ascoltata la radio, urla Viva Bartali! Come ricorda Della Mea, “i democristi han vinciu i elezion”.
Poi, ancora, il ’50, Anno Santo, con Pacelli (Papa Pio XII) che dispensa scomuniche e anatemi anticomunisti, e la statua della Madonna Pellegrina vaga in lungo e in largo per la penisola. Ma il ’50 è anche un anno maledetto : il 29 agosto, in un albergo di Torino, Cesare Pavese muore suicida. Pone così fine al suo difficile ‘mestiere di vivere‘.

Dopo i fatti politici gli eventi ‘naturali‘. Nell’inverno a cavallo tra il ’51 e il ’52 la grande alluvione nel Polesine. Il fiume Po straripa e allaga mezza pianura del basso Veneto. “Case allagate dispersi a centinaia. E poi le foto, Giuan, ti ricordi? Galline e cani e vacche nella fanga, la gente acquattata sui tetti, è un grande silenzio di acqua e di dolore”.
Lo stesso silenzio che abbiamo sentito nel Vajont (9 ottobre 1963).

Ancora la politica nel ’53, con la ‘Legge Truffa’, e sempre in quegli anni, agosto ’56, un’altra tragedia della fame e del lavoro, che in Italia non c’è. A Marcinelle,16 in una miniera del Belgio, perdono la vita 262 lavoratori, 136 sono italiani. Vittime della miniera, dell’emigrazione, della miseria.
Gianni Bosio muore, Mantova, il 21 agosto del 1971. I Compagni che lo accompagnano, ricoprono la sua bara con una bandiera rossa, senza nessun simbolo o marchio di partito.
“L’Unità” ne da solo un laconico annuncio tramite un trafiletto anonimo nell’edizione del giorno successivo. Ivan Della Mea, sempre su “L’Unità”, ma di sabato 17 agosto 1985, sostiene:“Gianni Bosio misconosciuto in vita. Misconosciuto dopo la sua morte. Non dovrebbe succedere, ma succede”.17


  1. Il Nuovo Canzoniere Italiano dal 1962 al 1968 reprint, con prefazione di Cesare Bermani, Istituto Ernesto de Martino-Gabriele Mazzotta Editore, Milano, novembre 1978; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino, Jaca Book-Istituto Ernesto de Martino, Milano, marzo 1997  

  2. Emilio Jona e Michele Luciano Straniero (a cura di) Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Scriptorium & Ddt Associati, Torino, novembre 1995 – Giovanni Straniero-Carlo Rovetto, Cantacronache. I 50 anni della canzone ribelle. L’eredità di Michele L. Straniero, Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana (Ar) maggio 2008  

  3. Ivrea (To) 1928-Milano 2003, cultore di musica contemporanea e jazz, poi ricercatore di musica popolare, nella più ampia accezione del termine. Dal 1973 docente di etnomusicologia al DAMS di Bologna  

  4. Napoli 1908-Roma 1965, nel 1948 pubblica ‘Mondo magico’, testo fondamentale delle sue esperienze e convinzioni. Iscritto al Psi, è segretario di federazione in Puglia, lì approfondisce le ricerche ed indirizza i suoi interessi verso lo studio etnografico delle comunità contadine del meridione d’Italia. Di questa fase sono le sue opere più conosciute: “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia”, “La terra del rimorso” incentrata, quest’ultima, sul fenomeno del tarantismo e realizzata con ricerche sul campo in Salento, la collaborazione di Giovanni Jervis (psichiatra), Letizia Comba Jervis (psicologa), Amalia Signorelli (antropologa culturale) Diego Carpitella (etnomusicologo), Franco Pinna (fotografo) e la consulenza di S. Bettini, medico. Nel 1950 aderisce al Partito Comunista Italiano. Nel 1962 pubblica “Furore Simbolo Valore”, forse il suo contributo più importante alla comprensione degli ‘episodi di costume dell’Europa contemporanea‘  

  5. Amalia Signorelli, Ernesto de Martino, Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro edizioni, Roma, maggio 2015  

  6. Clara Gallini e Francesco Faeta (a cura di) I viaggi nel sud di Ernesto De Martino, fotografie di Arturo Zavattini, Franco Pinna e Ando Gilardi, Bollati Boringhieri, Torino, maggio 1999  

  7. Pietro Angelini (a cura di) Cesare Pavese-Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950. Storia di una battaglia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, gennaio 1991  

  8. Riccardo Di Donato (a cura di) Compagni e amici, Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze, dicembre 1993  

  9. Istituto Ernesto de Martino, Un laboratorio sul mondo oppresso e antagonista, Gli uomini, le opere, i giorni, Il de Martino. Rivista dell’Istituto n. 25 del 2015  

  10. https://www.rivistailcantastorie.it/pagina-iniziale/  

  11. https://www.rivistailcantastorie.it/  

  12. http://www.archiviodiari.org/index.php/home.html  

  13. Salvate dalla distruzione i diari e le lettere, Premio Pieve  

  14. Marino e Sandro Severini (The Gang), Banditi senza tempo, prefazione di Alessandro Portelli, Selene Edizioni, Milano, settembre 2003  

  15. Lorenzo ‘Lerry’ Arabia e Gianluca Morozzi (a cura di), Le Radici e le Ali. La storia dei Gang, Associazione Culturale Musica e Idee – Ferenandel, Ravenna, aprile 2008  

  16. https://www.carmillaonline.com/2016/08/08/marcinelle-8-agosto-1956-carbone-cambio-vite-umane/  

  17. Maurice Mariani (F.A.), L’intellettuale rovesciato, BresciaOggi, 21 agosto 1985  

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La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / prima parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/22/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-parte/ Mon, 21 Aug 2017 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40048 di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ a Bergamo presso il Liceo Classico ‘Paolo Sarpi’, dove conseguirà la maturità. Nello stesso anno della maturità (1943) si iscrive all’Università di Padova: facoltà di Lettere e Filosofia.

A Padova completa il piano di studi sino all’inizio del quarto anno allorché si trasferisce alla Statale di Milano. Proprio a Milano, e in seguito ai contatti con Antonio Banfi, accresce il proprio interesse per la storiografia. A 23 anni, con tutti gli esami superati e la tesi di laurea preparata (“Storia del marxismo in Italia sino al 1862”), decide di non discutere la tesi e non conseguire la laurea. Nel corso della propria attività, Bosio ha dato vita e collaborato a numerose pubblicazioni. Anche durante “l’era fascista”. Sono di quel periodo ‘Noi Giovani’- organo dell’omonimo gruppo clandestino di Acquanegra; ‘Chiaroscuri’ – Bergamo ’40; ‘Eccoci’-Cremona ’43; per l’Editrice «Terra nostra» di Mantova pubblica “Il Manifesto dei comunisti”.

L’attività politico-culturale

Nel dopoguerra collabora a: ‘Terra Nostra’, settimanale del Socialismo mantovano, all’edizione milanese de “L’Avanti!”, all’organo della federazione milanese del Psi ‘Il Proletario’. Nei primi mesi del ’46 è redattore di “Quarto Stato”, pubblicazione fondata e diretta da Lelio Basso. Nell’inverno ’49 ‘fonda’ “Movimento Operaio”. Nel ’62, dopo aver ridato fiato alle Edizioni Avanti!, riesce ad ottenere, per le stesse, una autonomia formale ed economico-amministrativa dal Psi.

Al momento della scissione (1964) del Psi, e conseguente nascita del Psiup, aumenta gli sforzi per ottenere totale autonomia dal partito di Nenni; ciò gli riesce e con i colleghi delle Edizioni Avanti!, che proseguiranno la loro attività con il nuovo nome di “Edizioni del Gallo”, approfondisce e riconduce nell’alveo della cultura proletaria nuovi filoni di ricerca.

Per raggiungere tali obiettivi fonda l’”Istituo Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario” e parallelamente ad esso si esibisce con il “Nuovo Canzoniere Italiano”.
Bosio cercò di coniugare alcune delle sue feconde intuizioni con la realtà concreta del movimento d’opposizione antagonista: “Il lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica”, afferma Bosio. E la cultura è soprattutto quella del popolo: le mascherate, i maggi, ma anche e più semplicemente, il gioco della morra o i canti in osteria con il solo accompagnamento di fisarmoniche e posate da cucina; oppure ancora il ‘fischio della beverata’ attuato dai paesani durante le lotte agrarie condotte cascina per cascina, nella Padania verso la fine degli anni quaranta, e altre iniziative attuate in anni più recenti dagli operai in lotta: l’occupazione delle fabbriche, lo sciopero selvaggio o il ‘salto della scocca’.

