estetiche del potere – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 12:52:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. L’ultimo spettacolo. Immaginari funebri sovietici https://www.carmillaonline.com/2023/10/15/estetiche-del-potere-lultimo-spettacolo-immaginari-funebri-sovietici/ Sun, 15 Oct 2023 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79252 di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri [...]]]> di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri di personalità influenti – allineate o scomode – della storia dell’Unione Sovietica, indagando la componente visuale degli eventi e le testimonianze scritte, valutando la relazione tra popolazione e governo, i meccanismi di strumentalizzazione e di coinvolgimento, le imposizioni e le spontaneità.

Lo studioso si dice convinto che approfondire la propaganda legata al rito funebre del periodo sovietico contribuisca a una maggiore comprensione dei fenomeni propri di una Russia contemporanea segnata da un rinnovato culto della morte per la patria venato di suggestioni medievali rilette in chiave filostaliniana.

Scrive Piretto che «nella Russia postsovietica putiniana le modalità di gestione delle emozioni, di ottenimento del consenso da parte del potere e la predisposizione della popolazione all’empatia totalizzante nei confronti di un leader» riprendono modalità proprie del peridio sovietico, tra queste anche un «culto della morte per la patria, molto vicino a quello impostato sulle morti sacrificali dei rivoluzionari sovietici negli anni Venti e addirittura tristemente evocante ideologie naziste» (p. 19).

Emblematiche di questo clima malsano sono le parole pronunciate da Vladimir Solov’ёv, giornalista-conduttore televisivo putiniano, in un suo intervento a Capodanno: “La vita è altamente sopravvalutata. Perché temere ciò che e inevitabile? Soprattutto quando ci aspetta il paradiso. La morte è la fine di un percorso terreno e l’inizio di un altro. Non lasciate che la paura della morte influenzi le vostre decisioni. Vale la pena di vivere solo per qualcosa per cui si possa morire, così dovrebbero stare le cose. Stiamo combattendo contro i satanisti. Questa è una guerra santa e dobbiamo vincerla”.

Il volume si apre con la ricostruzione di alcuni casi di esequie civili solenni dal profondo significato politico e lo fa a partire dai funerali civili riservati a Nikolaj Bauman, collaboratore di Lenin, deceduto nell’ottobre del 1905, il cui funerale, iconograficamente documentato, si trasformò in un’enorme manifestazione politica che vide sfilare oltre mezzo milione di persone in un’apoteosi di stendardi e bandiere rosse.

Vengono dunque tratteggiati i funerali di alcuni rivoluzionari del 1917 che, pur ispirati a quello di Bauman, come dimostra il materiale cine-fotografica dell’epoca, assunsero una forma del tutto particolare derivata dalla combinazione di vecchio e nuovo, di rituali militari e religiosi, forme tipiche delle manifestazioni operaie e messe in scena tipiche delle “feste della libertà” introdotte dai rivoluzionari. Un tipo di esequie riconducibile alla categoria della “scomparsa eroica sacrificale”. Strada facendo l’immortalità sociale ottenuta attraverso narrazioni e funerali ufficiali finì per diventare «la versione sovietica e corretta dell’obsoleta vita eterna religiosa» (p. 35) e i “funerali rossi”, oltre alla funzione di promemoria simbolico delle conquiste della Rivoluzione d’ottobre, intenderanno contribuire alla formazione della coscienza rivoluzionaria delle masse.

A dare il via a quella che sarebbe divenuta un’usanza sovietica per le esequie delle personalità politiche più importanti, ossia all’esposizione della salma all’interno della Sala delle colonne della Casa dei sindacati  moscovita, fu il funerale del febbraio 1921 di Kropotkin organizzato autonomamente dai suoi compagni una volta rifiutate le esequie ufficiali. In questo caso i funerali si trasformano in una manifestazione di dissenso nei confronti dello Stato bolscevico.

Ad essere esaminato con attenzione è poi il funerale di Lenin del 1924 che prese il via con un primo corteo funebre che, nel sobborgo di Gorki, accompagnò la bara sino alla stazione ferroviaria da dove sarebbe partita alla volta di Mosca. Le immagini consentono di percepire la spontaneità della partecipazione popolare che, ancora non irreggimentata in scenografie istituzionali, procedeva in una sfilata richiamante le processioni religiose rurali ortodosse del secolo precedente, pur con una non irrilevante differenza: i contadini smisero di restare ai margini dell’evento trasformandosi da comparse defilate in coprotagonisti.

Il corteo divenne dunque una sfilata onorifica, una sorta di «riproposta in chiave politica contemporanea dell’archetipo della percorrenza della terra russa a piedi unito all’antico e universale valore celebrativo della processione funebre», che «si sarebbe ripresentato per giorni interi fino a perpetuarsi nella lenta, immancabile coda che, nei decenni sovietici, si sarebbe snodata lungo l’apposito percorso tracciato dal giardino Aleksandrovskij fino alla piazza Rossa per rendere omaggio alla salma imbalsamata» (p. 47).

Nonostante l’intenso freddo, circa cinque milioni di persone resero omaggio allo scomparso e se, come visto, i funerali rivoluzionari avevano dialogato con la “festa”, nel caso della morte del leader bolscevico ad avere il sopravvento fu il dolore e lo sbigottimento nonostante una sloganistica votata ad attenuare la perdita: “Lenin vive!”, “Lenin è morto, ma il Partito comunista da lui creato è rimasto”, “Lenin e morto, ma il leninismo vive!”.

Non pochi tra i testimoni oculari parlarono di sensazioni da favola. Primo riscontro di una realtà che nei funerali di Stato successivi si sarebbe riproposta e avrebbe acquisito tonalità sempre più cariche. Necessità di costruire una scenografia mirabolante, una rappresentazione che prendesse nette distanze dalla tragicità e dalla complessità della situazione effettuale per trasportare con la suggestione in una dimensione altra e rassicurante. Anche se, nella fattispecie, tali espletazioni del lutto contrastavano nettamente con lo spirito e le volontà dell’illustre defunto. La ragion di Stato prevalse (p. 50).

Il funerale del celebre poeta Sergej Esenin, nel 1925, si trovò invece a fare i conti con il problema della morte derivata da suicidio, gesto che, da quel momento in avanti, iniziò a essere formalmente denunciato come atto antisovietico e antisociale del tutto inconcepibile per un comunista.

Nel 1930, come Esenin, anche Majakovskij morì suicida e non potendolo liquidarle come traditore, il regime si affrettò a ricondurre le cause a questioni sentimentali. Assenti i rappresentanti delle alte sfere politiche, a rendergli omaggio al Circolo degli scrittori, ove venne esposto il feretro, sfilarono centocinquantamila persone e decine di migliaia accompagnarono la bara al crematorio. Pur trattandosi di una partecipazione spontanea e non organizzata, tra i presenti, probabilmente, in molti non conoscevano davvero le sue poesie ma, scrive Piretto, «il suo mito, politico, personale, oltre che poetico, aveva scatenato la partecipazione popolare». Ornai da tempo, anche in Russia, aveva preso piede «la “cultura della celebrità” e anche alla morte veniva attribuito un significato sociale» (p. 82).

Tra i tanti «funerali illustri e ideologicamente corretti negli anni Trenta staliniani» (p. 85), definiti con estrema efficacia dalla studiosa Helena Goscilo “melodrammi nazionali”, vi è anche quello dell’esponente politico Sergej Kirov assassinato nella sede del Soviet di Leningrado. Non vi sono prove certe che si sia trattato di un omicidio voluto da Stalin, resta il fatto che il suo posto venne prontamente preso da Andrej Ždanov, personalità gradita al dittatore.

Dopo l’assassinio di Kirov immediata fu, in parallelo, la glorificazione del defunto, secondo modalità che la mitologizzazione della storia caratteristica del decennio avrebbe messo sistematicamente in campo. Kirov divenne uno dei più brillanti simboli della lotta contro i nemici interni. La cerimonia del suo addio, avvenuta il 6 dicembre 1934, fu molto solenne, pur non tanto grandiosa come era stato il commiato a Lenin. Cambiavano i morti, ma immutato rimaneva ciò attorno a cui si snodava tutto quel magnifico rituale, melodramma, che ben presto restò l’unico protagonista. I fatti storici, nella fattispecie le reali cause della morte del personaggio, perdevano importanza di fronte alla necessità di mitologizzare il presente, senza attendere che la storia avesse compiuto il suo corso (p. 87).

Gli anni Trenta cambiarono le carte in tavola in Unione Sovietica anche per i funerali delle personalità più rilevanti. «Decesso, sacrificio, immolazione, categorie che erano state determinanti per l’ideologia degli anni Venti, perdevano valore e cedevano il passo all’euforia per le conquiste del raggiunto socialismo e spianavano la strada alla creazione della realtà virtuale, impostata sulla gioia di vivere di Stato, che sarebbe stata caratteristica degli anni Trenta staliniani» (p. 77).

Piretto si sofferma anche sulle vittime dell’assedio di Leningrado facendo riferimento in particolare all’inverno passato alla storia come “il tempo della morte” in cui i cadaveri si accatastavano lungo le strade nell’impossibilità materiale di seppellirli; un contesto in cui i «corpi dei singoli cittadini e, metaforicamente, il corpo collettivo sociale mutavano e perdevano le proprie caratteristiche umane» (p. 98). Il Museo dell’assedio realizzato a Leningrado alla fine del tragico evento venne chiuso da Stalin nel 1948. «Il tema dell’eroismo, temporaneamente accantonato all’inizio della guerra nel cosiddetto tema leningradese della letteratura, tornò prepotentemente per sostituirsi a quello della sofferenza. Il concetto di “guerra” fu rimpiazzato dal concetto di “vittoria”. La storia della guerra diventava la storia della vittoria» (pp. 104-105).

Vista la sua rilevanza nella storia sovietica, il volume non poteva che dedicare ampio spazio al funerale di Stalin del 1953. «L’investimento totale nel culto staliniano portò nei giorni del lutto all’espressione di esasperazioni emotive, ciechi coinvolgimenti ideologici, commozioni estreme, fino all’isterismo e al suicidio» (p. 108). Come per Kropotkin, Lenin e Kirov, anche la camera ardente di Stalin venne allestita per il pubblico omaggio nella Sala delle colonne della Casa dei sindacati. Una folla immensa sentì il bisogno di presenziare incredula circa l’avvenuta scomparsa del leader. A differenza di quanto accaduto ad esempio per Lenin, in questo caso a dominare furono il senso di incertezza, di incredulità, di spaesamento in assenza delle consolanti convinzioni dogmatiche. «Paradossalmente, quello Stalin morto fu la versione del leader più autentica che molti sudditi sovietici avessero mai potuto contemplare: un esemplare unico, appena contraffatto, pressoché tangibile, almeno con lo sguardo, molto più “reale” dei mille simulacri che lo avevano incarnato nei decenni di vita e di potere» (p. 116). È curioso notare come i dipinti realizzati nella Sala delle colonne mostrino uno Stalin isolato, non attorniato, come nelle fotografie e nei filmati, dalla schiera dei compagni di lotta desiderosi di rendergli omaggio ma anche di mettersi in luce in vista della successione.

Mentre, come visto, Lenin era stato sepolto accompagnato dal canto militante, a risuonare durante le esequie di Stalin furono musiche di Chopin, Mozart, Beethoven e Čajkovskij. Il funerale venne trasmesso in diretta radiofonica all’intero Paese con altoparlanti nelle piazze. Estremamente studiata la concessione della parola dalla tribuna del mausoleo; a succedersi furono gli interventi di Malenkov, Berija e Molotov al cospetto di quattromilaquattrocento militari della guarnigione di Mosca e dodicimila delegati moscoviti.

Una volta collocata la bara di Stalin accanto a quella di Lenin, a mezzogiorno le porte del mausoleo si chiusero lasciando la scena ai botti di artiglieria, alle sirene delle fabbriche, delle locomotive e dei cantieri e a cinque minuti di assoluto silenzio in tutti i locali pubblici, nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Dalla mole di pellicola girata durante i funerali sarebbe poi stato realizzato un film a colori intitolato Il grande addio che però, una volta terminato, venne accantonato probabilmente per volere di diverse autorità che, per motivi di convenienza politica, in epoca di destalinizzazione, preferirono rimuovere la loro precedente vicinanza al vecchio leader. Dalle oltre quaranta ore di girato il regista ucraino Sergej Loznitsa derivò nel 2019 un nuovo lungometraggio intitolato Funerali di Stato.

A morire lo stesso giorno di Stalin, ricorda Piretto, fu anche il musicista Sergej Prokof’ev. La sua scomparsa non venne però divulgata immediatamente, quasi a non disturbare la “morte principale” del momento. Trovandosi la sua abitazione vicina alla Sala delle colonne, nell’impossibilità di percorrere le strade con la bara del compositore, le autorità decisero di far ricorso «a una squadra di alpinisti militari che di notte trascinarono la cassa fuori dalla finestra con delle corde e la sollevarono fino ai tetti. Ci vollero cinque ore di rischiosa camminata su tetti spioventi per raggiungere la meta» (p. 122), ove presenziarono poche decine di amici e parenti al seguito.

Se, come suggerisce Piretto, si può affermare che, al di là del decesso vero e proprio, Stalin morirà metaforicamente una seconda volta sul finire degli anni Cinquanta per mano della condanna chruščeviana del culto della personalità, dunque una terza quando, all’inizio del decennio successivo, il Congresso del PCUS decise di rimuovere nottetempo le sue spoglie dal mausoleo per collocarle al muro del Cremlino, spetterà a Putin riesumare il mito di Stalin quando, in anni recenti, in risposta a un crescente malumore nei suoi confronti, decise di fare appello a un passato idealizzato. Non a caso, in occasione della sua visita a Volgograd nel febbraio 2023 per la commemorazione della battaglia di Stalingrado, la città lo ha accolto svelando un busto di Stalin e ripristinando, seppur temporaneamente, il nome Stalingrad.

