sociologia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura https://www.carmillaonline.com/2024/03/01/per-una-sociologia-degli-algoritmi-la-cultura-nel-codice-e-il-codice-nella-cultura/ Fri, 01 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81400 di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi [...]]]> di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi incentrati su conoscenze, abilità e pregiudizi delle macchine oscurando quella che Massimo Airoldi ritiene essere la ragione sociologica alla radice di tale somiglianza: la cultura.

Airoldi, sociologo dei processi culturali e comunicativi, vede nella cultura – intesa come «pratiche, classificazioni, norme tacite e disposizioni associate a specifiche posizioni nella società» – «il seme che trasforma le macchine in agenti sociali»1. La cultura nel codice è ciò che permette agli algoritmi di machine learning di affrontare la complessità delle realtà sociali come se fossero attori socializzati. Il codice è presente anche nella cultura «e la confonde attraverso interazioni tecno-sociali e distinzioni algoritmiche. Insieme agli esseri umani, le macchine contribuiscono attivamente alla riproduzione dell’ordine sociale, ossia all’incessante tracciare e ridisegnare dei confini sociali e simbolici che dividono oggettivamente e intersoggettivamente la società in porzioni diverse e diseguali»2.

Visto che la vita sociale degli esseri umani è sempre più mediata da infrastrutture digitali che apprendono, elaborano e indirizzano a partire dai dati disseminati quotidianamente – più o meno volontariamente, più o meno consapevolmente – dagli utenti, secondo Airoldi occorre considerare le “macchine intelligenti”, al pari degli individui, come «agenti attivi nella realizzazione dell’ordine sociale»3, visto che «ciò che chiamiamo vita sociale non è altro che il prodotto socio-materiale di relazioni eterogenee, che coinvolgono al contempo agenti umani e non umani»4. Al fine di comprendere il comportamento algoritmico è perciò necessario capire come la cultura entri nel codice dei sistemi algoritmici e come essa sia a sua volta plasmata da questi ultimi.

La necessità di provvedere a una sociologia degli algoritmi deriva, secondo l’autore di Machine Habitus, dalla combinazione di due epocali trasformazioni: una di ordine quantitativo, costituita dall’inedita diffusione delle tecnologie digitali nella quotidianità individuale e sociale, e una di ordine qualitativo, inerente al livello che ha potuto raggiungere l’intelligenza artificiale grazie al machine learning permesso dai processi di datificazione digitale. «Questo cambiamento paradigmatico ha reso improvvisamente possibile l’automazione di compiti di carattere sociale e culturale, a un livello senza precedenti». Ad essere sociologicamente rilevante non è quanto accade nel “cervello artificiale” della macchina ma, puntualizza lo studioso, «ciò che quest’ultima comunica ai suoi utenti, e le conseguenze che ne derivano»5. I livelli raggiunti dai modelli linguistici con cui operano sistemi come ChatGpt mostrano modalità di partecipazione sempre più attive e autonome dei sistemi algoritmici nel mondo sociale destinati, con buona probabilità, ad incrementarsi ulteriormente in futuro.

Gli algoritmi possono essere sinteticamente descritti come sistemi automatizzati che, a partire dalla disponibilità e dalla rielaborazione di dati in entrata (input), producono risultati (output). Si tratta di un’evoluzione socio-tecnica che ha conosciuto diverse fasi, schematicamente così riassumibili: l’Era analogica (non digitale), che va dall’applicazione manuale degli algoritmi da parte dei matematici antichi fino alla comparsa dei computer digitali al termine della seconda guerra mondiale; l’Era digitale, sviluppatasi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, che ha condotto all’archiviazione digitale delle informazioni, dunque alla loro circolazione attraverso internet e all’elaborazione automatizzata di enormi volumi di dati ponendo le premesse per la successiva evoluzione; l’Era delle piattaforme, contesto di applicazione delle macchine autonome e fonte della loro “intelligenza” attraverso il deep learning di inizio del nuovo millennio.

Se nell’era digitale la commercializzazione degli algoritmi aveva soprattutto scopi analitici, con il processo di platformizzazione questi sono divenuti a tutti gli effetti anche dispositivi operativi. Dall’effettuazione meccanica di compiti assegnati si è passati a tecnologie IA in grado di apprendere dall’esperienza datificata che funzionano come agenti sociali «che plasmano la società e ne sono a loro volta plasmati»6.

Mentre ad inizio millennio il discorso sociologico in buona parte guardava ai big data, ai nuovi social network e alle piattaforme streaming per certi versi limitandosi ad evidenziarne le potenzialità, in ambiti più tangenziali si ponevano le basi di quegli studi che nell’ultimo decennio hanno dato vita ai critical algorithm studies e ai critical marketing studies che hanno posto l’accento: sulla loro opera di profilazione selvaggia; sui meccanismi di indirizzo comportamentale; sullo sfruttamento di risorse naturali e manodopera; su come l’analisi automatizzata e decontestualizzata dei big data conduca a risultati imprecisi o distorti; su come la trasformazione dell’azione sociale in dati quantificati online risulti sempre più importante nel capitalismo contemporaneo; sulle modalità con cui vengono commercializzati e mitizzati gli algoritmi; su come il meccanismo di delega sempre più diffusa delle scelte umane ad algoritmi opachi restringa le libertà e agency umane e su quanto questi non si limitino a mediare ma finiscano per concorrere a costruire la realtà, assumendo un ruolo di “inconscio tecnologico”.

Alla luce dello svilupparsi di tanta letteratura critica, Airoldi motiva il suo obiettivo di costruire un framework sociologico complessivo a partire da una riflessione sul concetto di feedback loop degli algoritmi di raccomandazione tendenti alla reiterazione e all’amplificazione di pattern già presenti nei dati. Le raccomandazioni automatiche generate dagli algoritmi di una piattaforma come Amazon tendono ad indirizzare notevolmente il consumo degli utenti e siccome, allo stesso tempo, gli algoritmi analizzano le modalità di consumo, si genera un vero e proprio feedback loop. Se l’influenza della società sulla tecnologia e l’influenza di quest’ultima sulla prima procedono di pari passo, si giunge secondo lo studioso a due “quesiti sociologici”: la cultura nel codice (l’influenza della società sui sistemi algoritmici) e il codice nella cultura (l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società).

Circa l’influenza della società sui sistemi algoritmici, lo studioso ricorda come le piattaforme “imparino” «dai discorsi e dai comportamenti datificati degli utenti, i quali portano con sé le tracce delle culture e dei contesti sociali da cui questi hanno origine»7; dunque derivino dalla società pregiudizi e chiusure mentali. Proporsi di “ripulire” i dati, oltre che probabilmente impossibile, non è forse nemmeno auspicabile in quanto presupporrebbe, in definitiva, un pensiero unico costruito a tavolino secondo logiche parziali.

Per quanto riguarda, invece, l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società, basti pensare che gli algoritmi di piattaforme come Netflix ed Amazon riescono ad indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti; ciò rende l’idea di come i sistemi autonomi digitali non si limitino a mediare le esperienze digitali ma le costruiscano orientando i comportamenti e le opinioni degli utenti. «Ciò che accade dunque è che i modelli analizzano il mondo, e il mondo risponde ai modelli. Di conseguenza, le culture umane finiscono per diventare “algoritmiche”»8.

Spesso, sostiene Airoldi, si è insistito nel guardare le cose in maniera unidirezionale prospettando un certo determinismo tecnologico mentre in realtà diversi studi recenti dimostrano come gli output prodotti dai sistemi autonomi vengano costantemente negoziati e problematizzati dagli esseri umani. «Gli algoritmi non plasmano in maniera unidirezionale la nostra società datificata. Piuttosto, intervengono all’interno di essa, prendono parte a interazioni socio-materiali situate che coinvolgono agenti umani e non umani. Dunque il contenuto della “cultura algoritmica” è il risultato emergente di dinamiche interattive tecno-sociali»9.

Alla luce di quanto detto, le due questioni principali che approfondisce lo studioso in Machine Habitus riguardano le modalità con cui sono socializzati gli algoritmi e come le macchine socializzate partecipano alla società riproducendola.

Airoldi riprende il concetto di habitus elaborato da Pierre Bourdieu: «luogo dove interagiscono struttura sociale e pratica individuale, cultura e cognizione. Con i loro gesti istintivi, schemi di classificazione sedimentati e bias inconsci, gli individui non sono né naturali né unici. Piuttosto sono il “prodotto della storia”»10. Né determinata a priori, né completamente libera, «l’azione individuale emerge dall’interazione tra un “modello” cognitivo plasmato dall’habitus e gli “input” esterni provenienti dall’ambiente. Risulta evidente come un sistema automatico dipenda dalla scelta dell’habitus datificato su cui viene addestrato. «A seconda dell’insieme di correlazioni esperienziali e disposizioni stilistiche che strutturano il modello, l’algoritmo di machine learning genererà risultati probabilistici diversi. Ergo la frase di Bourdieu “il corpo è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel corpo” potrebbe essere facilmente riscritta in questo modo: il codice è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel codice»11.

L’habitus codificato dai sistemi di machine learning è l’habitus della macchina. Di fronte a nuovi dati di input, i sistemi di machine learning si comportano in modo probabilistico, dipendente dal percorso pre-riflessivo. Le loro pratiche «derivano dall’incontro dinamico tra un modello computazionale adattivo e uno specifico contesto di dati, vale a dire tra “la storia incorporata” dell’habitus della macchina e una determinata situazione digitale»12. Nonostante siano privi di vita sociale, riflessione e coscienza, gli algoritmi di machine learning rivestono un ruolo importante nel funzionamento del mondo sociale visto che contribuiscono attivamente alla reiterazione/amplificazione delle diseguaglianze sia di ordine materiale che simbolico. In sostanza, scrive Airoldi, ancora più degli esseri umani, tali macchine contribuiscono a riprodurre, dunque perpetuare un ordine sociale diseguale e naturalizzato.

La proposta dello studioso è pertanto quella di guardare ai sistemi di machine learning come ad «agenti socializzati dotati di habitus, che interagiscono ricorsivamente con gli utenti delle piattaforme all’interno dei campi tecno-sociali dei media digitali, contribuendo così in pratica alla riproduzione sociale della diseguaglianze e della cultura»13.

Ricostruita la genesi sociale del machine habitus, Airoldi sottolinea come questo si differenzi dal tipo di cultura nel codice presente in tanti altri artefatti tecnologici, «cioè la cultura dei suoi creatori umani, la quale agisce come deus in machina»14. Nonostante il discorso pubblico sull’automazione tenda a concentrarsi sui benefici che è in grado di offrire in termini sostanzialmente economici (tempo/denaro), ad essere stato introiettato a livello diffuso è soprattutto il convincimento della sua supposta oggettività, dell’assenza di arbitrarietà. Basterebbe qualche dato per dimostrare quanto la tecnologia sia, ad esempio, genderizzata e razzializzata: la stragrande maggioranza degli individui che hanno realizzato le macchine sono uomini bianchi, circa l’80% dei professori di intelligenza artificiale, l’85% dei ricercatori di Facebook ed il 90% di Google sono maschi (Fonte: AI Now 2019 Report).

Di certo per comprendere la cultura contenuta nei codici non è sufficiente individuare i creatori di macchine e il deus in machina; nei più recenti modelli di IA le disposizioni culturali fatte proprie dai sistemi di machine learning non derivano dai creatori ma da una moltitudine di esseri umani utenti di dispositivi digitali coinvolti a tutti gli effetti, in buona parte a loro insaputa, nel ruolo di “addestratori” non retribuiti che agiscono insieme a lavoratori malpagati.

Se correggere i pregiudizi presenti nel design degli algoritmi è relativamente facile, molto più problematico è agire sui data bias da cui derivano il loro addestramento. «Quando una macchina apprende da azioni umane datificate, essa non apprende solo pregiudizi discriminatori, ma anche una conoscenza culturale più vasta, fatta di inclinazioni e disposizioni e codificata come machine habitus»15. Per un sistema di machine learning i contesti di dati sono astratte collezioni di attributi elaborati come valori matematici e per dare un senso a una realtà vettoriale datificata, tali sistemi sono alla ricerca di pattern che non hanno nulla di neutrale, derivando dagli umani che stanno dietro le macchine.

Una volta affrontata la cultura nel codice nelle macchine che apprendono da contesti di dati strutturati socialmente (da “esperienze” datificate affiancate da un deus in machina codificato da chi le ha realizzate), dal momento che, come detto, le macchine imparano dagli umani e questi ultimi dalle prime attraverso un meccanismo di feedback loop, Airoldi si concentra sul codice nella cultura indagando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa.

Gli algoritmi agiscono all’interno di un più generale ambiente tecnologico composto da piattaforme, software, hardware, infrastrutture di dati, sfruttamento di risorse naturali e manodopera, insomma in un habitat tecnologico che, a differenza di quanto si ostina a diffondere una certa mitologia dell’high tech, non è affatto neutro, sottostante com’è ad interessi economici e politici. Risulta dunque di estrema importanza occuparsi di come i sistemi di machine learning prendano parte e influenzino la società interagendo con essa considerando i loro contesti operativi e la loro agency (i loro campi e le loro pratiche, in termini bourdieusiani). Nonostante le macchine socializzate non siano senzienti, queste, sostiene Airoldi, hanno «capacità agentiche». Certo, si tratta di agency diverse da quelle umane mosse da intenzioni e forme di consapevolezza, ma che comunque si intrecciano ad esse. «La società è attivamente co-prodotta dalle agency culturalmente modellate di esseri umani e macchine socializzate. Entrambe operano influenzando le azioni dell’altra, generando effetti la cui eco risuona in tutte le dimensioni interconnesse degli ecosistemi tecno-sociali»16.