L’attività di scandaglio di Bosio è ancorata alla metropoli, alla città, alla classe operaia; questo perché egli partiva dall’assunto che il capitalismo perseguiva ”con coerenza spietata lo spopolamento delle nostre campagne”. Questa teorizzazione trova più chiara esplicazione in un suo scritto del 1966: “Le ricerche e gli studi sul mondo popolare si muovono all’interno del mondo contadino; un mondo destinato a perire in quanto autonomo e determinante della società italiana […] L’egemonia della città sulla campagna, come forma adatta di dominio e di espansione del capitalismo contemporaneo, pone questi studi di fronte ad una scelta: o si riducono a disciplina tradizionale, cioè si atrofizzano, o si trasformano in mezzo per la conoscenza della società contemporanea […] La campagna, dissolta, può servire a far capire la città: ma la città fa giustizia della campagna. La città è dominata, diretta e organizzata dal profitto”.1

Bosio è il precursore – insieme, ma in maniera diversa e distinta, a Danilo Montaldi –2 della ‘ricerca sul campo’, dell’ inserimento della ‘storia orale’, del recupero e riproposizione dei canti popolari (quelli di piazza/strada e d’osteria) operai-contadini, politici e sociali, tra gli strumenti di lotta, sviluppo e progresso, delle classi subalterne.

Nonostante il lavoro politico-culturale del mantovano Bosio e del cremonese Montaldi partisse da presupposti simili, alcuni individuano e colgono nella diversa interpretazione dello stile di lavoro da applicare (non solo pratico ed organizzativo, ma anche politico, metodologico e filologico) le divergenze tra i due ‘intellettuali di campagna’ (questa definizione non vuole essere dispregiativa, nemmeno riduttiva, bensì solo territoriale per indicare i principali luoghi di ricerca: inizialmente Acquanegra sul Chiese, Piadena, Calvatone, Persico Dosimo, Rivarolo del Re, Persichello, Pescarolo, poi il Salento, gli Abruzzi, il Lazio, le zone agricole del nord e sud Italia, per Bosio e collaboratori; tutta la provincia cremonese, ma anche Milano e le città operaie del settentrione per Montaldi).

Così, ad esempio, in maniera molto ‘educata’ Stefano Merli in “L’altra storia”3 coglie e fa notare le diversità e le divergenze tra i due ‘irregolari’ della ortodossia PSI-PCI. “…la critica di Montaldi ha ragione in molti punti, si preclude però la comprensione generale del lavoro di Bosio”. In maniera più ‘volgare’, sia come stile e metodo, la rivista ‘Ombre Rosse’, diretta da Goffredo Fofi, nel suo numero 13, febbraio 1976, sferra un violento attacco a Bosio, utilizzando uno scritto di Danilo Montaldi dell’ autunno 1973 e non destinato alla pubblicazione “Esperienza operaia o spontaneità”.4

Proprio in questa occasione, rispondendo ai rilievi sollevati da Stefano Merli, Cesare Bermani non nasconde o censura le divergenze fra i Compagni padani Bosio e Montaldi, precisando che i rapporti tra i due “… furono aleatori . Montaldi collaborò solo di sfuggita alla rubrica ‘Questioni del Socialismo’ ma nel 1959 si ebbero tra Bosio e Montaldi un paio di incontri e una intensa ma breve corrispondenza epistolare. Dopo di allora i due si ignorarono a vicenda e non si videro più. E’ lo stesso Montaldi a ricordare l’occasione di quegli incontri e l’impressione negativa che ne riportò e che lo spinse a troncare ogni rapporto con Bosio”.

E proprio attraverso le argomentazioni di Bermani si evidenziano le notevoli diversità di vedute dei due organizzatori di culture.
Così, Montaldi, parte dall’inizio: “…si rifece (Bosio, nda) al lavoro svolto da ‘Movimento Operaio’ per illustrare il concetto stesso di cultura delle classi subalterne. In realtà io ero abbastanza critico nei riguardi di ‘Movimento Operaio’: mi era parso che tutti quei ricercatori si fossero buttati a indagare nel passato appunto per non scontrarsi con i dirigenti politici sul presente…Si spinse, allora, in una critica della sociologia a tutto profitto della letteratura e del ‘documento in sé’, rivelando la sua anima assai tradizionale di fronte a questi temi. Che fosse possibile un uso marxista della sociologia nemmeno gli sfiorava la mente (assai diversamente, come è noto, da Panzieri)…” per finire col bollarlo, poi, come “…un crociano di ritorno”.

La rottura definitiva, e finale, si consuma con la mancata (più per scelta di Montaldi che non per volontà comune) pubblicazione, da parte delle Edizioni Avanti!, di “Autobiografie della leggera”.
Dopo di allora, ignorando reciprocamente ciò che facevano, Montaldi continuò a ricercare come se il marxismo fosse un sistema di conoscenza sociologica, Bosio come se il marxismo fosse la concezione materialistica della storia”.

Militante politico5 organizzatore di cultura, dopo essere stato consigliere delegato delle Edizioni Avanti!6 animatore di case editrici non ortodosse (Edizioni del Gallo, Edizioni Bella Ciao), direttore di riviste ‘socialiste’ (Quarto Stato, Il Labriola, Mondo Operaio) poco allineate con la linea ufficiale del Psi, collaboratore di “La Classe” e “Quaderni Rossi”, produttore de “I Dischi del Sole” (il primo disco, DS 1, esce nel 1963) e di spettacoli (all”Umanitaria’ di Milano si allestisce, nel 1962, la prima rappresentazione di “L’altra Italia. Canti del Popolo italiano” curata da Roberto Leydi e Tullio Savi, con Fausto Amodei, Sandra Mantovani e Michele Luciano Straniero. Anche se il più famoso, ed importante, sarà ‘Bella Ciao’, presentato al Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1964, e di cui parleremo più diffusamente) musicali e teatrali; fondatore, con Roberto Leydi, del Nuovo Canzoniere Italiano: inteso come rivista (il primo numero è del luglio 1962) e strutturazione di più ‘individui’ e gruppi musicali-teatrali; con il contributo anche di Alberto Mario Cirese,7 dell’Istituto Ernesto de Martino (1967), promotore delle Leghe di Cultura8 .

Nel quaderno si ricorda che “L’aggregazione di questi gruppi ed il loro modo di intervenire sulle realtà di classe locali erano stati suggeriti da Gianni Bosio, con la sua proposta delle ‘Leghe di Cultura’…”. Oltre alla Lega di Acquanegra sul Chiese (Mn) e Piadena (Cr), al Movimento Culturale Giovanile di Calvatone (Cr), al Gruppo Operai-Studenti-Braccianti di Rivarolo del Re (Cr), al Gruppo Lavoratori Studenti di Persico Dosimo (Cr), si segnalano le “Esperienze di ricerca e intervento del Circolo ‘Gianni Bosio’ a Roma e nel Lazio”: “…per un raffronto fra le finalità, la ricerca e l’attività di un circolo che opera in una realtà urbana, anche se periferica, di una grande città e le leghe e i gruppi di una zona ad economia agricola quali sono le provincie di Cremona e Mantova”.9.

Oltre ai molti articoli e collaborazioni con quotidiani, settimanali, riviste con periodicità variabile, è autore di pubblicazioni significative, ormai difficilmente reperibili: “Giornale di un organizzatore di cultura” (27 giugno 1955- 27 dicembre 1955) del 1962; “Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali su nastro del Fondo Ida Pellegrini” (1966) forse il suo saggio più importante riguardante la cultura orale e una chiave di lettura indispensabile ai 655 nastri del suo fondo di registrazioni, che aveva chiamato con il nome della madre10 ; “L’intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emergenza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione ‘spontanee’ nel mondo popolare e proletario” che viene pubblicato in primo conio dalla Lega di Cultura di Piadena, come ‘quaderno n. 3-maggio 1967’. Ed è un ciclostilato di 183 pagine. La seconda edizione (che, però, è indicata come prima edizione del novembre 1975) è pubblicata-con una nota introduttiva di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio – nella collana ‘Strumenti della cultura di classe’ dalle Edizioni Bella Ciao di Milano, a cura, si precisa, dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio. Il titolo è identico a quello scelto anche per il ‘quaderno’ della Lega di Piadena, con la sola aggiunta: gennaio 1963-agosto 1971, mese e anno della sua morte. Una terza edizione, a cura di Cesare Bermani, è stampata nel 1998 dall’Editoriale Jaca Book di Milano.

“Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina” 11 è l’opera postuma, ed incompiuta, ritenuta “…il primo lavoro che Bosio concepì con l’uso di testimonianze orali e poi di narrazioni orali…era quanto ci voleva per tentare di fare ‘storiografia marxista attraverso la ricerca metodica, lo spirito critico, cioè opponendo il fare, la produzione, alla polemica, all’intenzione’12 . Bermani è stato, oltre che curatore, anche uno dei più stretti collaboratori di Bosio, ha raccolto, riordinato, sistemato gli scritti sparsi lasciati dall’autore e che coprono un periodo molto lungo, dal 1962 sino alla scomparsa (1971) e li ha organizzati per questa pubblicazione.