Dopo aver tratteggiando le modalità con cui si venivano svolti i funerali sovietici della gente comune nei contesti cittadini tra gli anni Sessanta-Ottanta, Piretto, avvalendosi di resoconti dell’epoca e, soprattutto, di un filmato delle cerimonia reso pubblico dagli eredi nel 2017, dedica spazio alle esequie di Pasternak, caduto in disgrazia a seguito del romanzo Dottor Živago terminato nel 1955, opera accusata dal Comitato centrale del partito di essere calunniosa e antisovietica. In quell’occasione, per molti, partecipare al funerale significava non soltanto omaggiare la produzione letteraria dello scomparso ma anche esprimere una posizione di dissenso all’interno della Russia sovietica.

Un capitolo del volume è dedicato ai funerali di alcune donne importanti nel mondo sovietico. Nel febbraio 1919, racconta Piretto, le immagini dei funerali di Vera Cholodnaja, diva del cinema muto russo, si trasformarono in una sorta di suo ultimo film e conclusiva occasione di idolatria. Altri funerali di donne che seppero conquistare una certa partecipazione popolare furono quelli, nel 1920, della rivoluzionaria Inessa Armand, pianta pubblicamente dallo stesso Lenin alla Casa dei sindacati, dunque di Nadežda Krupskaja, una delle più strette collaboratrice di Lenin morta nel 1939 che, nonostante l’isolamento politico a cui era stata ridotta da Stalin, proprio quest’ultimo non mancò, come da copione, di essere tra i portatori dell’urna cineraria alla necropoli del Cremlino in un contesto che vide mezzo milione di persone renderle omaggio alla Sala delle colonne. Altro caso toccato dal volume è quello della poetessa Marina Cvetaeva, morta suicida nell’agosto del 1941 che, pagando l’emarginazione a cui era stata costretta, venne sepolta con una mesta cerimonia nell’indifferenza generale

L’onore di essere sepolte a Novodevičij, nel cimitero dell’elite nazionale, per quanto, allo stesso tempo, «alternativa diplomatica per le figure che non “meritavano” la visibilità della necropoli del Cremlino», spettò a donne come: Aleksandra Kollontaj, deceduta nel 1952, «pioniera dell’emancipazione femminile sovietica, femminista ante litteram, “valchiria della rivoluzione”, le cui teorie (spesso mistificate) relative all’eros e alle relazioni di coppia conquistarono il mondo suscitando perplessità tra molti bolscevichi di vecchia scuola» (pp. 154-155); la scultrice Vera Muchina, venuta a mancare l’anno successivo; Ekaterina Furceva, scomparsa nel 1974, per quattordici anni ministra della Cultura, poi divenuta scomoda al regime; Ljubov’ Orlova, morta nel gennaio 1975, diva sovietica delle commedie musicali dell’era staliniana.

Anna Andreevna Achmatova, tra le massime esponenti della poesia sovietica, pur essendo stata liquidata da Ždanov come una dei “portabandiera della poesia vuota, senza principi, da salotto aristocratico, assolutamente estranea alla letteratura sovietica”, alla morte nel 1966 venne omaggiata con necrologi e articoli pieni di riguardo nei suoi confronti, tuttavia le esequie, di cui esistono filmati, scontarono la storica condanna nei suoi confronti e si svolsero tra mille difficoltà.

Interessante il caso di Jurij Gagarin, per cui venne dichiarato il lutto nazionale, tributo mai concesso a un cittadino sovietico che non fosse un politico eminente. Il cosmonauta perse la vita trentaquattrenne nel 1968, a sette anni dalla sua impresa nello spazio, schiantatosi al suolo insieme a un istruttore di volo a bordo di un caccia. Le morti degli eroi-cosmonauti, ricorda Piretto, vennero spesso ammantate del discorso eroico-sacrificale proprio dei primi anni rivoluzionari: «immolazioni alla causa per la patria e investimenti esistenziali estremi che costellavano di imprese ardite la via verso il radioso avvenire» (p. 167). Il funerale di Gagarin aveva seguito il rituale non certo immune dal kitsch destinato alla scomparsa dei grandi personaggi sovietici: «l’accumulazione, l’inautentico, la facilità della fruizione, la riduzione della complessità estetica» (p. 169). Fuori copione, si sottolinea nel libro, i fiori portati dalla gente comune sparsi disordinatamente nei pressi della bara  infransero il rigido controllo estetico previsto dalle autorità. Come dimostrano le immagini, alle esagerazioni kitsch del cerimoniale, segnate da un “troppo di tutto”, si contrapposero il contegno e la composta sobrietà della gente comune accorsa per sincero affetto nei confronti dello scomparso ma anche, come in molti altri casi, per presenzialismo e per il desiderio di partecipare a un’emozione collettiva.

Un funerale interessante è anche quello di Vladimir Vysockij, deceduto nel 1980, popolare cantautore e attore non apprezzato dal regime anche a causa di una condotta di vita non esemplare secondo i canoni ufficiali. Pur non essendo mai stato dissidente in senso stretto, per certi versi il cantante può essere collocato nella tradizione dei cosiddetti poeti “non raccomandati”. Nel suo caso il funerale si svolse con grande partecipazione popolare e, in assenza di un cerimoniale organizzato dalle autorità, finì per rivelarsi genuino quanto improvvisato.

Nel tardo pomeriggio del 25 dicembre 1991 veniva ammainata la bandiera rossa dal pennone sul Cremlino lasciando posto ad una che riprendeva gli storici colori rosso, bianco e blu. Venendo dunque ad all’era post-sovietica, è da notare come a Gorbačёv, venuto a mancare nel 2022, non siano stati concessi i funerali di stato. Per l’occasione il regime putiniano mise in scena uno sproporzionato sistema di controllo con tanto di imponente schieramento di agenti di polizia nel centro di Mosca, recinzioni, itinerari obbligati e metal detector nella malcelata intenzione di scoraggiare la partecipazione popolare alle esequie. Il Cremlino si era limitato a un formale telegramma di condoglianze alla famiglia, pur avendo dichiarato di malavoglia un giorno di lutto nazionale.

I funerali vennero tenuti presso il tempio moscovita di Cristo Salvatore per poi concludersi con la sepoltura nel cimitero Novodevičij. Anche il feretro di Gorbačёv venne ammesso alla storica Sala delle colonne della Casa dei sindacati, mantenuta insolitamente spoglia rispetto ai funerali di autorità, alla presenza della guardia d’onore. Le tensioni internazionali derivate dal conflitto in Ucraina bloccarono la partecipazione di numerosi capi di Stato stranieri. Lo stesso Putin si limitò a un rapidissimo passaggio alla camera ardente dell’ospedale e alla deposizione di un mazzo di fiori accanto alla bara.

Nell’ultima parte del libro Piretto sottolinea come recentemente Putin abbia esplicitamente riesumato il culto della morte per la patria infarcendo i discorsi ufficiali di “eroi”, “eroismi” e rimandi all’eredità lasciata dai combattenti della “guerra patriottica”, mentre al contempo il regime si prodiga in una politica di negazione dei decessi minimizzando il bilancio delle vittime tra le sue fila. «Una notifica di “disperso sul campo di battaglia” ha consentito alla Russia di non pagare i risarcimenti a cui hanno diritto le famiglie se una persona viene uccisa in prima linea». Si è dunque creata una situazione paradossale. «O si glorificano i defunti per emulare il patriottismo, e si accetta di rendere visibile il fatto che i soldati stanno decedendo a migliaia, oppure si deve negare la morte stessa, facendo finta che tutto sia sotto controllo» (p. 197).

Tale tipo di retorica putiniana riesce a far breccia soprattutto nelle periferie, nelle province e nelle campagne in cui minore è l’attrazione del mondo occidentale.

I ricorrenti accenti “sovietici” riportati in auge, lessico, tono, gestualità, al di la del suonare falsi e stonati per il loro cadere fuori contesto, ribadiscono il disagio che deve essere di molti, rispetto alla contemporaneità postsocialista, e l’adesione alla più manifesta attrazione che il proselitismo putiniano esercita: allucinazione di recuperare un passato glorioso e roboante attraverso la riapplicazione di modalità e pratiche che, in realtà, altro non sono che spettri passati a cui si cerca di ridare nuovo corpo (p. 198).

La conclusione del volume è dunque lasciata ad alcune riflessioni sulla stretta attualità russa a partire dal “non funerale” di Prigožin nell’estate del 2023. La vicenda della colonna militare della Wagner diretta su Mosca, al di là delle letture degli eventi proposte dai media, resta al momento tutta da decifrare. Nel frattempo quel che è certo è che il suo comandante, Prigožin, è morto, insieme ad altri membri del gruppo, su un aereo schiantatosi al suolo.

La vendetta del Cremlino per lo “sgarbo” compiuto dal “traditore della patria” Prigožin il 24 giugno è stata plateale ed efferata», scrive Piretto, è dunque inevitabile «un collegamento con il passato, la morte (e le successive onoranze funebri) di Kirov […], “amico” di Stalin – ucciso nel 1934, forse, per sua stessa volontà –, le cui ceneri erano state portate a spalla anche dall’enigmatico leader. Il suo assassinio era stato strumentalizzato per dare il via alle repressioni dei cosiddetti nemici interni. Copione non così dissimile da quanto e accaduto nella Russia del 2023, dove gli ex “nemici interni” sono stati ribattezzati “agenti stranieri” (p. 205).

Nel caso di Prigožin, nel suo scarno messaggio di condoglianze, Putin si è ben guardato dal riferirsi allo scomparso come a un “Eroe della Russia”, limitandosi a segnarle blandamente il suo contributo alla lotta della Russia contro l’Ucraina, aggiungendo che “era stato un uomo dal destino difficile” capace però di ottenere “i risultati desiderati”. Nonostante tali dichiarazioni siano di difficile decifrazione, non si può non notare come Putin abbia evitato di inveire contro presunti responsabili o anche solo di suggerirne l’identità. Il sorgere di memoriali spontanei volti a celebrare Prigožin, secondo lo studioso, mostrano come in Russia negli ambienti contrari a Putin si riponessero speranze nel defunto leader della Wagner o, almeno, si tenti di costruire attorno alla sua figura una mitologia utile a fini politici, a riprova di come, ancora oggi, l’“ultimo spettacolo” continui a rivelarsi momento tutt’altro che secondario di propaganda e lotta politica.

 

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Estetiche del potere. La (tele)dittatura del divertimento https://www.carmillaonline.com/2023/10/12/estetiche-del-potere-la-teledittatura-del-divertimento/ Thu, 12 Oct 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79306 di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un [...]]]> di Gioacchino Toni

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in maniera analoga, seppure in leggera differita, in buona parte dell’Occidente, mentre sugli schermi televisivi imperversavano Dynasty, Dallas, The A-Team, Cheers e Hill Street Blues, i telepredicatori facevano il pieno di ascolti e alla sobrietà della tv dei decenni precedenti si sostituivano sguaiate risate registrate e fragorosi applausi a comando, quanti avevano letto Nineteen Eighty-Four (1949) di George Orwell potevano rallegrarsi del fatto che, giunti al fatidico 1984, la società in cui vivevano non aveva assunto le sembianze della distopia prospettata dal romanzo.

A trarre un sospiro di sollievo potrebbero però essere stati soltanto coloro che non avevano letto, o avevano nel frattempo rimosso, il meno celebre Brave New World (1932) di Aldous Huxley in cui la tirannia anziché essere esercitata per via coercitiva aveva saputo rendersi desiderabile.

Insomma, negli anni Ottanta, in Occidente, anziché avverarsi la distopia orwelliana, a compiersi, in sordina, era quella huxleyana, rivelatasi più in linea con le esigenze di una società votata alla mercificazione e al consumismo più sfrenati.

Sebbene nella stretta contemporaneità, segnata da un insistito ricorso a stati emergenziali, i due scenari distopici sembrino non di rado intrecciarsi, si tende a individuare il modello orwelliano, contraddistinto da un tipo di oppressione imposta dall’alto deprivante il popolo della propria memoria e autonomia, nei sistemi esplicitamente dittatoriali, mentre invece quello huxleyano, in cui il potere riesce a far amare al popolo il proprio oppressore e a sostenere le tecnologie tese ad annullare la capacità di pensiero, nei sistemi più democratici.

Convinto dell’importanza delle tecnologie e dei media nella costruzione della realtà, nella definizione delle percezioni, nell’organizzazione delle esperienze e delle relazioni emotive e nell’azione sociale degli individui, in Amusing Ourselves to Death (1985), analizzando gli effetti socioculturali del medium televisivo, il sociologo statunitense Neil Postman ha colto proprio in esso lo strumento principale di attuazione della pratica di dominio prospettata da Huxley nei primi anni Trenta, agli albori di quella che si sarebbe rivelata l’era televisiva.

In occasione dell’uscita di una nuova edizione italiana del volume di Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, prefazione di Matteo Bittanti e traduzione di Leone Diena (Luiss University Press, 2023), vale la pena evidenziare come diverse riflessioni espresse dal sociologo statunitense, che sarebbero poi in parte da lui stesso riprese e sviluppate nel successivo Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (Bollati Bornighieri, 1993), nonostante facciano riferimento a un panorama mediatico ormai decisamente cambiato, restino assolutamente valide ai giorni nostri segnati dall’affiancamento di internet al mezzo televisivo.

Gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio della superficialità, della frivolezza, del trash e dell’usa e getta, un periodo, come ha sostenuto Tommaso Ariemma (Dark Media. Cultura visuale e nuovi media, Meltemi 2022)1, caratterizzato non tanto dalla sensazione di “mancanza di futuro”, quanto piuttosto dal “futuro già presente” derivata in buona parte dall’estetica della simulazione diffusasi con le nuove tecnologie informatiche, grazie soprattutto al Mac, votata alla celebrazione della sola “superficie visuale”.

