Partito Comunista Italiano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Pci tra storia orale e riflessioni anti-agiografiche https://www.carmillaonline.com/2023/02/26/il-pci-tra-storia-orale-e-riflessioni-anti-agiografiche/ Sun, 26 Feb 2023 22:55:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76262 di Marco Gabbas

 Introduzione

Questo articolo ha l’obiettivo di presentare alcuni spunti di storia orale sul Pci e di collegarli ad alcune riflessioni più ampie sulla storia e l’eredità di un partito che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia d’Italia. In realtà la storia dei due intervistati, che sono stati attivi nel Pci in una cittadina del Sud Italia, è più lunga, perché va a toccare parzialmente anche le esperienze politiche che si possono definire post-Pci, e che arrivarono sino agli anni 2000. Le due interviste fatte a questi ex militanti sono [...]]]> di Marco Gabbas

 Introduzione

Questo articolo ha l’obiettivo di presentare alcuni spunti di storia orale sul Pci e di collegarli ad alcune riflessioni più ampie sulla storia e l’eredità di un partito che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia d’Italia. In realtà la storia dei due intervistati, che sono stati attivi nel Pci in una cittadina del Sud Italia, è più lunga, perché va a toccare parzialmente anche le esperienze politiche che si possono definire post-Pci, e che arrivarono sino agli anni 2000. Le due interviste fatte a questi ex militanti sono di particolare interesse anche per la diversa classe sociale di appartenenza degli intervistati. Mentre Donato era un medico benestante, Giacomo, figlio di un artigiano, ha svolto sempre la professione di impiegato (entrambi i nomi sono di fantasia). Questo articolo, però, ha anche un obiettivo più ambizioso. Le due interviste, infatti, vogliono essere un punto di partenza per fare un ragionamento più ampio sulla parabola del Partito comunista italiano, il cui centenario è caduto solo un paio di anni fa.

L’approccio è di tipo critico. Purtroppo, sembra che il centenario sia stata più occasione di condanne moraleggianti o di agiografie acritiche che di seri ragionamenti critici (in linea, bisogna dirlo, coll’andazzo generale che persiste al di là di specifiche ricorrenze) [1].  Dato che questo articolo parte dalla storia orale, è bene dire due parole di introduzione in materia. La storia orale è nata negli Stati uniti come modo per registrare la storia dei senza storia, per esempio di persone subalterne e analfabete che non avevano modo di lasciare traccia di sé. Un esempio dei primi studi di storia orale sono stati quelli sugli ex schiavi neri, o sugli ultimi pionieri. La storia orale si è in seguito diffusa anche in Italia, dove vanta ormai una lunga tradizione e studiosi noti e tradotti anche all’estero. Più in generale, la storia orale è spesso usata per raccontare la vita di particolari gruppi politici, sociali o etnici. Un esempio classico è la storia orale fatta intervistando i militanti di partiti e sindacati, gli immigrati in un dato paese, ecc. ecc. Naturalmente, proponendosi come una narrazione dal basso, la storia orale vuole spesso proporre una realtà alternativa a quella dominante. Da cui la particolare attenzione rivolta alla fonte orale, alla sua narrazione e ai suoi punti di vista.

Questo approccio soggettivo, però, può anche avere il rovescio della medaglia. Talvolta, c’è la tendenza di fare storia orale solo sui gruppi o le comunità di cui si fa parte o verso le quali si prova simpatia. Qui c’è un rischio: la storia orale non può trasformarsi in mera agiografia, senza alcun approccio critico? La questione è complessa, e non può essere certo esaurita in queste pagine. In breve, penso che per essere più preziosa, la storia orale non può sottrarsi ad alcune regole base della Storia in generale. Alcune di queste regole fondamentali sono l’attenzione e l’approccio critico verso qualunque fonte scritta o orale che sia, e il confronto continuo con altre fonti. Anche se la Storia non può pretendere di raggiungere una Verità unica e incontrovertibile, ci si può avvicinare il più possibile solo con il confronto tra fonti diverse, e più sono meglio è. Come qualcuno ha giustamente notato, la storia orale fornisce spesso una “verità psicologica” molto utile per capire perché certe persone la pensano in un certo modo [2]. In altre parole, la storia orale non sempre e non necessariamente fornisce dei fatti completamente veritieri. Il compito di chi analizza la fonte orale è quello di confrontarla con altre fonti (anche scritte) per separare il grano dal loglio, il fatto oggettivo e incontrovertibile dalla sua interpretazione personale (per es., il fatto che il Pci si sia dissolto nel 1991 è un fatto oggettivo; diverse interpretazioni personali ci diranno se ciò sia stato un bene o un male, perché è successo, ecc.).