Visto che ormai i “sistemi di raccomandazione” delle diverse piattaforme risultano più influenti nel guidare la circolazione di prodotti culturali e di intrattenimento (musica, film, serie tv, libri…) rispetto ai tradizionali “intermediari culturali” (critici, studiosi, giornalisti…), viene da domandarsi se non si stia procedendo a vele spiegate verso una “automazione del gusto” con tutto ciò che comporta a livello culturale e di immaginario. È curioso notare, segnala lo studioso, che se il sistema automatico delle raccomandazioni conosce “tutto” degli utenti, questi ultimi invece non sanno “nulla” di esso. Se tale asimmetria informativa è «una caratteristica intrinseca dell’architettura deliberatamente panottica delle app e delle piattaforme commerciali»17, occorre domandarsi quanto sia effettivamente arginabile attraverso un incremento del livello di alfabetizzazione digitale degli esseri umani e attraverso politiche votate a ottenere una maggiore trasparenza del codice. Quel che è certo è che ci si trova a rincorrere meccanismi che si trasformano con una velocità tale per cui risulta difficile pensare a come “praticare l’obiettivo” in tempo utile, prima che tutto cambi sotto ai nostri occhi.

Airoldi ricostruisce come la cultura nel codice sia impregnata delle logiche dei campi platformizzati, dove i sistemi di machine learning vengono applicati e socializzati, e come le stesse logiche di campo e la cultura siano “confuse” dalla presenza ubiqua di output algoritmici. È soprattutto a livello di campo, ove si ha un numero elevatissimo di interazioni utente-macchina, che, sostiene lo studioso, importanti domande sociologiche sul codice nella cultura necessitano di risposta. «Le logiche di campo pre-digitali incapsulate dalle piattaforme sono sistematicamente rafforzate da miliardi di interazioni algoritmiche culturalmente allineate? Oppure, al contrario, le logiche di piattaforma che confondono il comportamento online finiscono per trasformare la struttura e la doxa dei campi sociali a cui sono applicate?»18.

Dopo essersi occupato, nei primi capitoli, della genesi sociale del machine habitus, delle sue specificità rispetto alla cultura nel codice presente in altri tipi artefatti tecnologici e del codice nella cultura, analizzando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa, Airoldi si propone di «riassemblare la cultura nel codice e il codice nella cultura al fine di ricavare una teoria del machine habitus in azione» così da mostrare «come la società sia alla radice dell’interazione dinamica tra sistemi di machine learning e utenti umani, e come ne risulti (ri)prodotta di conseguenza»19.

Una volta mostrato come i sistemi di machine learning sono socializzati attraverso l’esperienza computazionale di contesti di dati generati dagli esseri umani da cui acquisiscono propensioni culturali durevoli in forma di machine habitus, costantemente rimodulate nel corso dell’interazione umano-macchina, Airoldi affronta alcune questioni nodali riconducibili a una serie di interrogativi: cosa cambia nei «processi di condizionamento strutturale che plasmano la genesi e la pratica del machine habitus» rispetto a quanto teorizzato da Bourdieu per il genere umano?; «come le disposizioni cultuali incorporate e codificate come machine habitus mediano nella pratica le interazioni umano-macchina all’interno dei campi tecno-sociali?»; «in che modo i feedback loop tecno-sociali influenzano le traiettorie disposizionali distinte di esseri umani e macchine socializzate, nel tempo e attraverso campi diversi?»; «quali potrebbero essere gli effetti aggregati degli intrecci tra umani e macchine a livello dei campi tecno-sociali?»20.

Inteso come attore sociale in senso bourdieusiano, un algoritmo socializzato risulta tanto produttore quanto riproduttore di senso oggettivo, derivando le sue azioni da un modus operandi di cui non è produttore e di cui non ha coscienza. Non essendo soggetti senzienti, i sistemi di machine learning non problematizzano vincoli ad essi esterni come, ad esempio, forme di discriminazione e di diseguaglianza che però, nei fatti, “interiorizzano”. Le piattaforme digitali sono palesemente strutturate per promuovere engagement e datificazione a scopi di profitto e funzionano al meglio con gli utenti a minor livello di alfabetizzazione digitale e di sapere critico. «Se il potere dell’inconscio sociale dell’habitus risiede nella sua invisibilità […] il potere degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale sta nella rimozione ideologica del sociale dalla black box computazionale, che viene quindi narrata come neutrale, oggettiva, o super-accurata. Al di là delle ideologie, sullo sfondo di qualsiasi interazione utente-macchina si nasconde un intreccio più profondo, che lega gli agenti umani e artificiali alla doxa e alle posizioni sociali di un campo, attraverso habitus e machine habitus»21.

I sistemi di machine learning non soddisfano (come vorrebbero i tecno-entusiasti della personalizzazione) o comandano (secondo i tecno-apocalittici della manipolazione) ma negoziano, nel tempo e costantemente, con gli esseri umani un terreno culturale comune. È dunque, sostiene lo studioso, dalla sommatoria di queste traiettorie non lineari che deriva la riproduzione tecno-sociale della società. A compenetrarsi in un infinito feedback loop sono due opposte direzioni di influenza algoritmica: una orientata alla trasformazione dei confini sociali e simbolici ed una volta al loro rafforzamento.

In un certo senso, scrive Airoldi, «gli algoritmi siamo noi». Noi che tendiamo ad adattarci all’ordine del mondo come lo troviamo, che sulla falsariga di quanto fanno i sistemi di machine learning apprendiamo dalle esperienze che pratichiamo nel mondo riproducendole. Lo sudioso propone dunque una rottura epistemologica nel modo di comprendere la società e la tecnologia: i sistemi di machine learning vanno a suo avviso intesi «come forze interne alla vita sociale, sia soggette che parte integrante delle sue proprietà contingenti»22. Oggi una sociologia degli algoritmi, ma anche la stessa sociologia nel suo complesso, sostiene Airoldi, dovrebbe essere costruita attorno allo studio di questa riproduzione tecno-sociale.

Nella parte finale del libro, lo studioso delinea alcune direzioni di ricerca complementari per una «sociologia (culturale) degli algoritmi»: seguire i creatori di macchine ricostruendo la genesi degli algoritmi e delle applicazioni di IA, dunque gli interventi umani che hanno contribuito a «spacchettare la cultura nel codice e i suoi numerosi miti»; seguire gli utenti dei sistemi algoritmici individuando «gli intrecci socio-materiali dalla loro prospettiva sorvegliata e classificata»; seguire il medium per mappare la infrastruttura digitale «concentrandosi sulle sue affordance e/o sulle pratiche più che umane che la contraddistinguono»23; seguire l’algoritmo, ad esempio analizzando le proposte generate automaticamente dalle piattaforme.

Se è pur vero che le macchine socializzate sono tendenzialmente utilizzate da piattaforme, governi e aziende per datificare utenti al fine di orientare le loro azioni, non si può addebitare loro la responsabilità dei processi di degradazione e sfruttamento della vita sociale. «Il problema non è il machine learning strictu sensu […] ma semmai gli obiettivi inscritti nel codice e, soprattutto, il suo contesto applicativo più ampio: un capitalismo della sorveglianza che schiavizza le macchine socializzate insieme ai loro utenti»24. Altri usi di IA, altri tipi di intrecci tra utente e macchina sarebbero possibili. Certo. Ma si torna sempre lì: servirebbe un contesto diverso da quello sopra descritto.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, p. 10. 

  2. Ivi, p. 11. 

  3. Ivi, p. 13. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. Ivi, p. 17. 

  6. Ivi, p. 24. 

  7. Ivi, p. 28. 

  8. Ivi, p. 30. 

  9. Ibid

  10. Ivi, p. 33. 

  11. Ivi, p. 35. 

  12. Ivi, pp. 35-36. 

  13. Ivi, p. 37. 

  14. Ivi, p. 38. 

  15. Ivi, p. 52. 

  16. Ivi, p. 80. 

  17. Ivi, p. 90. 

  18. Ivi, p. 98. 

  19. Ivi, p. 107. 

  20. Ivi, p. 106. 

  21. Ivi, p. 116. 

  22. Ivi, p. 137. 

  23. Ivi, p. 142. 

  24. Ivi, p. 144. 

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Linea del colore, sorveglianza razzializzata, controllo sociale https://www.carmillaonline.com/2023/12/06/linea-del-colore-sorveglianza-razzializzata-controllo-sociale/ Wed, 06 Dec 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80229 di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, [...]]]> di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, saggista, poeta, iscritto dal 1961 al Partito Comunista degli Stati Uniti, parlava soprattutto della situazione interna alla sua patria d’origine dove, nel 1868, era nato nel Massachusetts; ma la sua profetica previsione si è in seguito rivelata fondata, sotto molti punti di vista, ben oltre le linee temporali del secolo passato.

Quella intuizione, che avrebbe fatto sì che W.E.B. Du Bois si battesse per tutta la vita per il riconoscimento dei diritti degli afro-americani ha alimentato le riflessioni sul problema della separazione razziale e del razzismo ad essa intrinsecamente connesso fino ai nostri giorni, spesso affiancata al pensiero di Frantz Fanon. Esattamente come, indirettamente, sottolinea l’opera di Simone Browne pubblicata ora anche in Italia da Meltemi nella collana «Culture radicali» sotto la direzione del Gruppo Ippolita, gruppo di ricerca indipendente che si occupa di cultura digitale, critica della rete e tecnopolitica.

In Materie oscure/Dark Matters, Simone Browne, che si occupa di diaspora nera, media digitali e sorveglianza presso il Dipartimento di Studi Africani e della Diaspora Africana dell’Università del Texas, dove insegna Black Studies, fa parte del collettivo cyber-femminista “Deep Lab” ed è direttrice di ricerca del “Critical Surveillance Inquiry”, un gruppo di lavoro che prende in esame le implicazioni sociali ed etiche delle tecnologie di sorveglianza, traccia una genealogia delle tecnologie e delle pratiche di sorveglianza contemporanee, mostrando come queste derivino da una lunga storia di discriminazioni razziali perpetuate dagli oppressori bianchi per controllare le vite e i corpi delle persone nere schiavizzate.

In questo suo primo libro, esamina e mette in relazione la sorveglianza digitale, la schiavitù transatlantica e le tecnologie biometriche. Le fonti prese in esame sono molteplici: dal progetto della nave negriera Brooks al Panopticon di Jeremy Bentham, fino alla biometria e ai bias algoritmici delle piattaforme digitali.

La sorveglianza è una pratica discorsiva e materiale – sostiene Browne – che reifica i margini, i confini e i corpi lungo le linee della razza. La sorveglianza della nerezza è stata e continua a essere una norma sociale e politica da contrastare. Ma, come ancora indirettamente dimostra la presente opera, le tecniche usate per definirla e controllarla si sono ampliate oggi a tal punto da far sì che la profilazione degli individui e dei corpi sociali riguardi ormai una gran parte, se non la totalità, degli esseri umani sottoposti alla vigilanza del capitale e dei suoi scherani, armati o meno che siano.

Browne ci ricorda come, ancora una volta, sia stato proprio Frantz Fanon a intuire, durante le lezioni che ebbe modo di tenere all’Università di Tunisi, dopo che nel gennaio del 1957 le autorità francesi lo avevano espulso dall’Algeria per aver collaborato con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, che la modernità potesse essere caratterizzata dalla profilazione dell’essere umano.

Nonostante di queste lezioni non rimangano altro che pochi appunti, le osservazioni di Fanon sul monitoraggio delle chiamate e sui sistemi di telecamere a circuito chiuso sono essenziali. Grazie a questi appunti possiamo comprendere l’analisi che Fanon propone dell’alienazione e degli effetti della modernità e la sua lettura critica sulla sorveglianza e le relative forme di resistenza1.

Le ricerche dell’autrice rivelano, fin dalle prime pagine del libro, come per i servizi di sicurezza e spionaggio americani Frantz Fanon rimanga, a più di sessant’anni dalla morte, ancora «materia innominabile: anche da morto, a quanto pare, rimane una minaccia “a oggi propriamente classificata”, così come “le prove che possano attestare l’esistenza o la non esistenza” di un registro riguardante Fanon “sono informazioni che fanno parte di fonti e procedure protette dalla divulgazione”».

La documentazione relativa a Fanon consultabile grazie alla legge sulla libertà di informazione fa parte di una lunga storia di pratiche di spionaggio riguardanti un largo numero di radicali, artisti, attivisti e intellettuali neri tenuti sotto controllo dall’FBI. Questa lista include Assata Shakur, James Baldwin, Lorraine Hansberry, Stokely Carmichael, il Comitato studentesco per la coordinazione non-violenta, i Freedom Riders, Martin Luther King Jr., Elijah Muhammad e la Nation of Islam, Claudia Jones, Malcolm X, Fred Hampton, William Edward Burghart DuBois, Fannie Lou Hamer, Cyril Lionel Robert James, Mumia Abu-Jamal, Angela Yvonne Davis, Richard Wright, Ralph Ellison, Josephine Baker, Billie Holiday, le Pantere Nere, Kathleen Cleaver, Cassius Clay, Jimi Hendrix, Russell Jones aka Ol’ Dirty Bastard dei Wu-Tang Clan, e molti altri ancora2.