All’individualismo degli anni Ottanta si è affiancata, in parte anche in reazione ad esso, una spinta all’isolamento in un universo fittizio in cui si è cercato rifugio in seguito alla delusione indotta dal mondo reale rivelatosi incapace di soddisfare le aspirazioni dei più giovani. Un ripiegamento votato al primato della sensazione, dell’immediato, del mero “significato di superficie”, anticipando di fatto quella web culture che avrebbe finito per sostituire alle relazioni amicali il desiderio del sentire e, come efficacemente sostenuto da Mario Perniola (Del sentire, Einaudi 1991), all’ideologia, socializzazione dei pensieri, la “sensologia”, socializzazione dei sensi.

L’analisi del medium televisivo proposta da Postman in Divertirsi da morire, nel suo porsi, scrive Matteo Bittanti nella prefazione al volume, come sintesi nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan e La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord occupare rispettivamente il ruolo di tesi e di antitesi, ha il grande merito di mostraci oggi come le premesse della web culture siano ravvisabili nel medium televisivo degli anni Ottanta, nella sua «forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotaiment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare».

Un mezzo di comunicazione votato dunque a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, dunque progettati per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito. Come ha avuto modo di segnalare Carmine Castoro (Clinica della TV, 2015)2, l’inarrestabile flusso casuale di comunicati decontestualizzati supporta pratiche di seduzione consumistica e di istupidimento deprivanti l’essere umano di capacità critica, intrattenendolo attraverso un flusso soporifero di immagini.

Il divertimento/intrattenimento che plasma la televisione degli anni Ottanta, in tutti i suoi programmi, notiziari compresi, si pone per certi versi alla base di quei processi di ludicizzazione3 che si dispiegheranno nel web nei decenni successivi e, più in generale, di quella logica che ha saputo rendere costantemente produttivi gli utenti di internet facendo loro percepire il lavoro non pagato a cui si sottopongono come mera attività ludica.

Se è usuale individuare nella storia statunitense una città che, più di altre, può essere vista come incarnazione dello spirito americano del tempo, per gli anni Ottanta, sostiene Postman, questa è sicuramente Las Vegas e lo è perché in essa vive esclusivamente il divertimento, esattamente come nella televisione. Il problema, sottolinea il sociologo, non è certo dato dall’offerta di divertimento da parte della televisione, quanto piuttosto dal fatto che tutto in essa sia dia all’insegna del divertimento, che l’intrattenimento sia l’inderogabile “superideologia” di ogni discorso televisivo.

“Ed ecco a voi…” è probabilmente una delle frasi più ricorrenti in televisione, tanto da fungere quasi da punteggiatura volta a mettere un punto fermo dopo quanto visto fino a quel momento per aprire un discorso totalmente nuovo. «La frase è fatta apposta per mettere in luce il fatto che il mondo così com’è descritto dai frettolosi mezzi elettronici non ha nessun ordine e nessun senso e non deve essere preso troppo sul serio. Non c’è assassino così efferato, terremoto cosi disastroso, guaio politico così grave […] che non possa essere cancellato dalla nostra memoria con un: “Ed ecco a voi…”».

Con tali parole viene suggerito ai telespettatori che quanto visto fino a quel momento non merita ulteriore spazio, approfondimento o riflessione e che è giunto il momento di proiettarsi su un nuovo frammento di notizia o di pubblicità, che poi così diverse non sono. Certo, il modello “Ed ecco a voi…” non è stato inventato dalla televisione, che lo ha derivato dal connubio tra telegrafo e fotografia, ma sicuramente, sostiene Postman, è stata la tv a condurlo alla sua «attuale perversa maturità» ed è proprio nel telegiornale che tale modello «si mostra nella sua forma più sfrontata e imbarazzante» finalizzata unicamente all’intrattenimento.

Nel suo susseguirsi di frammenti non solo slegati uno dall’altro ma anche neganti importanza al precedente di turno, di cui si palesa la necessità di abbandono frettoloso, la televisione minimizza ogni notizia; per quanto grave possa sembrare, questa sarà presto seguita da una di minor gravità, o da una pubblicità, che provvederà a banalizzarla.

Si è «ormai talmente assuefatti all’universo di “Ed ecco a voi…” – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce».

Sebbene non sia possibile incolpare esclusivamente la televisione di tutto ciò, afferma Postman a metà degli anni Ottanta, di certo tale medium rappresenta «il paradigma della nostra concezione di informazione» e visto che la pubblicità televisiva si presenta come «la forma più vistosa di comunicazione pubblica nella nostra società», continua il sociologo, «era inevitabile che gli americani dovessero […] accettarla come forma normale e plausibile di discorso».

Occorre aggiungere che se, come sostiene Postman, negli anni Ottanta l’intrattenimento televisivo era indubbiamente fondato sul divertimento, nei decenni successivi l’intrattenimento si sarebbe avvalso anche della “tv del dolore” contraddistinta, come argomenta Carmine Castoro (Il sangue e lo schermo, Mimesis 2017)4, da un’iconografia della paura costruita su pandemie, calamità naturali e attentati spalmati sul nulla di ore e ore di dirette attraversate da narrazioni ripetitive, opinionisti improvvisati, inviati e video amatoriali trasmessi in un estenuante e ansiogeno ripetesi di immagini di soccorritori e di disperazione in un loop di etichette ripetute come un mantra: “crimine efferato”, “tragedia immane”, “apocalisse”, “disastro epocale” e via dicendo.

In chiusura di libro, riprendendo la distopia prospettata da Brave New World5,  Postman sottolinea come ciò che Huxley aveva cercato di dirci è che ciò che affliggeva gli abitanti del mondo nuovo tratteggiato dal suo romanzo «non era ridere anziché pensare, ma non sapere per che cosa ridessero e perché avessero cessato di pensare». Verrebbe da dire che se si pensava di seppellire lor signori con una risata, è finita che oggi si ride davanti agli schermi – televisivi o degli smartphone – senza sapere di cosa e perché e, soprattutto, avendo mandato (da tempo) in vacanza il cervello.

In una contemporaneità tecnocratico-liberista in cui, come denuncia Bittanti nella prefazione al volume, in ambito accademico l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato, all’ottimizzazione dei motori di ricerca e alle strategie di gamification volte a generare profitto, «Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa». Quello di Postman è un libro che non ha bisogno di like, ma di essere letto e preso sul serio.


Estetiche del potere – serie completa


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Dark Media, in “Carmilla online”, 26 giugno 2023. 

  2. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo, in “Carmilla online”, 4 maggio 2016. 

  3. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp Magazine”, 22 febbraio, 2023; Matteo Bittanti, A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff), Università Iulm, 18 novembre 2022. 

  4. Cfr. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze, in “Carmilla online”, 29 dicembre 2017. 

  5. Cfr. Gian Paolo Serino, Aldous Huxley e la distopia, in “Carmilla online”, 8 settembre 2003. 

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Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

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Estetiche del potere. La risposta femminile al mito del lusso donnesco nella prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/25/estetiche-del-potere-la-risposta-femminile-al-mito-del-lusso-donnesco-nella-prima-modernita/ Sat, 24 Aug 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54129 di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Eugenia Paulicelli

Il mito che nella prima modernità voleva Venezia come città ideale e culla di libertà a cui contribuirono personalità come Cesare Vecellio e Giacomo Franco con le loro pubblicazioni sugli abiti e sui costumi, è stato aspramente contestato da scrittrici veneziane del Cinque e Seicento come Modesta Pozza ed Arcangela Tarabotti (al secolo Elena Cassandra Tarabotti).

La prima, autrice de Il merito delle donne (dialogo tra sole donne pubblicato postumo nel 1600 con lo pseudonimo di Moderata Fonte), ricorre all’artificio retorico di aprire il volume tessendo le lodi alla città lagunare, per poi mostrare come la vita pubblica della Serenissima escluda di fatto le donne, prive di diritti e non considerate parte attiva della comunità cittadina. Alla figura di Arcangela Tarabotti, ancora più sferzante e puntuale nella critica alla società veneziana, la studiosa Eugenia Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – dedica un interessante capitolo del suo volume Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019) [su Carmilla].

Costretta dal padre a perdere i voti in giovane età, Tarabotti è autrice di opere come La tirannia paterna, L’inferno monacale, Il paradiso monacale e Antisatira in cui la vita personale, pubblica e politica non sono mai separate dal contesto geopolitico. Si tratta di una produzione caratterizzate da una verve polemica e da una passione che non si ritrovano negli scritti di altre veneziane della prima modernità in cui la giovane monaca benedettina, forte di un’ottima conoscenza degli affari cittadini, della moda e delle consuetudini sociali maschili e femminili, sferra un attacco diretto al cuore dello stato veneziano decostruendone il mito di città della libertà prendendo di mira la struttura dispotica delle istituzioni della Serenissima. In generale, sostiene Paulicelli, le opere della Tarabotti sono caratterizzate da una critica sferzante e disincantata del patriarcato che sottende le istituzioni della società lagunare (famiglia, stato, istruzione ecc.).

Così come Modesta Pozza, anche Arcangela Tarabotti decise di aprire sia Tirannia Paterna (pubblicato postumo) che in Inferno monacale, con una presentazione di Venezia come baluardo di libertà, salvo «sostituire subito dopo quell’immagine con una visione opposta della città: come una prigione, la negazione della libertà, soprattutto per le donne. Per Tarabotti, Venezia diventa l’immagine stessa della misoginia, una città che gode di uno status e un prestigio internazionali, ma dove le donne rimangono cittadine di seconda classe e in cui lo spazio pubblico è loro negato».

I due libri circolarono per qualche tempo in maniera semi-clandestina a Venezia allo stato di manoscritti e nel caso de La tirannia paterna anche dopo la sua pubblicazione il testo continuò ad essere osteggiato tanto da venire bandito dalla Congregazione dell’Indice nel 1661, pochi anni dopo la sua pubblicazione postuma.

Tarabotti riuscì invece a pubblicare in vita Il Paradiso monacale (1643), l’Antisatira (1644), Lettere Famigliari (1650) e Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne (1651). A darle fama sarà soprattutto l’Antisatira, libro pubblicato anonimamente sotto la sigla D.A.T. in risposta alla Satira (1638 e 1644) scritta da Francesco Buoninsegni, in cui l’intellettuale senese prendeva di mira la moda femminile e con essa le donne. Nella sua replica Tarabotti, oltre a schierarsi per la libertà delle donne di seguire la moda, denunciò come questa toccasse parimenti gli uomini, tanto da insistere particolarmente nel descrivere la vanità maschile.

Nonostante la vita conventuale, la scrittrice riuscì a mantenere importanti contatti con la realtà culturale cittadina anche grazie al parlatoio, una sorta di spazio liminale tra l’isolamento del convento ed il mondo esterno, che «può anche essere visto come una forma di salotto, uno spazio intimo dove si discutevano gli affari pubblici, si scambiavano doni, si organizzavano matrimoni e così via». La studiosa Gabriella Zarri arriva a vedervi un’anticipazione della moda dei salotti francesi che si diffonderà negli stati italiani alla fine del Seicento.

La religiosa riuscì a stabilire legami con gli Incogniti, un gruppo di intellettuali libertini veneziani spesso presi di mira dall’Indice dei libri proibiti, incline ad uno stile di scrittura decisamente sperimentale per l’epoca. «Inutile dire che l’Accademia degli Incogniti era diretta da uomini […] L’Accademia era uno dei più importanti e riconoscibili “punti di ritrovo” per gli intellettuali italiani, sia dentro che fuori Venezia, così come per i letterati francesi».

«Quello che forse l’attraeva di più degli Incogniti», sostiene Paulicelli, «era il loro amore condiviso per la libertà. Deve esserle sembrato che, in questi ambienti, la lingua e le parole fossero libere da regole prestabilite. Nonostante le differenze tra la sua posizione femminista e la misoginia di molti dei letterati degli Incogniti, quello che condividevano era il desiderio di cambiamento e la passione per il potere rivoluzionario delle parole e del linguaggio».

Nelle sue pubblicazioni, Tarabotti si sofferma sull’accesso alla cultura delle donne, sul loro riconoscimento nella vita pubblica, sulla loro libertà e sul loro libero arbitrio. «In tutti i suoi scritti, Tarabotti fa ampio riferimento agli abiti, alla moda, all’apparire e al volto pubblico di uomini e donne, ma è in Tirannia paterna che questo filone del discorso di Tarabotti giunge a compimento. Ciò che collega i suoi scritti sulla moda e quelli sulla tirannia è la questione dell’inganno e di come vengono utilizzati in modo il linguaggio e i segni vengano utilizzati in modo e con scopi mendaci. L’arte di vestire e apparire per Tarabotti è simile all’atto della copertura e della stratificazione che è inerente alla rappresentazione e alla lingua, e dunque, per estensione, alla pratica della dissimulazione».

Nell’Antisatira la scrittrice si sofferma su quegli specifici elementi dell’abbigliamento distintivi della moda maschile nella prima metà del Seicento, denunciando la vanitosa passione degli uomini per le parrucche e i ricci, per i tessuti pregiati e per le vestiti, senza però essere per questo giudicati. «L’attacco di Tarabotti alla mascolinità fu in primo luogo, una risposta meticolosamente dettagliata e ben argomentata che con verve e intelligenza ha decostruito le finzioni della mascolinità come veniva rappresentata sulla scena sociale».