Sempre Bermani ha curato un’ altra pubblicazione postuma di Bosio: Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato».13 L’attività di ricerca, e le pubblicazioni di quello che può essere definito il ‘biografo ufficiale’ di Gianni Bosio, sono numerose ed abbracciano un ampio terreno d’indagine, per questo si rimanda alla biografia e bibliografia completa riportata nel suo sito web.14 Voglio, soltanto a titolo illustrativo dei vasti interessi di Bermani, ricordare alcuni suoi lavori ‘esemplari’. Il monumentale,15 Pagine di Guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia.16

Anche la ricostruzione storico-politica delle vicende relative alla ‘Volante Rossa’, effettuata tramite i resoconti di quotidiani e periodici dell’epoca ma, e soprattutto, grazie alle testimonianze orali dei protagonisti di quelle vicende, è un’altro esempio di ‘storia militante’. Una prima bozza di lavoro con il titolo La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) è stata pubblicata sul n. 9/10, inverno 77/78, della rivista Primo Maggio. Ampliata e più strutturata diventa un libro nel 1996,17 con una ristampa nel 2009.18

Un altro argomento di scottante realtà storica e storiografica è quello che, Bermani, affronta in Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista. Titolo e sottotitoli chiariscono e spiegano già tutto19 . Sempre in ambito strettamente politico sono anche queste due pubblicazioni: Gramsci raccontato, testimonianze raccolte da Cesare Bermani, Gianni Bosio e Mimma Paulesu Quercioli,20 e una sorta di riedizione, molto ampliata sia nei testi che nelle testimonianze audio-sonore (due cd allegati) è Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria21 con nuove testimonianze.
Completamente diversa rispetto a quelle appena ricordate è la segnalazione relativa ad una ricerca particolare. Si tratta di “Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia”22 .

L’ultimo rimando è relativo ad un vero e proprio manuale pratico-teorico-ideologico di cos’è, e come si conduce, ‘la ricerca orale’: “Introduzione alla storia orale”23 . Due volumi in cui, oltre ad indicare qual’è la metodologia da utilizzare, si dimostra che “…la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è colta per mezzo della comunicazione orale…la comunicazione orale resa permanente dal disco è ‘di più’ della cultura scritta…”.24

I compagni e collaboratori di Bosio furono numerosi. Con alcuni percorse un tratto di strada, poi le vedute e i ragionamenti si divaricarono. Purtroppo non è possibile dedicare attenzione a tutti loro. Oltre a Bermani, i più stretti e fedeli, sicuramente da ricordare, sono Luciano Della Mea, da sempre e per sempre al suo fianco, Franco Coggiola, autore di numerose ricerche a quattro mani condotte proprio con il virtuoso del magnetofono. Le più interessanti e significative sono quelle relative ai ‘Maggi’: “L’avvento della primavera, della stagione che apre un nuovo anno di vita per la campagna e i suoi lavori, è festeggiato nel mondo contadino in vari modi, tutti sostanzialmente pagani e laici: riti di propiziazione, di iniziazione, di fertilità (della terra e della donna) che hanno in comune, nonostante le notevoli differenze, la denominazione di “Maggi”.25

Un altro compagno-collaboratore, ma anche amico e, quasi, compaesano è Giuseppe Morandi (in realtà, Morandi è di Piadena (Cr) e Bosio di Acquanegra (Mn) ma i due piccoli paesi confinano, le abitudini e tradizioni si mischiano, inoltre sono avvicinati da due corsi d’acqua: il fiume Chiese che scorre in territorio mantovano, e proprio a metà strada tra i due centri abitati, si getta nell’Oglio, fiume che, in quel tratto, scorre nel territorio cremonese di Piadena) che, insieme a Gianfranco ‘Miciu’ Azzali (di Voltido-Cr) e Mauro Cesini, costituisce ufficialmente (14 aprile 1967) la Lega di Cultura di Piadena.26 La più longeva, tutt’ora operativa e che ha all’attivo numerosi ‘quaderni’, quasi tutti realizzati tramite interviste, testimonianze e racconti ‘orali’. Nel nucleo fondatore sono da annoverare anche Pierino Azzali ed Eugenia Genia Arnoldi in Azzali. Quest’ultima, attrice in Novecento di Bertolucci dove si esibisce in una struggente ‘Quando Bandiera Rossa si cantava’ .27

Giuseppe Morandi è anche autore di “Spoleto 1964, Bella Ciao. Il diario”,28 in cui, puntualmente, si raccontano le vicende e le polemiche relative allo spettacolo che aveva come sottotitolo “Un programma di canzoni popolari italiane”, presentato, quell’anno, dal Nuovo Canzoniere Italiano al Festival dei due Mondi. Lo ‘scandalo’ scoppia quando Michele Luciano Straniero, interprete di “O Gorizia tu sei maledetta”,29 canta queste strofe: “Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù”.

Altro cooperatore del ‘socialista anomalo’, decentrato (solo geograficamente) rispetto ai precedenti, è Alessandro Portelli. Quando Bosio lo introduce nei suoi ambiti organizzati, lo presenta così: “E’ romano, ma è serio”. Un complimento che, forse, è anche una critica. Non a lui, ma a certi ambienti della capitale. Portelli è autore di una minuziosa ricostruzione storico-documentale delle atrocità commesse dai nazi-fascisti a Roma con la strage delle Fosse Ardeatine (335 trucidati il 24 marzo 1944) e conseguente smascheramento della mistificazione tentata ed orchestrata, e a tutt’oggi non ancora esaurita, da nazisti, fascisti, reazionari e revisionisti vari, di attribuire la responsabilità politico e morale dell’eccidio al Gap di Roma (Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Gianfranco Mattei, Marisa Musu, Luigi Pintor) autore di un’azione di Resistenza armata (atto di guerra) contro una divisione di SS italiane, l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment ‘Bozen’ appartenente alla Ordungspolizei (polizia d’ordine) e composto da reclute altoatesine, compiuto in via Rasella il 23 marzo, in cui persero la vita 33 militi nazi-fascisti. Con questo documento storico, L’ordine è già stato eseguito30 in cui già dal titolo si capisce la sostanza e dimostra come le due cose non siano collegate.

Portelli, con Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, il Canzoniere del Lazio, fonda a Roma, nel 1972, il ‘Circolo Gianni Bosio’. Animatore e direttore della rivista “I Giorni Cantati. Storia-Memoria-Immaginario”, bollettino di informazione e ricerca sulla cultura operaia e contadina.
E’ stato lasciato per ultimo colui che si può definire il ‘pupillo’ di Bosio, l’allievo preferito: Ivan Della Mea. Sicuramente, Della Mea considera Bosio il suo mentore prediletto. Con il quale litiga ma poi, come un figliol prodigo laico, torna alla pratica tratteggiata da Bosio e alla fruttuosa collaborazione-contaminazione.
Coggiola e Della Mea sono stati direttori della creatura più importante del ricercatore mantovano, l’Istituto Ernesto de Martino.

Storici, politici, militanti e anche i collaboratori più vicini, attribuiscono a Gianni Bosio la qualifica di ‘marxista critico’, formato e cresciuto, cioè, nel solco teorico tracciato e sviluppato da Rosa Luxemburg e Karl Korsch. Ma questa collocazione è abbastanza strana e stride con quanto Bosio scrive e teorizza già nel gennaio 1948. Così, dopo aver ribadito che “Oggi è la classe che, come classe dirigente, deve imparare a pensare in termini di massa…Deve agire in termini di massa se vuole trasferire la democrazia su un terreno nuovo, sostanziale oltre che formale, sociale oltre che politico” .31 Bermani, in ‘Attualità di Gianni Bosio’,32 a proposito di questo ‘pensiero’, chiarisce: “Un moderno partito marxista-leninista cioè, basato sul centralismo democratico, che alle sezioni territoriali affianca organizzazioni capillari (nuclei di strada, nuclei di fabbrica)”. Quanto di più ortodosso e in linea con la teoria e la pratica della maggior parte dei Partiti Comunisti, non solo ‘occidentali’.