Tutti accomunati, come si può facilmente notare da un’unica caratteristica: la nerezza e l’esser afro-americani. Questa osservazione ci permette così di entrare nel merito del discorso sviluppato da Simone Browne e già parzialmente anticipato prima. In cui si rileva che

piuttosto che pensare alla sorveglianza come qualcosa di inaugurato dalle nuove tecnologie, come ad esempio il riconoscimento facciale o i veicoli a guida autonoma (o i droni), è necessario intenderla come un processo che affonda le proprie radici nel passato e che continua a svilupparsi nel presente. Questo permette di ribadire la necessità di tenere in considerazione quanto il razzismo e l’anti-nerezza siano elementi strutturali e una delle basi delle varie intersezioni delle sorveglianze contemporanee3.

Sostanzialmente la mentalità razzista, che sovrintendeva alla tratta atlantica degli schiavi e all’organizzazione del loro controllo e trasporto da un parte all’altra del mondo, di fatto ha anticipato le norme del controllo sociale contemporaneo attraverso la registrazione, la marchiatura e l’assicurazione sugli stessi per garantirne la proprietà dei “bianchi”. Cosicché l’opera di catalogazione giudiziaria, razziale, economica, sociale, mercantile, di genere e di classe che risulta dagli attuali processi di profilazione diffusa attraverso l’uso di strumenti di controllo non solo polizieschi ma, e forse soprattutto, volontari per mezzo dei social media e delle disparate piattaforme di comunicazione personale e commerciale, trova le sue origine in pratiche messe in atto fin dal XVIII secolo.

Questi corpi, ridotti a pacchetti di informazioni, vengono stoccati in immensi database in cui confluiscono tutti i dati raccolti su larga scala. Storicamente, cronache di simili pratiche di contabilità possono essere trovate nelle distinte delle navi negriere, nelle polizze assicurative ai proprietari degli schiavi, nella marchiatura come tecnologia di tracciamento della nerezza, per garantire che quei corpi venissero identificati come proprietà privata4.

Da qui deriva anche il titolo del libro poiché quel Dark Matters fa riferimento alla razza: «dove la razza, come sostiene Howard Winant, “continua a essere la materia oscura, la sostanza il più delle volte invisibile che struttura l’universo della modernità”»5. Un universo-mondo strutturato secondi rigidi schemi divisivi che, però, pian piano si sono espansi ben al di là della funzione di controllo della schiavitù per diventare norma esistenziale per gli appartenenti ai gruppi sociali classificati come potenzialmente pericolosi poiché caratterizzati dalla nerezza secondo lo sguardo indagatore del sistema “bianco”
e capitalistico.

Sguardo indagatore che a partire dall’osservazione sociologica canonica «avrebbe contribuito a trasformare ‘l’osservazione’ in una tecnica epistemologica ‘oggettiva’, a vantaggio del potere statale moderno. In questa maniera è stato possibile definire la sorveglianza come una pratica scientificamente accettabile e socialmente necessaria. Ciò faceva sì che il sociologo, in quanto osservatore, si sentisse al sicuro e separato dalle pratiche oscene degli uomini, delle donne e dei bambini afroamericani»6.

Un processo che, però, si è andato progressivamente allargando a tutto il corpo sociale, occorre dirlo, anche non caratterizzato dalla “nerezza”. In cui lo sguardo inizialmente rivolto allo schiavo o, per dirla con Ralph Ellison, all’uomo invisibile si è rovesciato anche contro l’osservatore primigenio.

Osservazione, quest’ultima, che, più che sminuire la traccia specifica della ricerca di Browne riguardante la condizione determinata dalla “nerezza”, intende invece sottolineare come la scarsa o nulla capacità della classe operaia bianca di accogliere le istanze del proletariato nero e farsene portatrice in nome di una comune lotta per la liberazione reciproca, sia di classe che di genere, ha finito col condizionarla fino a renderla incapace di difendere i propri interessi materiali e politici.
Proprio come, già nel XIX secolo, Marx ed Engels avevano previsto quando rimproveravano gli operai inglesi, incapaci di difendere gli operai irlandesi immigrati e sottomessi e, per questo motivo, destinati a veder inscritti nei propri comportamenti la condanna e l’immancabile sconfitta. Economica, sociale e politica.

Comunque fin dall’origine del sistema di fabbrica con «i timbracartellini che tengono traccia del tempo trascorso dagli operai in fabbrica, fino a forme più onnipresenti di osservazione, monitoraggio della produttività e raccolta di dati, come la visualizzazione remota del desktop o il software di monitoraggio elettronico che tiene traccia dell’uso di Internet da parte dei dipendenti al di fuori del lavoro»7 i metodi di sorveglianza dei comportamenti sul lavoro e nella vita privata hanno costituito un elemento essenziale dell’ordinamento sociale e statale di stampo capitalistico. Destinato ad ampliarsi sempre più nei confronti di ogni categoria e classe sociale.

Il termine “ordinamento panottico” di Oscar Gandy designa i processi attraverso i quali la raccolta di dati relativi a individui e gruppi come “cittadini, dipendenti e consumatori” viene utilizzata per identificare, classificare, valutare, ordinare o comunque “controllare il loro accesso ai beni e ai servizi che caratterizzano la vita nella moderna società capitalista”. Un esempio è l’applicazione di punteggi di fiducia da parte degli istituti di credito, per valutare l’affidabilità creditizia dei consumatori o per il marketing mirato delle offerte di finanziamento per speculare grazie a prestiti ad alto tasso di interessi. L’ordinamento panottico privilegia alcune persone, penalizzandone altre. Questi concetti – sospetto categorico, selezione sociale, società di massima sicurezza, guinzaglio elettronico, controllo partecipato, ordinamento panottico – insieme a quello di “assemblaggio del soggetto sorvegliato”, sono alcuni dei modi in cui la ricerca è giunta a teorizzare la sorveglianza. L’assemblaggio del soggetto sorvegliato vede il corpo umano osservato prima “scomposto, perché sottratto al suo contesto territoriale”, e poi riassemblato altrove (ad esempio, in una banca dati per la rendicontazione del credito) per essere usato come un “doppio digitale” fatto di dati o come strumento di confronto. Ne sono un esempio i calcoli per l’affidabilità creditizia o le analisi delle urine nei test antidroga, in cui il campione biologico viene raccolto e analizzato per verificare l’uso di sostanze8.

Per questo motivo, prendendo a modello l’opera di Foucault in cui «lo sguardo disciplinare del Panopticon è l’archetipo del potere della modernità», fin dal primo capitolo l’autrice sottolinea che «anche la nave schiavista deve essere intesa come un’operazione del potere della modernità e come parte della violenta regolamentazione della nerezza» e prende in esame il Panopticon (1786) e il progetto della nave schiavista Brooks (1789) per ciò che svelano sulla sorveglianza, sulla razza e sulla produzione di conoscenza. Mentre nei capitoli successivi il discorso sulla sorveglianza viene approfondito attraverso l’analisi del Book of Negroes, un registro del XVIII secolo che elenca tremila ex schiavi che una volta emancipatisi dalla schiavitù si imbarcarono principalmente su navi britanniche; le tecnologie biometriche e il loro ruolo nella formazione della razza afroamericana, a partire dalla marchiatura degli schiavi, che, come la tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali e le scansioni della retina, “riducono la carne a pura informazione”; fino all’«ondata di dirottamenti aerei [che] all’inizio degli anni Settanta portò infine alla legge antidirottamento o Air Transportation Security Act del 1974, firmata da Nixon il 5 agosto 1974, quattro giorni prima delle sue dimissioni», introducendo il concetto di bagaglio razziale per descrivere quanto la razza e il razzismo pesino su determinate persone in aeroporto.

Una rassegna storica, sociale e politica che permettere di cogliere in profondità le radici e le forme del controllo che pervadono la società nel suo insieme e opprimono le sue componenti razzializzate in particolar modo. Un testo lucido che può mettere in discussione non solo le esigenze di controllo spacciate come esigenze di sicurezza nazionale o sociale, ma anche le più recenti teorie del controllo collegate alle proteste contro il green pass e le vaccinazioni. Utile, quindi, come tutto ciò che permette di superare criticamente l’effimero stato delle cose presente e le sue illusioni, di regime oppure solo superficialmente antagoniste.


  1. S. Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 14-15.  

  2. S. Browne, op.cit., pp 9-10.  

  3. Ivi, p. 19.  

  4. Ivi  

  5. Ivi, p. 20.  

  6. R. Ferguson, Aberration in Black Toward a Queer of Color Critique, University of Minnesota Press 2003, p. 77 cit. in S. Browne, op. cit., p. 22.  

  7. S.Browne, pp. 35-36.  

  8. Ivi, pp. 31-32.  

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We shall live again: i fantasmi, la violenza, l’utopia. A proposito dei fantasmi di Avery Gordon https://www.carmillaonline.com/2022/12/12/we-shall-live-again-i-fantasmi-la-violenza-lutopia-a-proposito-dei-fantasmi-di-avery-gordon/ Mon, 12 Dec 2022 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75079 di Stefania Consigliere

Avery Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi, Roma 2022,291 pp., 20,00€

La proposta teorica è magnifica e sconvolgente: il fantasma è la traccia di una violenza. Una traccia ben presente e attiva, anche se invisibile. Qualcosa in cui si può andare a sbattere, senza preavviso, perché esiste nel mondo, al di fuori di noi, come segno di un passato che non può passare perché nessuno ancora gli ha dato ciò che gli spetta. Qualcosa è successo – proprio qui, nel punto dove si affollano i [...]]]> di Stefania Consigliere

Avery Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi, Roma 2022,291 pp., 20,00€


La proposta teorica è magnifica e sconvolgente: il fantasma è la traccia di una violenza. Una traccia ben presente e attiva, anche se invisibile. Qualcosa in cui si può andare a sbattere, senza preavviso, perché esiste nel mondo, al di fuori di noi, come segno di un passato che non può passare perché nessuno ancora gli ha dato ciò che gli spetta.
Qualcosa è successo – proprio qui, nel punto dove si affollano i turisti, nella terra di nessuno fra gli ultimi palazzoni e la spiaggia, dietro una malandata fermata di autobus – che ha segnato il luogo con il dolore, il dominio e l’orrore. La ferita non è mai stata curata: forse perché, quando la violenza ha colpito, non si è potuto far altro che fuggire; o forse perché, nel tentativo di sopravvivere a molta altra violenza subentrante, è stata dimenticata. Il tempo è passato e nessuno ha rimediato a quel gesto brutale. Ma potrebbe anche trattarsi di una violenza del presente, quella che incessantemente deve ripetersi, giorno dopo giorno, perché la macchina letale del capitalismo possa continuare a macinare plusvalore. La violenza strutturale, incarnata nel modo stesso in cui “le cose funzionano” è proprio questo: la continua produzione di disumanizzazione, dolore, oppressione, gerarchie; un continuo sparger sale su ferite già aperte; un’infinita produzione di spettri muti e dolenti.
Chi vede i fantasmi della violenza, chi si ostina a pensare che la modernità abbia troppi punti ciechi, chi non riesce mai a ritrovarsi nei resoconti ufficiali troverà in Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica di Avery Gordon, appena uscito per DeriveApprodi, un vero e proprio manuale di sopravvivenza etica ed epistemologica.

Diario di traduzione
Ho incrociato Ghostly matters per la prima volta nel 2015, nella bibliografia di un articolo di Roberto Beneduce. A diciassette anni dalla sua prima uscita, dunque, ma ero già scesa a patti con la mia distrazione culturale e quindi non ci sono rimasta troppo male. L’ho scaricato e letto immediatamente, in preda all’entusiasmo che mi piglia nell’incontro con i libri-chiave, quelli che modificano per sempre il tuo modo di vedere. Come succede in questi casi, ne ho parlato con tutti e, per un certo periodo, non ho parlato d’altro. Ne ho ordinato una copia “vera”, su cui ho diligentemente riportato le sottolineature e le note della versione elettronica. Da allora ci sono tornata ogni volta che ne ho avuto bisogno. Nella primavera del 2021, durante l’occupazione del nostro dipartimento, Federico Rahola mi ha proposto di tradurlo insieme in italiano: era già in amicizia con l’autrice, l’editore era ovvio e le cose sono andate avanti senza problemi, ma con tutta la lentezza e le risacche a cui questi anni di diluvio ci hanno abituati.
Da quel momento, non so più quante volte ho letto e riletto le pagine, i paragrafi, le singole frasi: in inglese, in italiano e a cavallo fra le due lingue, cercando di restituire la prosa flessibile e felice dell’autrice, il suo modo amorevole di parlare a ciò che non dovrebbe esserci, ma c’è. Ci sono stata appiccicata lungo tutta l’estate e l’autunno del 2021, poi nella primavera di quest’anno e di nuovo nell’autunno, in full immersion, per la correzione delle bozze. Dovrei conoscerlo a memoria, o almeno muovermi senza sorpresa fra immagini e capoversi, al riparo da batticuori, spaventi, illuminazioni profane e reazioni emotive.
E invece no. Piango tutte le sante volte.
Il capitolo sui desaparecidos argentini – su cosa significhi vivere all’insegna di «Dio, patria e famiglia» in un regime di colonnelli fascisti – mi porta, ogni volta, lo stesso dolore provato da bambina quando la rai mandò in onda uno sceneggiato (oggi: serie tv) intitolato Olocausto. Era la fine degli anni Settanta e la prima generazione di storici nati dopo gli eventi, e quindi relativamente immuni dalle ferite biografiche, stava cominciando a riaprire i dossier. A lungo in Germania dei campi non si è parlato; la generazione nata dopo la guerra ha dovuto scoprirli da sé, sull’onda del clima rivoluzionario del “decennio Sessantotto”, inseguendo il non detto e gli invisibili della vita sociale. Inseguendo i fantasmi, dunque.
Non vorrei suonare melodrammatica, ma sospetto che i mesi in cui ho tradotto Cose di fantasmi abbiano una parte sostanziale nella mia risposta emotiva al testo. La violenza produce fantasmi, amnesie, scissioni e terrore: in formato mignon, lo vedevo avvenire intorno a me. Il lockdown come dispositivo di rieducazione, la militarizzazione dei territori, l’induzione del terrore come strumento di controllo, il blocco epistemologico, il silenziamento dei saperi critici, la criminalizzazione di ogni forma di dissenso, la caccia alle streghe, la propaganda di guerra, uomini armate alle fermate dei bus per controllare il green pass dei ragazzini, Dostoevskij proibito, la follia sociale che per tre anni abbiamo respirato a pieni polmoni. Tutto quello che oggi cerchiamo disperatamente di rimuovere, a costo di non ricordare più niente della nostra vita recente, e che ci lascia feriti, risentiti, scissi, disperati. Le magnifiche pagine che Avery Gordon aveva scritto un quarto di secolo prima entravano in costellazione con il presente fino a produrre un shock, un arresto.
Will the circle be unbroken?