Nel libro la scrittrice si sofferma sull’usanza maschile di alterare, attraverso imbottiture, la forma del corpo, questione dibattuta nel corso del secolo da diversi scritti, come nel caso de La maschera scoperta (1671) di frate Arcangelo Aprosio, in cui viene sminuita la portata morale e simbolica delle trasformazioni del corpo maschile, mentre al contempo viene enfatizzata l’ingannevolezza insita nella medesima pratica da parte femminile. Nella lettura proposta dalla religiosa emerge una differente rappresentazione dell’abbigliamento maschile. «Nel falso ridimensionamento delle immagini di virilità, Tarabotti offre un quadro complesso della politica dello stile, genere e classe durante la sua epoca e offre interessanti argomenti sull’abilità delle donne e sul loro diritto e desiderio di controllare il proprio aspetto e la propria identità culturale».

Il dibattito sul lusso e sulla moda portato avanti nell’Antisatira deve essere collocato all’interno delle questioni della libertà e del libero arbitrio, e per Tarabotti «il diritto legittimo, la libertà e il piacere delle donne di abbellire i loro corpi e le loro apparenze, e il loro accesso a una vita intellettuale/pubblica sono la stessa cosa».

L’Antisatira può dunque essere vista come una risentita e piccata risposta femminile alla tradizionale lettura misogina del lusso donnesco. Il libro, oltre che riprendere la denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne presente negli altri testi della scrittrice, è anche «una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Si può dunque affermare, conclude Eugenia Paulicelli, che il suo testo risulta rivoluzionario per diversi motivi: «in primis perché difende il diritto della donna alla moda e al lusso, collegandolo al lavoro intellettuale, che può essere considerato parallelo alla cura del corpo. In altre parole, difende il diritto delle donne di essere libere e considera la cura di sé, del proprio corpo, della propria anima e del proprio cervello come atti che sono intrecciati e non separati dal controllo della vita, del comportamento delle donne e dell’economia del patriarcato. Affermando che le donne sono autrici della propria immagine e dei propri libri, Tarabotti può essere vista come una femminista radicale. Con riferimento alla chiesa, ha oltrepassato diversi confini difendendo il lusso invece di esaltare soltanto la castità e la modestia per le donne, e ha decostruito il mito secondo cui gli uomini non erano interessati all’apparire e all’eccesso».


Serie completa Estetiche del potere

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Estetiche del potere. Moda e significati politici nello spazio pubblico della prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/20/estetiche-del-potere-moda-e-significati-politici-nello-spazio-pubblico-della-prima-modernita/ Tue, 20 Aug 2019 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54145 di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il [...]]]> di Gioacchino Toni

Con il termine costume si è soliti riferirsi a valori ideali, usanze e credenze costanti e permanenti che caratterizzano, in una data epoca, il comportamento, il modo di essere, la vita sociale e culturale di una collettività. A differenza del costume, che tradizionalmente si riferisce al mantenimento di tutto ciò che ha a che fare con la vita quotidiana, la moda sarebbe invece una proposta alternativa, quando non vera e propria rottura nei confronti della tradizione.

L’idea che si possa  parlare di moda soltanto a partire dall’Ottocento, riservando invece il termine costume ai periodi precedenti, è ormai messa in discussione in quanto così facendo si rischia di rimuovere il dinamismo pur presente anche nelle epoche precedenti alla società industrializzata. Secondo diversi studiosi converrebbe consentire ai due termini di interagire anche alla luce del fatto che all’interno di ogni determinato sistema moda sono comunque operanti tanto stabilità che cambiamento.

Il volume di Eugenia Paulicelli, Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019), passando in rassegna la moda così come è stata testualizzata e codificata attraverso un discorso sul vestire e sullo stile nell’Italia del Cinque e Seicento, contribuisce a spiegare come, sin dai primi secoli dell’età moderna, la moda rappresenti un’importante istituzione sociale agente sull’immaginario collettivo capace di trasmettere significati estetici, politici ed economici nello spazio pubblico.

Se l’abbigliamento e la moda vanno annoverati tra gli strumenti attraverso cui la cultura umanistica ha trasmesso l’ideologia, il gusto e lo stile con cui l’élite europea ha forgiato le sue identità in termini estetici, la produzione letteraria italiana del XVI e del XVII secolo dedicata a tali argomenti permette di comprendere meglio il ruolo politico assunto dalla moda a livello europeo nella prima modernità.

Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – oltre ad analizzare testi di Baldassarre Castiglione (Venezia, 1528), Cesare Vecellio (Venezia, 1590 e 1598), Giacomo Franco (Venezia, 1610), Agostino Lampugnani (Bologna, 1648) presenta alcune protagoniste femminili che fanno da contraltare alla costruzione della mascolinità: Elisabetta Gonzaga, Caterina e Anna Sforza, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Lucrezia Marinella e, soprattutto, Arcangela Tarabotti, a cui dedicheremo presto spazio.

Moda e moderno, sottolinea Paulicelli, hanno comuni radici etimologiche (dal latino modus); moderno si riferisce a ciò che è attuale, contemporaneo ed il termine moda riprende l’idea di norma, modalità, finendo gradualmente per essere associato a quanto appare come novità.

La prima modernità italiana è caratterizzata da un recupero dell’antichità finalizzato a nuovi modelli culturali, politici ed artistici in linea con i nuovi tempi. Come spesso accade nei momenti di grandi cambiamenti, e la prima modernità è sicuramente uno di questi, finiscono col fronteggiarsi l’entusiasmo per le novità e il tentativo di controllarle. «In effetti, nel contesto della moda, l’euforia umanistica di un essere simile a Dio nel controllo della sua apparenza e del suo posto nel mondo, libero di auto-creare, sarebbe contrapposta a norme introdotte per standardizzare la bellezza, le buone maniere, il gusto nel vestire e nello stile, nel senso di “saper vivere”». (p. 36) Nel contesto umanistico, alla celebrazione dello spirito di autodetermiazione dell’essere umano si contrappone l’idea di dover normalizzare la bellezza, le maniere, lo stile ed il gusto nell’abbigliamento.

Nel corso del Cinquecento, parallelamente allo svilupparsi in tutta Europa di una vera e propria curiosità nei confronti della novità, in parte supportata dall’entusiasmo per la scoperta del Nuovo mondo, prende piede una vera e propria “morale contro il cambiamento”. L’abbigliamento, nel suo essere una delle manifestazioni principali di trasformazione, diviene anche uno dei settori principali su cui i moralisti insistono nel condannare la mutevolezza. L’incostanza del costume, esplicitata dalle trasformazioni dell’abbigliamento, agli occhi dei religiosi rappresenta una minaccia alle fondamenta stesse della religione: nella mutazione delle apparenze viene messo in discussione quanto previsto in natura da Dio. La morale contro il cambiamento si inserisce all’interno del tentativo compiuto dal cattolicesimo di definire a livello confessionale l’esistenza quotidiana dell’individuo: la quotidianità diviene il teatro in cui si manifesta la presenza reale del divino tra gli esseri umani e la cultura della trasformazione, che si esplicita nella mutevolezza delle mode, rappresenta una rischiosa messa in discussione della sacralità presente nella quotidianità.

Il diffondersi nei primi secoli di modernità di una letteratura incentrata sull’aspetto del corpo rappresenta un evidente sintomo della formazione di una nuova soggettività. Al di là delle differenze, in tutta la letteratura dell’epoca risulta palese la consapevolezza di come l’aspetto del corpo concorra in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità di un individuo che intende governare il proprio destino.
In diversi testi si rintraccia la necessità di dare “forma e memoria” ai cambiamenti che stanno riformulando il mondo. «Per essere efficaci, le nuove forme dovevano essere accettabili per l’ordine stabilito e per essere accettabili hanno dovuto far quadrato con la tassonomia dei valori dei gruppi delle élite al potere». (p. 47)

La diffusione ed il successo a livello europeo di testi come Il libro del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione contribuirono alla standardizzazione culturale e a creare una vera e propria competizione tra le élite relativamente all’aspetto pubblico con cui mostrare il potere detenuto.

Oltre che costruita, l’identità della prima modernità è anche legiferata: l’aspetto non ha a che fare solo con la scelta degli abiti e degli accessori, ma anche con ciò che la legge consente o meno. L’abbigliamento rappresenta uno dei segni più visibili dello status dell’individuo e ciò a maggior ragione in un’epoca di rinnovamento delle relazioni gerarchiche tra le classi dettato da un’ascesa borghese che si rivelerà inarrestabile.

Sono soprattutto i casi di corss-dressing, di slittamento di abitudini e gusti tra le diverse classi, a determinare la nascita di leggi suntuarie volte a preservare e disciplinare l’ordine sociale e il controllo sulle donne, costrette a conformarsi all’immagine di modestia e decoro e al disciplinamento del corpo. Nonostante gli intenti, sottolinea Paulicelli, tali leggi non hanno saputo mantenere l’ordine previsto in quanto spesso aggirate. Da tali infrazioni, da tali slittamenti tra classi, hanno spesso preso vita nuovi stili.

Gli studi femministi hanno mostrato come il ruolo della donna, perlomeno all’interno dell’alta società, nei confronti della moda non sia stato assolutamente passivo. Anzi, il controllo che hanno saputo esercitare sulla moda e sullo stile, nonostante le norme e le leggi, sta ad indicare come l’abbigliamento sia diventato «un luogo in cui attirare l’attenzione sociale su loro stesse all’interno di un panorama culturale che cercava di annientarle come agenti del proprio personaggio, pubblico o privato». (p. 87).

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Estetiche del potere. La dimensione mediologica del politico-brand https://www.carmillaonline.com/2018/10/09/estetiche-del-potere-la-dimensione-mediologica-del-politico-brand/ Tue, 09 Oct 2018 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48028 di Gioacchino Toni

Primo frammento. Barack Obama che, nel suo presentarsi come profeta in grado di fidelizzare l’intero pianeta con i suoi discorsi, posa vicino a una statua di Superman.

Secondo frammento. Marine Le Pen che riferendosi al pamphlet-denuncia La France Orange Mécanique (2015) di Laurent Obertone sul livello di violenza raggiunto in Francia lo definisce “il libretto arancione”, creando così una sorta di cortocircuito tra immaginari distanti tra loro come il libretto rosso di Mao e il film di Kubrick.

Terzo frammento. L’Isis che nei suoi video propagandistici in cui decapita gli [...]]]> di Gioacchino Toni

Primo frammento. Barack Obama che, nel suo presentarsi come profeta in grado di fidelizzare l’intero pianeta con i suoi discorsi, posa vicino a una statua di Superman.

Secondo frammento. Marine Le Pen che riferendosi al pamphlet-denuncia La France Orange Mécanique (2015) di Laurent Obertone sul livello di violenza raggiunto in Francia lo definisce “il libretto arancione”, creando così una sorta di cortocircuito tra immaginari distanti tra loro come il libretto rosso di Mao e il film di Kubrick.

Terzo frammento. L’Isis che nei suoi video propagandistici in cui decapita gli “infedeli” ricorre a modalità espressive che fanno il verso tanto agli action movie hollywoodiani che all’immaginario dei reality show, facendo della morte cruenta e reale uno spettacolo trasmesso in mondovisione.

È con questi tre frammenti esemplificativi della dimensione post-politica caratterizzante la contemporaneità che Guerino Nuccio Bovalino, in apertura del suo libro Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi, 2018), palesa la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico, dalla tweet-crazia di Trump ai populismi digitali che esondano dal web, proponendosi di indagare quell’immaginario mitico e mediale che rappresenta il territorio sul quale si sviluppa. L’obiettivo del volume è quello di «costruire un’indagine sul politico, che della politica costituisce l’essenza, prendendo in esame le immagini e i simboli sui quali si costruisce la dimensione esistenziale del soggetto e della società, che sono d’altronde le unità minime di più complesse costellazioni dalle quali derivano forme differenti di immaginari, che consentono a loro volta di rappresentarsi come espressioni di singoli individui e di costruire in questo modo una rappresentazione condivisa della società e del mondo» (p. 16).

Bovalino interpreta il politico come «uno dei tanti aspetti della vita quotidiana: una tela di suggestioni e immagini, di parole e sentimenti (elementi che chiamano tutti in causa gli aspetti irrazionali ed emotivi della politica). Ogni atto ritenuto politico si crea, vive e si alimenta tramite immaginari e miti sedimentati, riferimenti culturali alti quanto bassi. Il politico è compreso interamente nelle dinamiche dell’industria culturale. La crisi delle ideologie e la fine della dicotomia destra-sinistra sono concetti attualmente interiorizzati nelle analisi politiche degli esperti, consci più che mai di non poter prescindere da tali verità ormai affermatesi con evidenza. Il nodo culturale e politologico di uno studio che vuole risultare incisivo sta nello sciogliere la complessità che presenta un’indagine sui processi tramite cui si crea oggi il consenso per un leader anziché un altro; e soprattutto individuare quali idee modellano, contrapponendosi, le nuove fratture che spingono l’elettore a polarizzare le proprie scelte verso un determinato schieramento» (p. 17).

Alle vecchie forme di aggregazione partitiche la contemporaneità sembra aver sostituito gruppi di individui che si aggregano per condividere passioni riconoscendosi come comunità attorno a delle «immagini simboliche riconducibili ad archetipi e miti immutabili incarnati oggi in nuovi stereotipi e di conseguenza cristallizzati in forme precarie ma riconoscibili» (p. 19). È così che la politica si sarebbe trasformata da medium della convinzione a strumento di seduzione. Non sarebbero pertanto, sostiene Bovalino, le ideologie e i programmi a creare proseliti, quanto piuttosto l’abilità dei diversi leader «di fare propri, inglobandoli nella propria sfera comunicativo-simbolica, quei simboli in grado di sollecitare e solleticare la parte sensibile e irrazionale dell’individuo-elettore. Come spiegano efficacemente De Kerkhove e Susca nel loro Transpolitica, alla politica non è rimasta che la possibilità di far proprie le figure dell’immaginario, poiché – nell’era della propria riproduzione digitale – essa si può declinare esclusivamente come spettacolo di una potenza che mima le effervescenze sociali prodotte dai media e non più come verticistica e asettica istituzione di potere» (p. 19).

