romanzo poliziesco – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 May 2024 10:35:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La donna per eccellenza (Victoriana 31) https://www.carmillaonline.com/2021/09/25/la-donna-per-eccellenza-victoriana-31/ Sat, 25 Sep 2021 21:27:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68407 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Una delle caratteristiche di fondo della saga più nota di Arthur Conan Doyle, quella dell’Arcidetective Holmes – e usiamo volutamente il termine saga, in riferimento a un epos –, sta nella presenza di personaggi di statura autenticamente mitica, veri e propri archetipi. All’epoca di Doyle, le riviste presentano già un certo numero di risolutori seriali di enigmi polizieschi, più o meno carismatici: si pensi ad Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, a Monsieur Lecoq di Émile Gaboriau, alla stessa fantasiosa riscrittura narrativa delle avventure di Eugène-François Vidocq, [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Una delle caratteristiche di fondo della saga più nota di Arthur Conan Doyle, quella dell’Arcidetective Holmes – e usiamo volutamente il termine saga, in riferimento a un epos –, sta nella presenza di personaggi di statura autenticamente mitica, veri e propri archetipi. All’epoca di Doyle, le riviste presentano già un certo numero di risolutori seriali di enigmi polizieschi, più o meno carismatici: si pensi ad Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, a Monsieur Lecoq di Émile Gaboriau, alla stessa fantasiosa riscrittura narrativa delle avventure di Eugène-François Vidocq, ex-carcerato assurto a fondatore della Sûreté, e a mille altri nomi – oggi spesso dimenticati dalle grandi platee di lettori –, non escluse neppure alcune donne detective, sulla base peraltro dell’attestato arruolamento ottocentesco anche di indagatrici. Ma l’irrompere di Holmes nell’agone è una spallata a tutti gli altri, sia per la genialità di impianti e di sviluppi, sia per le capacità autenticamente letterarie di Doyle (più apprezzabili nei romanzi della saga, è ovvio, che nella prosa breve), sia per una dignità mitica di cui i suoi personaggi si rivelano circonfusi. Ciò non riguarda solo il protagonista: caratteri di emblematicità pervadono anche la “spalla” Watson, alter ego dello scrittore e del lettore; il persino più geniale fratello Mycroft; il doppio nero di Holmes, il professor Moriarty, Napoleone del delitto; e via via gli altri personaggi, tra i quali spicca una donna, Irene Adler. Appare in un solo racconto ma viene citata in altri quattro, e con una tale potenza simbolica da riconoscervi uno dei personaggi-chiave della saga.

Erede dei mille indagatori dell’agiografia (un bacino narrativo dove di rado si pensa di trovare gli antesignani del giallo per le caratteristiche miracolistiche delle indagini, e invece di estremo interesse sul piano antropologico per definire il profilo del detective), il santo laico Holmes è rigorosamente casto. E non per motivi di rigore etico vittoriano, che pure deve entrarci:

 

Ogni specie di emozione, e l’amore sopra ogni altra, era aborrita da quel cervello freddo, preciso, mirabilmente equilibrato. Io credo ch’egli fosse la macchina ragionatrice e osservatrice più perfetta che si sia mai vista al mondo; ma come innamorato si sarebbe messo in una posizione falsa. Non parlava mai delle cosiddette dolci passioni se non con scherno o irrisione. Per l’osservatore che era in lui, esse erano preziose, costituivano ottimi mezzi per togliere il velo ai motivi e alle azioni umane: ma per il ragionatore sperimentato ch’era altresì in lui, ammettere tali intrusioni nella struttura delicata e sapientemente composta del proprio carattere, sarebbe stato apportarvi un elemento disgregatore che avrebbe gettato l’ombra del dubbio su tutti i suoi risultati mentali. Per una natura come la sua, un’emozione violenta era peggio che “grattare” malamente uno strumento sensibile, o rompergli una delle sue potentissime lenti d’ingrandimento [osservazioni, queste ultime, che per uno specialista in oftalmologia come Doyle assumono particolare rilevanza].

(cfr. “Uno scandalo in Boemia”, trad. di Maria Gallone, in Sir Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes in quattro romanzi e ventiquattro racconti, a cura di Alberto Tedeschi, Mondadori, Milano 1965)

 

Anche se di fatto ci accorgeremo che Holmes non è privo di emotività – anzi è repressa, e dunque è più violenta –, ecco spiegati dei buoni motivi. Eppure, una donna, una sola, riesce a scalfire quell’indifferenza, e il fatto che Doyle ne parli in “Uno scandalo in Boemia” (originariamente edito il 25 giugno 1891 sul numero di luglio dello Strand Magazine), cioè nel primo racconto breve della prima raccolta, Le avventure di Sherlock Holmes (1892), può dirci qualcosa. Doyle, come peraltro Watson, è un affettuoso, un passionale (mosso dal senso dell’onore e da ciò in cui crede, persino nelle battaglie più impopolari o discutibili): ancora, come Watson, apprezza il gentil sesso e si sposa due volte. Holmes si contenta di continuare a considerare la donna al centro di questo racconto come

 

la Donna per eccellenza. Raramente l’ho inteso menzionarla altrimenti: ai suoi occhi ella eclissa tutte le altre appartenenti al bel sesso [To Sherlock Holmes she is always the woman. I have seldom heard him mention her under any other name. In his eyes she eclipses and predominates the whole of her sex]. Non ch’egli provasse per Irene Adler un’emozione che potesse far pensare all’amore […] Tuttavia, per lui non esisteva che una donna, e questa donna era la defunta Irene Adler, di dubbia e discutibile memoria [And yet there was but one woman to him, and that woman was the late Irene Adler, of dubious and questionable memory].

 

Notiamo questi cenni di Watson, vittoriano conformista: “di dubbia e discutibile memoria” sembra ricollegarsi alla fama di avventuriera che la circonfonde, concetto vicino a quelli di arrampicatrice e di cortigiana. Più problematico è il termine “defunta” (tra il 1888 del caso e il 1891 della pubblicazione da parte di Watson), se interpretiamo così il termine late; questo però potrebbe significare soltanto “precedente/già nota come”, visto che Adler era il cognome di Irene prima del matrimonio. Interpretandolo invece come “defunta”, è legittimo farsi qualche domanda sul precoce ritiro dalle scene del canto, forse per qualche grave problema di salute; oppure, ipotizzare qualcosa di persino più tragico come una vendetta politica per farla tacere.

L’episodio che la riguarda avviene più precisamente nel marzo 1888, quando Watson si è appena sposato una prima volta e gode la gioie del focolare domestico, mentre Holmes, “con la sua mentalità di bohémien [interessante, come vedremo, la scelta del termine, che lo accomuna parzialmente ad Irene Adler] odiava ogni forma di sistemazione”. L’Arcidetective ha inoltre applicato la sua “selvaggia energia” per risolvere una serie di casi, tra i quali “un’importante missione per la casa regnante di Olanda” (il particolare, di nuovo, non è insignificante). Una sera, Watson passa per Baker Street, nota alla finestra la silhouette dell’amico che cammina nella stanza, capisce che dev’essere al lavoro su qualche caso e gli fa visita. Come al solito, resta basito dalle deduzioni di Holmes su di lui; viene poi informato che, in grazia degli apprezzati “servigi a una grande casa regnante europea” (appunto), riceverà la visita di un signore mascherato per “un argomento della massima importanza”. Altre deduzioni lo portano a capire che la carta del biglietto è fabbricata in Boemia e che lo scrivente è tedesco; quando, come atteso, suonano al campanello, Holmes chiede al suo Boswell di restare.

Il racconto è noto, e pone le basi per uno schema poi riproposto in quasi tutti i testi brevi: dopo le due avventure lunghe di Uno studio in rosso (1887) e Il segno dei quattro (1890), Doyle trova una nuova misura con una forma peculiare, in cui un ospite sottopone un caso che Holmes risolverà. Stavolta l’elegantone mascherato che arriva da lui si presenta come il boemo conte von Kramm (ma aggiungerà che è uno pseudonimo), ed esige preliminarmente due anni di segretezza sulla vicenda che verrà a esporre e che “potrebbe avere profonde ripercussioni sulla stessa storia europea”, coinvolgendo in un possibile scandalo “la Casa di Ormstein, dinastia ereditaria del principato di Boemia”.

Per la cronaca, si tratta di una dinastia del tutto inventata, farlocca quanto quella della Ruritania de Il prigioniero di Zenda di Anthony Hope (1894), visto che la Boemia è invece al tempo parte dell’impero austroungarico degli Asburgo, coronati anche come re di Boemia. Ma Doyle, citando in precedenza Holmes come un bohémien nel senso di anticonformista, ci ha fornito un indizio interessante: dall’uso di quel termine di provenienza per i cosiddetti zingari – nel senso di gente vagabonda, di vita irregolare – diffuso a Parigi nell’Ottocento, il successo del quasi-romanzo di Henri Murgier Scènes de la vie de bohème (1851, citato in Uno studio in rosso), su un intreccio di storie nel Quartiere Latino, lo ha condotto rapidamente a un’estensione romantica. Allora non basta l’avventurosa Ruritania: in scena – come ci aspettiamo dal riferimento a un possibile scandalo – è un favoloso paese mitteleuropeo da comportamenti un po’ sopra le righe & dinamiche galanti come il Pontevedro de La vedova allegra di Franz Lehár (1874, prima teatrale a Vienna nel 1905), dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac (1861), e ispirato al Montenegro (anche se la versione francese cita il paese come Marsovie). Insomma, Holmes ha già capito di trovarsi “in presenza di Guglielmo Gottsreich Sigismondo von Ormstein, granduca di Cassel-Felstein, e re ereditario di Boemia”, “venuto in incognito da Praga”.

Cinque anni prima, durante una “prolungata visita a Varsavia”, l’allora principe ereditario ha avuto “occasione di conoscere Irene Adler, la celebre avventuriera”, che dallo schedario di Holmes risulta “Nata nel New Jersey nel 1858” (dunque una trentenne americana, più disinvolta e moderna delle signore inglesi), già contralto, attiva alla Scala e “prima donna all’Opera Imperiale di Varsavia” (cioè al Grande Teatro-Opera Nazionale, inaugurato nel 1833), ma ritiratasi dalla carriera lirica e attualmente abitante a Londra (Briony Lodge, Serpentine Avenue, St. John’s Wood: il riferimento nel nome di strada fittizio a Serpentine – il Serpentine Lake di Hyde Park così è detto per la forma – sembra richiamare i classici quanto fatali abbinamenti tra donna e serpente nell’arte dell’epoca). Una corrispondenza intima e, soprattutto, una foto dei due preoccupa il re: la signora non è disposta a vendere la foto, ed è sfuggita a ben cinque tentativi di furto organizzati dalla corona.

Il fatto è che ora il re sta per sposarsi con “Clotilde Lothmann di Sachsen-Meningen, secondogenita di un re scandinavo” (letteralmente di Scandinavia, titolo non esistente in sé perché Svezia e Norvegia erano al tempo unite; comunque, il vero casato di Saxe-Meiningen si colloca in Turingia); di lei e della sua famiglia sono noti i severissimi principi morali, per cui teme lo scandalo che condurrebbe alla rottura del fidanzamento. Per quanto Holmes sia piuttosto divertito, il re non riesce a condividerne il buonumore, visto che Irene Adler minaccia di spedire la foto all’irreprensibile avversaria. “Lei non la conosce, ma quella donna [appunto Irene] ha un’anima di acciaio. Ha un viso meravigliosamente femminile, ma un cervello dotato di una risolutezza che pochi uomini possiedono”: sarebbe disposta a fare qualunque cosa. Il pericolo è dunque reale e, nello specifico, la donna conta di spedire la foto il giorno ufficiale del fidanzamento…

Ci si è posti naturalmente la questione di qualche possibile modello storico di Irene. Uno, spesso citato e in effetti plausibile, è quello di Lola Montez (1821-1861), figlia di un parlamentare irlandese divenuta celebre danzatrice, cortigiana frequentatrice di Alexandre Dumas figlio e dell’editore Alexandre Dujarier, poi amante di Ludovico I di Baviera, che la fece contessa di Landsfeld e le permise di sgomitare in politica. Concluderà la carriera come attrice, con lunghe tournée teatrali – le ultime a impianto moraleggiante – tra Stati Uniti e Australia, morendo a Brooklyn a trentanove anni di sifilide (ma altre fonti parlano di un’infezione ai polmoni). Insomma, è presto stabilito un nesso con l’americana Irene, nata in ipotesi nel New Jersey nel 1858. Non manca tuttavia un altro profilo più vicino al mondo britannico, quello cioè della bella attrice Lillie Langtry, amante del principe di Galles (il futuro Edoardo VII) e poi con clamore di vari aristocratici, in effetti nata nel Jersey. Altri hanno invece suggerito Ludmilla Stubel, danzatrice a Londra, presunta amante e poi moglie dell’arciduca Giovanni Salvatore d’Austria, del ramo toscano degli Asburgo-Lorena, per un periodo anche principe di Boemia. Dopo la rinuncia a titoli, rango e privilegi in seguito alla storiaccia di Mayerling (1889) – trattasi del suicidio-omicidio del cugino arciduca Rodolfo, a lui molto legato anche per comuni convinzioni liberali, per le quali venivano fatti sorvegliare dalla polizia –, la sua sparizione con la moglie nelle acque di Capo Horn (1890) farà moltiplicare le voci sulla loro presunta scelta di nuove identità e favorirà l’avvicendarsi di una serie di truffatori pronti a spacciarsi per il duca scomparso. Dalla Mitteleuropa lieve di valzer e operette, il caso che “potrebbe avere profonde ripercussioni sulla stessa storia europea” finisce in effetti col traghettarci verso storie molto più nere e torbide, tra morti strane e voci di cospirazioni internazionali, in una sorta di strategia della tensione che prelude al primo conflitto mondiale.