Anche Emanuele Gino Tortoreto (Milano, 1928-2012), esponente milanese socialista, ricorda: “La sua produzione intellettuale […] e la sua attività politica […] credo che si siano manifestate anche nel richiamo ossessivo al partito (…) al partito e alla sua funzione…”.33

(Fine della prima parte – la seconda sarà pubblicata su Carmilla il 29 agosto)


  1. Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato, introduzione di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio-collana ‘Strumenti della cultura di classe’-a cura dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio, Edizioni Bella Ciao, Milano,
    novembre 1975  

  2. Cremona 1° luglio 1929-Val Roia (Im) 27 aprile 1975. Autore, con Franco Alasia, della prima ‘scandalosa’ ricerca sugli immigrati (meridionali) in Italia, Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Prefazione di Danilo Dolci, Feltrinelli, Milano, marzo 1960; D. Montaldi, Autobiografie della leggera. Vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute raccontano la loro vita, Einaudi, Torino, dicembre 1961; D. Montaldi, Militanti Politici di base. Testimonianze di vita politica nella Bassa padana, dalle origini del socialismo a oggi, Einaudi, Torino, aprile 1971; D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970 (postumo), Edizioni ‘Quaderni Piacentini’, Piacenza, dicembre 1976, ristampato, per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), marzo 2016. Per la cronologia completa della vita e delle opere, nonché bibliografia, vedi D. Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, edito, per conto dell’Associazione Culturale Centro d’Iniziativa Luca Rossi-Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), luglio 1994  

  3. Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Opuscoli marxisti, Feltrinelli, Milano, aprile 1977  

  4. Cesare Bermani (a cura di) Bosio oggi: rilettura di una esperienza. Testimonianze di Gaetanò Arfè, Cesare Bermani, Eugenio Camerlenghi, Alberto Mario Cirese, Luciano Della Mea, Roberto Leydi, Stefano Merli, Tullio Savi, con un’appendice di scritti di Gianni Bosio, Provincia di Mantova, Biblioteca archivio, Casa del Mantegna, Istituto Ernesto de Martino, Mantova, dicembre 1986. Atti del convegno tenuto al Teatro Accademico del Bibbiena di Mantova, il 3-5 ottobre 1975.  

  5. Cesare Bermani (a cura di), Cronologia della vita e opere, Istituto Ernesto de Martino, http://www.iedm.it/istituto/gianni-bosio-cronologia-della-vita-e-delle-opere/  

  6. Paolo Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio 1953-1964, Biblion Edizioni, Milano, novembre 2011  

  7. Antropologo che scriveva per ‘L’Avanti!’, ‘Paese Sera’, ‘Calendario del Popolo’, ‘Mondo Operaio’, e insieme al padre Eugenio aveva curato la pubblicazione di “La Lapa (‘come l’ape quand’è primavera’) Argomenti di storia e cultura popolare” e svolge attività di assistente volontario presso la cattedra di Etnologia, per la quale collabora anche con Ernesto de Martino  

  8. La Lega. Dieci anni di attività delle leghe di cultura e dei gruppi del cremonese e del mantovano, Quaderni della lega di Cultura di Piadena (Cr), serie terza, a cura di Gianfranco Azzali, Enio Camerlenghi, Gioietta Dallò, Giuseppe Morandi, Silvio Uggeri, n. 5-luglio 1976-ciclostilato in proprio  

  9. Premessa a La Lega, Quaderno n. 5 della Lega di Cultura di Piadena, cit;  

  10. C. Bermani, Cronologia della vita e delle opere, cit;  

  11. Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, Associazione Postumia Centro Studi e Ricerche di Scienze Lettere Arti, Gazoldo degli Ippoliti (Mn), Quaderni di Postumia 1, stampato da Publi Paolini in Mantova, aprile 2016 – Prima edizione a cura di Cesare Bermani, De Donato, Bari, settembre 1981  

  12. C. Bermani, Gli inizi di una nuova storiografia sociale, in E Gianni Bosio disse, Il de Martino. Rivista dell’Istituto de Martino, n. 19-20, Firenze, marzo 2009  

  13. Cesare Bermani (a cura di), Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato», Mantova-Gianluigi Arcari editore Piàdena-Lega di Cultura, ottobre 1981  

  14. http://www.omegna.net/bermani/  

  15. 1.614 pagine di documenti e testimonianze dirette, raccolte con il magnetofono, distribuite in tre volumi, più 108 pagine (4° volume) di fonti ed indici, e controverso per le polemiche che ha alimentato, tanto che il secondo volume è uscito a distanza di un quarto di secolo rispetto al primo  

  16. Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia, volume I (Cap. I-XXXV) Sapere Edizioni, Milano, dicembre 1971; volume II (Cap. XXXVI-LII) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 1995; volume III (Cap. LIII-LXXIV) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, dicembre 1996; Volume IV, Fonti e indici, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 2000  

  17. Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa, con una testimonianza di Eligio Trincheri, prefazione di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, ottobre 1996  

  18. C.Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di un ‘gruppo di bravi ragazzi’, Archivio Primo Moroni-Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), maggio 2009  

  19. Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista, Bollati Boringhieri, Torino, giugno 1998  

  20. C. Bermani (a cura di), Gramsci raccontato, Istituto Ernesto de Martino, Edizioni Associate, Roma, novembre 1987  

  21. C. Bermani, Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria, Archivio Primo Moroni e Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) edito da Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), dicembre 2007  

  22. Cesare Bermani, Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia, Edizioni Dedalo, Bari, novembre 1991  

  23. Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale, vol. I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di merito, Odradek, Roma, novembre 1999 ; vol. II, Esperienze di ricerca, Odradek, Roma, giugno 2001  

  24. G. Bosio, L’Italia nelle canzoni, Catalogo I Dischi del Sole prodotti dalle Edizioni del Gallo, Milano, maggio 1968  

  25. Franco Coggiola, in Ivan Della Mea, Se qualcuno ti fa morto -DS 1009/11, libretto allegato al disco omonimo, marzo 1972  

  26. La Lega, cit.; http://legadicultura.it/  

  27. Quando “Bandiera rossa” si cantava, trenta lire al giorno si ciapava e adesso che si canta “Giovinesa” si crepa dalla fame e dala debolessa  

  28. Giuseppe Morandi, Spoleto 64, Bella Ciao, n. 20 dei Quaderni della Biblioteca Popolare di Piadena, Piadena, gennaio 1965; G. Morandi, Spoleto 1964. Bella Ciao. Il diario, Il de Martino, supplemento al n. 21/2012, Istituto Ernesto de Martino, Il Nuovo Canzoniere Italiano, Lega di Cultura di Piadena, Firenze, febbraio 2012  

  29. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  30. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, febbraio 1999  

  31. G. Bosio, Scritti dal 1942 al 1948, cit.;  

  32. Bosio oggi: rilettura di una esperienza, cit.;  

  33. Emanuele Tortoreto, Gianni Bosio: democrazia di base e tradizione socialista, in Socialismo di sinistra. Sei contributi nella storia italiana ed europea, Milano, Quaderni del Centro Rosa Luxemburg, n. 1, 1983  

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Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà https://www.carmillaonline.com/2017/04/27/selvaggia-incontenibile-voglia-liberta/ Wed, 26 Apr 2017 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37879 di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere [...]]]> di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.

Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria. Naturalmente, facendo sì che anche gli ultimi e più autentici testimoni degli eventi, delle rivolte e delle lotte giungano al termine del loro percorso biologico senza avere potuto lasciare una propria testimonianza diretta, anche quella apparentemente più condivisa potrà in seguito essere manipolata dagli storici e dagli ideologi irreggimentati nei diversi tipi di Presente.

Se vogliamo, lo stesso destino è stato riservato alle memorie dirette di coloro che hanno cercato, e magari cercano tutt’ora di testimoniare, lo svolgersi degli eventi e le cause delle scelte degli attori coinvolti. Tipico ne sia, per tutti, il ritardo con cui un testo di rilevanza assoluta, rispetto al dramma dei campi di lavoro, prigionia e sterminio tedeschi, come “Se questo è un uomo” di Primo Levi sia stato accolto con un ritardo incredibile nella cultura, nella vita politica e dalla “grande” editoria italiana. Ma di Levi si tornerà a parlare in chiusura di questa recensione.

E’ rimasta così la via della memoria romanzata oppure della storia romanzata che, anche là dove si è espressa come nuova epica italiana, ha continuato e continua a promuovere una sottomissione della memoria di classe alle esigenze della Storiografia ovvero della Politica. Ci si arrende infatti, anche involontariamente, al fatto che, non potendo ormai contrastare il peso dei documenti ufficiali scritti (anche le interpretazioni dei partiti e dei loro leader e rappresentanti fanno parte di questi, soprattutto qui in Italia e negli ambienti delle sinistre, tradizionali e non), occorra adottare espedienti destinati a ricostruire il passato attraverso varie e differenti forme di complotto oppure per mezzo di colpi di scena attraverso i quali, troppo spesso, la testimonianza autentica rischia di affogare tra le esigenze dell’intreccio.1

Il testo di Silvio Borione, classe 1930 e testimone giovanissimo della lotta antifascista torinese, e di Giaka, militante del CSOA Gabrio di Torino e autore del romanzo Le orme del lupo (pubblicato da Agenzia X nel 2014),2 sfugge a queste trappole e ci dona una lettura appassionante e, per gran parte, autentica di eventi che, nonostante gli sforzi messi continuamente in campo per rimuoverli o ridimensionarli, occorre ancora conoscere e approfondire di più.

Sicuramente la narrazione e le memorie del vecchio Biund hanno costituito per Giaka, così come per i giovani compagni che continuano a frequentarlo su quelle colline su cui si è ritirato da tempo, un autentico motore di ricerca e sviluppo, sia per la ricostruzione della Resistenza operaia torinese, con tutti i suoi eroismi e i suoi errori, sia per la comprensione di una realtà storico-politica molto più complessa e violenta di quella trasmessa dalla vulgata dominante.