La dimensione politica, sostiene lo studioso, nei tempi recenti ha teso ad abbandonare le forme tradizionali di democrazia in direzione di forme inedite di videocrazia, comunicrazia e imagocrazia. La prima tipologia, in cui la politica si lega ai media in maniera ancora verticale e verticistica, ha, in Italia, in Silvio Berlusconi il suo massimo interprete. La seconda si presenta come uno sviluppo della prima ed è riconducibile ai personal media e al web che consentono di produrre, oltre che consumare, messaggi. A tale tipologia Bovalino inscrive modalità e soggetti che vanno «dalla telepolitica alla politica dei tweet e dei selfie, fino ai nuovi movimenti come il Partito Pirata tedesco e il Movimento 5 Stelle italiano, che della partecipazione digitale hanno fatto la propria ragione d’essere» (p. 20). Per quanto riguarda invece l’imagocrazia, essa, sostiene l’autore del saggio, si alimenta nel «luogo dove si svolge la nostra relazione con l’ambiente e gli altri esseri viventi: un’atmosfera nella quale si mescolano idee, libri, visioni, film, pubblicità, vissuto quotidiano, fumetti, cultura alta e cultura bassa, filosofia e banalità. L’immaginario chiamato in causa è filtrato, prodotto e riprodotto dai media e nello specifico soprattutto dalle nuove tecnologie digitali. Il politico ha ormai metabolizzato le dinamiche del consumo e vive interamente all’interno di questo brodo babelico e poliforme di immaginari (e solo con esso può sperare di sopravvivere)» (pp. 20-21). All’interno di tale zibaldone, continua lo studioso, il leader politico è un brand come lo sono Nike e Apple.

«La politica si nutre dell’immaginario ed è una dimensione, similmente alle altre che compongono la società, nella quale sono rintracciabili e riconoscibili degli archetipi, sublimati e riconfigurati in immagini e mitemi che appartengono alla dimensione mediale del nostro tempo. Tali archetipi si sublimano in idee-mondo che, pur incardinandosi nelle dialettiche moderne, si rifanno a categorie dell’immaginario e del mito che continuano a funzionare come efficaci direttrici nella creazione e nell’interpretazione del mondo, sebbene rimandino a una dimensione ancestrale» (p. 21).

Se storicamente l’essere umano ha tentato di colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita ricorrendo a figure deistiche, mitologiche, religiose, ideologiche, capaci di trasformarlo in un «soggetto capace di agire sul mondo e di relazionarsi con esso, quale parte di una rete più ampia dove egli individualizzava la propria esistenza con un’idea della vita e un progetto specifico» (p. 22), oggi, secondo l’autore del volume, quel dispositivo capace di consentire all’essere umano di divenire soggetto storico è colmato dai media e dagli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.

«Nel cercare di leggere le nuove fratture all’interno della società, le visioni che da queste scaturiscono e gli immaginari che le riempiono di senso», Bovalino propone «una trinità costituita da tre mitologie esistenziali, tre archetipi che determinano altrettanti macro-immaginari» (p. 22). Pur trattandosi di paradigmi fluidi e mobili, essi possono essere utili al fine di individuare «tre mitologie più visibili e marcate che possono funzionare come nuovi modelli di categorizzazione e interpretazione politica della società, dell’immaginario: non più i dispositivi ideologici della destra e della sinistra, ma i miti che fungono da dispositivi di Prometeo, Dioniso e Orfeo» (p. 22). Ciascuna di queste mitologie costituirebbe un particolare dispositivo utile ad interpretare la realtà e a vivere in accordo a traiettorie specifiche. «L’immaginario mitologico che ognuno di questi racconti mitici racchiude, coniugato con la contemporaneità, meglio di ogni altra schematizzazione può offrire il senso delle parti in causa nel confronto politico, poiché non si limita a una mera lettura politologica, ma esprime delle forme che contemplano anche le dimensioni estetiche, sensibili e irrazionali proprie di ogni particolare visione dell’esistenza che incarniamo in quanto soggetti (p. 23).

«Il mito di Prometeo è la volontà di potenza insita nel messianismo di Obama, così come nelle distopie di un controllo burocratico e tecnicistico della società, e dunque in tutte le forme di progressismo e fideismo e nella rivoluzione affidata alle mani dell’Eroe e del Supereroe (che sia poi una rivoluzione liberale o tecno-utopistica poco importa)» (p. 23). Bovalino individua come epifenomeni di questa progettualità tanto i neocon nordamericani, con la loro ossessione di esportare la democrazia nel mondo, quanto l’utopismo cyber-democratico del primo Movimento 5 Stelle e i progetti universalistici e post-politici presentati da Zuckerberg nel suo manifesto neoumanista.

«Il mito di Dioniso e dell’errante ebbrezza racconta del rifiuto di ogni paradigma fondativo della modernità, di un’accanita critica del progressismo in nome di un rinvenuto primato del sentire, dell’emozione e della sensualità dell’essere» (p. 23). Secondo lo studioso sarebbero epifenomeni di tale suggestione «le corrispondenze e la comunione con la vita e l’accondiscendenza a ogni desiderio intimo, allorché gli individui restano quotidianamente immersi nelle proprie esistenze digitali come avatar che consumano se stessi e gli altri» (p. 23).

«Il mito di Orfeo, infine, si caratterizza come tensione verso un ritorno al sangue e alla terra. Uno sguardo dritto negli occhi dell’apocalisse che i seguaci di Orfeo scorgono nella contemporaneità, infestata dall’invasività tecnologica e dalle ideologie gender, che sono l’apice di un attacco inarrestabile a ogni forma tradizionale e spirituale di ideale comunitario e naturalistico della vita. Orfeo è un monito che brama un atto superomistico predestinato a materializzarsi a dispetto della virtualità delle nostre vite digitali» (pp. 23-24). In questo caso Bovalino fa riferimento a un magma eterogeneo e contraddittorio che non di rado si incanala verso logiche identitarie e difesa della famiglia tradizionale che individuano nella religione un ruolo di collante sociale. «Si scorge fra gli orfici una rinnovata critica del capitalismo, uno schieramento trasversale e post-ideologico che si pone contro i poteri cosiddetti forti che a giudizio loro ne giustificano le ingiustizie, perché frutto di quella che è comunque l’unica forma politica capace di mantenere in vita il migliore dei mondi possibili» (p. 24).

Al termine della disamina lo studioso non può che sottolineare come tali mitologie siano di matrice conservatrice e conservativa, incapaci come sono nel loro porsi come lettura ideologica e visione astratta del tempo presente, di farsi carico «della carne che pulsa negli angoli reconditi dell’individuo e del vivente […] Il mito e le mitologie qui presi in esame sono infatti le diverse facce della stessa medaglia, poiché in tutti loro è presente la riproposizione di una narrazione dominante con la quale cercare di gestire il mondo. Anche la narrazione dionisiaca, che pretende di essere priva di narrazione e proiettata verso una sovversione delle forme tradizionali, si risolve come una forma di ribellione pienamente incardinata nel meccanismo che si impegna a destrutturare. Non vi è quindi nella dimensione dionisiaca una capacità di evadere dalla violenza mitica, quanto semmai un vivere annidati al suo interno come reazione riflessa» (p. 118).

L’analisi della dimensione mediologica assunta dal politico presentata dal volume coglie un aspetto importante delle trasformazioni recenti che varrebbe la pena intrecciare con le analisi dei mutamenti economici e produttivi che caratterizzano un’epoca in cui il politico, appunto, è divenuto un brand che, in quanto tale, ha il compito di realizzare profitto: probabilmente mai come oggi gli ambiti dell’immaginario, del politico e dell’economico risultano un corpo unico inscindibile. Resta da dire che, parallelamente alla crisi della democrazia tradizionale e delle sue trasformazioni in videocrazia, comunicrazia e imagocrazia, continuano a svilupparsi, nonostante tutto, anche esperienze politiche dal basso altre. Sicuramente si tratta di esperienze piccole, marginali e contraddittorie, ma esistono. Ed esistono anche se i media non ne danno conto o si limitano a criminalizzarle e, a ben guardare, queste esperienze si caratterizzano non per essere semplici auspici o desideri ma per essere pratiche di riscatto dell’essere umano. Una volta individua la tragedia dello stato di cose presenti, ben esemplificata dalla deriva del politico-brand, varrebbe la pena di ripartire da quel pur piccolo e magari anche brutto, sporco e cattivo movimento reale che continua a esistere e ad adoperarsi per abolire l’infame stato di cose presenti. Senza intermediari.

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Estetiche del potere. Comunità a tempo determinato, mercificazione e politica simbolica https://www.carmillaonline.com/2018/03/06/reale-dellenelle-immagini-divismo-allepoca-dei-social-media-comunita-tempo-determinato-corpi-mercificati-politica-simbolica/ Mon, 05 Mar 2018 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41986 di Gioacchino Toni

Tra i diversi motivi del successo dei reality show televisivi probabilmente vi è anche la loro promessa di soddisfare il desiderio contemporaneo degli individui di essere inquadrati da una qualche telecamera. Scrive a tal proposito Vanni Codeluppi nel saggio Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017): «È fondamentale per tutti gli individui, cioè, riuscire a trasferirsi all’interno di uno dei tanti schermi che hanno quotidianamente davanti. Proprio per questo per essi è necessario sviluppare una modalità di comunicazione basata su un modello relazionale di conflittualità simbolica con gli altri» (p. 45).

Se la tv degli anni Ottanta prometteva [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra i diversi motivi del successo dei reality show televisivi probabilmente vi è anche la loro promessa di soddisfare il desiderio contemporaneo degli individui di essere inquadrati da una qualche telecamera. Scrive a tal proposito Vanni Codeluppi nel saggio Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017): «È fondamentale per tutti gli individui, cioè, riuscire a trasferirsi all’interno di uno dei tanti schermi che hanno quotidianamente davanti. Proprio per questo per essi è necessario sviluppare una modalità di comunicazione basata su un modello relazionale di conflittualità simbolica con gli altri» (p. 45).

Se la tv degli anni Ottanta prometteva di ricostruire quei legami personali e affettivi frammentatisi nella società, il modello dei reality si muove in direzione opposta: tutti contro tutti, spettatori contro concorrenti, concorrenti contro concorrenti.

Se lo spettatore all’interno del modello del reality vota per eliminare un concorrente del programma, in realtà elimina anche se stesso. Perché quel concorrente è profondamente simile a lui. Il reality infatti illustra molto bene la natura del divo. Se questo, come sosteneva Edgar Morin [I divi, Garzanti, 1977], è una figura dalla duplice natura (umana e sovrumana) e deve dimostrare di essere una persona come le altre ma di possedere al contempo delle particolari qualità, così anche il protagonista del programma di reality si colloca perfettamente in bilico tra l’ordinarietà e la straordinarietà, tra la persona comune che lo sta guardando e il divo che vive in un mondo lontano e prestigioso (pp. 45-46).

Nel reality lo spettatore si trova contemporaneamente davanti e dentro allo schermo. «Il modello del reality show però ha successo principalmente perché tra il flusso della vita quotidiana e il flusso televisivo esiste una naturale affinità. Entrambi si basato infatti sull’idea di contemporaneità, di evento che si svolge proprio nel momento in cui lo si sta guardando» (p. 46). Per certi versi il reality porta a compimento la promessa televisiva di catturare e restituire allo spettatore la realtà mentre questa si svolge. Tutto appare imprevedibile, apparentemente senza rispettare un copione prestabilito, e ciò produce nello spettatore l’impressione di avere il controllo su tale imprevedibilità, cosa che non ha nella vita reale. Nei reality lo spettatore guarda e si guarda, si sente giudicato e giudica. «Ne deriva che tra lo spettatore e la realtà rappresentata si ricostruisce, seppure filtrato attraverso lo schermo, quel rapporto basato sulla reciprocità che, secondo Simmel [Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, Feltrinelli, 1983], si trova alla base della vita sociale e rappresenta probabilmente una delle ragioni del successo ottenuto oggi dal genere reality» (p. 47).

Se, come sostiene Zygmunt Bauman (Voglia di comunità, Laterza, 2001), le società contemporanee sono caratterizzate dalla solitudine degli individui, il reality rappresenta una forma di comunicazione, per quanto artificiale ed illusoria, una forma di comunità, seppure a tempo determinato.
Secondo Codeluppi, rispetto ad altre forme di spettacolo, il reality sembra intensificare l’identificazione: la sensorialità del corpo anziché venire soffocata viene amplificata. Il corpo dello spettatore non è più immobile e al buio. In quella che lo studioso definisce “Transtelevisione” (Stanno Uccidendo la tv, Bollati Boringhieri, 2011) – «lo spettacolo non è scomparso, ma al suo interno sono presenti, anziché dei professionisti, gli stessi spettatori, naturalmente attraverso dei loro credibili rappresentanti» (p. 47).

Affinché il reality funzioni occorre che tra spettatori e protagonisti vi sia somiglianza, dunque la televisione diviene una sorta di specchio in cui allo spettatore sembra di parlare a se stesso trasformandosi così in un divo. Parte del successo dei reality, soprattutto dei talent show, è data dall’impressione che uno sconosciuto, come lo spettatore, possa divenire improvvisamente una celebrità e chi partecipa al programma deve dimostrare di essere il migliore nella competizione televisiva nel

gestire pubblicamente la sua immagine, nel trasformare la sua vita in spettacolo. Il che lo fa sentire pienamente parte di una realtà sociale come quella contemporanea, in cui gli viene chiesto in continuazione di costruire un’identità adeguata all’impiego nelle situazioni pubbliche che affronta e in cui ha la necessità di difendersi dall’invadenza del prossimo. E non importa se non vince oppure viene escluso. Ciò che conta, comunque, è riuscire a raggiungere la popolarità, avere la propria parte di applausi, anche se per un tempo estremamente limitato (p. 48).