Watson è tanto abituato a veder trionfare il suo amico da restare molto perplesso quando il giorno dopo un Holmes travestito da staffiere gli ricorda ridendo la propria disavventura. Dagli altri che attorno a casa di lei si occupano di cavalli ha appreso

 

che ha fatto girar la testa a tutti gli uomini che abitano da quelle parti. Pare che sia l’essere più grazioso del pianeta, questo almeno è il giudizio unanime di tutti quanti gli staffieri della Serpentine. Conduce una vita tranquilla, canta nei concerti, esce in carrozza ogni giorno alle cinque precise, e ritorna a casa alle sette precise, per l’ora di cena. Per il resto esce di rado, tranne che per cantare.

 

A frequentarla è solo, molto spesso, un belloccio bruno, Godfrey Norton, avvocato, che arriva ed esce trafelato dalla casa di lei poco dopo, gridando al vetturino di correre alla chiesa di santa Monica in Edgware Road. Poco dopo esce la signora, che pure piomba in un landò ordinando di andare alla stessa chiesa. Ovvio che ci si diriga anche Holmes, con una terza vettura. Il risultato è di trovarsi arruolato come testimone alle nozze tra i due…

Il rischio è che ora Irene e il marito se ne partano per la luna di miele, e Holmes chiede la collaborazione dell’amico. Quindi, consumato un rapido pasto, partono assieme per l’avventura a casa della novella sposa. Per recarsi sul posto senza destare sospetti, Holmes si trasforma in un bonario uomo di chiesa. Come rimarca Watson, “il teatro aveva perduto un grande artista”, quando Sherlock aveva scelto di diventare investigatore privato: di nuovo, lo si avvicina alla donna di spettacolo Irene. Le dimensioni della foto fanno escludere che la porti addosso, ma lui ha pensato come fargliela esporre… All’arrivo della signora, una piccola rissa scoppia tra i mendicanti per il ruolo di chi le aprirà la portella della vettura, certo con mancia: Holmes si tuffa in mezzo per proteggerla e cade a terra con il viso macchiato di sangue. Irene si preoccupa allora per lui, e lo fa portare sul divano del salotto; a quel punto, secondo gli accordi, Watson butta in casa dalla finestra aperta un razzo da fumo e comincia a gridare “Al fuoco!”.

Poco dopo, viene raggiunto da Holmes che spiega: i rissanti erano scritturati, il presunto sangue era pittura rossa e, col rischio d’incendio, la signora si è tuffata a mettere al riparo la preziosa fotografia nascosta dietro un pannello scorrevole, che Holmes ha così individuato. L’Arcidetective conta di tornare lì col re la mattina seguente, sul presto, così da essere introdotti in casa in attesa della signora, che verosimilmente a quell’ora non sarà ancora alzata né pronta per ricevere ospiti; in questo modo, fornirà al suo cliente il tempo necessario per recuperare di persona la foto che tanto anela… Ma, arrivati a Baker Street, l’irriconoscibile ecclesiastico si sente salutare: tra la folla, a Watson pare di poter attribuire il saluto a un giovanotto snello con uno spolverino. “Non mi è nuova quella voce” borbotta Holmes, domandandosi chi diavolo possa essere.

I due amici dormono a Baker Street e alle otto, durante la colazione, compare il re, preavvisato con un telegramma. Si recano subito a Briony Lodge, e Holmes comunica che Irene si è sposata, evento che può tranquillizzare il monarca: se ama il marito, non c’è motivo che minacci l’unione al trono boemo. “Questo è vero. Eppure… Cosa vuole!” borbotta il re. “Come avrei desiderato che fosse appartenuta al mio rango! Che regina meravigliosa sarebbe stata!” Parole che assumono quasi una valenza profetica, dal momento che, una volta giunti a destinazione, trovano solo una donna anziana che li stava aspettando: la coppia se n’è partita per il continente. Alla desolazione del re, Holmes piomba in salotto, apre il pannello segreto e ne trae una lettera e una foto. Non si tratta però di quella incriminata, poiché ritrae Irene da sola, in abito da sera, mentre la lettera è per l’Arcidetective.

La donna l’ha scritta la mezzanotte precedente. Appellandolo “Mio caro signor Sherlock Holmes”, gli riconosce di essere stato “davvero molto abile”; l’ha colta del tutto alla sprovvista, e all’inizio non nutriva sospetti; poi, accorgendosi di essersi tradita, ha iniziato a riflettere. E qui già si è guadagnata due punti: ha soddisfatto il narcisismo di Holmes lodandolo senza riserve (per quanto sia una captatio benevolentiae basata su motivi concreti), e ha accennato a un’operazione razionale, la riflessione, capace di superare tranquillità superficiali. Una certa stima è insomma già acquisita.

In effetti, l’avevano messa in guardia contro l’unico “agente privato” a cui il re si sarebbe rivolto; ciononostante, lui è riuscito a farle rivelare “quel che voleva sapere”. Certo, le sembrava assurdo dubitare di un ecclesiastico

 

dall’aspetto tanto cortese e affabile. Ma non deve dimenticare che sono attrice, e che come tale ho una lunga pratica di travestimenti e truccature [e di nuovo Holmes riconosce una propria simile]. L’abito maschile non è per me una novità, e spesso me ne servo approfittando di tutti i vantaggi che esso offre [sono frasi che oggi non ci colpiscono, anzi socialmente è assai più accettato un uso di abiti maschili da parte di una donna che di femminili da un uomo; tuttavia, il crossdressing nel mondo vittoriano è ancora percepito come una stranezza un po’ disturbante, e i vantaggi spesso offerti possono intendersi in modo diverso]. Perciò mandai John, il mio cocchiere, a sorvegliarla, mentre io correvo di sopra: mi infilai il mio vestito da passeggio, come lo chiamo, e scesi proprio nel momento in cui lei se ne andava.

Per farla breve, la seguii sino alla porta di casa sua, assicurandomi così di aver proprio a che fare con il celebre Sherlock Holmes. Allora, un po’ imprudentemente, le augurai la buona sera e mi affrettai quindi al Temple, dove avevo appuntamento con mio marito.

 

Considerata la statura dell’avversario, i due decidono che è il caso di filare. Quanto alla foto, il re può star tranquillo: lei ama, riamata, “un uomo molto migliore di lui”.

 

Il re può agire come gli pare e piace, senza dover temere la vendetta della donna che egli ha molto crudelmente offesa. Conservo la fotografia unicamente come garanzia, e come un’arma, che mi potrà sempre difendere, caso mai, in avvenire, egli pensasse di compiere dei passi contro di me. Gli lascio però un mio ritratto, che forse gli farà piacere di conservare, e mi professo, egregio signor Sherlock Holmes, sua devotissima

 

Irene Norton nata Adler

 

“Che donna! Che donna!” commenta il re. “Non ve l’avevo detto che era una donna pronta, risoluta come poche? Non sarebbe stata davvero una regina meravigliosa? Peccato che non appartenesse al mio rango!” Al che Holmes ribatte freddo: “Da quanto ho potuto capire del carattere della signora, infatti, mi sembra che il suo fosse un rango molto diverso da quello di Vostra Maestà!”. Diverso e superiore, implica l’Arcidetective, ammirato (il re non coglie). Holmes si duole soltanto di non aver concluso la cosa come il re sperava, ma quello lo tranquillizza: al contrario, “La questione non poteva essere sistemata meglio. Io conosco la parola di Irene: è sacra [a differenza della sua, potrebbe forse implicare]. Quella fotografia è ormai al sicuro come se fosse stata bruciata”. Poi chiede a Holmes come possa sdebitarsi, gli offre persino l’anello che ha al dito, “a forma di serpente, ornato di un magnifico smeraldo”: ed ecco il secondo serpente di questa storia. Ormai ne abbiamo forse decodificato il simbolo, non di insidia della donna anguiforme ma – pensando ai ruoli di Holmes, testimone di nozze e poi ecclesiastico, in un’enfasi sulla simbolica religiosa & nuziale – legato al pateracchio nel giardino dell’Eden dove Adamo non fa certo una bella figura. “La donna che mi hai messo a fianco mi ha offerto quel frutto e io l’ho mangiato” (Gn 3,12, trad. interconf. LDC-ABU): ben chiaro è il lamentoso fallimento del rapporto tra sessi da cui, al contrario del re, Irene esce benissimo.

“Vostra Maestà possiede un oggetto che io stimo ancora più prezioso di quell’anello” replica Holmes, l’altro Adamo, quello ben riuscito (che non a caso, come “il nuovo Adamo” paolino, conoscerà più avanti una passione e una morte cristica per sconfiggere il vecchio serpente Moriarty). Al monarca sbalordito chiede la foto di Irene, siglando così la chiusura dell’affare con un inchino, ma “ignorando la mano che il re gli tendeva”.

 

Ed ecco come fu soffocato uno scandalo che minacciava di far crollare il trono di Boemia, e come per una volta i piani di Sherlock Holmes furono buttati all’aria dall’intelligenza di una donna. Egli soleva burlarsi del cervello delle donne; ma da allora non l’ho più inteso scherzare sull’argomento. E quando ricorda Irene Adler, o quando accenna alla sua fotografia, ne parla sempre come della Donna per eccellenza, con la D maiuscola! [it is always under the honourable title of the Woman.]

 

Impossibile non aver voglia di immaginare come apparisse Irene nella foto ottenuta da Holmes come compenso; di certo, si può trovare una graziosa suggestione in una delle illustrazioni che l’artista francese Martin Van Maële (1863-1926) ha realizzato per il racconto (Un scandale en Bohême, 1905-1906, Société d’Édition et de Publications, Collection Les Aventures de Sherlock Holmes/ Collection Rouge, n. 5). La Donna è ritratta all’aperto, in posa: appoggia lievemente il polso reclinato allo spigolo di un largo pilastro sormontato da un vaso monumentale di stile classicheggiante, da cui fuoriesce quella che assomiglia a una pianta rampicante. La sua espressione serena, addolcita dall’accenno di un sorriso, fa risaltare ancor di più la sua eleganza, già ben evidenziata dalla foggia dell’abito e dagli accessori: un caratteristico cappello piumato a tesa larga poggia sull’acconciatura a chignon; il corsetto nero spicca sul candore del tessuto del vestito, caratterizzato da maniche a sbuffo arricciate e da una gonna a strascico con tre file di balze; quella che sembra una spilla a fiore è appuntata sullo scollo morbido; un sofisticato scialle di pelliccia è adagiato sulle braccia e, infine, una delle mani guantate tiene il manico degli occhiali a lorgnette. Quest’ultimo dettaglio, assolutamente congruo con il suo personaggio, la fa apparire come in procinto di presentarsi a una soirée a teatro.

Divertenti, ma meno rilevanti ai nostri fini, sono le mille apparizioni di Irene – spesso a suggerire qualche tipo di relazione sentimentale tra lei e Holmes – negli apocrifi sherlockiani (Carole Nelson Douglas, John Lescroart, Laurie R. King, Nicholas Meyer, Kim H. Krisco, Alessandro Gatti…), in fumetti, anime e manga, in certa critica creativa (teorizzante per esempio che il figlio di Irene e Sherlock sia Nero Wolfe: John D. Clarke, Ellery Queen, William S. Baring-Gould…), o nella miriade di richiami pop più o meno obliqui in storie anche lontanissime. Un certo numero di versioni radiofoniche del racconto (compresa una del 1945 con i mitici Basil Rathbone e Nigel Bruce) ha permesso di ascoltare anche la voce di Irene Adler. Ben più impattante sull’immaginario è però un altro tipo di narrazioni, cioè le trasposizioni più o meno fedeli – o invece rigorosamente apocrife – a teatro e poi sugli schermi.