Le domande giuste
A (ri)leggere oggi i testi prodotti negli ultimi trent’anni del secolo scorso, si avvertono una ricchezza teorica e una generosità che nei decenni seguenti – dopo “Genova”, dopo le torri gemelle, nella prima ondata di guerra al terrore – avrebbero preso un andamento più carsico, vie più lunghe. Apparso per la prima volta nel 1997, Cose di fantasmi naviga in quelle acque, ben sondate dalla bibliografia, dove, oltre ai nomi classici, s’incrociano i nomi di Raymond Williams, Michael Taussig, Cedric Robinson e quelli delle autrici intorno a cui il testo s’intesse: Sabina Spielrein, Luisa Valenzuela, Toni Morrison.
Più ancora delle risposte – che tanto ciascuno deve trovare da sé nel luogo e nel tempo che gli sono toccati in sorte – contano le domande. Una cattiva domanda porta fuori strada rinforzando la disvisione del mondo, la continua rimozione che dobbiamo operare perché l’assurdo di una società in cui perfino l’annientamento degli umani produce plusvalore non disturbi la nostra sopravvivenza quotidiana. La buona domanda rivela ciò che siamo tenuti a non sapere, dà voce all’imparlabile: la si riconosce dallo spavento elettrizzato che si prova quando una domanda coglie nel segno.
Sabina Spielrein non era presente al congresso psicoanalitico di Weimar nel 1911 perché era una giovane donna, perché prima di diventare psicoanalista era stata paziente, o per via della doppia clandestinità della relazione con Jung? Quali connessioni pulsionali hanno legato la classe media argentina e il regime dei colonnelli che la proteggeva dai suoi stessi figli? Quanta fame – di dolci, di umanità, di amore – hanno i fantasmi della tratta atlantica e dello schiavismo su cui la modernità si è edificata? Più vicino a noi: quale rapporto lega le spiagge dei bagnanti estivi alla rotta libica e ai lutti senza cadavere che funestano i villaggi del Magreb? Quanti lavoratori morti giacciono sotto le mura delle città, gli stadi, le vie ad alto scorrimento? Quali parti di noi – ridotte al silenzio da un mix di shot tossici, cinismo e pornografia – ci aspettano all’angolo della solita strada?
Il fantasma sta dalla parte di chi sente il mondo in modo diverso da come esso viene descritto. Qualcosa è successo che dà ragione della dissonanza: non eravamo matti o ipersensibili o paranoici a pensare che quell’angolo di strada fosse inquieto; a sentire odore di cimitero in certi appartamenti di lusso; a vedere zombie nei grattacieli della city. Il fantasma libera dall’oppressione di dover aderire a una verità pubblica che fa a pugni con quel che sentiamo.
Non solo. Proprio perché segnala che qualcosa è andato storto, il fantasma porta con sé la certezza che le cose potevano anche andare altrimenti. Ci dice che è stata la violenza (e non il caso, o la natura) a sbarrare l’accesso a un futuro desiderabile. E ci dice anche che queste possibilità mancate non sono perdute per sempre: come il fantasma, i nostri futuri perduti e felici attendono di essere visti e rivendicati, che qualcuno li accolga e li porti con sé nei futuri che i morti avrebbero voluto – e noi con loro.
Alcuni storceranno il naso: i fantasmi non esistono. Le foreste non parlano. Lari, penati e ninfe dei boschi erano vecchie superstizioni. Il terrore non uccide. I mattatoi non sono luoghi d’orrore. Le danze, le rose e l’incanto sono solo per donne e bambini. E via dicendo. Qui il movimento rivoluzionario ha commesso il suo errore più catastrofico e ancora fa fatica ad avvedersene: l’adesione al disincanto rende solidali a quello stesso sistema di dominio che, sul fronte economico e politico, vorremmo superare. Se c’è qualcosa che dobbiamo togliere rapidamente dalle mani dei nostri avversari (e sono tanti) è il monopolio dell’immaginario: la zona del possibile, del non-ancora, del rimosso, dell’utopico, dell’inaffrontabile; le parole dei fantasmi; il nostro desiderio di una vita decente.

Spettri di Genova
Una donna olandese inseguita dalla polizia. Un salto dal molo sulle pietre che proteggono la caletta. Il rumore di un bacino che si spezza nell’impatto. Quel rumore. Bisogna soccorrerla, non si può lasciar per strada qualcuno col bacino spezzato. Una mano ti afferra e ti porta via perché, se resti, la prossima cosa che si spezzerà sarà il tuo cranio. Un bacino si spezza, bisogna soccorrere, devi andartene. Quel rumore non smetterà più di farsi sentire. Il tuo andartene non ti porterà mai più via da quella spiaggia.
Un pomeriggio di metà agosto, con lo stesso caldo di allora e la città abbastanza vuota, ho accompagnato una reduce del G8 sui luoghi dei nostri fantasmi generazionali: lo stadio Carlini, Boccadasse, corso Italia, piazzale Kennedy. Lei non tornava a Genova da ventun anni, io non l’ho mai davvero lasciata. Insieme ad altri compagni, erano arrivati a Genova nella notte, dagli Appennini, per evitare i posti di blocco autostradali; poi erano ripartiti in ordine sparso e forse, prima di separarsi, erano passati per la Diaz imbrattata di sangue – nessuno di loro, oggi, ne è più sicuro. Nell’autunno di quell’anno, quando mi capitava di passarci, sovrimpresse su piazzale Kennedy vedevo scorrere le immagini dei tre giorni di luglio: la polizia in assetto antisommossa; i banchetti di accoglienza; le montagne di bottiglie d’acqua; gli attivisti di Attac! immobili davanti ai manganelli; l’onda dei manifestanti che bruscamente piega e s’incunea su per la scalinata; il fragore incessante dell’elicottero; il sangue. Mentre camminavo con un compagno dei Paesi Baschi, a un certo punto lui mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha dolcemente spostata mezzo metro in là per evitarmi di calpestare una chiazza di sangue. Camminare sul sangue, le ossa spezzate dei morti. Di chi era quel sangue?
Abbiamo cercato il posto dove la donna olandese è caduta sugli scogli, dove la polizia ha inseguito un bacino fino a spezzarlo, dove non si è potuto prestare soccorso. Alla fine, dopo molti sopralluoghi, non siamo certe di averlo trovato: forse in due decenni la città è troppo cambiata o forse la ricostruzione oggettiva è impossibile. Michael Taussig ha indagato gli spazi del terrore, e cioè i luoghi dove l’uso sistematico e intenzionale della violenza arriva a creare un contesto allucinatorio. Come in quell’iniziazione multigenerazionale alla violenza di stato: lo sgomento nel riconoscere il suono di un osso che si spezza senza averlo mai sentito prima; la consapevolezza stordita di esser finiti in un teatro dell’orrore; la confusione. Il suono delle ossa sulla pietra non ha segnato le mie orecchie, è il fantasma di altri: della compagna che me lo racconta, di quelli che erano con lei. Ma è anche un fantasma mio, uno dei tanti che da allora si affollano, nell’indistinzione perdurante fra ciò che si è vissuto e ciò che è stato raccontato, fra ciò che si è visto e ciò che si è temuto, nella nebbia cognitiva che gli spazi del terrore invariabilmente inducono e che si alza, appena un po’, solo accettando di parlare alle ombre che vi si muovono.
Da sola non avrei mai fatto questa ghost dance. Pigrizia, timore; o forse non mi sarebbe venuto in mente. Cercare quei fantasmi non mi ha dato nessuna risposta, nessuna certezza. Mi ha permesso di sputar fuori un po’ del fango accumulato. E soprattutto, mi ha riconnessa con il senso di quelle lotte, con la parte perduta della storia mia e di tutti, con i futuri abitabili distrutti sotto i miei occhi dalla violenza del capitale. E mi ha mostrato, una volta di più, l’intelligenza dei collettivi che danzano la ghost dance, dove i fantasmi cantano, insieme ai vivi, we shall live again.

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I movimenti aberranti di Deleuze https://www.carmillaonline.com/2020/11/20/i-movimenti-aberranti-di-deleuze/ Fri, 20 Nov 2020 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63511 di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del [...]]]> di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.

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L’antropologia alle prese con la globalizzazione https://www.carmillaonline.com/2019/08/17/lantropologia-alle-prese-con-la-globalizzazione/ Sat, 17 Aug 2019 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54066 di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI [...]]]> di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI secolo Marc Augé e Jean-Paul Colleyn hanno dedicato nel 2004 un libro tradotto e pubblicato una prima volta in italiano un paio di anni dopo da Eléuthera ed ora riproposto, dal medesimo editore, in una nuova edizione: L’antropologia del mondo contemporaneo (Eléuthera, 2019).

A lungo, sostengono i due studiosi, gli antropologi hanno pensato di compiere viaggi nel tempo mentre in realtà si muovevano nello spazio. Al convincimento, oggi scarsamente sostenibile, che lo spostamento in terre lontane consenta di rintracciare “civiltà antiche”, si è sostituita la consapevolezza che, indipendentemente dal modo di vita degli esseri umani delle più diverse società, esistano riferimenti in comune e che l’antropologia, nel suo spiegare la variabilità dei fatti umani, debba saper comprendere anche le somiglianze e gli universali.

Se dal punto di vista valoriale la distinzione Occidente / resto del mondo e l’idea di uniformare in un’unica grande categoria l’umanità “non industriale” sono del tutto inaccettabili, dal punto di vista scientifico, sostengono Augé e Colleyn, non di meno la sfasatura tra “moderni” e “altri” necessita di essere indagata.

L’antropologia occidentale si è sviluppata all’interno di un percorso culturale che ha avuto le sue tappe principali nel pensiero greco-romano, nell’illuminismo e nella rivoluzione industriale. Condannato l’evoluzionismo che pretenderebbe di imporre una tendenza orientata da parte di tutte le forme sociali verso tale modello, occorre però, ribadiscono i due studiosi, prendere atto di come il modello occidentale abbia finito col farsi globale, sebbene, a ben guardare, risulti meno razionale di quel che pretende. L’economia della società postindustriale più avanzata resta infatti fortemente toccata dal simbolico, dall’ideologia e dalle credenze.
Nonostante tale sistema abbia condotto ad una professionalizzazione della ricerca tecnico-scientifica, l’Occidente non può pretendere di detenere il monopolio della riflessione critica:

non tutte le culture aderiscono a un modello scientifico basato sul confronto di argomenti razionali con l’unica preoccupazione di ricavarne leggi, regolarità, strutture. Ciò che oggi è in discussione è il fatto di capire se l’autonomizzazione della scienza e della ricerca introduca, rispetto a tutte le altre forme del sapere, una cesura epistemologica, o se la categoria isolata sotto il nome di “scienza” altro non sia che una forma relativa di sapere tra le tante (p. 119)

Lo schema base dell’agire dell’antropologo prevede: la costruzione di un oggetto di studio, la scelta di un tema legato a forme di vita collettiva, il portarsi sul campo al fine di svolgere l’indagine etnografica, affrontare la letteratura esistente sull’oggetto di ricerca, infine l’intraprendere la scrittura dei risultati ottenuti.

Circa l’oggetto, se un tempo era confinato a piccole società esotiche che si volevano indagare prima che venissero assorbite dall’espansione della civiltà europea, oggi, con l’avanzare del processo di globalizzazione, il contesto da indagare si estende all’intero globo. Ovunque le genti risultano “locali” solo in funzione di una precisa configurazione storica e, in un sistema mondiale come l’attuale, si mostrano sempre più interdipendenti. Dunque, l’antropologia è passata dallo studio dei popoli a quello dei temi, con le inevitabili specializzazioni. Nonostante si siano così strutturate, ad esempio, un’antropologia del diritto, della religione, della malattia, della città e così via, resta indispensabile, a parere di Augé e Colleyn, il mantenimento di un minimo di visione generale dell’umanità nel suo insieme.

Quando si parla di campo in ambito antropologico, si intende contemporaneamente un luogo ed un oggetto di ricerca ed a proposito di esso i due studiosi ribadiscono come il metodo su cui si basa l’antropologia resti quello dell’etnografia: il lavoro sul campo durante il quale il ricercatore prende parte alla vita quotidiana di una diversa cultura, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e ne scrive.