Il volume di Codeluppi, dopo aver passato in rassegna i fenomeni del divismo nel mondo del cinema, della televsione, della musica, dello sport e della moda, si sofferma sul divismo nei social media. Questi ultimi, oltre a essere strumenti che, grazie al loro aumentare il contato tra divo e fan, risultano utili nel supportare tutte le altre forme di divismo contemporaneo, risultano importanti anche perché permettono un ruolo partecipativo ai fan e in generale agli utenti. Anche se la distinzione tra divo e fan sembra restare salda, è innegabile che l’era dei social media abbia comportato una generale esposizione mediatica che si estende anche ai normali utenti che, proprio come i divi, si trovano a curare l’immagine di sé che intendono trasmettere al pubblico più o meno allargato e la ricerca di un audience sempre più vasta, sostiene Codeluppi, tende a far adottare all’individuo un modello culturale decisamente conformista «virato al positivo dove non è previsto uno spazio per le lamentele e le critiche e tutto dev’essere presentato come allegro e spensierato» (p. 71). Su tale aspetto si veda lo scritto “Il reale delle/nelle immagini. Esibizionismo, selfie, mercificazione e costruzione identitaria” [su Carmilla].

A dispetto dei racconti che vogliono lo youtuber di successo come un geniale e abile comunicatore improvvisato, non di rado, sottolinea lo studioso, si ha a che fare con personaggi meticolosamente costruiti da agenzie specializzate nella creazione di corpi da/in vendita. Corpi da vendita perché finalizzati alla promozione di merci all’audience e corpi in vendita perché, in fin dei conti, è il corpo stesso della star del web ad essere venduto. «Nessuna meraviglia allora se nel nuovo mondo digitale il successo arriva soprattutto a chi accetta maggiormente di diventare una merce per propagandare nove merci» (p. 72).

Da una ricerca empirica condotta da Letteria Fassari (Poplife. Il realitysmo tra mimetismo e chance sociale, Carocci, 2014) sugli aspiranti partecipanti al Grande Fratello dell’edizione italiana, emerge l’aspirazione di questi giovani a «collocarsi in un flusso informativo che tende a fa coincidere il lavoratore e il comunicare» (p. 117), in altre parole pare divenire sempre più importante

saper comunicare al meglio con il prossimo. Anche perché ciò oggi [appare come] un vero e proprio obbligo sociale imposto dalle retoriche della creatività e della performance. In questa situazione, per i candidati al Grande Fratello il modello del reality si propone come una rassicurante fuga da una realtà che offre solitamente limitate possibilità di realizzare il proprio progetto di vita. Ovvero il reality si presenta come un luogo particolare che non appartiene né alla realtà esterna, né al mondo interiore del soggetto (pp. 117-118).

Nell’era contraddistinta dai media partecipativi, secondo Nick Abercrombie e Brian Longhurst (Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, 1988), «tutti sono indotti a compiere quotidianamente delle performance davanti a un pubblico immaginario. Sono ciò dei performer che sentono di doversi esibire in continuazione davanti a una vera e propria “audience diffusa”» (p. 118).

Le ultime pagine del volume di Codeluppi sono dedicate al rapporto tra divismo e politica e in particolare al venir mendo della netta distinzione tra divi dello spettacolo e personaggi delle élite tradizionali, economiche e politiche, così come era stata delineata nei primi anni Sessanta da Wright Mills (L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 1962). Le televisioni e il web hanno progressivamente avvicinato questi due ambiti e la gestione del potere sembrerebbe sempre più avere «a che fare con il possesso delle informazioni che contano in un determinato momento e con entrare in contatto con tali informazioni. Ciò comporta la necessità di frequentare gli ambienti e i rituali sociali adeguati. E far parte dell’élite dei divi dello spettacolo certamente aiuta i politici in questo compito» (p. 120).

Tutto ciò sembrerebbe però indebolire la forza della politica che «impiegando progressivamente il linguaggio del gossip del mondo dei divi, riduce inevitabilmente il potere del suo specifico linguaggio e tende perciò a perdere prestigio» (p. 121). Il politico contemporaneo tende a trasformarsi in una specie di celebrità che si occupa principalmente della politica simbolica delegando la politica reale ad agenzie che non necessitano di consenso in quanto autoprodotte direttamente dal potere economico.


Serie completa: Estetiche del potere

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Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze https://www.carmillaonline.com/2017/12/29/42201/ Thu, 28 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42201 di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa girare vorticosamente due ratio superiori: la fossilizzazione e la futilizzazione dell’essere umano nel suo tragico apparire, l’era glaciale di un eterno presente e l’irrilevanza di ogni sua manifestazione» (p. 17).

Fiumi di parole di esperti a proposito di disastri ambientali o stragi terroristiche, colate di bile anti-immigrati da parte di populisti a caccia di facile consenso, improvvisi allarmi medici che strizzano l’occhio alle multinazionali farmaceutiche, criminologi che con incredibile sicumera pontificano in ogni tipo di trasmissione, programmi d’informazione che insistono con loop di esecuzioni, liti finite nel sangue, cadaveri di cui pateticamente si maschera il volto al pari delle targhe automobilistiche dei vip… Gli schermi televisivi e del web grondano di Male in tutte le sue sfumature. Si tratta di un Male mediatizzato «astorico, vitreo, untuoso, travisato da una precisa congettura: che sia sbarazzabile e barattabile in quanto lembo lercio e putrefatto della nostra vita. Ed è così che circola come moneta sonante nel Sistema, rendendoci rispetto a esso […] solo dei “devianti” o degli “ovvianti”: gente pericolosa, o corpi fiaccati da tempi troppo veloci che però devono aggiustarsi come “si” vuole che “si” sia» (p. 18).

Di certo la paura è diventata una merce, e «anche per la paura, soprattutto per la paura e la malvagità, siamo dentro quella che Lipovetsky [Una felicità paradossale, Raffaello Cortina, 2007] ha battezzato come la fase III del capitalismo. Se la I era caratterizzata dall’inizio della produzione di massa, da oggetti di lusso ancora a preponderanza borghese, con la seconda si entra nella società dell’abbondanza, del desiderio, quella che consolida le marche e il packaging ma su vasta scala e per tutti, dove inizia a prevalere il funny, l’offerta seduttiva e tattile, giovanile, divertente, la logica-moda, gli oggetti-faro, l’ostentazione, la distinzione [Mentre] è nella III che si installa l’Homo Consumericus, intrappolato in una “economia di varietà e di reattività” dove la rimessa e l’assortimento delle merci è massimo, il retail è una garanzia, ma dove lo spirito del consumo attracca e mette tende in ogni ripostiglio, in ogni rimasuglio della vita, diventandone la concimazione, e dove si vagliano molto i tempi, la comunicazione, la soggettività, il conatus verso un certo prodotto, e il maremagno dell’esperienza è oggetto di sempre nuove passioni, tonificazioni, modellistiche, rivelazioni e rilevazioni. “Tutto accade come se, da ora in poi, il consumo funzionasse come un impero, senza tempi morti e senza confini”. La vita, de-simbolizzata, de-socializzata nei suoi legami comunitari forti, de-conflittualizzata si trasferisce armi e bagagli nelle sue effervescenze mediatiche, nel personalismo del mordi e fuggi, dell’usa e getta, nelle accelerazioni frenetiche di ciò che va comprato e sentito intimamente, nelle taglie su misura che di ogni bene e servizio – e stato dell’anima – la Grande Sartoria del Tele-Capitalismo sforbicia, abbozza, delinea» (pp. 12-13).

In tale terza fase del capitalismo, continua Castoro, la cultura si presenta come vero e proprio investimento finanziario obbligato a essere redditizio ed è in tale contesto che «la paura diventa un aggregatore di effetti, un pacemaker, uno dei tanti pneumotoraci che ci aiutano a inspirare, che ci fanno sentire vivi, e che fanno nelle nostre coscienze un baccano tintinnante di quattrini [e il] Male diventa, allora, un circuito parallelo, di modalità, di temporalità, di condizioni d’uso rispetto alla realtà: due linee che procedono all’infinito e che non si incontrano mai. Per questo diventa zimbello, suspense, aspettativa: meglio godersi il fotoromanzo a puntate del furfante di turno o del Man in Black che difende qualche loggia filo-governativa che pensare a sradicarne le fonti di alimentazione e diffusione. Il Male, dunque, soffice pagliericcio su cui si appoggia il Potere, sconfessato finanche dal nostro destino, si riduce a pulsantiera di opzioni pulp» (pp. 13-14).

Nulla deve rovinare al felicità di consumo del cittadino-telespettatore, pertanto è la miseria stessa a essere trasformata in intrattenimento. Se la prima polarità è indicata dallo studioso in Barbara D’Urso – «Mater Lacrimarum italiana per antonomasia, rappresentante più in vista e più costante nei suoi effetti tragicomici di quella “tv del dolore” che ha veramente subornato la nostra cognizione dei drammi umani negli ultimi anni» -, la seconda polarità indicata da Castoro è quella dell’ISIS. Tanto la star della tv del dolore, quanto la compagine fondamentalista dispensatrice di terrore, «sono, nei fatti, l’idea corrente di bene e di male che ci facciamo […] I padroni della videocrazia imperante rincorrono, con una banale iconografia della paura, attentati e calamità che non sanno illustrare – figurarsi prevenire – con un’adeguata informazione civica e poliedrica, e le cui manifestazioni più tremende preferiscono spalmare sul nulla di ore e ore di dirette costellate da racconti-routine, imbarazzanti opinionisti, imbarazzati inviati, cifre e probabilismi, videuzzi di reporter amatoriali trasmessi a go-go come se nella loro oscena ipervisibilità potessimo attingere le ragioni di una violenza che, invece, ancora sfuggono a molti. Si ripetono le solite etichette: tragedia immane, inferno, apocalisse, scenario inquietante, atmosfera irreale, “una triste pagina di storia che rimarrà nella nostra memoria”, immagini che si soffermano su barelle, feretri, gente disperata, familiari impotenti, soccorritori che si sentono male, senza che un bandolo arrivi mai a dipanare una matassa che resta ingarbugliata e autoreferente, dentro un’attesa che risulta ansiogena e stordente» (pp. 18-20).

Nei media mainstream contemporanei prevale una temporalità limitata all’istantaneo o votata al flusso inarrestabile, frammenti privi di storia o scorrimento magnetico ipnotizzante, choc verbali e/o visivi o colata priva di contenuti interessanti. Ciò che manca, sostiene Castoro, è «la temporalità “media”, quella dell’osservazione partecipata, della raffinazione delle emozioni, delle analisi complesse, dei punti di sintesi, delle letture allargate governate dalla serietà e dalla reale competenza di chi parla, e non dei soliti “vip” narcisi e mistificatori a microfono sempre aperto». Ma, soprattutto, continua lo studioso, «manca l’elemento “di fuga”, quello che dopo la comprensione ci spinga a una trasformazione democratica dell’esistente e a un upgrade etico e deontologico di tutti, in tutti i campi della vita pubblica e privata. Vorrei ignorare come funziona la gru che solleva le lamine d’acciaio accartocciato o il macchinario che le trincia – a Corato o in qualsiasi altro deragliamento – e sapere prima, molto prima, delle pastoie che arretrano verso frontiere medievali intere fette del nostro paese o del pianeta in cui ho avuto la sorte di nascere» (p. 21).

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Estetiche del potere. Sul guardare: note su abbigliamento, egemonia e autonomia https://www.carmillaonline.com/2017/09/07/estetiche-del-potere-sul-guardare-note-abbigliamento-egemonia-ed-autonomia/ Wed, 06 Sep 2017 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40223 di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini [...]]]> di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini che nelle campagne europee hanno potuto indossare tale tipo di abbigliamento, cosa che soltanto qualche decennio prima sarebbe stata loro economicamente preclusa.

Pur trattandosi di un abbigliamento non certo proletario, in Europa occidentale per buona parte del Novecento è abbastanza frequente che i contadini e gli operai indossino abiti scuri completi di panciotto nei giorni di festa o nelle occasioni ritenute speciali. Osservando con attenzione l’immagine, però, secondo Berger, c’è qualcosa che tradisce il ceto sociale di appartenenza dei tre, qualcosa che impedisce loro di essere confusi con appartenenti alla borghesia e non si tratta certo della qualità del tessuto o del taglio sartoriale, poco distinguibili in una fotografia in bianco e nero di questo tipo.

Prendendo in esame anche altre fotografie simili di Sander, è possibile notare, continua lo studioso, come le anatomie, le posture ed i volti dei soggetti contadini non vengano del tutto mascherati dagli abiti borghesi. Solitamente, continua Berger, almeno a queste date, i contadini presentano corpi modellati dal duro lavoro fisico che svolgono e tradiscono un «ritmo corporeo caratteristico […] direttamente collegato all’energia richiesta dalla quantità di lavoro da svolgere in una giornata [ritmo che] si riflette in movimenti e posture del corpo inconfondibili. È un ritmo ampio e prolungato» (p. 54), inoltre tendono ad esibire una «dignità fisica tutta loro» derivata dal mostrasi abituati allo sforzo ed alla fatica.

Il completo maschile prende piede nell’Europa degli ultimi decenni dell’Ottocento «come abito da lavoro della classe dirigente. Anonimo quasi al pari di un’uniforme, fu il primo abito della classe dirigente a consacrare un potere puramente sedentario: il potere dell’amministrazione e del tavolo da conferenza. Fondamentalmente, questo vestito è concepito in funzione dei gesti che accompagnano la parola e il calcolo astratto» (p. 54). Si tratta dunque di un tipo di abbigliamento decisamente differente rispetto a quello utilizzato fino ad allora dai ceti superiori; gli indumenti indossati precedentemente erano stati pensati in funzione di attività come la caccia e l’equitazione, mentre il completo a giacca, lanciato dal gentleman inglese, tende a limitare i movimenti. Dal finire dell’Ottocento, ed in maniera ben più marcata a partire dal termine della Prima guerra mondiale, il completo maschile inizia ad essere prodotto su larga scala tanto per le grandi masse urbane che per i mercati rurali.