A teatro, William Gillette utilizza anche “Uno scandalo in Boemia” nel plot della sua play Sherlock Holmes, premiered 1899; con il permesso del pragmatico Doyle – soddisfatto degli incassi – attribuisce al protagonista anche un rapporto sentimentale con una Alice Faulkner (Katherine Florence), parzialmente ispirata a Irene. La play verrà riproposta per anni a teatro, e da Orson Welles alla radio. A partire dal 1965, con la prima al Broadway Theatre, il racconto doyliano ha una parte importante in un’altra sceneggiatura mista, quella di Jerome Coopersmith per il musical Baker Street con Fritz Weaver come Sherlock Holmes e Inga Swenson come Irene. Lo spettacolo avrà ampio successo.

Per gli schermi, a non citare che le trasposizioni principali e più dirette, la prima versione sembra del 1921, muta: si tratta della britannica A Scandal in Bohemia di Maurice Elvey, con Eille Norwood come Holmes, Hubert Willis come Watson e Joan Beverley nei panni di Irene. Poi passano gli anni.

“A Scandal in Bohemia” figura nella serie televisiva BBC Sherlock Holmes del 1951, con Alan Wheatley per Holmes, Raymond Francis come Watson e la vezzosa sudafricana Olga Edwardes come Irene. A dispetto invece di una completa libertà di trama, tra le interpretazioni più filologiche quanto a connotati personali è l’Irene Adler di rara eleganza interpretata da Charlotte Rampling nel televisivo Sherlock Holmes a New York di Boris Sagal, USA 1976, con Roger Moore e Patrick Macnee come Holmes e Watson, e un memorabile John Huston come Moriarty. Questo prende in ostaggio il figlio di Irene, e Sherlock dovrà intervenire: emergerà allusivamente che il padre è l’Arcidetective.

Le versioni si moltiplicano negli anni Ottanta, a partire dalla serie televisiva sovietica The Adventures of Sherlock Holmes and Dr. Watson (Приключения Шерлока Холмса и доктора Ватсона) di Igor Maslennikov, dove nella quarta di cinque parti, “The Treasures of Agra” (Приключения Шерлока Холмса и доктора Ватсона: Сокровища Агры)”, 1983, si compenetra in chiave di flashback anche “Uno scandalo in Boemia”. Vasily Livanov è Holmes, Vitaly Solomin è Dr. Watson, mentre Larisa Solovyova è Irene. Dell’anno dopo è l’episodio “A Scandal in Bohemia” per la famosa serie televisiva britannica The Adventures of Sherlock Holmes della Granada con Jeremy Brett con Holmes; a interpretare una fine e sofisticata Irene è Gayle Hunnicutt. Dello stesso anno, sempre per la televisione, è il godibile apocrifo La maschera della morte (The Masks of Death) di Roy Ward Baker, Regno Unito 1984: una Irene Adler anziana e vedova (Anne Baxter) causa qualche irritazione a un Holmes vecchio, bisbetico ma ancora geniale interpretato da Peter Cushing accanto a John Mills come Watson. Il caso stavolta riguarda loschi progetti tedeschi in un clima prebellico.

Ancora televisivo è Sherlock Holmes and the Leading Lady di Peter Sasdy, Regno Unito | Francia | Italia | USA 1991, che mostra Holmes e Watson (Christopher Lee e nuovamente Patrick Macnee) recarsi a Vienna per recuperare piani e prototipo di un’arma rubati, e ritrovare lì la bella Irene (Morgan Fairchild), cantante d’opera. Nella vicenda compare anche Freud (John Bennett). In compenso, l’ex-Agente speciale Macnee torna – eccezionalmente – nel ruolo di Holmes in The Hound of London di Gil Letourneau e Peter Reynolds-Long, Lussemburgo | Canada 1993, con John Scott-Paget come Watson, Carolyn Wilkinson come Irene Norton (il nome da sposata), e ci sono anche il re e la regina di Boemia.

Di nuovo un mix del racconto-base con altri è The Royal Scandal di Rodney Gibbons, USA 2001, con Matt Frewer come Holmes e Kenneth Welsh come Watson: la cantante d’opera polacca Irene è l’effettivamente polacca Liliana Komorowska. Della BBC è invece Sherlock Holmes and the Baker Street Irregulars di Julian Kemp, 2007, con Jonathan Pryce come un Holmes in crisi e Bill Paterson quale Watson; qui Irene Adler (Anna Chancellor) è la cattiva.

Assolutamente incantevole, e presentata come abilissima ladra e agente mercenaria per conto terzi più che come avventuriera/cortigiana, è la Irene di Rachel McAdams nei film di Guy Ritchie Sherlock Holmes, Regno Unito | USA | Australia 2009, e Sherlock Holmes – Gioco di ombre, Regno Unito | USA 2011: divorziata da Norton, in passato ha avuto una relazione con Holmes (Robert Downey Jr., affiancato da Jude Law come Watson), che nel primo film le salva la vita. Ha però commesso l’errore di lavorare per Moriarty (Jared Harris), che nel sequel, giudicandola di scarsa affidabilità, la avvelena. A fine 2021 si attende un terzo film, e qualcuno ha parlato di un ritorno di Irene: risulterebbe graditissimo, tanto sono deliziose personaggio e attrice; tuttavia, dato che sembrava morta, non sarebbe chiaro come (un flashback o, più opportunamente, una finta morte, come quella di Holmes? Di certo, aver bevuto una tazza di the in presenza di Moriarty non si può non considerare un gesto davvero troppo ingenuo per una donna del suo calibro, per cui è lecito supporre – o perlomeno sperare – che si sia trattato di un escamotage per sfuggirgli. D’altro canto, bisogna considerare un dato che gioca assolutamente a sfavore dell’ipotesi di una rediviva Irene: a inizio film, Watson segnala attraverso i suoi scritti che corre l’anno 1891, ovvero la data in cui, stando all’incipit del racconto già diffusamente analizzato, la donna potrebbe essere defunta).

Tornando a serie televisive, rimarchevole è l’Irene Adler dello Sherlock di Steven Moffat e Mark Gatiss, Regno Unito 2010-2017, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman come Holmes e Watson: qui, nella puntata “Scandalo a Belgravia” (prima della seconda stagione, 2012), l’avventuriera è una fascinosa dominatrix con un quid di serpentino (Lara Pulver, la feroce vampira Semira di Underworld: Blood Wars, 2016); nel cellulare dispone di foto pericolose per la sicurezza del paese, visto che ritraggono una donna della famiglia reale. Verrà data per morta, ma sopravvive, e ama Holmes…

Altra serie, altro volto. In Elementary, USA 2013-2015, ambientato nella New York contemporanea, Sherlock Holmes – Jonny Lee Miller, affiancato da Lucy Liu nei panni dall’ex chirurgo Joan Watson – ha un rapporto disturbato con la pittrice e ladra Irene Adler, in realtà l’arcicriminale Jamie Moriarty (Natalie Dormer), che ha avuto una relazione con lui sotto falso nome, ma ha poi ucciso quell’identità facendolo precipitare nell’abuso di stupefacenti. I sentimenti restano però tormentati anche dopo che lui ha appreso la verità…

Nella serie televisiva russa Sherlock Holmes (Шерлок Холмс), 2013, con Igor Petrenko come Holmes e Andrei Panin nel ruolo di Watson, a interpretare Irene, che ha un ruolo di rilievo, è la bella Lyanka Gryu, in effetti di una freschezza fin troppo giovanile.

Molte di queste versioni riportano intrecci romantici tra Irene e Sherlock, a dispetto della lettera del racconto. L’idea di un’avventuriera – potenzialmente una delinquente – in una liaison con l’Arcidetective soddisfa il piacere narrativo che è in ciascuno di noi, ma non corrisponde al tipo di rapporti suggeriti da Doyle. Va però anche detto che, con ogni narrazione di fiction in soggettiva, e tanto più in quelle nevrotiche di età vittoriana, esiste lo spazio per il sospetto, visto che Watson non accetterebbe a cuor leggero un simile innamoramento dell’amico. Non perché i due siano stretti da un esclusivo rapporto holmesexual, come qualcuno ha fantasiosamente suggerito, o invece forse proprio per il tipo di amicizia virile che li lega, con tutti i pregiudizi di una cultura. Non a forzare dunque verso un Holmes in love, ma piuttosto a illuminare un mondo di attrazioni che per uomini adulti (e vittoriani) come i nostri due eroi passano al filtro di infinite censure.

Facciamo un passo indietro: in fondo, in che modo Irene è potuta risultare tanto eccezionale a Sherlock? Si sono visti ben poco, lui non ha brillato in questo caso e lei in fondo si è dimostrata accorta, diciamo pure brillante, ma non ha compiuto nulla di così eclatante, se non continuare a tutelarsi (come, d’altra parte, si poteva prevedere dalla presentazione che ne aveva fatto il re di Boemia). La risposta più immediata è: perché l’ha battuto, e lui – misogino com’era – è rimasto colpito. Forse, però, la spiegazione è più ampia e più sottile. Torniamo al sottofondo edenico del racconto. “Poi Dio, il Signore, disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo. Gli farò un aiuto, adatto a lui” (Gn 2,18, LDC-ABU), anche tradotto (CEI/Gerusalemme) “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Nella Bibbia di Re Giacomo, la versione che Doyle conosce, la frase suona: “It is not good that the man should be alone; I will make him an help meet for him” (qualcosa come “gli farò incontrare un aiuto per lui”). E quando Dio presenta all’uomo l’help […] for him, quello esclama:

 

Questa sì!

È osso delle mie ossa,

carne della mia carne.

Si chiamerà: Donna [ʾîššāh]

perché è stata tratta dall’uomo [ʾîš].  (Gn 2,23)

 

“Non è bene che l’uomo sia solo”: Sherlock è solo, tanto più ora che l’amico si è sposato. Certo, non lo ammetterebbe mai, ma la sua richiesta a Watson di essere presente è, per il registro del personaggio, una supplica affettuosa.

“[…] un aiuto che gli sia simile”: come accennato, troviamo alcune robuste similitudini tra Irene e Sherlock, a partire dal registro bohémien. Di più, “[…] un aiuto, adatto a lui”: è possibile che, per il palpito di qualche istante, Holmes si sia domandato come sarebbe avere accanto una socia del genere, adatta alla vita di indagini che lui conduce? Ipotesi irrealizzabile sul piano sociale: il modello femminile vittoriano punta assai più al tipo della moglie di Watson, Mary Morstan, che dopo la sua entrata in scena ne Il segno dei quattro emerge defilatissima, solo a tratti, e muore in fretta. Il dottore sembra sposarsi una seconda volta, ma di questa signora – che possiamo immaginare ancora più convenzionale e forse passatella (almeno secondo i canoni d’epoca, al tempo la gioventù finiva presto) – non sappiamo nemmeno il nome. Di norma, in quell’ambiente, le donne restano tra salotto e cucina, consumandosi di preghiere – fino alla malattia e alla morte, grandi topoi della raffigurazione della donna vittoriana – per la salvezza dei propri partner tra le bufere del mondo. Irene si comporterebbe in modo molto diverso. D’altra parte, per una realtà come quella vittoriana, lei è un tipo, non un modello. E in fondo, sposandosi, si sistema con un convenzionale professionista, non con un uomo simile a lei (pensiamo del resto all’eccezionale Mina Murray, in Dracula, moglie di un altro opaco avvocato, Jonathan Harker).

Di fronte alla prospettiva – un attimo, un sogno – di una partner di lavoro ed eventualmente di vita capace di avere le sue specialissime caratteristiche, ecco allora la frase di Holmes, che il povero Watson inquadra fino a un certo punto: “Si chiamerà: Donna”, cioè “To Sherlock Holmes she is always the Woman”, che noi traduciamo spesso – a senso e correttamente – “la Donna per eccellenza” ma è la donna, ʾîššāh, virtualmente accanto all’ʾîš/Holmes in quell’anti-Eden che è la Londra vittoriana. Luogo da cui lei, come la prima donna (ed è tentatore, anche se forse azzardato, l’abbinamento alla primadonna teatrale), si allontana.

Come sappiamo, Doyle riceve un’educazione religiosa e col tempo se ne distacca: tuttavia, i sottotesti simbolici biblici, e l’impatto di un certo tipo di linguaggio, spiccano nel tessuto dei suoi testi come di quelli di Stoker e di tanti altri autori britannici “di genere” (con tutte le virgolette del caso) tra il Sette e il Novecento. A rivelare non criptoconfessionismi ma l’importanza di un legato culturale, di un linguaggio potente per esprimere anche dinamiche della modernità.