Non nascondo di aver letto il libro in un sol giorno, 170 pagine dall’alba al tramonto, e di aver tratto dalle sue pagine momenti di commozione, di rabbia e di riflessione.
Proprio per questo vorrei qui sottolineare i principali punti di forza del testo e lasciare alla fine i suoi pochi punti discutibili e sicuramente non dovuti ai due co-autori .

Il primo elemento di forza è quello di spogliare la lotta antifascista condotta dal basso dal prevalere di quegli elementi morali ed ideologici che, pur avendo probabilmente contraddistinto le scelte degli intellettuali e dei militanti dei vari partiti antifascisti, predominano nella ricostruzione della lotta partigiana. Che invece fu condotta a partire spesso dalle esigenze quotidiane (la fame così spesso ricordata e centrale nello sviluppo delle vicende narrate e sottolineata benissimo dal titolo stesso), di classe (la lotta per il mantenimento dei miglioramenti salariali, promessi e mai realizzati dal regime e dagli imprenditori, che costituì il motore decisivo per gli scioperi della primavera del 1943) e da quello spirito delinquenziale e di ribellione giovanile che manifestava quella selvaggia ed incontenibile voglia di libertà citata nel testo3 e nel titolo di questa recensione.

Il secondo è costituito dal rivelare fino in fondo la brutalità dell’azione repressiva dello Stato. Sia nella sua versione repubblichina, fascista e nazista, sia in quella dell’interregno trascorso tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’Armistizio firmato dal Re e dal maresciallo Badoglio (8 settembre 1943). “Intorno al fuoco la sera si parlava solo più della caduta del fascismo e degli scioperi, le voci si rincorrevano ed era difficile fare un bilancio.La Spezia, Sesto Fiorentino, Firenze: morti e feriti. Milano, Torino: ancora morti e feriti. Bari: 23 morti e 60 feriti. Al carcere San Vittore di Milano sulla folla che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici l’esercito di Badoglio sparava con i carri armati, uccideva, feriva e fucilava quattro manifestanti sul posto; al carcere Regina Coeli di Roma sedava una rivolta con un massacro e lo stesso faceva a Reggio Emilia, in un elenco che non sembrava finire mai. L’intero paese si stava sollevando e il governo Badoglio aveva deciso di affogare le proteste nel sangue, con il tempo e grazie alla stampa clandestina le notizie si facevano chiare e ai primi di settembre la realtà era sulla bocca di tutti: il nuovo governo, nel giro di cinque giorni, aveva ucciso 93 operai, ne aveva feriti 536 e arrestati 22764

Il terzo è dato dal descrivere una realtà organizzativa che, nei quartieri operai di una Torino impoverita, bombardata e passata dai seicentomila abitanti di prima della guerra ai duecentomila dell’ultimo anno, nasce. ancora prima che dalle direttive organizzative di partito, da un senso di solidarietà e di appartenenza in cui la comunità operaia accoglie anche chi operaio e lavoratore non è e, magari, non è neanche piemontese, ma è solamente, come tutti, vittima di un regime politico ed economico capace soltanto di sfruttare e reprimere un’umanità intesa quasi solo come forza lavoro. Fatto sottolineato particolarmente nelle pagine dedicate ai maltrattamenti e alle condizioni di lavoro all’interno del carcere giovanile Ferrante Aporti, in cui le condizioni non erano poi così distanti da quelle dei lager.

Un’umanità in cui le discriminazioni di genere non esistono e in cui le donne sono sempre in prima fila nelle lotte e nel soccorso ai combattenti o alle vittime della repressione. Spesso contro le stesse direttive del PCI.5

silvio-borione-con il padre Il quarto è quello di essere capace di descrivere e ricordare un’epoca di lotte e scelte in cui l’interazione tra le differenti generazioni, di cui il rapporto tra Silvio e il padre Eugenio6 è altamente sintomatico e rappresentativo, non solo era motivo di presa di coscienza e di crescita politica, ma anche di reciproco rispetto. All’interno della quale le piole, le caratteristiche vinerie torinesi (prima dell’avvento dei wine bar e dei locali da aperitivi, rimasero un elemento centrale di scambio e di incontro fino agli anni settanta.

Poi c’è la descrizione di Torino, città operaia per eccellenza, con i suoi borghi e le sua barriere (San Paolo, Nizza, Milano, Barca e tutti gli altri) così inseparabili dalla storia delle sue lotte e della sua netta formazione antagonista nei confronti delle classi al potere. Una città che con la sua fabbrica diffusa e la presenza enorme di lavoratori dell’industria ha creato condizioni di resistenza, riflessione e crescita politica assolutamente impensabili in altre città italiane nel corso dei primi settant’anni del Novecento.

Lotte che partono dalle fabbriche e dai quartieri operai che i partiti e i movimenti organizzati dovevano sapere interpretare prima ancora che dirigere e che avrebbero formato una classe di intellettuali, poco appariscenti ma decisi, che vanno da Antonio Gramsci, con le sue prime riflessioni sulla città-fabbrica, a Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Tutti diversi tra loro, ma egualmente e strenuamente impegnati in prima linea nella lotta contro il fascismo.

La forza delle memorie di Silvio sta, infine, anche nella sua capacità di ricordare la partecipazione alla Resistenza anche delle formazioni spesso eluse dalla storiografia piccista; ad esempio quella filo-bordighista, o presunta tale, di Stella Rossa, che aveva spinto con le sue audaci azioni per un’insurrezione prettamente proletaria della città già nel febbraio del ’45, oppure quelle anarchiche. O nel sottolineare l’amarezza con cui gli operai e i militanti che avevano difeso a rischio delle loro vite e con scarsi mezzi e ancor meno armi gli stabilimenti FIAT di Mirafiori dai tentativi di saccheggio tedeschi, videro sfilare migliaia di sappisti ben armati in piazza Vittorio nelle giornate successive alla Liberazione (avvenuta a Torino con un giorno di ritardo rispetto ad altre città italiane).

Oppure nel ricordare ancora che la vendetta non è un gioco e che la violenza non si può mai usare a cuor leggero e senza provare un senso di nausea per il sangue versato, anche dal nemico più odiato. Così come capita a Silvio nell’assistere all’eliminazione dei collaboratori e degli ultimi, invasati sostenitori del regime che giravano per la città cercando di colpire alle spalle chiunque capitasse loro a tiro. Un triste, orrendo rituale di sangue in cui la sete di vendetta non poteva bastare a sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche.

Le uniche note non del tutto positive, riguardano il fatto che, forse, avrebbe dovuto essere maggiormente rispettata e riprodotta la lingua del narratore. Anche se qui e là il dialetto piemontese e la parlata torinese sono presenti con alcune frasi idiomatiche e modi di dire molto diffusi, la lingua del testimone, lasciato libero di esprimersi, avrebbe arricchito ancora di più il lavoro di ricostruzione della memoria di classe portato avanti dai due autori. Così come ha saputo fare benissimo Luca Baiada nel ricostruire le memorie della strage del padule del Fucecchio del 1944.7

Ma, in questo caso, credo che la scelta sia stata prettamente editoriale, così come quella di voler inserire nel testo discorsi e comunicati, oltre che informazioni, che se da un lato servono a storicizzarlo ed inquadrarlo nel periodo storico-politico in cui si svolgono i fatti, dall’altro rischiano di renderlo talvolta retorico ed eccessivamente dipendente dalla vulgata del Partito Comunista. Ma, queste ultime, sono osservazioni realmente marginali e vengono qui inserite proprio nella speranza che un editore attento come Red Star Press in futuro abbia più coraggio nel liberare la memoria di classe dai vincoli della riconoscibilità accademica o partitica.

Per Primo Levi e i partigiani ebrei caduti nella lotta di Liberazione
Nelle ultime pagine del testo, nella Postfazione, alcuni compagni e compagne del CSOA Gabrio ricordano le parole di Primo Levi quando sottolineava come la partecipazione alla lotta di Liberazione derivasse anche da “Un muto bisogno di decenza”. Ecco, a questo bisogno di decenza vorrei richiamare tutti coloro che, da Paolo Mieli al PD passando per quasi tutti i media nazionali e l’Associazione Amici di Isrele, in occasione del 25 aprile hanno sentito il bisogno di sbandierare per l’ennesima volta l’apporto della Brigata Ebraica alla lotta di liberazione italiana.
Dimenticano, i signori, alcune fondamentali verità che cercherò qui di riassumere brevemente.