Tornando alle fotografie di Sander, risulta stridente, sottolinea Berger, l’abbinamento di corpi strutturati dall’abitudine alla fatica, a movimenti ampi e prolungati, con abiti nati per idealizzare la sedentarietà. L’abbigliamento tradizionale da lavoro o da cerimonia indossato dai contadini tendeva, invece, a rispettare le caratteristiche dei corpi che rivestiva; generalmente si trattava di abiti dai tagli sciolti, volti a permettere una certa libertà di movimento. «Erano l’antitesi degli abiti sartoriali, tagliati per seguire la forma idealizzata di un corpo più o meno statico» (p. 55).

Non solo nessuno obbligava i contadini ad acquistare e indossare completi borghesi ma, stando alle fotografie, questi si mostrano decisamente orgogliosi di vestirli ed è qui che, sottolinea Berger, può essere colto un mirabile esempio di quella che Antonio Gramsci indicava con egemonia di classe. «I contadini – e, se pur in modo diverso, gli operai delle città – furono persuasi a scegliere questo nuovo tipo di abito. Dalla pubblicità. Dalle fotografie. Dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Dai commessi viaggiatori» (p. 56). Berger ricorda anche come in occasione dell’Esposizione Universale parigina del 1900, fossero stati, per la prima volta nella storia, invitati ad un grande banchetto tutti i sindaci francesi, molti dei quali provenienti da piccoli paesi rurali e come per l’occasione la stragrande maggioranza di essi indossasse il completo a tre pezzi a riprova del fatto che, per le occasioni importanti, l’abito completo fosse ormai da intendersi d’obbligo.

Le classi lavoratrici – ma in questo i contadini si mostrarono più semplici e ingenui degli operi – si convinsero a adottare come propri i criteri della classe dirigente, nel caso specifico i criteri di eleganza sartoriale e di gusto. Al tempo stesso, l’accettazione di quegli standard, il conformarsi a quelle norme che nulla avevano a che fare né con la loro tradizione né con la loro esperienza quotidiana, li condannò, all’interno di quel sistema normativo, a essere sempre, e in modo riconoscibile per le classi superiori, mediocri, goffi, ordinari, insicuri. Ed è proprio così che si soccombe all’egemonia culturale (p. 56).

In conclusione lo studioso ama immaginare che, una vota giunti alla festa, magri dopo qualche birra, i tre giovani contadini, abbiano riposto le cravatte ed appese le giacche su qualche sedia per lasciarsi andare più liberamente nelle danze fino all’alba, coincidente però con l’avvio di una nuova e dura giornata di lavoro nei campi.

Le riflessioni di Berger sulle foto di Sanders sono oggettivamente acute e interessanti anche se non mancano di mostrare parzialità e limiti in parte dovuti al fatto che lo scritto in questione è stato steso nei primissimi anni Settanta e in parte addebitabili ad un approccio derivato dal concetto gramsciano di egemonia tendente a sottostimare i livelli di autonomia presenti nelle scelte e nelle pratiche della classe sociale proletaria.

Circa le parzialità determinate dalla data di stesura del pezzo (1972) occorre ricordare che proprio in quel periodo la centralità, anche a livello di immaginario, conquistata a suon di lotte e insorgenze, da parte del proletariato, ribalterà per certi versi i giochi; tanto che sarà la classe borghese a manifestare palesi derivazioni dall’abbigliamento proletario inaugurando un meccanismo di ripresa della moda dei ceti più bassi che non è venuto meno nemmeno con l’affievolirsi dell’offensiva operaia. Ancora oggi, nella smania della moda di proporre sempre più frequentemente novità per sostituire con nuove merci quelle vendute precedentemente, il citazionismo dell’abbigliamento nei confronti del mondo proletario o sottoproletario di certo non manca e gli street style sono da tempo diventati una fonte importante da cui attingere da parte di diverse categorie merciologiche indirizzate a compratori di certo non solo di estrazione popolare.

A proposito dei limiti del concetto di egemonia applicato da Berger, risulta utile rimandare alle riflessioni proposte da James C. Scott nel suo Il dominio e l’arte della resistenza (Elèuthera, 2006) [su Carmilla], tese a denunciare come le tesi basate sul concetto di egemonia gramsciano, soprattutto nella loro forma forte, fatichino a spiegare i sommovimenti sociali provenienti dal basso.

Se le élite controllano la base materiale della produzione cosa che permette loro di estorcere conformità di comportamento, e controllano anche i mezzi della produzione simbolica, assicurando così la legittimazione del proprio potere, il risultato dovrebbe essere un equilibrio che si auto-riproduce, che solo un urto esterno può compromettere. […] Se l’esistenza del conflitto sociale è un problema per le teorie sull’egemonia nelle società contemporanee, diventa una contraddizione insanabile quando le teorie vengono applicate alla realtà storica delle società contadine, o alla schiavitù e al servaggio (p. 109)

Il fatto che i dannati della terra abbiano storicamente avuto difficoltà a immaginare assetti sociali diversi da quelli conosciuti, non ha di certo impedito a questi di immaginare il completo rovesciamento dello status quo, tanto che il tema millenaristico del mondo capovolto, ove i primi e gli ultimi si invertono di ruolo, lo si ritrova nelle principali tradizioni culturali in cui sono state messe in discussione le disuguaglianze di potere, ricchezza e status.

Sul piano storico […] non ci sono prove per accreditare una teoria dell’egemonia, forte o debole che sia. Gli ostacoli alla resistenza, e sono molti, non possono semplicemente essere attribuiti all’incapacità dei gruppi subordinati di immaginare un ordine sociale alternativo. Essi immaginano sia il capovolgimento che la negazione della dominazione cui sono sottoposti e, fatto più che mai importante, hanno agito conformemente a questi valori, per disperazione o in rare occasioni perché le circostanze sembravano favorevoli […] l’immagine del diciassettesimo secolo che rappresenta il signore costretto a servire un villico seduto alla tavola imbandita era destinata a evocare simpatia più tra le classi rurali che tra i loro superiori sociali (p. 113)

Il fatto che i gruppi subordinati abbiano frequentemente immaginato il ribaltamento dei ruoli sociali sta a testimoniare come questi non siano poi così normalizzati dai discorsi delle élite che intendono convincerli dell’immutabilità sociale. Scott si interroga circa il motivo per cui le teorie dell’egemonia e dell’integrazione ideologica siano riuscite ad esercitare così tanto fascino su storici e sociologi.

Nel mondo strutturale-funzionale della sociologia parsoniana, i gruppi subordinati arrivano naturalmente ad accettare i principi normativi dell’ordine sociale, senza i quali la società non potrebbe esistere. Nella critica neo-marxista [tendente a seguire il concetto di egemonia gramsciano] viene ugualmente dato per scontato che i gruppi subordinati abbiano interiorizzato le norme dominanti, con la differenza che tali norme vengono viste come una falsa rappresentazione dei loro interessi oggettivi. In entrambi i casi, l’integrazione ideologica produce stabilità sociale: nel primo questa stabilità è positiva, mentre nel secondo è ciò che permette la continuazione dello sfruttamento di classe (p. 117)

Il motivo per cui questa idea dell’integrazione ideologica ha tale risonanza a livello storico, conclude Scott, deriva forse dal fatto che gli studiosi si sono a lungo ostinati a prendere in considerazione il solo “verbale pubblico” offerto dal potere con l’intenzione di mostrare accettazione e complicità da parte delle classi sociali inferiori. Accanto alla narrazione ufficiale del “verbale pubblico” esiste però anche un “verbale segreto” proprio dei dominati, tenuto segreto per opportunità dettate dai rapporti di forza sfavorevoli e la mancanza di analisi di quest’ultimo verbale comporta un’idea di egemonia totale detenuta dal gruppo dominante.

Tornando alle fotografie di Sander da cui siamo partiti, nel desiderio dei contadini di indossare l’abito borghese nei giorni di festa è ravvisabile esclusivamente la resa dei sottomessi al potere? Chi è obbligato ai movimenti dettati dal lavoro quotidiano, nell’indossare abiti borghesi creati per palesare l’esenzione da un lavoro fisico faticoso, non manifesta forse anche un diritto all’inattività?

La rappresentazione dei sottomessi come classe in totale balia della borghesia rischia di annullare di fatto l’idea che il conflitto, seppure a intensità variabile in base ai rapporti di forza, è pur sempre presente. Accettare l’idea che vuole i subordinati totalmente succubi del potere e delle sue narrazioni significa, per certi versi, negare loro ogni possibilità di autonomia, dunque negarli in quanto classe sociale capace di emanciparsi senza un provvidenziale intervento esterno.

Visto che non si era al superamento delle classi sociali all’epoca della fotografie di Sander e non lo si era nei primi anni Settanta, quando ne scrive Berger, se non si vuole rischiare di scivolare nel mito della fine della storia, sarebbe importante cogliere la presenza di elementi di autonomia anche nelle condotte più contraddittorie di quanti si trovano in una condizione di subalternità.

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Estetiche del potere. Bisturi e machete. Corpo, identità e consumo-produzione tra bellezza e violenza https://www.carmillaonline.com/2017/07/25/39527/ Mon, 24 Jul 2017 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39527 di Gioacchino Toni

Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica, Meltemi, Milano, 2017, pp. 241, € 18,00

Nel 2012 The University of Chicago Press ha pubblicato il saggio The Beauty and the Beast di Michael Taussig, antropologo che, come ricorda Franco La Cecla nella Prefazione all’edizione italiana, gode di buona fama in ambito anglo-americano ed ispano-americano e decisamente di minor fortuna tra gli antropologi francesi ed italiani che lo accusano di scarsa accademicità. Il volume, che da poco è stato tradotto da Emanuele Fabiano e dato alle [...]]]> di Gioacchino Toni

Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica, Meltemi, Milano, 2017, pp. 241, € 18,00

Nel 2012 The University of Chicago Press ha pubblicato il saggio The Beauty and the Beast di Michael Taussig, antropologo che, come ricorda Franco La Cecla nella Prefazione all’edizione italiana, gode di buona fama in ambito anglo-americano ed ispano-americano e decisamente di minor fortuna tra gli antropologi francesi ed italiani che lo accusano di scarsa accademicità. Il volume, che da poco è stato tradotto da Emanuele Fabiano e dato alle stampe in Italia  dall’editore Meltemi, esamina i tentativi di trasformare il corpo attraverso la chirurgia estetica sia per accrescere la bellezza che per mascherare l’identità.

Autore di opere come The Devil and Commodity. Fetishism in South America (1980), Shamanism, Colonialism, and the Wild Man (1987), Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca (2007), The Corn Wolf (2015), Taussig, in La bellezza e la bestia, stabilisce un interessante collegamento tra la violenza dilagante in Colombia e l’industria della bellezza. A partire dall’analisi di interventi chirurgici che si sono trasformati in veri e propri disastri, l’autore ragiona sulla bellezza del corpo femminile e il consumo, collocando la chirurgia estetica, da lui chiamata “chirurgia cosmica”, tra la dépense di George Bataille e le riflessioni di Max Horkheimer e Theodor Adorno sul dominio della natura.

«La bellezza e la bestia pone la questione della bellezza in relazione alla violenza, si interroga sul perché in Colombia così tanti racconti sulla chirurgia estetica – che qui chiamo “chirurgia cosmica” – si dilettino con la morte o con la sfigurazione del paziente. Nel mondo che oggi ci circonda non è in gioco solo la coesistenza di glamour e terrore, ma la loro sinergia» (p. 19). Le riflessioni si sviluppano a partire dal “caso colombiano” perché, secondo lo studioso, proprio in questo paese il legame tra bellezza e violenza risulta più appariscente ma il ragionamento è da considerarsi estendibile a livello generale.

Siamo sicuri che le interminabili immagini e il fragore della polizia con le maschere antigas, i giubbotti antiproiettile, le mitragliatrici, le tenute antisommossa nero brillante, gli elicotteri, le luci intermittenti, le sirene, i gas lacrimogeni e i cavalli, non stiano lì a testimoniare qualcosa che va oltre la scelta estetica e che potremmo definire “pratico” o “utilitaristico”? Dopotutto, esiste qualcosa di “pratico” che non incorpori un’estetica? A mio avviso, questo ruota intorno al narcolook ispirato nelle giovani donne che appartengono, o vorrebbero appartenere, a narcotrafficanti favolosamente ricchi e godere del loro stile di vita fuori dal comune. La loro imago – tette di silicone, culi giganti, magrezza da liposuzione – ha innescato non solo il boom della moda e dell’abbellimento, assorbendo le fantasie e le energie di uomini e donne ma, in termini più generali, parla del corpo come di un emblema e un veicolo, di una forma d’essere che ha rimpiazzato il lavoro e la disciplina in favore dello stile, della trasgressione e dell’eccesso erotizzato. Questa stessa estetica ora si estende al mondo, fino a includere la guerra, le torture, la mutilazione e la frenesia della nuova economia capitalistica, alla ricerca di respiro in quello che si chiama, fin troppo familiarmente, “consumo” (p. 20).