Ovvio, immaginare amori tra Irene e Sherlock banalizzerebbe il quadro. La straziante impossibilità che resta a monte di una simile tentazione di Holmes si consuma nel quadro della sua infelicità nevrotica da eroe romantico. In ogni caso, il magma di emozioni che un Holmes può provare nel profondo, al di là di tutti i velami e le maschere di un ruolo, di opportunità sociali, di eventi dell’esistenza (Irene in fondo si è sposata ed è partita), il fedele Watson, che pure lo conosce tanto bene, non può essere in grado di coglierlo.

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Lago giallo https://www.carmillaonline.com/2021/08/25/lago-giallo/ Wed, 25 Aug 2021 20:47:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67852 di Franco Pezzini

Matteo Severgnini, La regola del rischio, pp. 304, euro 16, Todaro, Lugano, (Svizzera) 2021;

Matteo Severgnini, La donna della luna, pp. 240, euro 16, Meridiano Zero, Bologna 2018.

Anni fa, aiutando un amico a organizzare una piccola manifestazione locale a tema poliziesco, avevo contattato uno scrittore con cui ho un buon rapporto. Alla domanda se potesse essere ospite, aveva declinato: “Invitatemi a eventi su altri generi, anche sul romanzo rosa se volete, ma gialli basta. C’è una febbre gialla che dilaga, ogni assessore comunale alla cultura [...]]]> di Franco Pezzini

Matteo Severgnini, La regola del rischio, pp. 304, euro 16, Todaro, Lugano, (Svizzera) 2021;

Matteo Severgnini, La donna della luna, pp. 240, euro 16, Meridiano Zero, Bologna 2018.

Anni fa, aiutando un amico a organizzare una piccola manifestazione locale a tema poliziesco, avevo contattato uno scrittore con cui ho un buon rapporto. Alla domanda se potesse essere ospite, aveva declinato: “Invitatemi a eventi su altri generi, anche sul romanzo rosa se volete, ma gialli basta. C’è una febbre gialla che dilaga, ogni assessore comunale alla cultura tenta di organizzare un suo festival del giallo [come appunto tentavamo noi, senza assessori] – non se ne può più”. In realtà nel poliziesco non mancano uscite di qualità di cui merita parlare, e ciò appunto si farà in questo pezzo, ma è vero che la nostra editoria ha un rapporto col giallo un po’ particolare.

Non saprei stimare il numero di polizieschi nuovi – cioè non riedizioni di classici – varati ogni anno in Italia, ma certo è imponente. Una fetta significativa è quella che possiamo definire dell’usato sicuro, magari con autori atteggiati essi stessi a personaggi: grossa stima per il mestiere, ma ammetto che personalmente, come lettore, mi interessa poco. Semmai, a grandi numeri, può rilevare il fenomeno sociologico: per esempio per l’interessante conferma dell’estasi per le divise che già regna nelle miniserie tv (nell’ambito di una strategia di consenso che possiamo chiamare con l’onesto termine di propaganda). Che la porti avanti l’emittente di Stato rientra nella normalità delle cose, più inquietante è la ripresa di tali stilemi di consenso da parte di miriadi di autori spesso sconosciuti. La stessa forza critica insita nel noir in molti casi è inibita dal senso stanco di riciclo del riciclo di atmosfere, situazioni, caratteri: lo sappiamo, l’uso dei topoi non esclude un’originalità di risultato (semmai permette di valorizzarla), ma occorre una lucida percezione dei meccanismi narrativi. Troppe volte l’originalità conclamata riguarda dettagli minori nell’ambito del riciclone di personaggi e situazioni, o denuncia la non conoscenza di classici del genere dove quei temi sono già ben sviluppati: una certa naïveté aleggia in molte interviste.

Non entro poi qui in un tema spinoso, la presenza o meno nei polizieschi di una qualità autenticamente letteraria, cioè di un certo tipo di spessore contenutistico e formale che – pare opportuno ribadire una classificazione canonizzata a fronte del disinvolto utilizzo dei termini nel web – distingue la letteratura da registri narrativi più scabri, detti antipaticamente paraletteratura. Il genere in quanto tale non esclude connotazioni letterarie (pensiamo a Simenon), che sono benvenute ma non necessarie: la narrativa di genere ha in sé un suo valore, che – se le regole tecniche del gioco sono rispettate – prescinde dalla presenza o meno di connotati letterari. Con buona pace di certa critica vecchia e un po’ stantia che trova però ancora alfieri, il distinguo mainstream/genere e il distinguo letteratura/altra narrativa non possono sovrapporsi tout court.

A proposito di genere “puro”: la recente, tragica scomparsa di Stefano Di Marino, considerato il più grande scrittore pulp in Italia e in effetti serissimo professionista da più titoli l’anno, ma di fatto confinato con le sue saghe più note nello spazio chiuso delle edizioni da edicola (mentre colleghi a volte meno solidi accedevano tranquillamente agli scaffali librari – “spazio chiuso” perché il volume da edicola non ha l’ISBN e dopo un po’ sparisce), suggerisce una serie di riflessioni. Se personalmente in genere non frequento il pulp, non ne amo troppo gli stilemi e l’antropologia se non branditi al filtro dell’ironia (penso per esempio alla consapevolezza ironica e autenticamente letteraria di un autore come Claudio Vergnani, anche nelle sue uscite pulp), non ho nessun dubbio sulla statura professionale di Di Marino, oltretutto persona umanamente deliziosa e disponibilissima che mi pare giusto ricordare: come al tempo di Salgari, lo scrittore popolare può restare in balia di logiche dove viene spremuto fino al sangue e non valorizzato. Andrea Carlo Cappi, in un bel ricordo dell’amico scomparso, ha parlato direttamente di uccisione, per indicare la spinta demotivante che (consideriamo anche il lockdown e le limitazioni da covid, causa diretta o indiretta di una serie di tragedie) un certo tipo di marginalizzazione da silenzio può innescare con esiti terribili. Il problema ovviamente non riguarda solo il poliziesco, anche se il fenomeno colpisce a grandi numeri su un genere tanto rappresentato: alcuni contratti di editori neppure troppo piccoli che mi sono stati mostrati lasciano, con le loro clausole capestro, davvero indignati. Ma il discorso porterebbe lontano, e torniamo al punto di partenza.

Ovviamente meno comune, sulla massa delle uscite, è che il poliziesco presenti elementi autenticamente critici o almeno connotati da vera originalità. Vuoi perché apra in modo interessante a discipline altre, con le loro peculiarità “tecniche” (per esempio i gialli che guardano al cinema, oppure quelli interessati alla Storia – ovviamente la qualità della ricerca alla base e l’intelligenza nell’uso dei materiali fanno la differenza); vuoi perché ambientazioni o profili di personaggi conducano a fronti non così battuti. E questo mi pare il caso di un paio di polizieschi apparsi negli ultimi anni – uno da pochi mesi – a firma di Matteo Severgnini.

Il piccolo lago d’Orta in Piemonte ha una solidissima tradizione di evocazioni letterarie, da Enea Silvio Piccolomini a Balzac, Browning e Durrell, da Gadda a Soldati e Montale a molti altri (penso a certi meravigliosi racconti fantastici di Alessandro Defilippi, tra gli autori appunto più letterari del fantastico italiano contemporaneo), per non parlare del ruolo di quei luoghi nel rapporto tra Nietzsche e Lou Andreas Salomè. Di Orta era il geniale Ernesto Ragazzoni, della vicina Omegna Gianni Rodari. E sempre di Omegna è appunto Severgnini, colto collaboratore di varie trasmissioni alla Radio Televisione Svizzera Italiana, brillante autore teatrale, cinematografico, di novelle in varie antologie e giunto con La donna della luna al primo romanzo.

In tempi recenti Severgnini è stato anche sceneggiatore di un magnifico documentario di Erik Bernasconi, Moka Noir: a Omegna non si beve più caffè, sull’assassinio (il plot ricalca stilemi dell’indagine poliziesca) di un’intera filiera di industrie locali di enorme peso sul boom del consumo in Italia nei Sessanta (le cosiddette “sette sorelle” della zona: Bialetti, Piazza, Alessi, Lagostina, Girmi eccetera – basti pensare che lì è nata la macchina moka che tutti abbiamo in casa, ideata da Alfonso Bialetti nel 1933) a opera dei meccanismi della globalizzazione. Il regista intervista i sopravvissuti, ex lavoratori, sindacalisti, gli stessi imprenditori, fa loro rievocare le tensioni di anni di rivendicazioni, conduce in stabilimenti spettrali un tempo portatori di occupazione per l’intera area e ora desolatamente vuoti. È incredibile pensare che questa fettina di Piemonte nel Verbano-Cusio-Ossola, dove si respira con l’aria dei laghi già un po’ di Svizzera, strappandosi a una povertà di lunga durata (le foto della zona nei primi decenni del Novecento mostrano una situazione arretratissima) abbia dettato al boom degli anni di Carosello e ad alcuni decenni successivi il design di ogni cucina italiana. Il documentario, in coproduzione con RSI Radiotelevisione Svizzera, 2019, è stato presentato in prima visione alla Festa del Cinema di Roma, e merita di essere intercettato a qualcuno dei passaggi in giro per l’Italia.

Ma in contemporanea lo sceneggiatore Severgnini si è dedicato anche al poliziesco più tradizionale. I suoi romanzi offrono una struttura di giallo classico, sobrio e di grande equilibrio, con qualche morto perché, ricorda Chesterton, la gente normale ha “a healthy interest in murder” e insieme con la voce garbata che gli ascoltatori dei suoi programmi conoscono. Uno stile che permette di gestire in punta di penna anche il profilo dell’eroe Marco Tobia, ex-ispettore di polizia ruvido e timido dimessosi dal corpo e divenuto investigatore privato dopo una brutta avventura: affetto da sindrome di Tourette, ha ferito gravemente un collega e amico inchiodandolo a una sedia. Tormentato da sensi di colpa oltre a saltuari tic e spasmi penosi – quasi ululati, nel suo caso – Tobia fronteggia il male con Risperdal e spinelli (criticatissimi dagli amici, ma comprati a chilometro zero da un vicino coltivatore fuori dalle brutture del grande mercato), e riesce persino in qualche misura a “usarne” le crisi per strapparsi da situazioni complicate.

Il Nostro vive isolato – a parte le suore del locale monastero – sull’isoletta di San Giulio nel lago, e lo sfondo evocato a pennellate lievi (vano cercare l’effetto-cartolina) ha un ruolo rilevante quasi quanto l’intreccio: un micromondo nebbioso dove all’allontanarsi dei battelli di turisti cala il silenzio, difeso dall’acqua attorno e dalle piccole gentilezze che permettono a Tobia di fare i conti coi propri pesi. In La donna della luna deve risolvere un doppio mistero: quello di una ricca signora “rorante” (lagrimosa: l’amico barcaiolo-autista Anselmo colleziona parole in disuso) per la morte del fratello che non riesce a considerare suicidio, e l’altro – cui la sua delicatezza attribuisce pari importanza – su uno “zainetto rosa con un disegno a fiori che galleggiava a pelo d’acqua, lambendo la riva”. Raccontare gli sviluppi, con storie incrociate in cui vediamo coinvolta anche la partner Clara (operatrice sessuale dalla folta clientela ma innamoratissima di lui) significherebbe spoilerare in termini indebiti: mentre merita sottolineare l’ambiente, questa provincia piemontese di confine con Lombardia e Svizzera tra piccoli affari, ricatti, strani transiti e vecchie storie di famiglia. E naturalmente il profilo del protagonista: perché a dispetto del suo brontolio (“Se si ingrandisse il mio dna, si leggerebbe la scritta ‘Sono burbero’. Va bene? Comunque non siamo qui a parlare di me”) la storia del poliziesco è fatta – lo sappiamo – di ambienti e personaggi almeno altrettanto e a tratti persino più che di trame.

Ambienti come un lago d’Orta che a tratti somiglia alla böckliniana Isola dei morti, e personaggi come questo particolarissimo eremita che già ritroviamo ora in una seconda avventura, tutta a cavallo tra Italia e Svizzera – dalla casa editrice di Lugano all’episodio d’avvio, l’arresto di una donna al confine per traffico internazionale di stupefacenti. Tobia, ingaggiato per dimostrare che la poverina è stata incastrata, si troverà coinvolto in uno strano caso di omicidio e – di nuovo da una bambina – in una caccia al drago che infesterebbe le acque nebbiose del lago. Inevitabile domandarsi se questa pista dell’infanzia che permette al protagonista di strappare ai propri tormenti un po’ di pace, non costituisca in qualche modo un omaggio alla lezione di un concittadino illustre di Severgnini, Gianni Rodari.