Nell’anteporre, infatti, la “memoria” della Brigata Ebraica alle altre vicende della Resistenza italiana non solo si compie un’opera mistificatoria, superata per volontà di rimozione storica e superficialità soltanto dai militanti del PD sfilati con le bandiere e le magliette azzurre dell’Unione Europea in occasione del 25 aprile, ma si offende anche la memoria dei numerosissimi (circa 2000) ebrei “che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte. La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; otto furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg.8

Tutti parteciparono alla Resistenza oppure caddero combattendo nelle diverse formazioni partigiane, dalle Brigate Garibaldi a Giustizia e Libertà, escluse forse le formazioni cattoliche.
Anteporre ancora a questo semplice fatto l’”importanza” della Brigata Ebraica (costituita in Palestina il 20 settembre 1944 sotto il comando britannico e inviata a combattere sul fronte italiano e austriaco dopo lo sbarco degli Alleati) dimentica che questa operò sotto il comando di uno degli schieramenti imperialisti in campo e senza alcuna autonomia operativa o di scelta politica (a meno che non si parli di scelta politica a proposito dell’idea sionista, già esposta dal fondatore del movimento Theodor Herzl, di voler rappresentare la diga a difesa dei “valori” occidentali in Medio Oriente)

La Brigata venne inviata nel novembre 1944 sul fronte italiano. Sbarcata a Taranto, entrò in linea dal 3 marzo 1945 […] La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche. Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento “Friuli” contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica. Nel corso del ciclo operativo in Italia tra il 3 marzo ed il 25 aprile 1945 la Brigata Ebraica ebbe 30 morti e 70 feriti 9

Il peso del suo contributo fu pari, ma inferiore per numero di caduti e feriti, a quello di tutti gli altri contingenti militari presenti sul suolo italiano in chiave anti-tedesca durante la cosiddetta campagna d’Italia ovvero senegalesi, marocchini, francesi, polacchi, inglesi, americani e via dicendo e non è possibile oggi elevarla al di sopra né degli altri militari caduti né ancor meno al di sopra degli ebrei e dei partigiani caduti nel corso della Resistenza armata al fascismo e all’imperialismo tedesco. Tutti anti-fascisti, comunisti, socialisti e azionisti ancor prima che ebrei.

Guidetti Serra Levi Cortina40 Lo spirito che animò quei combattenti lo riassunse bene Primo Levi10 nella sua Prefazione del 1972 a “Se questo è un uomo”, dedicata ai giovani: “E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri. Istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in alcuni altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo”.

Spirito che appartiene a Silvio Borione sicuramente, ma non a coloro che della Brigata Ebraica, del sionismo imperialista e della vergognosa occupazione dei territori palestinesi hanno fatto la loro bandiera.


  1. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare nelle recente letteratura italiana la rigorosità e la fedeltà nella ricostruzione sia degli eventi storico-politici e delle lotte che della mentalità di classe che li ha accompagnati espresse da Valerio Evangelisti nella sua trilogia Il sole dell’avvenire oppure da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve  

  2. Dal quale mi aspetto ancora, come ebbe a promettermi durante la manifestazione Una montagna di libri contro il TAV tenutasi a Bussoleno nel 2014, una narrazione adeguata delle vicende torinesi di quell’anno e del rapporto istituitosi a Torino tra i giovani delle periferie, che avevano animato sia le proteste locali dei forconi che l’assedio dei mercati generali in occasione dello sciopero dei facchini, e i centri sociali  

  3. pag. 20  

  4. pp. 73-74  

  5. Come ben ricordato in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016  

  6. Ripresi insieme nel 1939 nella fotografia qui pubblicata 

  7. Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016  

  8. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_ebraica  

  9. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Brigata_Ebraica  

  10. Nella fotografia qui accanto sono visibili Bianca Guidetti Serra, a sinistra, e Primo Levi, al centro, nel 1940  

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L’autonomia di classe…innanzitutto! https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/ Mon, 16 May 2016 20:24:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30537 di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il [...]]]> di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il lettore non si troverà davanti ad un testo di “Storia” del Partito Comunista Italiano, ma piuttosto ad un’opera militante tesa ad aiutare l’opposizione di classe ad uscire, soprattutto all’epoca della sua redazione, dall’impasse troppo spesso rappresentata dalla separazione tra una sinistra istituzionale, ormai interamente rivolta ad un’attività di tipo parlamentare ed amministrativo, e una sinistra extra-parlamentare, presunta rivoluzionaria, che della prima non faceva altro che ricalcare i passi.

Il testo di Montaldi quindi si distanziava per impostazione sia dalla monumentale e canonica Storia dello stesso partito che a partire dal 1967 e fino al 1975 la casa editrice Einaudi era andata pubblicando per opera di Paolo Spriano, sia dalla più “eretica”, ma pur sempre tradizionale per impianto, storia pubblicata in un primo tempo, subito dopo la crisi ungherese e l’avvio del processo di “destalinizzazione”, nel 1957 da Giorgio Galli (poi rivista e ampliata nel 19762 ).

Purtroppo l’opera di Montaldi, che aveva avuto una lunghissima e tormentata gestazione, veniva già all’epoca pubblicata postuma, poiché l’autore, nato nel 1929 a Cremona, era drammaticamente scomparso un anno prima nelle acque del fiume Roia, presso il confine italo-francese. Da questo fatto derivava, forse, una struttura del testo divisa in 82 capitoli privi di titoli che aiutassero il lettore ad individuare velocemente gli argomenti e gli eventi trattati nelle sua pagine. L’edizione attuale, però, ha supplito a questa “carenza” con un ricchissimo indice analitico. Cui, sempre nella stessa vanno aggiunti un importante carteggio tra l’autore e vari corrispondenti proprio sul lavoro fatto in preparazione del testo ed una più che ampia ed esaustiva bibliografia oltre che un sostanziale ampliamento dell’apparato di note già presente nella prima edizione.

L’opera veniva così a chiudere, forzatamente, il percorso di un intellettuale militante che dopo essere entrato nel PCI nel 1944 lo aveva abbandonato appena due anni dopo, sull’onda dell’espulsione dalla sezione cremonese del partito di quella componente internazionalista, legata ancora a Amadeo Bordiga, che avrebbe voluto spronare il proletariato a portare a compimento, armi alla mano, il processo “rivoluzionario” iniziatosi con la Resistenza.

Questa esperienza in giovane età aveva contribuito a spingere l’autore verso una ricerca militante e politica che nel volgere di pochi anni lo avrebbero portato a produrre una discreta mole di articoli e saggi destinati a segnare in maniera esemplare il rinnovamento del discorso sull’interpretazione da dare dei comportamenti e dell’azione politica e sindacale determinata dall’autonomia di classe e sull’inchiesta operaia (che egli contribuì a rinnovare sensibilmente dal punto di vista metodologico).3

Una metodologia che da un lato lo avrebbe avvicinato a Gianni Bosio nel campo della storia orale, mentre dall’altro lo avrebbe portato a dare vita a quella che sarebbe poi stata successivamente meglio definita da Romano Alquati come “conricerca”. Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette»”.

Montaldi non voleva essere inquadrato in una parrocchia politica. Forse non voleva nemmeno essere considerato un intellettuale. Usava gli spazi disponibili (libri, giornali, riviste, dibattiti) per portare avanti e affinare la sua ricerca e la sua visione dell’azione di classe, proprio come pensava che il proletariato avrebbe saputo fare, in piena autonomia, senza il bisogno di qualcuno che lo guidasse o che ne raccontasse la storia dall’esterno. L’autonoma azione politica doveva infatti preludere anche ad una autonoma ricostruzione della propria storia, non mediata da altri interessi che non fossero quelli della liberazione dalla servitù salariale e capitalistica.

Tali presupposti e tale metodo sono presenti, per forza di cose, anche nel “Saggio”, dove nelle parti più indirizzate alla critica ideologica delle posizioni assunte dal Partito attraverso lo stalinismo e il togliattismo l’autore si basa principalmente su documenti e testi della tradizione e della storiografia comunista “di vertice”, mentre in quelle destinate all’esplorazione delle possibilità insite nell’utilizzo, o nel ribaltamento, proletario dello strumento “partito” utilizza principalmente testimonianze dirette o materiali prodotti dalla “base” e dai suoi movimenti spontanei.