L’immersione in una cultura consente un apprendimento spontaneo (per familiarizzazione o impregnazione) che dovrebbe impedire al ricercatore di proiettare sulla realtà sociale indagata ciò che vuole vedervi; l’antropologo deve riuscire ad evitare di inserire ciò che osserva all’interno di categorie appartenenti alla sua tradizione culturale e di trasformare ciò che si trova di fronte in differenza ed estraneità a tutti i costi rispetto alla sua cultura di provenienza.

L’attuale analisi transculturale si è formata sulla base dei tentativi degli anni Settanta di analizzare la realtà sociale dal suo interno, ed altrettanto importanti per la ricerca contemporanea sono state le ricerche antropologiche che hanno avuto come oggetto di analisi l’esperienza antropologica stessa in quanto forma della conoscenza prodotta dal contattato tra due diverse culture. Grazie ai postcolonial studies è stata invece messa in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo nel suo derivare dal colonialismo.

Nell’attuale realtà globalizzata, segnata dalla mobilità delle culture e dagli spostamenti delle popolazioni, il lavoro sul campo si trova ad assumere una forma “reticolare”, richiedendo un’indagine delle “comunità sparse” tanto nel paese d’origine quanto in quello di approdo. L’inchiesta, però, sottolineano i due studiosi, non può ridursi a descrizione di quanto osservato sul campo: «essa non può fare a meno di prospettare fenomeni che la determinano dall’esterno, spesso studiati da altri specialisti: geografi, demografi, storici, linguisti, psicologi…» (p. 98)

A proposito della fase di lettura, Augé e Collyn ricordano come l’antropologo si trovi a tentare di comprendere l’universo sociale di una cultura che non consce e di come, a tal fine, debba confrontare quanto osservato sul campo con con il sapere accumulato dalla letteratura circa altre forme sociali presenti nel tempo e nello spazio evitando così di piegare l’esperienza diretta a quanto già conosce e allo stesso tempo di trarre stimolo dalle sue conoscenze. Ciò differenzia il campo dal reportage.

Attraverso la letteratura il ricercatore può dialogare con autori di epoche e culture diverse in modo da evitare di essere del tutto determinato dalle condizioni storiche in cui vive. I classici dell’antropologia, pur con tutti i limiti storico-culturali, mantengono elementi di utilità e di attualità. Tali ricerche necessitano di essere lette alla luce dei contesti culturali in cui sono state prodotte cercando in esse quanto resta di utilizzabile alla luce delle attuali conoscenze.

Circa la fase di scrittura è ovviamente necessario che l’antropologo si interroghi a proposito del linguaggio che intende utilizzare e, salvo rare eccezioni, è soltanto dall’inizio degli anni Ottanta che le modalità espositive sono state realmente problematizzate. «Ogni stile postula una teoria (una concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la “letteratura”) e un impegno etico (non giudicare, ma capire)». (p. 104)

Da qualche tempo si tende a concedere maggior spazio a “voci altre” rispetto a quella del ricercatore: voci d’archivio, di interlocutori sul campo, di altre discipline, di narratori e così via. Il ricorso da parte di alcuni antropologi agli audiovisivi impone una particolare attenzione al fine disciogliere la mediazione di tali strumenti nella restituzione; che si abbia a che fare con la scrittura o con gli audiovisivi si tratta sempre di “discorsi costruiti”.

Se l’antropologia classica (1920-1975) aveva il suo genere preferito nella monografia, che si propone come ricerca esaustiva di una società localizzata, successivamente è stato preferito il saggio che, nel suo proporre un punto di vista argomentato, tenta di confrontare il locale con una realtà più allargata nello spazio e nel tempo. L’antropologia contemporanea ha dovuto anche prendere atto che i soggetti indagati sono spesso a loro volta lettori dei risultati ottenuti dal ricercatore e non mancano di discuterei e criticarli.

L’antropologia e la sociologia contemporanee operano nella convinzione che l’attualità si è fatta caotica e con l’implosione delle grandi narrazioni tutto tende ad essere visto sotto la lente del dubbio.

Dire che ogni testo è una costruzione è un’ovvietà, affermare che un testo di scienze umane è una finzione, in quanto non può pretendere di arrivare a una verifica definitiva, è un abuso di linguaggio o un espediente retorico. É bene infatti distinguere con cura tra finzione, errore, menzogna, falso, argomento ideologico, modello, ipotesi… (pp. 110-111)

L’idea soggiacente all’antropologia coloniale votata alla classificazione etnica, secondo i due studiosi, ha preannunciato il comunitarismo contemporaneo.

In entrambi i casi si trattati sottrarre una “società” dal suo ambiente storico, di preservarla dall’insieme che la contiene, lo Stato […] In Europa, se oggi si sviluppa uno spirito comunitario, ciò è dovuto a un indebolimento del potere di integrazione dello Stato e alla malintesa volgarizzazione di un’antropologia dilettantesca venata di moralismo. In questa ideologia, è la celebrazione delle differenze culturali che funge da a priori, non la comprensione dei meccanismi che stanno alla base della struttura identitaria e quindi delle alterità. I movimenti identitari non chiedono all’antropologo un giudizio morale. Esistono, e bisogna cercare di spiegarli, quindi di capirli (pp. 115-116).

Non sorprende, affermano Augé e Colleyn, che

le persone si raggruppino, adattino la propria cultura alle sfide del momento, sfruttino creativamente il proprio passato per cercare di trovare il proprio posto e di trarne qualche vantaggio. L’antropologo può deostruire queste ideologie, mettendo in luce come tutte le forme dell’esclusivismo – razziali, etniche, classiste, religiose, sessuali – siano falsamente presentate come qualità essenziali, ma deve anche fare opera di storico per studiare le condizioni che le hanno fatte emergere (p. 116).

Negli anni Ottanta si è iniziato a parlare di “antropologia indigena” a proposito delle ricerche svolte da appartenenti a “gruppi minoritari”: chi è stato a lungo oggetto di studio inizia a produrre a sua volta ricerche. Se deve essere accolto positivamente il fatto che l’Occidente divenga oggetto di studio da parte di chi “non ne fa parte”, non si deve però perdere di vista l’asimmetria tra le possibilità offerte a tale tipo di ricerca rispetto a quelle di cui dispone la ricerca occidentale.

Nel libro viene sottolineato come le località in cui sia individuabile un’autentica autoctonia siano restate davvero poche e di come sia ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che l’etnicità sia

una una relazione più che una proprietà di un gruppo, che l’economia di mercato e le istituzioni statali consono incompatibili con strutture di lignaggio, che un movimento di guerriglia può ricorrere alla trance di possessione, che gli scambi “globali”, sotto forma di traffici di ogni genere, di migrazioni, di trasferimenti di beni su lunghe distanze e di lunga durata, non sono cominciati con l’invenzione della macchina a vapore (p. 125)

L’antropologa contemporanea non ha come obiettivi la ricerca di “paradisi perduti” o l’individuazione di modalità di “resistenza all’occidentalizzazione”. Non si tratta di scoprire gruppi sino ad ora sconosciuti o di completare la mappatura culturale del globo; l’antropologia, sostengono Augé e Colleyn, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di «proporre un’analisi critica delle modalità di espressione culturale nel contesto storico che dà loro un senso» (p. 125).

L’antropologia, così come la sociologia, dovrebbe anche riflettere sulla deriva individualista della società contemporanea tenendo conto dell’enorme impatto dei mezzi di comunicazione e dell’indebolimento delle istituzioni tradizionali che storicamente assicuravano i legami sociali.

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La possessione spiritica come strumento difensivo, critico o sovversivo https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/la-possessione-spiritica-come-strumento-difensivo-critico-o-sovversivo/ Tue, 02 Jul 2019 21:30:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53485 di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo multidisciplinare, a cavallo fra sociologia, antropologia, etnografia e linguistica. Cosa accomuna e cosa differenzia le suggestioni e le pratiche esorcistiche, in scenari culturali così diversi? Sicuramente la possibilità di rivelare e dare corpo, attraverso il “fenomeno possessione” e i complessi rituali che lo accompagnano, a istanze sociali collettive, di gruppi subalterni o sottoposti a forzati processi di modernizzazione. Essere posseduti significa, in una modalità profonda e ineffabile, prendere la parola, diventare visibili, trasformare il tormento interiore in malessere fisico e, spesso, in catarsi e guarigione.

“La possessione, osservata dal punto di vista della caduta in trance, o dell’alterazione dello stato di coscienza, è un fenomeno che interessa pochi individui ma che viene altamente teatralizzata e ritualizzato all’interno della società più ampia, la quale vi inscrive (e vi esprime) i suoi significati”. (p. 10)

E il fenomeno è talmente connesso all’esperienza umana, quasi una sua modalità naturale di espressione, che: “nessuna società sembra trovarsi impreparata di fronte alla possessione. Se l’esordio spiritico può sconvolgere e marcare l’esistenza di un individuo o di una classe di individui, nessun ordine culturale viene scombinato o entra in crisi quando la possessione si manifesta in uno dei suoi membri”. (p.10)

Infatti, all’interno di una compagine sociale, la possessione può assolvere varie funzioni: difensive, critiche o addirittura sovvertitrici, rispetto ai rapporti fra classi, gruppi etnici o generi. La possessione fornisce un linguaggio e un’allusione a istanze nascoste persino a chi le manifesta.

È palesemente il caso del primo saggio –  Produzione della possessione, di Aihwa Ong -, che esamina le “epidemie di possessioni” nelle fabbriche multinazionali impiantate nella Malesia occidentale a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Territori da sempre rurali che sottoposti a una torsione antropologica violentissima, insieme al benessere economico sono sottoposti a sconvolgimenti epocali negli stili di vita e negli assetti familiari. La prima generazione operaia – soprattutto femminile – all’impatto con il mondo alieno e alienante della produzione, “usa” il linguaggio tradizionale della possessione, per protestare contro la propria condizione: è così che si diffondono i malesseri e si materializzano gli spiriti del territorio, disturbati dagli impianti industriali, che vagano fra i reparti e gli spogliatoi, inducendo crisi isteriche e inquietanti visioni ai danni della forza lavoro.

Davanti alle migliaia di ore di lavoro perso a causa di questi fenomeni, le multinazionali americane arrivano persino ad assumere sciamani autorizzati a praticare rituali ancestrali dentro gli stabilimenti – stabilendo una connessione inedita tra le forme più alte della tecnologia industriale e quelle più arcaiche dei rituali esorcistici. Naturalmente il fine non è quello di migliorare la condizione operaia e mitigare l’impatto potente dell’industrializzazione: anzi, le forze “tradizionali” si uniscono alle strategie di medicalizzazione e colpevolizzazione delle vittime, onde preservare la continuità della produzione

Nel secondo saggio – Possessione, afflizione, follia – Jean Pierre Olivier de Sardan cerca soprattutto di classificare la ricca articolazione simbolica e di prassi che si manifesta in una certa area del Niger, sui temi della possessione, dell’esorcismo e soprattutto dell’adorcismo – le pratiche attraverso cui si “invita” lo spirito a prendere possesso di un individuo che cerca la guarigione del corpo e della mente: qui l’antropologo deve districarsi in una foresta di segni e significati intricatissimi, in cui è necessario interrogarsi sul significato di malattia e terapia in contesti lontanissimi da quelli della modernità occidentale.

Nel terzo saggio – Musulmani riluttanti – Janeth McIntosh analizza la condizione di sottomissione quasi “castale” subita da una ristretta minoranza animista, quella dei giriama, considerata impura e subalterna rispetto alla maggioranza swahili, musulmana e socialmente più avvantaggiata. Siamo nel litorale costiero del Kenia, un’area di recente urbanizzazione, in cui le gerarchie etnico-religiose si riflettono immediatamente sui mondi celesti: gli spiriti dei giriama sono meno potenti e hanno meno pretese, rispetto ai loro omologhi musulmani, considerati spiriti di “serie A”, generalmente in rapporto con il mondo swahili.

Non di rado uno spirito musulmano “possiede” un giriama e questo induce nel soggetto un cambio nella dieta, l’adozione dei tabù alimentari islamici e finanche un nuovo abbigliamento che richiama lo stile swahili. I giriama hanno talmente introiettato la loro subalternità, da “usare” le possessioni come strategia di abbandono della loro vecchia cultura e viatico verso una islamizzazione che potrebbe risultare socialmente più conveniente. Nel senso opposto, alcuni sciamani giriama utilizzano l’evocazione dei loro spiriti ancestrali come strategia di resistenza culturale all’egemonia islamo-swahili. Anche in questo caso, quindi, esorcisti/adorcisti di entrambe le fazioni, mettono in campo complessi rituali che regolano queste contese squisitamente culturali e sociali.

Un campo di studi complesso e affascinante, in cui nessuna teoria può attribuirsi il ruolo di “ultima parola”, in cui è facile cadere nelle trappole di letture materialisticamente grossolane, attraverso cui lo sguardo occidentale crede di svelare con chiarezza i nessi di causa/effetto che sottostanno a fenomeni sfuggenti e di problematica classificazione: manifestazioni che hanno il loro campo di origine nella foresta nera della psiche umana e nel mare magnum dell’inconscio collettivo. Con saggezza, il curatore è consapevole del fatto che: “È evidente che l’antropologia, pur attenendosi ai dati etnografici, riposa sulla loro interpretazione, ossia sull’arbitrio di attribuire loro un significato”. (p. 12) Premessa utile di un libro interessante, scientificamente rigoroso, non riservato agli “addetti ai lavori” degli studi antropologici.