Controcorrente, rispetto a una serie di modelli di cui sopra, è il profilo psicologico del detective con la Tourette, ex-bambino infelice dai conati di fragilità, che affronta i casi quasi come stazioni di un itinerario interiore: e tutto, intorno, ci parla di crisi, situazioni interiori non composte, debolezze accettate con realismo e coraggio cercando di superarle. La logica, insomma, non è quella un po’ troppo vista del Supereroe con superproblemi, ma quella di noi che ci scopriamo fragili, isolati non su un fazzoletto silenzioso di terra in un lago, ma nelle nostre case e nel nostro privato da reclusioni più politiche che sanitarie. E che, in qualche modo, pur feriti e in crisi, cerchiamo faticosamente di non frantumarci.

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Gennaro Serio e la riscrittura del giallo https://www.carmillaonline.com/2020/10/22/gennaro-serio-e-la-riscrittura-del-giallo/ Thu, 22 Oct 2020 21:55:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63191 di Giuseppe Ceddia

Gennaro Serio, Notturno di Gibilterra, pp. 260, € 18, L’Orma, Roma 2020.

Nell’attuale panorama della letteratura italiana, troppo spesso attento alla mercificazione da classifica e alla prostituzione della cultura tout court, avvengono – a volte – cose che non ci si aspetta e che lasciano nel fruitore quella sensazione mutuata dalla categoria filosofica del ‘non so che’, un’emozione da limbo, un dubbio perenne di valenza positiva sì, ma al contempo quasi d’irreale volontà d’accettare che un libro valido, sentito, importante non solo per l’oggi, possa davvero nascere dalle macerie della [...]]]> di Giuseppe Ceddia

Gennaro Serio, Notturno di Gibilterra, pp. 260, € 18, L’Orma, Roma 2020.

Nell’attuale panorama della letteratura italiana, troppo spesso attento alla mercificazione da classifica e alla prostituzione della cultura tout court, avvengono – a volte – cose che non ci si aspetta e che lasciano nel fruitore quella sensazione mutuata dalla categoria filosofica del ‘non so che’, un’emozione da limbo, un dubbio perenne di valenza positiva sì, ma al contempo quasi d’irreale volontà d’accettare che un libro valido, sentito, importante non solo per l’oggi, possa davvero nascere dalle macerie della società attuale, in tempi in cui tutto avviene e nulla si risolve, dal virus alla disoccupazione, per finire – visto il contesto – a una cultura umanistica sempre più degradata e schernita da chi pensa erroneamente che una qualifica di altro tipo dia non solo più pane ma anche più prestigio.

Per moltissimo tempo, quasi ci fosse ancora bisogno di constatarlo, la cosiddetta letteratura di genere (il giallo, il romanzo rosa, la fantascienza ecc.) è stata relegata negli scaffali della letteratura di second’ordine, paraletteratura, prodotti insomma di serie B, da leggere in treno, in bagno (in barba a ciò che genialmente scrisse Poe nella Filosofia della Composizione, a proposito del grande prestigio della short story e del cosiddetto effetto in una sola seduta, non certo in bagno!, da essa derivante) o in luoghi non proprio consoni alla lettura di un libro impegnato, di un romanzo nell’accezione hegeliana di ‘moderna epopea borghese’; idem per il fumetto, fortunatamente riscoperto negli ultimi decenni e giustamente incluso in letteratura (vedi il caso di importanti e acutissime graphic novel), complice anche ciò che ne scrissero anni addietro numi tutelari quali lo stesso Umberto Eco.

Eppure il giallo, per rimanere nel contesto, è assai spesso stato non solo pretesto ma anche esempio vero e proprio di letteratura sociale a tutti gli effetti, noi italiani che abbiamo avuto Leonardo Sciascia, Scerbanenco, la ‘ditta’ Fruttero e Lucentini, Gadda col suo romanzo irrisolto, dovremmo ben saperlo ma forse facciamo finta di nulla, in molte circostanze.

Il romanzo di Gennaro Serio, trentenne napoletano (scrive per varie testate tra cui “Alias” e “il Venerdì”), si situa in quel suddetto limbo: da un lato vi è sicuramente il giallo, in quanto un’indagine – o meglio, delle indagini – sono presenti nell’architettura del testo, vi è un omicidio e questo dovrebbe bastare a situare il prodotto nella categoria del giallo (o noir, forse più adatta ai modern times); dall’altro però il romanzo è un viaggio nella letteratura, che è amata e odiata, vi è attrazione e repulsione, innamoramento e delusione, spirito critico e accettazione passiva, ribellione sopita e arrendevolezza sapiente, di fronte alla letteratura che ci uccide e ci ama, ci seduce e ci abbandona, ci fa immedesimare ma al contempo rendere conto che è tutto pur sempre una magnifica a catartica finzione.

Una cosa va detta, a scanso di equivoci e senza voler risultare letterariamente classisti, questo non è un romanzo per tutti, è un romanzo per lettori colti, è un romanzo che potrebbe in qualche maniera (per l’unione del giallo con la riflessione letteraria) far pensare al capolavoro dell’argentino Ricardo Piglia, ossia Respirazione artificiale.

E quasi a ribadire e sentenziare al contempo quanto finora detto, non è assolutamente una coincidenza il fatto che l’assassino sia uno scrittore (è uno scrittore?), del quale taccio il nome, anche perché egli stesso funambolo e manipolatore della storia, della parola, dell’intreccio, della fabula insomma. Uno scrittore conosciuto abbastanza, anche se si veda sopra il concetto di lettore colto che il romanzo in questione, così come quelli del romanziere assassino, si meritano nel bene e nel male.

Vi è una parentesi tragicomica in cui un campionato mondiale dei detectives fa da cerniera tra due parti del romanzo, quella iniziale – ancora in fase di tensione senza esplosione, dove ancora la poesia del fatto è in bilico tra accettazione e repulsione, in cui si cercano i moventi e le idiosincrasie dei soggetti – e una seconda parte di carattere quasi epistolare e di stream of consciusness joyciano (altro amore dell’autore… di quale autore verrebbe da chiedersi? di Gennaro Serio o dello scrittore assassino, finto o vero che sia?), di confessioni e frustrazioni, di giochi al massacro familiari e di rompicapi enigmatici. E poi nel campionato sfilano Maigret e Poirot, Montalbano e Ingravallo, Pepe Carvalho e Sherlock Holmes, ecc. Insomma, pane per i denti di un giallista ma non solo, perché a dirla tutta – se volessimo trovare davvero una giusta e inedita definizione per collocare il romanzo di Gennaro Serio, vincitore della XXXII edizione del Premio Italo Calvino, 2019 – più che un ‘ipergiallo’ come è riportato nel retro copertina, dovremmo dire che questo è un gioco enigmistico che sfocia non solo nel meta-giallo ma persino, a voler osare, nell’ultra-giallo, nella sua esasperante ed esasperata voglia di destrutturare l’azione e il pensiero umani, nella sua sagace ambizione a voler risolvere il puzzle del sentimento dei protagonisti, puzzle che muta – borgesianamente – a seconda del luogo in cui i medesimi operano, perché è anche un romanzo on the road questo, volente o nolente.

Mi fermo qui, perché della trama – come dovrebbe fare una recensione – ho deciso di non parlare più di tanto; però lasciatevi trasportare, innamoratevi di questo romanzo e dei suoi personaggi, risolvete pagina per pagina il rompicapo delle emozioni, dei dissapori, degli amori sommersi, dell’odio che, assai spesso, è contraltare dell’amore supremo, giocate anche voi con l’autore a inseguire lo scrittore assassino e i suoi collaboratori, a capire che Soledad non è quella che appare, a farvi scuotere i sensi da tanti sudamericani e spagnoli, al fine – prettamente personale, dunque soggettivo, e perché no egoistico – di arrivare a sciogliere quel nodo antico quanto il mondo che ci fa chiedere: la letteratura è davvero una merda? Se così fosse allora lo scrittore non può che essere un assassino. È così? Chissà.

Gennaro Serio scrive, per grande fortuna della letteratura italiana attuale, uno dei pochi romanzi che merita una sana e concentrata lettura, un libro che porta a sognare, a riflettere, a incuriosirsi ad altro, a cercare tra le pieghe delle pagine quel minimo accenno di felicità che all’uomo manca ma che un libro può donare, seppur in maniera non duratura e sfuggente. Giallisti e letterati di tutto il mondo unitevi, sancirete tutti assieme chi sia il vero assassino, la lista è lunga. La parola ai giurati.

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Outsider nella notte https://www.carmillaonline.com/2020/06/13/outsider-nella-notte/ Sat, 13 Jun 2020 21:05:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60734 di Franco Pezzini

Colin Wilson, Riti notturni, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 441, € 18, Carbonio, Milano 2019.

“Sono convinto che la vita si possa vivere venti volte più intensamente di quanto non facciamo. In un certo senso, passo la mia esistenza a cercare il modo di riuscirci”.

Del versatile, eclettico, spiazzante Colin Wilson è capitato più volte di parlare su questa testata. Già si è raccontato del suo profilo di saggista anomalo e romanziere elegante quanto particolare, intrigato da temi “strani”; così come delle sue ambigue posizioni politiche. Irriducibile [...]]]> di Franco Pezzini

Colin Wilson, Riti notturni, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 441, € 18, Carbonio, Milano 2019.

“Sono convinto che la vita si possa vivere venti volte più intensamente di quanto non facciamo. In un certo senso, passo la mia esistenza a cercare il modo di riuscirci”.

Del versatile, eclettico, spiazzante Colin Wilson è capitato più volte di parlare su questa testata. Già si è raccontato del suo profilo di saggista anomalo e romanziere elegante quanto particolare, intrigato da temi “strani”; così come delle sue ambigue posizioni politiche. Irriducibile a etichette, Wilson resta una figura-cardine per comprendere una serie di trasformazioni dell’immaginario inglese – con ricadute internazionali – tra anni Cinquanta e Settanta, anche se il suo lavoro è proseguito ben oltre la boa del nuovo millennio. Morto nel 2013, lo troviamo in libreria persino con uscite postume di alcuni saggi e di ‘Lulu: an unfinished novel’, 2017.

Talvolta Wilson si è occupato di occulture e l’impatto dei suoi scritti sul Revival magico di cui quest’anno ricordiamo il mezzo secolo – almeno convenzionalmente – è abbastanza noto; ma il suo interesse riguarda un panorama assai più ampio di outsider, tra arte e letteratura, riti sociali, studi della psiche e relative deviazioni, e in generale la materia sessuale. Le sue posizioni teoriche risultano talora inaccettabili: l’idea che la donna aspiri purchessia a un compagno, mentre l’uomo sarebbe biologicamente portato a una lussuria indifferenziata per il corpo femminile flirta col pregiudizio da strada. Eppure in questo impasto di idee di un uomo nato nel 1931, figlio della classe operaia, autodidatta e pronto a vivere in situazioni-limite pur di scrivere (come il periodo in cui a Londra dorme all’aperto in un sacco a pelo impermeabile – spesso nell’area verde di Hampstead Heath – per risparmiare sull’affitto di una camera, campare con solo tre sterline a settimana e recuperare un’intera settimana alla scrittura tra le sale del British Museum) c’è anche una messe di ricchezze.

Così l’editore Carbonio sta oggi promuovendo una preziosa riscoperta della produzione narrativa di Wilson, con romanzi straordinari, insieme polizieschi & filosofici e di qualità narrativa davvero alta, come Un dubbio necessario e La gabbia di vetro (2017 e 2018). Se però questi erano apparsi in origine rispettivamente nel 1964 e nel 1966 in clima Swinging London, Riti notturni di cui ora si parla è un po’ precedente, 1960 (Ritual in the Dark): anzi questa è la data di uscita, ma Wilson ammetterà di averlo iniziato a diciassette anni – dunque attorno al 1948 – con un contenuto parecchio diverso che solo nel 1954 evolve nella trama odierna. Non ci siamo ancora, ma questa protoversione di Riti notturni conosce gestazione quasi parallela e anzi prelude al primo saggio di Wilson, il famoso The Outsider del 1956, che catapulta addosso allo squattrinato scrittore una fama improvvisa: una riflessione intrigante, provocatoria e di grande successo sull’alienazione, condotta esplorando vite “irregolari” di artisti e pensatori eccellenti. Outsider sono coloro che sanno che la vita non si esaurisce nella banalità quotidiana, tra le pastoie delle sue convenzioni, e si logorano nella tensione di una ricerca che pochi vedranno coronata dal successo, fatalmente divisi tra la ripugnanza per la propria ordinaria miseria e la frustrazione per una meta non raggiunta. Wilson racconterà in seguito le sue antiche frustrazioni giovanili, tra sogni di diventare scrittore e più prosaiche fantasie di sesso con una collega: tutto materiale che sta a monte di The Outsider e insieme di Riti notturni. Ma il discorso è più ampio, e l’uscita nel maggio 1956 del saggio che fa notare l’autore appena venticinquenne è contemporanea al successo teatrale di un altro “giovane arrabbiato”, Ricorda con rabbia di John Osborne, presentato per la prima volta l’8 maggio di quell’anno.