L’obiettivo del saggio di Montaldi sembra dovere e volere coincidere con quello della ripresa delle lotte che dal 1968 in avanti avevano rivitalizzato la classe operaia e il proletariato nel suo insieme. E l’autore lo sintetizza proprio nelle pagine finali del testo: “Una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi dalla sua ipoteca fallimentare. La profonda secessione che si è verificata dal ’68 in avanti racchiude entro di sé il rifiuto di un passato che è stato anche di alienazione […] Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo. Nella fabbrica e nella società certe premesse sono già state poste […] Il lungo lavoro della Direzione del PCI non è mai riuscito a stringere in uno schema di comodo la lotta di classe. Non si è tratto unicamente, come nel vecchio PSI, di una crescente influenza del sistema sul partito; con il PCI si è trattato, dal 1944, di un patto nazionale in rapporto con gli altri patti, tra gli Stati maggiori e i blocchi mondiali, a togliere indipendenza e autonomi a al proletariato” (pag. 346)

Nella interpretazione dell’autore in quella funzione contro-rivoluzionario Togliattismo e stalinismo avevano cercato di stringere, non sempre riuscendoci, in un abbraccio mortale la classe, cercando di impedirle qualsiasi autonomia di azione, tanto da far dire a Nicola Gallerano, nella nota introduttiva alla prima edizione, riportata anche nell’attuale, che il memoriale di Yalta, autentico testamento politico di Togliatti, “appare a Montaldi come il punto di arrivo e il suggello di tutta la storia politica del dirigente italiano, esempio di coerenza stalinista «strategica» proprio nel momento in cui è costretto a negarne più decisamente il corollario «tattico» (la dipendenza dall’URSS). Si comprende allora il senso del lavoro sul PC italiano e sulla figura di Togliatti, il dirigente che ne ha segnato di più profondamente il ruolo politico. «Stalinismo cosciente», «nazionale e statale» è quello di Togliatti; e la «continuità», la «staticità», anche, di Togliatti […] consiste nel suo discorrere da «statista», di «Paesi e nazioni, non di classi»” (pag.405)

Ecco allora rivelarsi tutta l’importanza della ricostruzione militante della politica comunista in Italia dal 1919 al 1970, validissima ancora oggi per comprendere come l’attuale Partito della Nazione finisca col coronare, e non tradire, lo spirito di un partito che dalla “svolta di Salerno” in poi non ha perseguito altro che il disarmo dell’autonomia di classe e la difesa degli interessi del capitale nazionale e sovranazionale. La cui la traiettoria, che avrebbe poi portato fino a Renzi e al suo PD, era già tutta compresa in quel giudizio e in quella prospettiva.

Un testo che se rivelava agli occhi dei lettori dell’epoca della sua prima uscita, tra cui mi annovero volentieri, la lotta all’ultimo sangue che si era svolta tra classe e stalinismo nell’URSS, anche con episodi di durissima resistenza operaia allo stakanovismo, e fuori dai suoi confini (dalla Spagna del ’36 all’Ungheria del ’56 e oltre), oggi si rivela ancora enormemente utile per una riflessione non solo sul divenire del rapporto tra classe e partito, ma anche sull’inutilità e la pericolosità di strutture politico-organizzative che tendano a rinchiudere le contraddizioni di classe in un ambito puramente parlamentare ed amministrativo.

Riflessione che accompagnò e costituì, quasi sempre, la base dell’irrequietezza politica e di tutto il lavoro di ricerca di Danilo Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e da Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia. Uno studioso militante tutto da riscoprire a partire, magari, proprio da questo fondamentale testo.

montaldi-feltrinelli N.B.
Per approfondire ulteriormente il discorso sulla figura di Montaldi (ritratto nella fotografia pubblicata qui a lato, è il primo da sinistra, con Giangiacomo Feltrinelli durante un dibattito a Cremona) si consigliano ancora i seguenti testi:

Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, a cura di Luigi Parente, La Città del Sole, 1988, Napoli

Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi. Alle origini di una proposta metodologica (in La Critica Sociologica n. 49, 1979)

Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli (1977)


  1. Edizioni Quaderni Piacentini, Piacenza 1976 (allora stampata in circa quattrocento copie)  

  2. Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani 1976  

  3. Si vedano: Franco Alasia-Danilo Montaldi ( a cura di), Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli prima edizione 1960, seconda accresciuta 1975; D.Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 1961; D.Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971; D.Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli1975; D.Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, in Ombre Rosse n° 13, Savelli 1976; D.Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952 – 1975, Edito per conto dell’Associazione culturale Centro d’iniziativa Luca Rossi – Milano – dalla Cooperativa Colibrì, 1994  

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Il sogno di Cafiero https://www.carmillaonline.com/2014/06/03/sogno-cafiero/ Mon, 02 Jun 2014 22:19:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15108 di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo [...]]]> di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo e la forza di quella che costituisce, di fatto, la biografia più importante dell’internazionalista pugliese e, allo stesso tempo, “l’opera nella quale si riassume e si esalta la vicenda umana e intellettuale del suo autore1.

Pier Carlo Masini (1923 – 1998) può infatti essere considerato uno dei rappresentanti più insigni del lavoro storiografico militante svolto in Italia sul Movimento Operaio e le sue origini.
Amico, sin dalla gioventù, di Gianni Bosio fu da questi invitato ad entrare nel comitato di redazione della rivista “Movimento operaio” fin dalla sua fondazione, ma preferì sempre mantenere la propria autonomia di militante anarchico nei confronti di imprese di carattere più istituzionale, più vicine agli storici di area socialista e comunista.

Questa scelta se, da un lato, ne fece una sorta di “isolato” nel panorama intellettuale italiano del dopoguerra e degli anni successivi, dall’altro gli permise di sviluppare una maggiore attenzione nei confronti di quelle posizioni anarchiche e comuniste che da sempre avevano segnato la specificità del movimento operaio italiano nel suo sviluppo storico. Le “eresie” del movimento operaio, da quelle anarchiche a quelle della Sinistra Comunista Italiana cui avrebbe voluto dedicare uno studio dal titolo “La sinistra dissidente: i gruppi minoritari di sinistra in Italia dal 1926 al 1961”, costituirono infatti, fin quasi al termine dei suoi giorni, il vero campo di indagine dello storico toscano.

Anche se la prima edizione della biografia di Carlo Cafiero uscì nel 1974, gli studi che ne avevano permesso la realizzazione erano iniziati circa 25 anni prima. E se altre furono ancora le opere centrali del lavoro di ricerca di Masini2 , certo il Cafiero costituì un po’ il coronamento di una ricerca durata una vita. E l’attuale riedizione dell’opera è completamente rivista alla luce delle ricerche che l’autore continuò a condurre praticamente fino alla fine dei suoi giorni.

Più volte, nel corso della sua vita, lo studioso si era trovato a ripercorrere fisicamente le orme di Carlo Cafiero; talvolta casualmente e, talaltra, volontariamente come quando, nel 1947, con una comitiva di compagni anarchici aveva percorso il cammino seguito dalla banda del Matese settant’anni prima, nel 1877. Ma quello che avvicina di più lo storico al soggetto del suo studio fu proprio la passione militante che fece sì che molti dei suoi studi facessero spesso la loro prima comparsa nelle riviste militanti di carattere libertario oppure nelle edizioni di Azione Comunista ancor più che in quelle di indirizzo meramente storiografico.

Il motivo di ciò lo si può ben individuare in una lettera, riportata nella postfazione curata da Franco Bertolucci, scritta ad Aldo Venturini, il 23 luglio 1955, dopo che Giangiacomo Feltrinelli aveva allontanato dalla direzione di “Movimento operaio” Bosio per sostituirlo con Armando Saitta.
Saitta, insieme ad altri storici «puri», ha la fissazione del superamento dei limiti «corporativi» della storia del movimento operaio, nel senso che la storia della classe operaia dovrebbe essere parte di una storia unitaria, e quindi in definitiva «l’altra faccia» della storia della borghesia in quanto classe egemone. Questa impostazione, giusta se si limitasse a postulare l’inquadramento della storia del movimento operaio nella storia generale, civile, della società tutta intera, presenta il pericolo di una interpretazione neutra, non militante, di questa storia, o peggio di una sua interpretazione «borghese»” (pag. 251)

Questa opposizione militante ai dogmi ed alle derive istituzionali legate alla storiografia “di partito” sembra richiamare idealmente lo scontro che accompagnò la breve ed intensa vita politica di Cafiero che, dopo essersi avvicinato alla Prima Internazionale in occasione della Comune di Parigi, ebbe poi, soprattutto con Friedrich Engels, un duro confronto proprio sulle modalità di indirizzo e direzione di quella prima esperienza di organizzazione sovranazionale e partitica dei lavoratori.

Engels che, qui occorre dirlo, proprio sul movimento operaio italiano prese una delle sue maggiori cantonate, finendo col liquidare un’esperienza che si andava sviluppando tra mille difficoltà, ma anche con apporti originali ed interessanti, con supponenza, settarismo e autoritarismo prettamente teutonico. E che ottenne come unico risultato quello di fare approdare Carlo Cafiero e il nascente movimento operaio italiano sulle sponde dell’anarchismo bakuniniano.

Brevissima e intensa fu la stagione vissuta politicamente da Cafiero prima che la follia, forse già in lui latente, lo trascinasse fuori dal mondo e lo immettesse nel circuito dei manicomi e dell’interdizione. Poco più di dieci anni, tra il 1871 e il 1883.
Un ex-leader del Movimento Studentesco, anni fa, scrisse un libro di memorie sul ’68 intitolandolo presuntuosamente “Formidabili quegli anni”. Come si sarebbe potuta intitolare, allora, un’opera dedicata alla vita del militante anarchico ottocentesco?