Taussig si interroga circa la possibilità che sia proprio l’estetica ad innescare il meccanismo della vita e coglie nella tendenza moderna di ridurre tutto a un mezzo per un fine le cause che hanno portato a renderci insensibili di fronte alla forza dell’estetica che scorre nel quotidiano ben al di fuori dei musei e delle gallerie in cui è stata costretta: «i racconti delle baraccopoli agroindustriali della Colombia che ho in mente sono emissioni del lato oscuro della bellezza, racconti di sventura che incontrano una cupa soddisfazione nei tentativi di abbellimento finiti tragicamente» (p. 29). Attraverso questi racconti veniamo catapultati in ingrandimenti del seno che si risolvono in infezioni e mastectomie, in interventi oculari volti ad abbellire lo sguardo che portano all’incapacità di chiudere gli occhi, a lifting al volto che lo trasformano mostruosamente, ad innalzamenti o ingrossamenti del sedere che lo vedono poi lentamente scivolare lungo le gambe ecc.

In passato il capitalismo manifestava «rapporti inquieti con la spesa folle e il lusso, dal momento che sopprimeva la parte più selvaggia della nostra natura in nome di una mentalità utilitaristica e parsimoniosa» (p. 61). L’imperativo era risparmiare per investire, non spendere. La classe lavoratrice, ed ancor più il lumpenproletariat, mancavano di quell’etica del risparmio propria della classe media. «Questi Grandi Spendaccioni e Sperperatori, incapaci di moderazione, che bevevano, giocavano, andavano a puttane e compravano non appena avevano un centesimo o due in tasca, se avevano le tasche, occuparono l’immaginario occidentale fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando spendere (ovvero “consumare”) diventò qualcosa di meravigliosamente buono e nobilitante, un’aspirazione civilizzatrice simile a una nuova religione» (pp. 61-62).

A partire dalla seconda metà del Novecento il capitalismo sembra barcamenarsi tra il tentativo di imporre una cultura del consumo ed il voler limitare questa cultura «ai soli membri responsabili e meritevoli della società, che lavorano onestamente in onesti posti di lavoro e non succhiano dalla tetta del welfare state, riservato invece al salvataggio dei super-ricchi» (p. 62). Il grande dilemma pare però essersi risolto velocemente. «Quanto intrecciate e comiche siano diventate queste distinzioni oggi è reso ancor più evidente dal crescente deficit degli Stati Uniti e dall’impossibilità di ridurlo senza diminuire i consumi, con il rischio che questo ostacoli la capacità del consumatore di mettere di nuovo in marcia l’economia, attraverso l’uso di ciò che gli esperti chiamano “consumer muscle”. Questa eloquente espressione ci segnala come la rivoluzione sia ora completa. Il consumo è divenuto produzione, o almeno “muscolare”, l’ultimo sospiro dell’etica protestante è incapace di comprendere la grandiosità della spesa fine a se stessa, che è in realtà ciò che sta conducendo al disastro, tanto sui campi di battaglia delle guerre degli Stati Uniti ispirati dalla dépense quanto nei centri commerciali o su eBay» (pp. 62-63).

A partire da tali riflessioni, Taussig si chiede cosa sia allora oggigiorno il “consumatore”.

questa nuova creatura post-Seconda guerra mondiale implica un essere ancora più antico, anzi primordiale, che sembra essere già esistito nel profondo dell’immaginario della società, come i personaggi che l’infaticabile cronista dei poveri di Londra, Henry Mayhew, creò a partire dai vagabondi della metà del XIX secolo. Personaggi che, egli pensava, si sarebbero potuti trovare quasi ovunque e in qualsiasi tempo […] Non c’è da sorprendersi che le chiamasse “le tribù erranti”. Avevano mandibole e zigomi pronunciati con teste piccole; una gran massa muscolare che toglieva sangue al cervello; un linguaggio segreto, cuze-cut o slang; disdegnavano il lavoro regolare e continuo; amavano erbe e radici stupefacenti e liquori intossicanti; erano insensibili al dolore; avevano un amore sfrenato per i giochi d’azzardo e le danze libidinose; traevano piacere dalla vista delle sofferenze delle creature sensibili e delizia dallo sport e la guerra; erano assetati di vendetta; possedevano un concetto vago di proprietà; le donne erano lascive e avevano un incerto senso della religione. Questa lista, a mio modo di vedere, vale più o meno anche per gli aristocratici – la ripugnanza per il lavoro, la passione per il liquore e, ovviamente, l’amore smodato per le scommesse, gli sport e la guerra – tutte testimonianze del dispendio che Bataille chiama dépense. Il primitivo e l’aristocratico sono intimamente legati in quanto sono entrambi conoscitori della dépense, la grande arte dello sperpero (pp. 63-64).

Sulla base di tali riflessioni Taussig giunge alla questione centrale della sua riflessione: l’avvenuto slittamento dal lavoro alla moda, dall’utilità allo stile. Marx sostiene che con il capitalismo moderno la produzione diviene un obiettivo dell’uomo, invertendo così il modello precedente in cui era l’uomo ad essere l’obiettivo della produzione. Secondo Taussig Marx ha ragione circa l’alienazione, «che fa dell’uomo una cifra in una equazione di profitto-efficienza, tuttavia mancava di una teoria del “consumo”, e la sua idea di “uomo” rimanda forzatamente a un’astrazione incapace di contemplare gli aspetti più selvaggi di tale alienazione. L’uomo è ora davvero “lo scopo della produzione”, anche se non si tratta dell’uomo che aveva in mente Marx» (pp. 67-68).

Da tempo i ceti più agiati amano copiare o riprendere la moda dei ceti più bassi e le aziende produttrici di merci non mancano di affidarsi a studi sistematici al fine di mettere a profitto tale tendenza. Negli Stati uniti “L Report” presenta ogni semestre un’indagine accurata delle tendenze di moda tra gli adolescenti del ghetto. Secondo le autrici dell’indagine periodica, i consumatori contemporanei, a prescindere dall’età o dal reddito, come mai prima ambiscono ad avere stile e prestigio. Facendo riferimento ad uno speciale su “L Report” pubblicato da Malcom Gladwell nel 1997 sulle pagine del “New Yorker”, Taussig nota che tale «infiltrazione della moda riguarda solo i ragazzi e non le ragazze del “ghetto”», dunque si chiede se il «fantasma della virilità maschile (sesso e crimine)» non sia per caso intrinseco a tale genere di infiltrazione.

Nelle undici pagine patinate che Gladwell scrive sul cool, pubblicate ad uso del gruppo demografico decisamente non-cool di coloro che leggono il “New Yorker” (si parla tanto di diffusione dal basso, quando poi sono le saghe di John Updike sulle periferie bianche di classe media a connotare la rivista), non compare neppure un accenno – non uno – a una ragazza. Fatta eccezione, ovviamente, per le due donne bionde del Connecticut – alle quali sembra che le cose stiano andando molto bene – , che si immergono nel ghetto per vedere che ne è dello stile, permettendo poi a qualcun altro di copiarlo in fabbriche schiaviste disseminate in tutto il mondo prima di far uscire il catalogo semestrale successivo, che nel 1997 costava ventimila dollari. Se le ragazze compaiono è solo perché i ragazzi se ne approprino, come quando seguiamo Gladwell mentre accompagna una caccia-tendenze nel Bronx […] La donna si avvicina a un giovane membro di una banda e gli dà un paio di scarpe nuove, delle Reebok DMX RXT pensate per ragazze, che il ragazzo adora (p. 70-71).

A corredo dell’articolo-reportage “New Yorker” include un’illustrazione a tutta pagina che mostra la suola della scarpa sprigionare una vera e propria esplosione di colori. Non è difficile intravedere in questa immagine una metafora visiva del meccanismo della moda che deriva dal basso, dalle periferie più degradate; è dalle suole che scaturisce il cool.

Siamo a una nuova resa dei conti, più virtuale che reale, anche se la vecchia realtà, quella del corpo umano che combina il reale con il superreale, continua a persistere mentre la chirurgia cosmica offre una via di salvezza, collegando la carne reale all’immagine reale, la spesa compulsiva alla virtualità. Chiamarla spesa compulsiva non ne coglie il senso […] Il carattere favolistico che riscontro in questo importante cambio nel capitalismo mondiale ha a che vedere con la seduzione degli oggetti inanimati: le scarpe di polvere di diamante, le scarpe da ginnastica Reebok DMX RXT. I nomi la dicono lunga – diamanti e polvere di diamanti a fianco del ruggito da motosega delle scarpe DMX RXT e dell’aspro digrignamento consonantico prodotto da nomi come Reebok, che si svuotano nella vacuità di questo spazio incantato fatto di tutto e di niente. La seduzione esercitata da questo spazio è ciò che giace nel cuore del sempre più frenetico consumo del mondo, e al centro di questo cuore si trovano alcuni degli oggetti più seducenti di tutti – il volto e il corpo umano – che convivono con quella magia dell’apparire che noi chiamiamo cool, pompata fuori dalle periferie degradate. Esiste solo una cosa più seducente della bellezza, ed è la capacità di trasformarsi in bellezza (p. 76)

La seduzione del volto e del corpo umano. Eccoci arrivati al cuore di La bellezza e la bestia. E da qui inizia il viaggio tra le mostruosità della chirurgia estetica, tra infezioni ed effetti collaterali, tra trasformazioni, se non azzeramenti, dell’identità e mutilazioni inferte con violenza inaudita sui corpi altrui come raccontato, ad esempio, nel Capitolo decimo, “Bellezza e mutilazione”, ove viene ricostruita brevemente la storia della mutilazione del corpo (vivo o morto) in Colombia a partire dagli anni Quaranta del Novecento, «quando non era infrequente che i membri di partiti politici opposti – Liberali e Conservatori – lavorassero abilmente gli uni sugli altri con machete e coltello» (p. 111). Un’orgia di sangue fatta di squarci sotto alla mandibola per estrarre la lingua, tagli sul corpo per portarlo alla morte per lento dissanguamento, stupri, mutilazioni genitali, estrazioni di feti dall’utero della madre e via dicendo. «Trent’anni dopo, l’estetica della mutilazione creativa riapparve nella chirurgia praticata dai gruppi paramilitari colombiani, alcuni dei quali, secondo quanto viene riportato, realizzavano veri e propri corsi di mutilazione, che fungevano contemporaneamente anche da iniziazione» (p. 112). Tanta creatività applicata al machete ed al coltello segnala come anche la mutilazione corporale abbia una propria estetica.

Oppure, ancora, colpisce quanto raccontato nel Capitolo settimo, “Sorrisi griffati”, ove le riflessioni dello studioso prendono il via da un articolo intitolato “I chirurghi dei bassifondi”, pubblicato da “El Tiempo” nel 2009 in concomitanza con la cattura del narcotrafficante Chupeta, famoso anche per i tanti interventi di chirurgia estetica a cui si è sottoposto. L’articolo del quotidiano riporta alcune storie riguardanti un dentista di Bogotà che si occupa di conferire un nuovo sorriso ai suoi clienti paramilitari ed a partire da tali racconti Taussig riflette circa il ricorso al termine “disegnare” utilizzato dai chirurghi e dai dentisti estetici. Non “fare”, ma “disegnare”, come per i “jeans griffati”. Il linguaggio sembra tradire come il volto ed il corpo non siano poi considerati così diversi dalle altre merci su cui intervengono i creativi nel tentativo di conferire valori aggiunti.

Questi interventi di chirurgia estetica, o cosmica, come preferisce definirla l’autore, hanno certamente a che fare con le antiche pratiche magiche fondate sulla mimesi e la fisiognomica, come il mascheramento, la pittura del volto e del corpo dedicate alle divinità o attuate confidando di venire a far parte dell’Olimpo. Il viaggio proposto da Taussig, nel suo condurci lungo percorsi in cui si intrecciano bellezza e violenza, non può che lasciare il lettore scosso. È percorrendo questo reticolo catastrofico e maledetto, ove il volto ed il corpo si fanno merce, consumo-produzione, che Taussig giunge alla conclusione che l’uomo è davvero diventato “lo scopo della produzione”, ma, come detto, non si tratta dell’uomo che aveva in mente Marx.

Taussig è sicuramente un antropologo non convenzionale, criticato da diversi studiosi per una conduzione dei suoi studi ritenuta un po’ troppo creativa. Nella preziosa Prefazione al volume scrive di lui Franco La Cecla che la sua lettura della storia coloniale rovescia spesso le letture più banali di ispirazione marxista e terzomondista. «Lo fa usando a piene mani l’approccio di Walter Benjamin alla storia e applicandovi gli strumenti della “invidia mimetica” di René Girard. Di Benjamin, Taussig riprende la fortissima intuizione di una lettura teologica del mito […] Per i sottoproletari che lavorano nelle miniere e nelle piantagioni delle colonie ispaniche del Centro e Sudamerica, il lavoro cui sono forzati in cambio di un misero salario è qualcosa che li lega al “diavolo”. Perché non ha nulla dei connotati del lavoro indio, che è fatto per la comunità e per il benessere. Questo è un lavoro dove ci si lega alla demonicità per essere irretiti nella fantasmagoria delle merci che il salario può insegnare a desiderare. Rovesciando l’ottica coloniale che vede nell’indio l’incarnazione del paganesimo e quindi del Diavolo, gli indios stessi se ne impossessano leggendo nella loro alienazione a causa del colonialismo proprio una presenza diabolica» (p. 10). Da qui prende il via un particolare gioco di specchi in cui colonizzatori e colonizzati ribaltano costantemente la situazione riprendendosi l’un l’altro.

Tornando a La bellezza e la bestia, ed ai rapporti tra estetica e potere, non resta che lasciare la chiusura alle parole dello stesso Taussig: «È perfettamente legittimo chiedersi quanto, in queste storie, ci sia di vero e quanto sia fantasia, a patto che se ne accetti l’intollerabile fusione, ragione in più per essere coscienti di ciò che tutti sapevamo e che però non sapevamo di sapere – che per i duri e per lo Stato l’estetica è tanto cruciale quanto lo è per l’aumento del seno, lo stiramento del volto o la magrezza flessuosa ottenuta con la liposuzione» (pp. 19-20).

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