Va però fatto un passo in più, notando il nesso di Riti notturni con altre tre opere di Wilson di poco successive, sempre nell’ambito di una critica serrata, dell’evocazione d’una ribellione creativa a valori e feticci della società borghese del dopoguerra: Religion and the Rebel (1957), The Age of Defeat (1959) e Encyclopedia of Murder (con Patricia Pitman, 1961), che offrono qualche chiave ulteriore. In particolare Religion and the Rebel prosegue il discorso di The Outsider trattando di outsider religiosi, The Age of Defeat riflette su un senso epocale di sconfitta, futilità o insignificanza che Wilson sente serpeggiare nel suo tempo e lui stesso aveva avvertito in modo cocente, e l’Encyclopedia of Murder discetta ovviamente di delitti ma insieme dei paradigmi antropologici degli outsider criminali – tutti elementi importanti nel romanzo in esame, e fin dalle sue primissime remote prove.

Riti notturni è la prima avventura – autoconclusiva – del giovane Gerard Sorme, protagonista di una trilogia che Carbonio si appresta a proporre per intero (entro fine anno è atteso il seguito, L’uomo senza ombra. Il diario sessuale di Gerard Sorme). Ventiseienne, con torpide velleità di narratore, il Nostro trova improvvisa illuminazione a una vita che gli pare noiosa e insignificante (ecco The Age of Defeat) attraverso la conoscenza del raffinato Austin Nunne, talentuoso omosessuale che flirta sempre e comunque con gli eccessi. Gerard prova per l’anticonformista Austin un’attrazione non sessuale (come altri personaggi sospetteranno) ma calorosamente amicale, una strana sympatheia di tipo intellettuale e artistico che diventa complicità. O piuttosto un rapporto complesso che è insieme di attrazione e repulsione, comunque capace di coinvolgerlo profondamente.

Il fatto è che il disinvolto outsider Austin piombato nella sua vita in modo accidentale funge per il meno disinvolto (ma ci sta lavorando) outsider Gerard da catalizzatore esistenziale, da provocatoria risposta ai suoi rovelli: sia col destare in lui una dimensione vitalistica e creativa finora stentata – per il nullafacente Gerard, che passa il tempo a meditare, emerge la consapevolezza di tutto un mondo eccitante di domande e di emozioni sconosciute –, sia spalancandogli un orizzonte molto concreto di contatti nuovi. Tra i quali Gertrude, giovane zia di Nunne, un tantino repressa e anche per questo affascinante, e la disinibita nipote ventenne Caroline, due volti quasi paradigmatici di un’epoca ed entrambe corteggiate con successo dal nostro eroe; e un altro outsider, il pittore Oliver Glasp, capace di dare il proprio meglio coi pennelli per le attrattive – mai contatti fisici – di una musa di dodici anni (il che, a un certo punto, scatena un certo putiferio). Donde la citazione d’incipit a questo pezzo, il tema dell’incalzare una vita tanto più intensa di quella finora vissuta, alla ricerca di un’illuminazione che grazie ad Austin è ora una possibilità concreta.

Non solo: attraverso quei contatti si apre per Gerard un discorso di provocazione religiosa attraverso figure varie, tutte estranee al culto di stato della Gran Bretagna coeva (ecco Religion and the Rebel). Figure che restano nell’orizzonte del giovane pur senza coinvolgerlo confessionalmente: Gertrude simpatizzante dei Testimoni di Geova, e il giro dei suoi confratelli più convinti; alcuni sacerdoti cattolici, tra i quali il malconcio padre Carruthers dalle vedute aperte, con cui Gerard intesse un rapporto di confidenza quasi confessoria… A suggerire qualcosa di una realtà particolarissima come l’Inghilterra dai mille culti, ma anche le direzioni interiori che una ricerca quale quella di Wilson esplora insieme con ironia, autonomia critica e interesse.

E ancora, nella vicenda si innesta anche una serie di omicidi a Whitechapel che sembrano ricalcare – almeno parzialmente – quelli di Jack the Ripper: a saldare il tema del sesso con il delitto (ed ecco Encyclopedia of Murder). Si noti che l’ombra del vecchio Jack resta assolutamente defilata e come sotto la superficie del testo, quasi un Perturbante che sgomiti, finendo col farsi paradigma dell’irrisolto: l’assassino è davvero Austin, come Gerard a un certo punto prende a sospettare? ma soprattutto, perché dovrebbe farlo? Dove l’indagine, più che poliziesca in senso proprio, si fa filosofica, nel segno di una riflessione sulle pulsioni di morte che offra risposte più credibili delle banalità circolanti sul maniaco… Ovviamente non ha senso spoilerare: limitiamoci a considerare che starà a Gerard discernere nel suo lungo cammino di autoconsapevolezza – tra simpatie equivoche, speculazioni perplesse, soavi avventure in letti femminili – tra tipi diversi di trasgressione, fertilissima o distruttiva. Nonché meditare sul rapporto tra inferi di un serial killer e quelli di un’intera società, davanti allo psichiatra Franz Stein il cui cieco, moralistico legalismo è in fondo sempre lo stesso di quando militava per il Führer.

Attraverso i variegatissimi dialoghi tra Gerard e gli altri personaggi si dipana così via via la quest sui misteri di Austin, e in parallelo, in qualche modo maieutico, la quest interiore del protagonista: qualcosa che gli permette di riflettere sui tipi di ostacolo che impediscono all’uomo di realizzarsi appieno e sulle forze dominanti con cui fare i conti, in particolare il richiamo sessuale. Proprio la meditazione sugli istinti sessuali trova in questo romanzo uno spazio essenziale: sin dalla primissima versione (che lasciava in dubbio se una certa prostituta fosse stata davvero strangolata dal protagonista, perché non sarebbe cruciale la differenza tra sogno e realtà a fronte di un’esistenza umana come mero tessuto di illusioni) e comunque in questa che esaminiamo, assai diversa quanto a trama, e tanto più sottile e levigata. Qualcosa che certo si giustifica con gli interessi personali di Wilson – dai racconti del nonno sul vecchio Sventratore alle torbide fantasie adolescenziali, e via via per tutta la sua carriera di saggista – ma anche con motivi d’ambiente, in una Gran Bretagna che sta abbandonando solo in quegli anni una serie di atteggiamenti e convenzioni vittoriane, e il tema sesso che sfiata come da una pentola a pressione. Ma c’è di più, perché la biblioteca di Austin può in fondo contenere testi che di lì a poco appaiono un po’ defilati ben oltre i confini di Albione e persino nella provincialissima Italia (vogliamo parlare della raffinata collana Sugar Olimpo nero, che vede impazzare Sade?): a suggerire l’avanzata epocale delle curiosità per il sesso in forme svariate, appartate ma dilaganti, in parallelo del resto ai fasti dell’eros gotico, velato e simbolizzato ma chiarissimo, di tutto un cinema fantastico con la Hammer in testa.

Tra i molti spunti offerti da Riti notturni, nutrito di una messe di letture del giovane Wilson – per sua ammissione Joyce, Hemingway e Faulkner, forse già L’uomo senza qualità dove resta colpito dal personaggio Moosbrugger e molto altro, come evidentemente il Dorian Gray – mi limiterei a soffermarmi su tre dimensioni.

Anzitutto l’ambientazione. Evocata a colpi di pennello di grande efficacia e puntualità è tutta una Londra dove ultimi strascichi di un rigore postbellico stanno lasciando posto al salto Swinging, e il più vittoriano dei serial killer sembra riemergere tra locali notturni e alloggi moderni un po’ troppo riservati. Un mondo spesso notturno che vede tipi come Gerard vivere da privilegiati ma non troppo – una modesta rendita, una pensioncina fin troppo rumorosa, scaldabagni per cui contare le monete – e che però sta aprendosi a quell’arte e a quella cultura che negli anni successivi vedranno Londra centro del mondo. Per dire, Gerard e Austin si incontrano emblematicamente a una mostra sui Ballets russes e il grande danzatore Vaslav Nijinsky, proprio uno degli outsider del testo del ’56 (e anzi un profilo che nelle teorie di Wilson rientrerebbe nella categoria degli “outsider fisici” assieme, per dire, a Jack the Ripper). Ma quel palcoscenico esteriore di una società in trasformazione, quel teatro metropolitano tra misteri in case chiuse e nuove spudoratezze d’epoca, è del tutto congruo – come qualche critico ha osservato – al teatro interiore di Gerard, quasi la mappatura di Londra riproducesse le sue mappe mentali. I meccanismi della sua quest esistenziale, la sua illuminazione (magari confusa, velleitaria, ancora magmatica) su un rapporto con la realtà ordinaria e la libertà dell’oltre, l’eccitazione per le scoperte emerse grazie a quell’Austin che a Nijinsky assomiglia un po’, e il brivido che trasfigura persino la dimensione dei rapporti sessuali – prima per Gerard tradizionale e annoiata – echeggiano tensioni che stanno fermentando nella società dell’isola, trasgressioni nuove a una gabbia di regole avvertite come asfittiche, brancolamenti alla ricerca di qualcosa… Un’urgenza vissuta da Wilson e da tanti giovani come lui, e che rende testi come The Outsider e Riti notturni voci di un disagio e degli sforzi per superarlo, anzi dell’intuizione dirompente di nuove potenzialità. In chiave insieme di effetto e di causa – visto l’indubbio impatto dell’autore e delle sue provocazioni sulla cultura Swinging (nonché, in modo meno diretto ma significativo, sul Revival magico): e il teatro d’ambiente rende Riti notturni la vivida evocazione di un mondo.

Una seconda dimensione è quella delle mitologie collegate. Jack the Ripper era già apparso ovviamente in opere letterarie e narrazioni popolari, ma è nel calderone di questa Gran Bretagna e grazie in particolare ai saggi di Wilson – tra underground e pop – che “Gianni col coltello in mano” conosce una ridefinizione per il grande pubblico moderno. Con una formula che innova radicalmente il genere true crime dei vecchi Newgate novel e i repertori macabri della Chamber of Horrors di Madame Tussauds: il taglio “alla Wilson” è qualcosa che unisce un po’ di criminologia e scienze umane, un po’ di letteratura, misteri à gogo – compresi quelli dell’occulto – e tradizione britannica. Shakerando bene il tutto, il risultato è diverso sia dai repertori criminali all’americana, sia da quelli di mirabilia alla Charles Fort. Wilson spiega, argomenta, filosofeggia, a volte polemizza in modo irritante, non si accontenta delle stranianti ipotesi dei Book of the Damned che pure conosce, lavora sulla sociologia ed è a suo modo un figlio dell’empirismo britannico: i repertori criminologici popolari che troviamo oggi sugli scaffali di true crime della grande distribuzione libraria inglese trovano in lui il nonno o almeno lo zio matto – quello che impazzava nelle riunioni di famiglia e che ci ha lasciato una stramba eredità. A questa ridefinizione moderna del mito dello Sventratore si ricollega anche Riti notturni, con il suo finale non conciliatorio che rimanda in fondo proprio agli sviluppi ambigui della saga del 1888: e non a caso tale mostro-fantasma (per la definizione si rinvia qui) riappare qui in contemporanea con i colleghi dei primi, vittorianissimi film gotici della Hammer. Anche in questo senso, Riti notturni è un ottimo esempio di come le ombre dell’età vittoriana riemergano in chiave perturbante alla fine degli anni Cinquanta in una Gran Bretagna che sta riassestando la sua identità; e il neovittorianesimo pop di oggi trova in quel passaggio una delle sue radici fondamentali.

Una terza dimensione del romanzo su cui merita soffermarsi – last but not least – è poi quella del piano formale: e non solo per la scrittura tersa, elegante, magneticamente letteraria. A differenza che in altri suoi romanzi, qui Wilson ricorre a una formula narrativa curiosa. Non è un flusso di coscienza, a narrare – peraltro in stile piano – è un terzo onnisciente che ha Gerard per focus; e i dialoghi sono molto belli, perfettamente calibrati allo sguardo introspettivo, ma anche al rapporto maieutico grazie ai vari interlocutori. Eppure la mancanza di virgolette a marcare le battute e il particolarissimo impasto testuale che ne deriva lasciano la sensazione di una narrazione echeggiante quasi all’interno – di Gerard? dell’autore? del lettore? – e come sommessa. Una sorta di risacca narrativa dove partecipiamo in chiave di ipotesi alle solidarietà di un outsider per l’altro, tra scoperte libertà e ombre d’orrori almeno potenziali, sogni d’estasi e perversioni da cronaca nera – a tratti con un’equivoca osmosi di vedute, a tratti ponendo punti fermi almeno temporanei. Qualcosa comunque che evoca anche formalmente un dedalo personale: e confidata con eccitazione dalle pieghe di un’esistenza che si sta schiudendo alla primavera di qualche nuova consapevolezza, la narrazione ne mantiene l’ondivago fluire in pagine affascinanti, avvincenti e conturbanti.