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Linee di fuga. Le ferite del sé e il cambiar pelle necessario https://www.carmillaonline.com/2018/01/21/linee-fuga-le-ferite-del-cambiar-pelle-necessario/ Sat, 20 Jan 2018 23:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42513 di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile a determinare il ricorso a pratiche pericolose per l’incolumità personale.

Se ad essere indagato dal recente volume è il rischio deliberatamente scelto come via di fuga da un contesto vissuto dall’individuo come ostile, è però da tempo che lo studioso analizza le modalità con cui gli esseri umani tentano di rispondere al malessere che li affligge. Incisioni, scorticature, scarificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni…, le lesioni corporali autoinflitte da uomini e, soprattutto, donne sono al centro di La Peau et la Trace. Sur les blessures de soi, saggio uscito in Francia nel 2003, poi tradotto e pubblicato in italiano nel 2005 da Meltemi, dunque riproposto dal medesimo editore nel 2016. La pelle e la traccia. Le ferite del sé rappresenta un importante studio condotto da David Le Breton sulle lesioni corporali autoinflitte deliberatamente dagli individui, principalmente in età adolescenziale, nel contesto della società contemporanea occidentale.

Secondo lo studioso l’epidermide è diventata la superficie d’iscrizione del malessere di tanti individui che modificano il proprio corpo spesso perché non riescono ad incidere sull’ambiente circostante. Tali ferite corporali non sarebbero un indice di follia, ma una forma di lotta, per quanto particolare, contro il male di vivere contemporaneo. L’alterazione del corpo sembrerebbe rispondere a un bisogno di ridefinizione di sé in una situazione dolorosa: un tentativo di andare oltre il socialmente consentito per provare qualcosa di forte nel corso di una vita normale percepita come inadeguata e insufficiente.

Aggredendosi e/o facendosi sanguinare, l’individuo infrange la sacralità sociale del corpo dando vita a un gioco simbolico con la morte e, come accade per i comportamenti a rischio, pur su un altro piano, le ferite inflitte al corpo si rivelano un mezzo estremo di lotta contro la sofferenza, oltre che di ri-costruzione identitaria. Ne La pelle e la traccia Le Breton non intende analizzare pratiche derivanti da una volontà dissimulata di morire, ma al contrario da una volontà di vivere.

È ovvio che si tratta di un percorso ambivalente – la ricerca di sé conduce lungo strade tortuose. Per partorire il sé, a volte, è necessario rischiare di perdersi – non per scelta, ma per necessità interiore: la sofferenza o la mancanza di essere erodono il rapporto con l’esistenza, separandola da noi. Nei comportamenti analizzati in questo libro si gioca d’astuzia con la morte o il dolore, per riuscire a produrre un senso di cui fare uso personalmente – e ri-mettersi al mondo […] Quando l’esistenza non si presenta più sotto gli auspici del senso e del valore, l’individuo dispone ancora di un’ultima risorsa: sottrarre spazi poco frequentati al rischio di perire. Gettandosi contro il mondo, lacerandosi o bruciandosi la pelle, egli cerca in realtà una garanzia per se stesso – mette alla prova la sua esistenza, il suo valore personale. Se non ha più dinanzi a sé il percorso del senso, tracciato in modo chiaro, è necessario che si confronti col mondo mediante l’invenzione di riti intimi – quasi di contrabbando. Sacrificando una piccola parte di sé nel dolore, nel sangue, l’individuo si sforza di salvare l’essenziale; infliggendosi un dolore controllato, lotta contro una sofferenza infinitamente più intensa (pp. 9-10).

Nella sezione intitolata “L’incisione nella carne: tracce e dolori per esistere”, l’autore ragiona anche sui motivi che determinano un ricorso maggiore alle lesioni corporali autoinflitte da parte femminile e tende a ricondurre ciò a una maggiore interiorizzazione della sofferenza da parte delle donne rispetto agli uomini che invece tendono a tradurla in aggressività rivolta contro l’esterno. Se la donna assume su di sé lo sconforto, l’uomo, invece, sembrerebbe più incline a proiettarsi contro il mondo in ossequio all’obbligo di condotte “virili” a cui è stato educato. Interiorizzando la propria disperazione, la donna sarebbe indotta

a mettere in luce più spesso una fragilità che va di pari passo coi criteri di seduzione che le vengono imposti. Che si pieghi dinanzi al dolore, è nell’ordine naturale delle cose. Ma rivolgendo la sua sofferenza – cioè la sofferenza che è nella vita – contro la propria pelle, la donna rifiuta anche il modello della seduzione – un modello che la soffoca e fa del suo aspetto il principale criterio di valutazione di ciò che è, laddove l’uomo viene di preferenza giudicato in base alle azioni che compie. Per queste ragioni, la donna afferma di essere sempre “a fior di pelle”; e a volte, quando ne ha abbastanza, cancella la pelle con gesti carichi di rabbia (pp. 32-33).

Non è pertanto un caso che artiste come Gina Pane e Orlan nell’attentare al proprio corpo suscitino maggiore fastidio e resistenza sociale rispetto ad artisti uomini. «Queste artiste, del resto, si fanno interpreti di un’analisi politica del proprio corpo e dei pesanti vincoli sociali che le tengono rinchiuse nella loro condizione: possibile che una donna, di cui si dice che deve essere fragile, dolce, latrice di vita ecc., sia in grado di far scorrere il proprio stesso sangue o di “rovinare” il proprio corpo?» (p. 33).

In generale l’attentato nei confronti del proprio corpo avviene in solitudine e risponde frequentemente all’insufficienza del vivere. «Esistere non basta più: bisogna sentirsi esistere. Per porre fine allo sgretolamento di sé e all’inconsistenza dell’immagine del corpo, ci vuole un sovraccarico di sensazioni […] Quando si perde ogni contatto con l’ambiente circostante, quando ci si sente insignificanti, non c’è davvero più altra via di scelta: esisto perché mi sento, e il dolore lo attesta» (p. 57). Certo, il significato della lesione corporale è molteplice; il gesto può derivare anche da un’intenzione espiatoria o di purificazione.

Nel libro, oltre che al contesto adolescenziale, viene prestata particolare attenzione anche alle ferite corporali intenzionali praticate dagli individui durante lo stato di reclusione – “Lesioni corporali deliberatamente inflitte in situazione carceraria” – e nell’ambito artistico – “Intaccare se stessi: dalla body art alle performance”.

La sezione finale del volume – “La parte del fuoco: un’antropologia dei limiti” – è invece dedicata all’incisione come forma di lotta contro la sofferenza e, in generale, alle ferite autoinflitte all’interno di un’epoca segnata dalla negazione sociale della morte, epoca in cui il morire e la morte hanno smesso di far parte dell’ordine simbolico. «Oggi la morte è vista come un non-luogo, l’antitesi di un’esistenza divenuta positività pura, in grado di fissare, di eternare il tempo – mentre la morte è un processo insostenibile di dissipazione e decadimento» p. 154). Riconquistando il controllo sul proprio corpo attraverso azioni su di esso, l’individuo sollecita

un’istanza metafisica che possa fargli ritrovare la legittimità di esistere, ma affrontando necessariamente il rischio di perdersi: si tratta di fabbricare l’identità con il dolore o la morte, riprendendosi l’iniziativa sotto forma di una sfida o di un passaggio all’atto […] Poiché la società ha fallito nel suo compito di orientamento simbolico, il soggetto interroga un’istanza al di là di essa: il suo è un ignoto rito oracolare, un rito intimo che offre risposte radicali alle domande sul valore dell’esistenza. Ma consultare l’oracolo ha il suo prezzo. Fabbricando il sacro a uso personale, suscitando una forma di trascendenza attraverso il dolore o il rischio di morte l’individuo cerca in realtà di ridefinire se stesso. Il sacrificio di una parte di sé lo strappa al quotidiano, e in particolare alla routine della sua sofferenza; all’improvviso il soggetto è proiettato altrove, su un altro scenario esistenziale che tuttavia lui stesso ha reso possibile giocando la parte del fuoco. In questo caso il sacrificio non è uno scambio interessato con gli dei, perché ignora ciò che vuole ottenere; si impone all’individuo e al suo corpo che tenta di difendersene, ma è anche una forza che agisce – perché restaura un senso di identità ormai a pezzi. La sua espressione è un dolore liberamente accolto: è la traccia sulla pelle ma voluta, traccia che riassume in sé una sofferenza più vasta consentendo all’individuo di circoscriverla e superarla. L’incisione è insomma una risposta inconscia ma potente al senso di caos che minaccia di trascinar via ogni cosa. Attraverso la ferita, l’individuo paga in anticipo il prezzo del suo sollievo. Questa temibile formula del sacrificio ha in sé un paradosso: si origina e termina nell’individuo, destinatario ultimo della ricerca il cui fine è dare nuovo slancio all’esistenza. Ma si tratta di un processo che non è cosciente di sé […] Attentando al proprio corpo, l’individuo offre la parte per il tutto senza davvero sapere a chi si sta rivolgendo, e anzi addirittura ignorando il fine ultimo del suo gesto. Privandosi di una parte di sé, ponendo anche solo per un attimo l’accento sul dolore ma poi riprendendo in mano il controllo – e dunque cessando di essere in balia della corrente senza fine del male di vivere – chi sacrifica è in grado di ricevere in cambio il sollievo o quantomeno un momento di tregua – se non addirittura, chissà, un’epoca di totale remissione della sua disperazione (pp. 151-152).


Linee di fuga: serie completa

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Il reale delle/nelle immagini. Lo spirito del tempo alla luce delle nuove immagini https://www.carmillaonline.com/2017/12/19/reale-dellenelle-immagini-lo-spirito-del-tempo-alla-luce-delle-nuove-immagini/ Mon, 18 Dec 2017 23:02:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42057 di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. [...]]]> di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. L’attenzione riservata alla traduzione è particolarmente meritoria vista la complessità linguistica che contraddistingue i testi di Morin, come testimoniano le note di apertura dei due traduttori.

Compongono il volume anche due preziosi contributi di Ruggero Eugeni, professore ordinario di Semiotica dei Media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Andrea Rabbito, professore associato di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli studi di Enna “Kore”. L’intervento di Eugeni mette in luce la rilevanza del contributo offerto da Morin, per certi versi in anticipo sui tempi, a proposito della condizione mediale contemporanea, mentre lo scritto di Rabbito, curatore del volume, approfondisce il legame tra Lo spirito del tempo e il mondo della cultura visuale sviluppato dalle nuove immagini che, nel loro illudere una perfetta duplicazione del reale, non provocano più la sensazione che in esse il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del rappresentante e la percezione di trovarsi il rappresentato presente davanti agli occhi. Sarà proprio sulle letture dell’opera moriniana effettuate alla luce dell’oggi proposte dai questi due studiosi che ci soffermeremo.

Ruggero Eugeni, nel suo scritto “I media o l’uomo post-immaginario”, propone quattro possibili letture contemporanee del libro di Morin. Una prima lettura si “limita” a esporre sinteticamente i contenuti de Lo spirito del tempo: nella prima parte Morin introduce l’oggetto (la cultura di massa), il metodo (fondato sulla volontà di mettere da parte le letture prevenute nei confronti della cultura di massa e sulla necessità di un approccio multidisciplinare) e lo sfondo (la ludificazione, la spettacolarizzazione e l’erotizzazione dell’esistenza dell’individuo postindustriale). Dall’incrocio di queste tre componenti, sostiene Eugeni, emerge sia il carattere dialettico e dinamico della cultura di massa, oscillante tra la standardizzazione-omogeneizzazione e la creatività-individualizzazione, sia il ruolo centrale dell’immaginario. «Un’analisi di tali contenuti corrisponde dunque a una radiografia della psiche collettiva dell’uomo occidentale» (p. 14) e ciò è affrontato da Morin nella seconda parte de Lo spirito del tempo, ove si occupa delle forme della mitologia contemporanea.

Una seconda lettura contemporanea del volume di Morin, sostiene Eugeni, è di tipo storico ed è volta a individuare nel testo un quadro del contesto in cui è stato elaborato e steso dallo studioso francese a cavallo tra gli anni Cinquanta ed i Sessanta del Novecento, in un contesto panorama culturale caratterizzato da importanti studi cinematografici e antropologici, semiologici e mediologici, sulle comunicazioni di massa e sulla psicanalisi lacaniana.

La terza lettura oggi possibile, continua Eugeni, è prospettica, nel senso che risulta interessante valutare quanto Lo spirito del tempo abbia saputo anticipare gli sviluppi della sociologia e pure, suggerisce lo studioso, alcune argomentazioni sviluppate da Guy Debord ne La società dello spettacolo, testo uscito sul finire degli anni Sessanta. Lo stesso Morin in uscite successive – alcune delle quali meritoriamente riportate in appendice dall’edizione presentata da Meltemi – rispetto alla prima stesura del suo volume non manca di evidenziare alcuni limiti della sua ricerca vista alla luce delle novità portate dal Sessantotto.

La quarta lettura del saggio dello studioso francese suggerita da Eugeni viene definita archeologica. «Si tratta in questo caso […] di chiedersi a partire dalla situazione attuale dei media cosa il libro di Morin ci dice sulla condizione precedente e in cosa tale condizione ci appare oggi superata» (p. 17). Da un lato Morin intende i media «come strumenti di produzione di ibridi che mediano e contaminano il reale e l’immaginario; dall’altro lato, tale ibridazione e contaminazione avviene a partire da una rete di dispositivi individuabili e localizzabili. In tal modo Morin coglie bene e traduce in modo originale lo spirito del tempo dei primi anni Sessanta: l’idea che i dispositivi mediali nella loro riconoscibilità costituissero strumenti di artifcializzazione dell’esperienza intima e sociale dei soggetti» (p. 20). Dunque, Morin legge il processo di artificializzazione dell’esperienza alla luce di una doppia ibridazione: «i dispositivi e gli universi mediali riformulano i dispositivi e gli universi mitologici e simbolici delle culture premoderne; in tal modo all’ibrido reale/immaginario si sovrappone quello moderno/premoderno» (p. 20). Eugeni concentra il suo intervento sulla lettura di Lo spirito del tempo alla luce delle trasformazioni dei dispositivi mediali contemporanei da lui approfonditi, questi ultimi, nel saggio La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni (2015).