Dalla adesione alla Prima Internazionale alla prima traduzione italiana del primo libro del Capitale di Marx in compendio; dalla promozione delle assemblee internazionali di lavoratori da cui sarebbe scaturita l’Alleanza Internazionale dei Lavoratori e dal primo esperimento guerrigliero-insurrezionale in chiave socialista sulle montagne del Matese fino alla formazione del primo raggruppamento politico socialista degli operai in Italia.

Questo lo straordinario percorso di un rivoluzionario che, proveniente da una famiglia agiata e ricca del Sud, spese fini all’ultimo quattrino per favorire la causa rivoluzionaria, riducendosi in miseria. Come testimonia un rapporto della questura di Milano del 1882: “Pel trionfo del suo programma e della lotta internazionale ha sciupato tutto il suo patrimonio di qualche centinaio di migliaia di lire, sussidiando i compagni e somministrando loro i mezzi per la distruzione della proprietà e dell’ordine attuale e per la guerra fra le classi sociali” (pag. 3).

Un’esperienza che, al contrario di quanto pensato da Engels, proiettò il nascente movimento operaio italiano in un ambito internazionale rendendolo da subito protagonista centrale delle lotte dell’ultimo quarto del XIX secolo. Accanto ai terroristi e ai populisti russi che all’epoca avevano iniziato a scuotere il modo ad Oriente come ad Occidente e di cui Cafiero finì con lo sposare, con esiti deludenti per entrambi, una delle rappresentanti più sconosciute, Olimpiada Kutuzova, che aveva percorso a piedi migliaia di verste nella steppa russa per fuggire dalla prigionia siberiana.

Ma molti altri nomi entrano nella sua biografia: da Michail Bakunin, con cui fu legato da un autentico rapporto di collaborazione e, talvolta, di amore-odio dovuto alla spendaccioneria del secondo, a Errico Malatesta con cui condivise la militanza e, anche, la partecipazione al fallito moto insurrezionale del Matese. Dalla bellissima Anna Kuliscioff, donna intelligente e indipendente di cui sicuramente si innamorò, ad Andrea Costa da cui fu separato sia a causa dell’amore per la stessa Kuliscioff sia, soprattutto, per le scelte politiche che questi avrebbe fatto a favore dello strumento partitico e parlamentare. Ma in cui, alla fine, lo stesso Cafiero, rassegnandosi un attimo prima della follia, riconobbe l’inevitabile passaggio verso la maturità politica del movimento.

Nato il 1° settembre del 1846 da una famiglia benestante di Barletta, “ben accetta a Dio, al re, alle banche e perfino agli elettori” (pag. 2), e dopo aver lasciato gli studi presso il seminario vescovile di Molfetta per seguire gli studi in Legge presso l’Università di Napoli, Cafiero fu, fino ai 24 anni, un giovane di bell’aspetto e dai modi elegantissimi, amante della vita mondana, del teatro e delle donne. Che nel 1870 si trovava a Parigi, ma che alle prima avvisaglie della guerra franco-prussiana lasciò per recarsi a Londra.

Qui, proprio in occasione della Comune di Parigi entrò in contatto con Marx ed Engels da cui “venne incaricato di recarsi subito in Italia per accertare lo stato del movimento e imprimergli un orientamento rispondente all’indirizzo del Consiglio Generale” dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (pag. 11).

Da quel momento Carlo sarebbe diventato non solo la pecora nera della sua famiglia che, come riferiva ancoro lo stesso rapporto della Questura di Milano, “non condivide ma deplora i suoi principi di condotta”, ma anche uno degli uomini su di cui si concentrò maggiormente l’attività di indagine e repressione delle Questure d’Italia. E fu la Comune, più ancora che la teoria del nascente socialismo scientifico, l’impulso decisivo per Cafiero, così come per tanti altri giovani italiani, a incamminarsi dietro le bandiere dell’Internazionale3 .

A partire da questo punto, con tutte le rotture e le scelte che ne seguiranno, ebbe origine una vita intensa (conclusasi a 46 anni nel 1892), una militanza quasi unica che portava in sé già tutti i germi dell’anomalia o dell’eresia italiana all’interno del Movimento Operaio. Una specificità che si sarebbe manifestata negli anni a venire non solo nella diffusione del movimento anarchico, ma, anche, nella formazione di un socialismo che sarebbe poi sfociato, con la nascita del PC d’I di Amadeo Bordiga, in una delle esperienze più radicali del comunismo novecentesco e di cui il pensiero di Gramsci avrebbe costituito soltanto uno smorto riflesso.

Un percorso che dagli ideali risorgimentali e democratico-borghesi avrebbe portato, già nello stesso Cafiero, all’intuizione di una società altra e che ebbe nel Sud d’Italia e, soprattutto a Napoli vista alla fine dell’ottocento come la polveriera d’Italia, uno dei suoi centri principali di evoluzione.
In cui il comunismo a venire non sarebbe più stato frutto dell’Utopia, ma ben radicato nelle lotte dei lavoratori, nella loro autonomia politica, nel contributo degli intellettuali che tradivano la loro classe d’appartenenza e nello sviluppo delle conoscenze tecnico-scientifiche. Un sogno dirompente che, forse inconsapevolmente, anche Lenin avrebbe fatto in seguito suo quando, nelle pagine del Che Fare?, avrebbe affermato che bisogna sognare!4

E’, dunque, quella di Masini un’opera da leggere e da studiare, pagina dopo pagina, per chiunque sia interessato alla storia del movimento operaio. Di cui non costituisce soltanto un’analisi delle origini, ma che proietta già il lettore in tutte le problematiche che questo ha dovuto e deve ancora affrontare nel suo percorso di liberazione dalla schiavitù salariale e dallo sfruttamento coatto dell’umanità.
Un testo che costituisce un autentico modello di indagine e di storiografia militante ed è davvero con orgoglio che la Biblioteca Franco Serantini di Pisa può rivendicarne la pubblicazione della nuova edizione ampliata.

Per finire, un libro appassionante, anche per la scelta operata dell’autore che, in una lettera del 1973, rivelava, in questi termini, di essere ben conscio della sua struttura espositiva: ”Devo precisarti che da vent’anni a questa parte i miei interessi si sono spostati da una angolazione storico-politica a quella storico-socio-psicologica. Insomma di Cafiero mi ha interessato e mi interessa molto di più delle sue vicende avventurose ed esterne (alle quali ho dato peraltro il dovuto spazio), la sua vicenda umana, la sua personalità, le ragioni della sua pazzia. Ma tutto questo giova ad una trascrizione drammatica e rende più moderna una interpretazione della figura” (pag. 268)


  1. Franco Bertolucci, Postfazione. Pier Carlo Masini, gli studi su Cafiero e la Prima Internazionale, pag. 233  

  2. Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969; Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Rizzoli 1981 e, ancora, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978  

  3. Si veda anche a tal proposito Maria Grazia Meriggi, La Comune di Parigi e il movimento rivoluzionario e socialista in Italia (1871 – 1885), La Pietra, Milano 1980  

  4. Ecco che cosa bisogna sognare!
    “Bisogna sognare!”. Scrivendo queste parole sono stato preso dalla paura. Mi è sembrato di trovarmi al Congresso di unificazione e di avere in faccia a me i redattori ed i collaboratori del Raboceie Dielo. Ed ecco il compagno Martynov alzarsi ed esclamare minacciosamente: “Scusate! Una redazione autonoma ha il diritto di ‘sognare’ senza l’autorizzazione preventiva dei comitati del partito?”. Poi si alza il compagno Kricevski, il quale (approfondendo filosoficamente il compagno Martynov che ha da molto tempo approfondito il compagno Plekhanov) continua ancora più minaccioso: “Dirò di più. Vi domando: ha un marxista il diritto di sognare se non ha dimenticato che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre degli obiettivi realizzabili e che la tattica è il processo di sviluppo degli obiettivi che si sviluppano insieme con il partito stesso?”.
    La sola idea di queste domande minacciose mi fa venire la pelle d’oca, e non penso che a trovare un nascondiglio. Cerchiamo di nasconderci dietro Pisariev.
    “C’è contrasto e contrasto – scriveva Pisariev a proposito del contrasto fra il sogno e la realtà. – Il mio sogno può precorrere il corso naturale degli avvenimenti, ma anche deviare in una direzione verso la quale il corso naturale degli avvenimenti non può mai condurre. Nella prima ipotesi, non reca alcun danno; anzi, può incoraggiare e rafforzare l’energia del lavoratore… In quei sogni non c’è nulla che possa pervertire o paralizzare la forza operaia; tutt’al contrario. Se l’uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l’immaginazione il quadro compiuto dell’opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l’indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell’arte, nella scienza e nella vita pratica?… Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede sul serio al suo sogno, se osserva attentamente la realtà, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente per attuare il suo sogno. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio”. Di sogni di questo genere, disgraziatamente, ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento. La colpa è soprattutto dei rappresentanti della critica legale e del codismo clandestino, tronfi della loro lucidità e del loro senso del concreto.
    (Lenin, Che fare?, Einaudi 1971, pp.196 – 197)  

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