Come i protagonisti del saggio del ’56, con le loro lacerazioni tra pastoie quotidiane e vertiginose soddisfazioni – celesti o infere – di una quest esistenziale, gli outsider di questo romanzo si modulano in “tipi” diversi: e sta al protagonista che è uno di loro capire qualcosa di più, capire dove potrebbe arrivare. Per cui è importante tener alta la guardia fino in fondo, non perdere di vista l’ultimo tassello del puzzle, in un finale che non tranquillizza i cultori del giallo, anche se giunge alla messa a fuoco filosofica – più o meno convincente, ma tant’è – del distinguo tra alcune categorie fondamentali. Qualcosa che non dissipa totalmente l’ambiguità propria dell’approccio di Wilson ma rappresenta (possiamo dirlo) anche una categoria inalienabile della modernità. E comunque raccontato in modo meraviglioso.

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Blake, Colin Wilson & la Swinging London https://www.carmillaonline.com/2019/07/27/blake-colin-wilson-la-swinging-london/ Fri, 26 Jul 2019 23:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53754 di Franco Pezzini

Colin Wilson, La gabbia di vetro, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 272, € 17,50, Carbonio, Milano 2018.

Se una fata buona mi regalasse un weekend da trascorrere in un momento del passato – inteso come passato “storico” e individuato sull’onda del puro gusto, al netto di qualunque altra considerazione – penso che non risalirei a tempi (troppo) lontani. Le lancette ruoterebbero indietro verso metà degli anni Sessanta, puntando oltre la Manica: cioè verso le strade trafficate, la musica, i sogni, le provocazioni e le “nuove” sfide della Swinging London. [...]]]> di Franco Pezzini

Colin Wilson, La gabbia di vetro, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 272, € 17,50, Carbonio, Milano 2018.

Se una fata buona mi regalasse un weekend da trascorrere in un momento del passato – inteso come passato “storico” e individuato sull’onda del puro gusto, al netto di qualunque altra considerazione – penso che non risalirei a tempi (troppo) lontani. Le lancette ruoterebbero indietro verso metà degli anni Sessanta, puntando oltre la Manica: cioè verso le strade trafficate, la musica, i sogni, le provocazioni e le “nuove” sfide della Swinging London. Immagino che in ciò giochi una dimensione nostalgica legata all’infanzia (per noi figli dell’avvio di quel decennio, per dire, i panorami della TV dei ragazzi erano assai più inglesi che americani, tra casette dai tetto di paglia e scorci di Piccadilly); e canzoni di Beatles e Rolling Stones, film – Hammer e non solo –, moda, pop art, immagini fotografiche rimaste come sul fondo dello sguardo d’una generazione hanno saldato il tutto.

Ma non è neppure necessario tale tipo di affezione personale per apprezzare un peculiare fascino di quell’Inghilterra. Dove troviamo ancora le piccole comunità rurali coi loro ritmi ben poco mutati, il pub, la chiesa, il negozio che vende di tutto e le ombre ambigue dietro le tendine. E insieme una Londra labirintica, euforica e sordida, non esaurita certo in Carnaby Street: una metropoli “moderna” ma fino a un certo punto – e basta arrivare sul fiume, dal cui fango spuntano cadaveri (o parti dei medesimi) come nella migliore tradizione vittoriana. Una capitale che per una breve vertiginosa stagione si sente di nuovo centro del mondo, ma presto tornerà a essere investita dalle crisi del Novecento.

E tutto ciò resta come sotteso, alle spalle di questo delizioso romanzo – The Glass Cage, uscito proprio nel 1966 in cui nasce la definizione Swinging London (sul TIME del 15 aprile) – che un po’ semplificando possiamo definire poliziesco. Certo, vi troviamo richiamati omicidi seriali con smembramento di vittime e c’è un’indagine per scoprirne l’autore; eppure la pista, condotta sul filo di riflessioni che possono risultare (fascinosamente) datate a odierni criminal profiler, non riguarda soltanto l’identità del criminale e le sue motivazioni. Persino più importante è comprendere altro, almeno per l’eccentrico, svagato, impagabile protagonista, il giovane Damon Reade: massimo esperto della poesia di William Blake e solito a una vita isolata nel Lake District, ma ora spinto a Londra per misurarsi su un caso di vita reale da una sfida dell’ambiguo, futuro quasi-suocero. Comprendere altro: e cioè, da un lato, come sia possibile che a perpetrare tali orrori sia qualcuno abbastanza sensibile e profondo da frequentare il mondo poetico di Blake, visto che strofe di lui vengono ritrovate presso i luoghi dei delitti (per questo Reade all’inizio viene consultato dalla polizia) – non solo insomma la ricostruzione di un profilo psicologico, ma la risoluzione di un problema filosofico. E, insieme, come Reade stesso possa rapportarsi alla caccia al criminale e all’enormità della situazione senza perdere umanità: non per buonismo o per far l’anima bella, ma per l’irrinunciabile necessità di non veder soffocata la propria identità profonda. Studioso di Blake ma anche di quel Whitehead che ravvisa nell’universo una realtà fisica e insieme spirituale, il Nostro sceglie dunque anche in questo caso, anche nella fragorosa Londra tanto diversa dal Lake District di capre e solitudini, di lasciarsi interpellare dalla realtà con un approccio di silenzio interiore e una sorta di pietas.

Del resto chi conosca anche solo qualcosa del profilo dell’autore non può stupirsi. Il discusso Colin Wilson, saggista, romanziere e a suo modo filosofo, per tutta la vita ha incalzato ciò che negli anni Sessanta veniva detto l’insolito attraverso piani diversissimi – arte, psicologia, occultismo, criminologia… – proprio nella convinzione che tra quelle pieghe, nel lavoro degli outsider, sia possibile dissodare elementi di un approccio più ricco e visionario alla vita: di qui la costruzione di un sistema filosofico personale che definisce un new existentialism in chiave ottimistica. Già vicino ai “giovani arrabbiati” della scena letteraria inglese (dalle posizioni spesso identificate come di sinistra o anarchiche), ma personalmente proclive a frequentazioni ideologiche anche a destra e molto equivoche – il fascista Oswald Mosley –, Wilson resta una figura irriducibile a etichette continentali. Una vaga supponenza nel modo di tranciare giudizi, la poca accuratezza verso i dati offerti nei saggi, l’ingenuità con cui sembra accogliere i fenomeni “strani” ne hanno fatto deprecare egocentrismo e ignoranza scientifica. Nei fatti il suo impatto sul dibattito culturale inglese degli anni Cinquanta (dall’opera che lo fa conoscere, The Outsider del 1956, che diviene un bestseller) e Sessanta è notevole. Anche se col tempo verrà considerato più un fenomeno bizzarro – dalla fine dei Sixties prende a occuparsi sempre più di occulto – che una significativa voce critica, al di là di un robusto seguito di appassionati.

Il che non toglie nulla alle sue eccellenti capacità di scrittore, specialmente quando riesce a valorizzare il contenuto teorico senza soffocare quello narrativo. E La gabbia di vetro è un esempio del Wilson più scintillante, nonché il romanzo da lui più amato: dove si può concordare con la definizione dell’aletta che lo definisce un “thriller intellettuale [ma, potremmo aggiungere, un thriller dell’interiorità e del rapporto io-mondo] che sviscera con giocosa leggerezza e insaziabile curiosità temi come l’oppressione, la perversione, il superamento dei confini della conoscenza e i risvolti più inquietanti della passione”. E a glossare la definizione di un genere narrativo e rivelare il tipo di chiave risulta illuminante questa definizione, offerta da Reade stesso al perplesso poliziotto Lund:

 

Non riesco a immaginare come la gente possa dare per scontata la vita, c’è ovviamente qualcosa che non va da qualche parte. Ed è una specie di poliziesco in cui non si sa nulla: non si sa quale crimine sia stato commesso o chi sia il colpevole. Si sa solo che c’è qualcosa di sbagliato da qualche parte, e che bisogna tenere gli occhi aperti e continuare a fare due più due.

 

Un romanzo insomma elegantissimo, che può felicemente spiazzare i lettori di oggi. Sia perché, abituati a Patricia Cornwell e all’effetto-autopsia TV da prima serata, trovano qui delitti spaventosi evocati quasi di sfuggita, senza mostrare una sola sequenza grandguignolesca. Sia perché la ricostruzione di un contesto alla luce della criminologia d’epoca e comunque delle teorie di Wilson (il binomio tra delitto & cultura, per dirne una, non sembra oggi tanto paradossale, ma all’epoca è una novità) riesce comunque a non risultare ingenuo.

Quanto all’outsider William Blake, che potrebbe sembrare un mero spunto occasionale – l’autore delle strofe utilizzate dall’assassino, in ipotesi sostituibile con qualunque altro poeta – a ben vedere ha invece un ruolo-chiave. Sia perché il candore visionario del protagonista, pronto ad appostarsi sulle doors of perception per cogliere le risonanze degli eventi, è omologo e profondamente legato a quello di Blake, influenzato dal suo pensiero e idealmente alla sua scuola. Sia perché è un po’ tutta quell’Inghilterra tra rivoluzione sessuale e ridefinizione spirituale, tra febbri dell’immaginario e osmosi pop di arti e discipline diverse, a porsi idealmente all’ascolto del poeta-profeta libertario riscoperto dalla controculture degli anni Cinquanta-Sessanta.

Divertente e divertito (l’avvio insieme candido e malizioso in cui Damon si mette con una minorenne richiama proprio a una certa effervescenza d’epoca in cui i giovani oltretutto acquisivano un nuovo ruolo come interlocutori sociali e di target), ricco di dialoghi godibilissimi, narrativamente ricco e dotato di un finale provocatorio che sarebbe un crimine spoilerare, La gabbia di vetro restituisce la delizia di un mondo ormai consegnato al baule dei ricordi e insieme qualche spunto di riflessione. Se la vita somiglia davvero a un poliziesco (e tante volte ne abbiamo il sospetto), è imperativo “tenere gli occhi aperti e continuare a fare due più due”.

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Il gabinetto del dottor Lajthay https://www.carmillaonline.com/2018/03/12/il-gabinetto-del-dottor-lajthay/ Mon, 12 Mar 2018 22:18:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44221 di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e [...]]]> di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e il seguito puntano verso sinistra: dove nel primo terzo della foto, dietro un parallelepipedo che forse è un altare, spicca una ragazza dallo sguardo straniato. Sta fissando quella festa per lei e per l’uomo tenebroso in piedi alle sue spalle con aria soddisfatta. È una festa di nozze.

C’è qualcosa di piuttosto spettrale, nei film che vanno perduti. L’evento triste e magari scellerato della scomparsa di un libro può permettere la sopravvivenza di citazioni (a volte potenziate dall’autorevolezza di chi le tramanda), di interi stralci o di quei riassunti che in fondo costituiscono delle rinarrazioni – infinitamente impoverite, è chiaro – dell’originale, ma almeno nel suo medesimo linguaggio scritto. Mentre è ben raro che di un film perduto sopravvivano sequenze: quando va bene resta qualche foto come appunto l’immagine appena descritta, con uno slittamento però verso un diverso tipo di linguaggio – quello fotografico, degnissimo ma diverso – e la perdita di movimento, luci, eventuale audio. Se i giochi d’illusioni del cinema hanno qualcosa a che vedere con la dimensione del fantasmatico, il film perduto è il fantasma di un fantasma. Anche se talvolta può riemergere.

Di film perduti si occupa Susanna Marino, protagonista di una serie di romanzi di Cristiana Astori. Ora felicemente passati da un altro ambito un po’ fantasmatico – le pubblicazioni da edicola, a volte veri gioielli che però sfarfallano per un tempo breve nel transeunte delle riviste – agli scaffali delle librerie per i tipi Elliot. Un passaggio in realtà attesissimo dopo il successo delle precedenti, scintillanti avventure della cercatrice di pellicole scomparse: testi dove il registro popolare (definizione tecnica, in nessun modo sminuente) svela una ricchezza di vivacità ma anche di cultura nella ricostruzione puntuale di mondi perduti assieme a quei film.