Da parte sua Andrea Rabbito, nel suo prezioso intervento “Morin e la cultura visuale contemporanea”, sottolinea come il francese sia stato per certi versi lungimirante nel prospettare le trasformazioni avvenute nei decenni successivi alla stesura del testo, tanto da risultare in grado non solo di cogliere «lo spirito del tempo che animava gli anni Sessanta, ma anche quello che caratterizza i giorni nostri e anticipa percorsi di ricerca attuali o, meglio, ne apre le strade, indicando un metodo che risulta particolarmente produttivo» (p. 289). Basti pensare a come alcune riflessioni dello studioso francese sulla centralità dell’immagine nella vita quotidiana siano alla base dei cultural studies diffusisi soprattutto nel corso degli anni Novanta. Gli studi di Morin si sviluppano lungo un percorso che parte da Il cinema o l’uomo immaginario (1956) [ne abbiamo parlato su Il Pickwick: Cinema ed immaginario secondo Edgar Morin] e prosegue con Le star (1957), Lo spirito del tempo (1962) per poi giungere a L’Esprit du temps 2. Nécrose (1975). I quattro volumi, sostiene Rabbito, formano una tetralogia omogenea utile alla comprensione del nuovo tipo di immagini caratteristiche della contemporaneità. Importante risulta, inoltre, il metodo adottato da Morin,

particolarmente audace nel suo intento di ibridare, fondere più saperi per lo studio del fenomeno preso in considerazione; ma è proprio quest’audacia che gli permette di precorrere i tempi e di entrare nel cuore della questione, e, in questo caso, nella questione della cultura visuale che le nuove immagini determinano […] Proprio il posizionarsi sulla linea di confine, sull’impercettibile linea d’ombra che separa i diversi saperi, viene reputata da Morin la condizione più privilegiata e più proficua per cogliere gli aspetti di ciò su cui si focalizza, e nello specifico […] sulle nuove immagini (pp. 291-292).

Morin si è rivelato capace di ricomporre la spaccatura esistente tra cultura umanistica e cultura scientifica tentando di elaborare un metodo in grado di articolare ciò che si presenta separato e di collegare quanto è disgiunto con il fine di «riconoscere la complessità dei fenomeni [e] valorizzare un “paradigma unitario di connessione e distinzione”» (p. 293). Rabbito avanza l’ipotesi, suffragata anche da alcune riflessioni dello stesso studioso francese, che tale metodo derivi anche dagli studi che il francese ha dedicato alle nuove immagini. Le proposte moriniane paleserebbero, secondo Rabbito, l’intento di individuare e comprendere la complessità del mondo delle nuove immagini

interpellando vari campi scientifici e creando un dialogo fra questi, per meglio approfondire la sua analisi: antropologia, sociologia, mediologia, filosofia, estetica, psicologia, film studies, studi letterari, storia dell’arte, scienze cognitive, sono queste le varie discipline che vengono fuse assieme, ibridate, per dare vita a quello che Morin definisce come “pensiero multidimensionale” […] E tale multidimensionalità del pensiero è stata proprio dalle nuove immagini sollecitata durante lo studio condotto da Morin, in quanto la loro natura raccoglie molteplici aspetti individuabili solo attraverso la visione mediante le diverse lenti che i vari saperi propongono (p. 294-295).

Morin si rivela consapevole anche di dover adottare una strategia capace di controllare «l’indebolimento e il nutrimento della vita pratica messa in atto soprattutto dalle nuove immagini» (p. 315). Su tali problematiche Rabbito stesso ha insistito parecchio nella sua personale tetralogia di saggi composta da: Il cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità (2012); L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema (2010); Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli (2012) e L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale (2015). In particolare dell’ultimo saggio dell’autore abbiamo già avuto modo di occuparci dettagliatamente su Carmilla [L’onda mediale e Forme di resistenza all’onda mediale].

Rabbito si sofferma, inoltre, sulla questione del rapporto tra modernità e arcaismo che ha attraversato l’intera opera moriniana e che ha portato il francese a coniare, proprio in Lo spirito del tempo, il termine “neoarcaismo”, allargando il discorso ben oltre il cinema e aprendo così la strada a riflessioni utili alla comprensione dell’incidenza sullo spettatore di mass media, new media e nuove immagini.

Gli studi di Morin si rivelano pertanto fondamentali alla costruzione di una strategia che ha come suoi obiettivi tanto la comprensione del potere delle nuove immagini (come vengono intese e cosa producono), quanto di fornire all’utente di queste strumenti di difesa, rendendolo consapevole delle forme di rappresentazione che lo circondano.

Lo studio dell’immagine, da un lato, e la diffusione del sapere sull’immagine, dall’altro, si offrono in questo modo come i due processi principali della strategia da attuare, al fine di circoscrivere la potenza del diluvio delle immagini […] Il fine è dunque quello di far sviluppare allo spettatore una audiovisual e media literacy, una conoscenza sulle nuove immagini, che gli garantisca di avere una propria autonomia di pensiero, una capacità di corretto uso dei vari media, e che lo renda in grado di non essere fortemente influenzato da ciò che gli viene proposto (p. 328).

Morin ne Lo spirito del tempo sostiene che una cultura è in grado di orientare, sviluppare e addomesticare certe potenzialità umane, inibendone e proibendone altre e ciò che occorre ostacolare, sottolinea Rabbito,

sono proprio le forme di inibizione e proibizione che la cultura visuale mette in atto; e inoltre bisognerà tener ben conto nella strategia che si vuole portare avanti con i visual studies che, come evidenzia sempre Morin, ci troviamo dinnanzi ad una “seconda colonizzazione” che riguarda quella grande Riserva che è l’anima umana. Studiare attentamente la cultura visuale e diffondere un sapere adeguato su di essa permetterà di contrastare questo fenomeno di colonizzazione e di convertirlo in una dinamica che risulti proficua per tutti noi utenti delle nuove immagini. Ed è proprio quello che Morin ha proposto e continua a proporre con i suoi studi, dimostrandosi così, ancora una volta, un punto di riferimento imprescindibile per la comprensione dello spirito del nostro tempo (p. 339).


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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L’essenza criminale del potere. V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Recensione e intervista all’autore https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/ Wed, 28 Oct 2015 22:30:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26071 di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di [...]]]> di Gioacchino Toni

ruggiero potenti delinquonoVincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00

“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, i potenti si arrogano il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.
L’approccio proposto da Ruggiero capovolge l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. Inoltre, prima di entrare nel merito del lavoro proposto da Ruggiero, occorre sottolineare che, nell’ambito della tradizione della criminologia critica o radicale, alla quale appartiene l’autore, non ci si limita a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma si presta attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. La criminologia radicale, pertanto, si interessa più al danno sociale che non alla definizione ufficiale di criminalità.

A proposito dei soggetti identificati come potenti dalla trattazione, Ruggiero ricorda come le definizioni di potere non siano mai del tutto definite o incontestabili ed in diversi casi, nel momento in cui si commette un crimine, si esercita un atto di potere nei confronti delle vittime di turno indipendentemente dal fatto che le vittime siano “socialmente, economicamente e politicamente” più potenti del criminale. Occorre pertanto chiarire a quali attori ci si riferisce in questo testo quando si parla di potenti. “Molti dei responsabili di violenza domestica, di rapina o di crimini di natura razzista, dopo le loro scorribande, torneranno con ogni probabilità al loro status di persone prive di potere che li caratterizza nelle altre interazioni sociali. I comportamenti criminali esaminati nelle pagine seguenti”, sottolinea l’autore nell’Introduzione, “sono propri di attori il cui potere costituisce una risorsa disponibile anche in altri contesti e per altre iniziative, attori che, dopo aver utilizzato il proprio potere per commettere crimini, possono facilmente tornare nelle altre sfere della loro esistenza e continuare a esercitarlo”. I crimini di cui si occupa il saggio sono quelli che “hanno come autori apparati statali, grandi imprese, istituzioni finanziarie e altre organizzazioni similmente potenti; insomma tutti quegli autori di reato che posseggono risorse materiali e simboliche di gran lunga superiori a quelle possedute dalle loro vittime”.
Man mano che il saggio amplia i punti di osservazione sulla questione del crimine dei potenti si delinea un quadro che pare portare alla conclusione che “lo studio del rapporto tra potere e criminalità consiste nello studio della coincidenza tra i due”. Ruggiero, capitolo dopo capitolo, descrive il potere come “entità diffusa, una sorta di infezione pandemica che si occulta, viola le sue stesse leggi, sprigiona violenza, promuove emulazione e, allo stesso tempo, neutralizza chi vorrebbe opporvisi”.

interestinpeopleDopo aver passato in rassegna le diverse letture proposte dalla criminologia, a partire da Edwin Sutherland, circa le modalità con cui vengono letti i crimini dei potenti, l’autore giunge alla conclusione di come tale disciplina, soprattutto a proposito di questo tipo di crimine e per quelle vaste zone grigie ove risulta difficile distinguere nettamente legale ed illegale, non risulti in grado di darne una lettura esaustiva, da qui la necessità di esplorare altri terreni di analisi che possono venire in aiuto nell’esaminare il fenomeno.
Ad esempio, il concetto di “deprivazione relativa” non riesce a spiegare la criminalità dei potenti, visto che, in tal caso, i rei godono solitamente di “abbondanza relativa”. Non è possibile spiegare tale criminalità nemmeno ricorrendo all’incapacità dei soggetti in questione di stabilire legami sociali significativi. Allo stesso modo non si può associare la criminalità a condizioni economiche disagiate e/o all’inefficacia dello stato sociale, visto che la criminalità dei potenti gode sia di condizioni socioeconomiche privilegiate che di importanti contribuiti statali attraverso esenzioni tributarie e tolleranza all’evasione fiscale. In generale, molte teorie sia della criminologia classica che critica, risultano incapaci di spiegare il crimine dei potenti in quanto, in buona parte, costruite per spiegare la criminalità dei deboli.
Le teorie sociali permettono interpretazioni alternative a quelle della criminologia. Da esse si può derivare l’idea che le violazioni dei potenti delle regole a cui ufficialmente dichiarano lealtà, grazie ai successi ottenuti, possono stimolare comportamenti imitativi. Il crimine di potenti, secondo la teoria sociale classica, ha come obiettivo quello di perpetuare ed accumulare i privilegi di chi ne è autore e teme in un loro futuro ridimensionamento. L’autore pone l’accento proprio sul fatto che la criminalità dei potenti, oltre che dalle “dinamiche oggettive” dei liberi mercati, deriva anche dalla paura del futuro, dalle previsioni circa le condizioni economiche e politiche che si avranno un domani. Ciò porta Ruggiero a concludere che il tipo di criminalità di cui si sta parlando “deriva dal rapporto ossessivo che i gruppi e gli individui potenti stabiliscono con il proprio futuro, è una forma di accumulazione di un potere già ampiamente posseduto ispirata dalla paura che eventi futuri possano minacciarne il godimento”.

Nel saggio si esamina come la legge interpretata da alcuni come “tutela contro il potere”, possa essere letta come “strumento per la sua costante accumulazione”. L’autore passa in rassegna l’approccio di Kelsen volto a separare moralità e teoria della giustizia, segnalando come da un lato la sua teoria preveda il “potenziamento dei sistemi costituzionali che fanno della legalità una guida al comportamento di tutti”, dall’altro lato tale impostazione teorica “risulta vulnerabile nei confronti delle democrazie moderne, le quali mostrano illegittimità fisiologica nella miriade di norme create che contraddicono i principi costituzionali che pure dovrebbero ispirarle. Questa disgiunzione, continua Ruggiero, “è il risultato del potere acquisito da organismi ‘extra’ e ‘sovra’ statali, come i gruppi economici e finanziari, che regolarmente evadono il controllo giuridico”. In maniera opposta le “teorie dualiste” individuano nell’autorità dello stato un a priori rispetto al diritto, pertanto ritengono che lo stato debba poter agire senza autorizzazione giuridica quando non addirittura al di fuori delle norme, al di fuori dello stato di diritto.
Viene analizzata anche la tradizione marxista che vede nei potenti degli sfruttatori, dunque criminali per definizione. Nell’ambito di tale approccio Ruggiero si sofferma sul fatto che in Marx è presente tanto la denuncia del crimine dell’accumulazione primitiva quanto l’elogio del progresso: “La nascita della grande proprietà, la distruzione dei diritti consuetudinari e la privatizzazione delle terre (…) contengono un nucleo criminale che ha comunque caratteristiche evolutive e modernizzatrici”. Quando Marx analizza la distruzione dell’economia indiana tradizionale, individua nell’invasione inglese la causa di una futura rivoluzione sociale. La criminalità dei potenti può essere pertanto ritenuta una “componente naturale dei rapporti tra le classi e, in secondo luogo, il seme del progresso e della formazione di una classe destinata a rovesciare e abbattere il sistema costituito dai ‘criminali’”. Le vittime dei crimini dei potenti diventano, pertanto, martiri inconsapevoli della “futura rivoluzione sociale”. In tal modo i crimini relativi all’accumulazione primitiva divengono parte della “logica dello sfruttamento e della crescita economica”.
Il pensiero politico può venire in aiuto per comprendere la criminalità dei potenti, diverse impostazioni classiche individuano nel potere politico le radici del comportamento criminale. La criminalità dei potenti parrebbe, secondo diverse teorie, essere prodotta dalla natura implicitamente deviante del potere politico. A tal proposito Ruggiero passa in rassegna Aristotele, Agostino, Spinoza, Hobbes, Rousseau, Montaigne, Pascal, Vico, Montesquieu, Hume, Tocqueville, Smith, Kant, Hegel, Marx, Foucault e Luhmann. Successivamente, nel saggio, viene elaborata anche una critica del pensiero economico al fine di individuare alcune categorie in grado di affrontare il crimine di potenti. Anche l’etica sembra offrire buoni strumenti per affrontare la questione; la giustificazione della condotta adottata dai criminali potenti può derivare da un’interpretazione selettiva del pensiero filosofico occidentale. “Questo processo interpretativo si nutre del proposito di espandere le opportunità sociali dei potenti, di ampliare le occasioni per delinquere e di rendere accettabili i reati commessi ai loro pari e alla società in generale”.

banksy-lies-politicsParticolarmente interessante è il contributo all’analisi dei crimini dei potenti offerto, nell’ultimo capitolo, dall’analisi della Comédie Humaine di Honoré de Balzac, che ha nel denaro e nel potere i suoi principali protagonisti. In Balzac, sostiene l’autore, i gruppi sociali sono nettamente distinti e rappresentati, ciascuno di essi, da un personaggio che si presenta come condensato del gruppo. I personaggi balzachiani, continua Ruggiero, sono avidi ed ambiscono, in un’epoca in cui al “naturale istinto accaparratore” si aggiunge il “sogno dell’accumulazione”, ricorrendo ad ogni mezzo necessario, al possesso di tutto ciò che è commerciabile, compreso il potere.
Monsieur Grandet, ad esempio, si arricchisce dapprima grazie alla frammentazioni dei terreni sottratti agli aristocratici dalla Rivoluzione, poi dalla vendita di vino all’esercito Repubblicano, “quando impara che il denaro genera se stesso”, fino a diventare sindaco, seguendo la logica del disprezzo degli avversari che incontra sulla sua strada, considerati colpevoli, in fin dei conti, della loro incapacità di non farsi sopraffare.
Nel saggio si segnala anche come in Balzac siano riscontrabili tracce di una criminologia di “ispirazione fisiognomica”, come ad esempio quando dalla forma del naso e dai tratti del viso lo scrittore deduce segni della cattiveria e dell’egoismo del personaggio. Il grande scrittore francese si concentra su ladri “che non rubano per bisogno” ma per avidità e trattandosi di ladri su ampia scala, questi tendono a suscitare rispetto ed a godere di “complicità non richiesta”. Il potente, indipendentemente dai mezzi che utilizza, può sempre tornare utile e la sua disonestà tende ad essere fruita come disonestà potenzialmente in grado d trasformarsi in benessere comune. In altre parole, al potente si è più disposti a perdonare i crimini perché si spera di poter ricavare qualcosa dai suoi privilegi, mentre al piccolo ladro si tende a non perdonare nulla perché non detiene privilegi da cui ricavare qualcosa.
In Balzac, sostiene Ruggiero, “potere e criminalità si fondono in una monomania, in un’ossessione per gli appetiti intensi”, dunque, indipendentemente dallo scopo, i grandi ladri balzachiani si adoperano con “entusiasmo incondizionato” al suo raggiungimento. Nelle opere del francese l’avidità e le pratiche illecite toccano ogni classe sociale e ad essere condannato dallo scrittore, di tendenze politiche conservatrici, è “lo spettacolo di gruppi di rango elevato e infimo che si uniscono in un’alleanza simbolica avente come fulcro il denaro”. Nella società francese che si va formando a quelle date, il denaro rappresenta da un lato una “fonte di divisione e conflitto per l’individualismo che generano, dall’altro lato una forza che circola nell’organismo sociale amalgamando settori della società altrimenti contrapposti. Comprare e vendere, sfruttare e rubare, coinvolgono tutti, dall’alto al basso della struttura sociale”. La società descritta da Balzac vede i diversi gruppi sociali interconnessi, in cui ogni rango cerca di scalare le gerarchie sociali attraverso uno spirito rampante. In un mondo in cui la differenza tra lecito ed illecito appare davvero blanda, le diverse classi sociali più che lottare tra loro sembrano “impegnate nell’imitazione reciproca”. In tale contesto la figura che più di ogni altra, secondo Ruggiero, rappresenta l’apoteosi del “potere come crimine” è quella di Vautrin. In lui si condensano l’inganno, l’avidità, l’efficienza, l’imprenditorialità e la rispettabilità. Lo vediamo vestire l’abito talare, alloggiare presso la pensione di madame Vauquer e nella pièce teatrale a lui intitolata. La figura a cui si è ispirato Balzac è quella del criminologo Vidocq che da ex galeotto diventa fondatore della Sûreté, combattente nell’esercito francese contro gli austriaci, poi disertore, di nuovo nell’esercito sotto falso nome, poi, una volta costretto ad abbandonare l’uniforme, lo troviamo vivere di truffe fino a diventare informatore della polizia in carcere. Rispettato dai malviventi, ha successo come detective privato fino ad entrare a far parte della Préfecture de Police. “Questo criminologo criminale non potrebbe personificare più adeguatamente l’idea balzachiana di potere”.
Nei racconti dello scrittore francese, continua Ruggiero, nessuno sembra opporsi all’esercizio del potere anche quando questo è subito; “Balzac quindi non esamina tanto la dominazione quanto l’egemonia, una forma di preminenza culturale che attrae e coopta gli altri anziché respingerli. Il potere (…) trasforma la dipendenza in accettazione”.

Visto che i potenti hanno “ridotto le capacità degli esclusi di narrare e articolare le loro esperienze di ingiustizia”, Ruggiero conclude invitando tutti a contribuire a quel processo di riconoscimento degli esclusi come “soggetti meritevoli di stima, credibilità e soggettività”.


INTERVISTA

  • Il tuo ultimo saggio, Perché i potenti delinquono, edito da Feltrinelli, si occupa dei crimini dei potenti. Come definiresti, brevemente, i potenti di cui parli nel testo?

Nelle democrazie liberali si tende a parlare di libertà come se questa fosse sempre e comunque equivalente per tutti gli individui e tutte le categorie sociali mentre, in realtà, mi sembra si possa dire che esistono gradi differenti di libertà. I diversi individui hanno a disposizione una gamma di scelte variabile ed una relativa capacità di precisione nel prevedere l’esito di tali scelte, dunque una diversa possibilità di controllo sugli effetti. Il potente a cui mi riferisco è pertanto colui che ha una grande gamma di scelte e può prevederne con una certa precisione l’esito, spesso evitando di farle apparire come criminali.

 

  • Lo studio alla base di questo saggio deriva da una sorta di insoddisfazione per come la criminologia critica, o radicale, approccio a cui comunque ti rifai, affronta la questione del crimine dei potenti. L’analisi offerta dalla criminologia appare incapace di cogliere tutti gli aspetti ed i motivi del crimine da parte dei potenti, dunque la necessità di affiancarle suggerimenti derivati da altri ambiti culturali. Non è una novità questo tuo debordare i confini della disciplina criminologica. Si possono ricordare le tue analisi delle stampe di Giovan Battista Piranesi, le sue “prigioni della mente”, per spiegare l’essenza immateriale del carcere contemporaneo, oppure il tuo aver affrontato alcuni scritti di Daniel Defoe per ragionare sulla differenza tra “affari appropriati” e “affari non appropriati” e sulla “legittimità morale” degli affari o, ancora, in Crimini dell’immaginazione [recensione su Carmilla 1/22/2], hai affrontato la letteratura classica nella convinzione che la finzione possa essere più importante della sociologia nel ragionare su criminalità e controllo sociale. Tra i campi del sapere attraversati in questo saggio non manca, ancora una volta, la letteratura ed, in particolare, nell’ultimo capitolo, passi in rassegna la Comédie Humaine di Honoré de Balzac. Puoi ricostruire, in sintesi, le escursioni extra criminologia presenti in questo tuo volume appena uscito?

Ho scelto diversi campi del sapere che possono offrire spunti circa i motivi del commettere crimini da parte dei potenti. Nella criminologia la motivazione viene spesso ricercata nella convizione che in una società ultra-competitiva si è affermata l’idea che l’importnte è vincere indipendentemetne dal rispetto delle regole. Altri approcci suggeriscono che i potenti, al pari di tutti gli altri criminali, hanno una carenza di autocontrollo, oppure, le teorie dell’apprendimento insistono sulla necessità di imparare a commettere un crimine ed a convivere con la propria criminalità ricorrendo a giustificazioni. Tutto ciò è insufficiente a spiegare la questione del perché i potenti delinquono, dunque ho indagato altri ambiti del sapere.
Nell’ambito della teoria sociale ho rintracciato, ad esempio, l’idea dell’emulazione dei potenti. Più le loro gesta vengono esibite, più si prestano all’emulazione, tanto che sono portato ad affermare che più che all’occultamento ed alla coercizione, i potenti mirano all’emulazione. Altra idea importante riguarda la paura del futuro; l’accumulazione delle ricchezze risponderebbe al timore che prima o poi queste potrebbero essere contestate ed i privilegi ridotti. Ad esempio, i governanti che sono consapevoli di perdere le prossime elezioni si adoperano per assegnare tutti i luoghi di potere al proprio entourage al fine di limitare la futura perdita di potere.
Dalla filosofia del diritto parto dal dialogo tra Platone e Trasimaco per poi passare in rassegna i contributi di diversi pensatori, in particolare Hannah Arendt, giungendo alla conclusione che i potenti hanno la capacità da una parte di adottare le idee di Platone circa l’universalità delle leggi e dall’altra parte di rifarsi, in quanto potenti, a quanto esposto da Trasimaco utilizzando così, in entrambi i casi, la giurisprudenza a proprio favore. Spinoza, ad esempio, rintraccia i motivi della condotta criminale nell’imperfezione umana, una giustificazione a cui possono ricorrere molti corrotti, mentre Hobbes sostiene che qualsiasi episodio di criminalità dei potenti è accettabile in quanto evita dei mali peggiori, evita ad esempio una situazione di anomia in cui tutti sono nemici di tutti. Successivamente analizzo posizioni più critiche, come quelle di Montaigne, Vico e Pascal che suggeriscono come il male sia insito nel potere politico in forma di crimine e di violenza, mentre con Hume e Tocqueville si torna, per certi versi, al discorso che si faceva prima a proposito dell’emulazione, cioè che i comportamenti degli usurpatori generano ammirazione. I potenti che delinquono, pertanto, hanno dalla loro parte una serie di teorie che possono servire loro come giustificazione.
Anche dalla scienza economica si possono ricavare molti spunti interessanti per la nostra analisi. Innanzitutto il principio di utilità che richiede, nel voler proteggere un bene, di non spendere più del valore del bene stesso. Il ladro per praticare il principio di utilità deve dimostrare che ciò che ha rubato è ora più utile socialmente rispetto a quando quel bene apparteneva al proprietario precedente. Ad esempio, l’imprenditore che ruba soldi allo stato può rivendicare  il merito di investire quei soldi in maniera migliore creando occupazione. Inoltre, anche il costo dell’investigazione, della condanna e della punizione deve corrispondere al valore della persona che ne è oggetto: può risultare troppo costoso investigare, condannare e punire i potenti. Secondo tale logica, inoltre, il potente in carcere non può continuare a produrre valore per l’intera società a differenza di un povero disgraziato che, invece, può tranquillamente essere mantenuto in prigione perché tanto, al di fuori di essa, non produrrebbe nulla.
Soprattutto per quell’ambito grigio in cui si fatica a definire legittima od illegittima, legale o criminale una condotta di un potente, più che alle scienze che si vogliono precise occorre andare a cercare contributi altrove, come ad esempio nella letteratura. L’osservazione del rapporto tra gli eventi e le narrazioni può dare buoni spunti di analisi. Riprendendo Aristotele quando, nel suo confrontare lo storico ed il poeta, sostiene che mentre il primo racconta ciò che presumibilmente è successo, il secondo narra ciò che può accadere, mi sento di poter affermare che, per certi versi, se la storia ci trasmette degli eventi particolari, la narrativa può darci a vedere delle verità più generali. A tal proposito concludo il saggio analizzando alcuni lavori di Balzac ove emerge come il potere e la criminalità siano la medesima cosa e la figura più leggendaria che si trova in uno dei suoi romanzi è quella ispirata a Vidocq, un criminologo che è anche criminale.


Scritti di Vincenzo Ruggiero pubblicati su Carmilla:

Condannati alla normalità. I rifugiati politici italiani in Francia (pubblicato originariamente in lingua inglese su “Crime, Law and Social Change”, Vol. 19, N. 1, 1993 ed in lingua italiana su “vis-à-vis” N. 2, 1994)

Testi di Vincenzo Ruggiero recensiti su Carmilla:

Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, 2011

Vincenzo Ruggiero: Il sogno di Prometeo e l’ignobile carneficina. Un inno agli antieroi – V. Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 1/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

Vincenzo Ruggiero: devianza e letteratura 2/2 – V. Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, 2005

 

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