Stavolta è l’ambiguo collezionista torinese Altavilla ad arruolare Susanna alla ricerca di un lost film ungherese del 1921. Un’opera diretta dal transilvano trentottenne Károly Lajthay, già produttore e sceneggiatore, ma soprattutto attore di buon successo (almeno diciassette partecipazioni tra il 1916 e il 1920, a volte come Charles Lederle) e poi regista d’un certo nome (diciotto titoli tra il 1918 e il 1944); ma un’opera sbocciata in un paese il cui cinema nascente è stato travolto dalla Grande guerra. La settima arte in Ungheria si era sviluppata con entusiasmo, in forme anche molto originali: per esempio certe ibridazioni col teatro che vedevano brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori in carne e ossa, a interagire coi propri personaggi. C’era anche una produzione critica di qualità; ma l’impatto della guerra era stato rovinoso, e a proteggere il cinema non erano bastate le misure decise nel breve periodo della repubblica comunista di Béla Kun (marzo-agosto 1919) con la nazionalizzazione del settore contro la forza delle produzioni straniere. Chiuso quel periodo (quando artisti di sinistra come Arisztid Olt, all’anagrafe Béla Ferenc Dezső Blaskó, il futuro Bela Lugosi, sono costretti a lasciare il paese), e nonostante i registi ungheresi come Lajthay finiscano col dominare con la loro effervescenza la stessa piazza di Vienna, i contraccolpi sono stati troppi. Il nostro film viene girato per gli esterni in Austria (Vienna, valle di Wachau e Melk) e gli interni al Corvin Film Studio di Budapest e si parla di una première a Vienna nel febbraio 1921, su cui però grava uno strano silenzio; una prima a Budapest sarà solo nel 1923. Intanto in Ungheria è dilagata la crisi del sistema cinema, dalle produzioni alle sale: e in questo buco nero forse complicato da problemi legali o di censura scompare la pellicola che nel 2015 appunto Susanna è incaricata di ricercare. Inviata in una Budapest che ripiega i suoi innumerevoli passati in una sorta di incubo espressionista, dovrà fare i conti con morti orrende di altri cercatori della stessa reliquia; e in parallelo assistiamo a scorci di quel passato, incontrando Lajthay e l’attrice scelta come protagonista…

Partiamo da un aspetto intrigante di tipo classificatorio. Dal punto di vista “tecnico”, la saga di Susanna (chiamiamola così) presenta storie rigorosamente richiamabili alla nebulosa del poliziesco: delitti, pericoli nell’ombra, voltafaccia e colpi di scena, turbamenti della psiche, parecchia azione nel modo classicissimo del feuilleton (fughe sui tetti, discese per sotterranei, inseguimenti…) e comunque colpevoli umani; le venature nere strizzano l’occhio ora al thriller ora all’horror, ma appunto con una chiave interpretativa di tipo razionale. Eppure esistono forti motivi per considerare questi romanzi come compiutamente fantastici, e non soltanto per l’assunto di Borges che lo è tutta la letteratura.

Il fatto è che, almeno in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di guardare e di narrare: e ciò spicca in questa saga attraverso due coordinate. Da un lato quella soggettiva di Susanna: che non è la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie e la sua vita è tutta un pasticcio, tra attacchi di narcolessia, angosciosi ricordi dell’amatissimo Edoardo di cui ha accidentalmente causato la morte, e un irrisolto problema di definizione personale (familiare, rispetto ai genitori ingombranti; professionale e lavorativa; anche sentimentale). Ogni indagine è anche una quest, in qualche modo di se stessa. Dall’altro lato c’è la coordinata oggettiva della narrazione, perché sappiamo che una storia apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico: pensiamo a uno dei romanzi più famosi della storia del poliziesco e in apparenza epifania di razionalità, Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, in realtà tutto tessuto e sostenuto sottotesto da topoi mitici, visionari e fantastici. Sottotesto, appunto: e anche nella saga di Susanna, di genere essenzialmente poliziesco, il sottotesto è fantastico.

Dal primo punto di vista, soggettivo, dimentichiamo Lara Croft: Susanna non è un’eroina avventurosa per carattere, e all’avventura è in genere trascinata obtorto collo (spesso dal predatore di pellicole perdute Steve Salvatori, sorta di controcanto ironico e dalle mille risorse, complice/rivale e iniziatore – non a caso ha perso un occhio, quasi una mutilazione mitica – con cui lei mantiene una burrascosa dialettica di vaga attrazione e baruffe). Certo la Nostra, messa in gioco, sa mostrare iniziativa e tenacia; ma probabilmente proprio il suo statuto antieroico e autoironico è uno dei motivi del grande successo coi lettori. Accompagnato da una caratteristica che resta un po’ implicita, ma innerva le storie – appunto – sottotesto: un rapporto con il sonno (la narcolessia) e la morte (quella di Edoardo, che continua a portarsi addosso come un’ombra) che finisce con il proiettarla in una dimensione in senso lato sciamanica. È per esempio una costante che nelle sue avventure figuri a un certo punto un incontro con il mago Grey Angel (già il nome richiama a un certo tipo di immaginario da spettacolo pop) di un locale pubblico sui Murazzi di Torino, che però ormai non sembrano rappresentare più un’identità in carne e ossa e un luogo materiale: il lettore li percepisce come parte integrante dell’interiorità di Susanna, della sua vita mentale – una sorta di spazio per rielaborare le cose, una camera stagna con il passato – e dei suoi sogni, e il linguaggio è chiaramente quello visionario/fantastico. Ma qualcosa del genere accade più in generale per quelle sensazioni di Susanna che sconfinano nell’allucinatorio e nello spettrale: medium tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi di fantasmi – appunto i film perduti – Susanna è confinata quasi di necessità in una condizione liminare.

Però c’è anche un piano oggettivo, della forma-narrazione. Se nel primo volume della saga, Tutto quel nero, 2011, l’autrice affrontava la favola nera di un perduto film della carismatica attrice spagnola Soledad Miranda, richiamando un intero panorama di cinema di exploitation degli anni Sessanta, e il fiato delle sue ombre; se nel seguito Tutto quel rosso, 2012, il mistero e i cardiopalmi riguardavano Dario Argento ed estensioni sconosciute del film-culto Profondo rosso; se nella terza puntata, Tutto quel blu, 2014 (come i precedenti per Il Giallo Mondadori), Susanna si confrontava con un film e un autore ai più del tutto ignoti, cioè quell’enigmatico L’autuomo di Marco Masi, 1984, in cui suggestione fantascientifica e motivo politico si fondevano attraverso il motivo-simbolo dell’androide; se insomma le pellicole perdute e ritrovate rimandano a temi paradigmaticamente aperti al visionario e al fantastico (su Profondo rosso, formalmente thriller, vale quanto detto per il sottotesto), è in realtà tutto l’intreccio – impianto di trama, dinamiche tra personaggi, sapori d’ambiente – a intonarsi al tipo di cinema evocato, in termini che sfuggono ogni gabbia di corrucciato verismo. Perché i generi sono uno spazio di libertà, non gabbie asfittiche, e le relative demarcazioni – preziose per ragionare su alcune costanti o, più pragmaticamente, per capire su quale scaffale collocare un libro – rappresentano la classica scala da utilizzare e poi esser pronti a gettare via.

L’arrivo di Tutto quel buio non può che confermare una formula di successo: tanto più che il film cercato si muove a sua volta su una pista emblematicamente fantastica. Si tratta infatti del Drakula halála (La morte di Dracula), 1921, il primo film vagamente “ispirato” al Dracula stokeriano di cui esistano notizie articolate: il Nosferatu di Murnau uscirà l’anno dopo, 1922, mentre di precedenti Dracula ricordati dai repertori cinematografici – uno russo e forse uno rumeno, entrambi 1920 – sappiamo troppo poco e possiamo solo fantasticare (sarebbe affascinante capire qualcosa di più sul contesto in cui fermentarono, per esempio sulle eventuali metafore politiche di quello russo; tralasciamo invece, perché comportano altri discorsi, i Conti Dracula spuri apparsi in contesti diversi nella cinematografia anni 1910-18). È insomma Drakula halála il primo film su cui gli studiosi di Stoker possono concretamente ragionare dell’estensione di un mito, e che affascina per una quantità di motivi. Anzitutto le implicazioni di immaginario geografico: il Dracula stokeriano non è un voivoda valacco ma un conte – appunto – ungherese, e il rapporto provocatorio del tema con l’Ungheria tramite una protoproduzione filmica risulta particolarmente intrigante anche a prescindere dai successi più tardi di Lugosi (il fatto stesso che anche le altre prime trasposizioni filmiche del romanzo – la russa e la rumena citate, la tedesca di Murnau – non muovano nel mondo anglosassone di Stoker ma nell’Europa centro-orientale pare interessante). In secondo luogo per i soggetti coinvolti, e le loro dinamiche: per esempio con il regista Lajthay collabora alla sceneggiatura quel Mihály Kertész poi meglio noto come Michael Curtiz, dopo il trasferimento in America che lo condurrà a successi come Casablanca; per contro una certa nebbia avvolge le vite degli altri nomi di cast & crew – in particolare la misteriosissima Margit Lux interprete della protagonista Mary Land, ma anche gli altri, noti ai repertori ma in termini più o meno elusivi. Ancora, il taglio prescelto: della pellicola perduta sopravvive infatti una novelization di Lajos Pánczél, 1924, che mostra come la sceneggiatura marcasse una netta distanza dalla trama stokeriana, nel segno di una rilettura del romanzo allucinatoria e psichiatrica (inevitabile pensare a Krafft-Ebing, a Freud…) molto austroungarica. Aggiungiamo che di tutto l’insieme sopravvivono poche locandine e alcune incredibili foto. Come quella di Paul Askonas nel ruolo di Dracula, una vera e propria maschera straniante di deriva psichica; o l’altra descritta all’inizio, in cui Mary sta sognando – ma sogna davvero? – la sua festa di nozze con Dracula nel tripudio delle altre spose e delle creature della notte…

Non spoileriamo qui sulla trama di Tutto quel buio, sulle ricostruzioni necessariamente libere ma ragionevoli e drammaticamente efficaci offerte dall’autrice ai profili sfuggenti di Margit Lux e di Lajthay – e sull’avventura di Susanna che la condurrà, cercando quei sessantacinque minuti di pellicola, sui bordi del pozzo nero del Male del Novecento. Torniamo piuttosto a quanto detto: se il conte Dracula di Stoker – che conosciamo solo attraverso i diari dei suoi nemici, quasi tutti profili psicologici un tantino disturbati – potrebbe persino non esistere e leggersi come mera fantasia di un gruppo di menti sovraeccitate e sessuofobe, un simile rapporto ambiguo tra spiegazioni “razionali” e fantastico investe sia la trama del Drakula halála sia la ricchezza di spunti di un romanzo – certo – poliziesco, che però non si esaurisce in quella formula. E richiama i lettori alla necessità di un approccio più duttile ai generi e a una maggiore problematicità del discorso oggi corrente sul fantastico.

Se il primo modello del Dracula stokeriano era molto più “poliziesco” del risultato finale, è attraverso gli echi di un linguaggio fantastico che lo spazio del vampiro – chiamiamolo così – può svelare una realtà terribilmente seria, che fermenta in modo tragico dal piano dell’interiorità e dei rapporti interpersonali a quelli della grande Storia. È sempre attraverso quel linguaggio che possiamo riconoscere un senso più pregnante e profondo al rapporto di Susanna coi morti, a certi casi fortuiti della trama (se i morti stessi chiamano la sciamana, non c’è più nulla di “casuale”), alla catabasi finale in tutto quel buio in cui Susanna può riordinare gli ultimi tasselli. È la sua solitudine a renderla tanto recettiva e permetterle anche in questa quest di scoprire qualcosa di sé – e qualcosa abbandonare, in modo consapevole. Piccola grande parabola della capacità del cinema di lavorare sulla luce e sul buio per far emergere ciò che altrimenti resta tra le pieghe, Tutto quel buio è – al di là di ogni lettura di superficie, che pure è lecita e persino divertente – un romanzo profondo, poetico e a tratti davvero emozionante, struggente. Con un epilogo cinefilo delizioso.

Quanto detto basterebbe da solo a far riconoscere ottimi motivi di fascinazione nel romanzo di Astori. A rafforzarli è però un altro elemento: il fatto cioè che in parallelo all’indagine di Susanna anche l’autrice finisca col condurne una propria sul film perduto, con risultati – a dispetto del suo understatement o forse anche grazie a quello – piuttosto clamorosi. In seguito alle sue indagini per Tutto quel nero veniva infatti ritrovato il film “impossibile” con Soledad Miranda (in macchina assieme al marito, sulla stessa strada presso Lisbona dove i due avranno anni dopo l’incidente a lei fatale), già considerato pura leggenda da gran parte della critica; in seguito alle ricerche per Tutto quel blu riemergeva il perduto L’autuomo. Per Tutto quel buio l’autrice si è avvalsa della consulenza di una delle massime autorità sul Drakula halála, Gary D. Rhodes dell’Università di Belfast, che le “ha recentemente rivelato di aver trovato altro materiale, proprio in quel di Budapest: la scoperta ci fa sperare che prima o poi venga alla luce anche questa pellicola, o almeno una parte significativa di essa”. Confidiamo in Susanna.

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