Fare questo è indice di serietà e di un approccio sanamente critico. Non significa assolutamente, contrariamente a quanto pensa qualcuno, non valorizzare o non rispettare la fonte orale (questo viene talvolta sostenuto ricorrendo a delle citazioni semplicistiche di Marc Bloch) [3]. Si è ritenuto opportuno fare queste precisazioni introduttive perché, in ultima analisi, ogni storia è una storia del presente. Questo vale, nel suo piccolo, anche per questo articolo, che infatti contiene nelle conclusioni delle considerazioni sull’eredità di un piccolo pezzo di storia del Pci; azzardando altresì l’ipotesi che anche un piccolo caso-studio come questo può essere un elemento utile per portare a delle conclusioni più generali.

«Sembrava una così brava persona!»

Tessera del PCI

Donato, oggi un ultraottantenne, si ricorda di essere entrato nel Pci dopo aver maturato dei «convincimenti sindacali, che poi son diventati anche espressione di scelte politiche». In un certo senso, Donato ci racconta di un rapporto tra sindacalismo e politica partitica che alcuni ritengono morto o mai esistito (la c.d. “cinghia di trasmissione”, secondo qualcuno). È interessante che l’intervista con Donato, però, ha ben presto iniziato ad assumere un tono comico, dato che i ricordi sono andati al suo «mondo del lavoro che era in quel momento completamente controllato, in mano ai democristiani. Quelli che con sfregio chiamavamo i democristiani. Anche se, li dovessi valutare oggi, li valuterei molto meglio che non i forzisti cosiddetti, eh! Cioè un Brunetta non c’era allora» [4]. Quindi, l’attività politica di Donato (caso poi, se ci si pensa, non tanto strano) è iniziata non per, ma contro. Donato ricorda alcuni di quelli che lui chiama i «vecchi democristiani» locali e la differenza con alcuni democristiani giovani che, pur essendo tenuti in spregio dai «vecchi», erano introdotti nella DC con un metodo molto particolare che si potrebbe definire di cooptazione, anche se Donato preferisce esprimersi in dialetto. Letteralmente, queste persone venivano “raccolte”: «Però come si raccoglie l’immondezza, capito?». In un certo senso, Donato ricorda tra lo scandalizzato e il comico la lottizzazione politica tipica dell’era democristiana tragicamente criticata nel film di Elio Petri Todo modo (1976). «Eri […] il buonissimo datore di lavoro che ti preoccupavi del benessere della popolazione, panem et circenses […] Loro diventavano o funzionari o direttori di qualche ente mutualistico, no?». In una canzone comico-satirica composta sui democristiani locali, Donato aveva così riassunto questi comportamenti: «Al popolo diamo le caramelle da succhiare, nel mentre questi fanno […] i loro comodi».

Tra le risate, Donato fa l’esempio di un personaggio locale («senza arte né parte», «una persona che difficilmente potevi collocare nella specie umana […] un sottoprodotto») che la DC locale avrebbe voluto cooptare in un ente. Per ottenere il posto, però, «doveva superare un tema di italiano. E allora i democristiani vecchi […] l’avevano aiutato dicendogli il titolo del tema […] “Parlami di un animale domestico”». Il quale tema il candidato avrebbe svolto parlando… «del leone»! «E questo faceva ridere – continua Donato – lo dicevano dappertutto. Era una cosa continua». Donato ricorda altresì che la DC locale spesso pubblicizzava un proprio candidato con un curriculum “creativo” («pieno di cagate»), come quello di un personaggio che «era diventato, l’avevano fatto venire qui come direttore di un ente in sostanza… di cui non conosceva» nemmeno «l’indirizzo […] Poi con potere decisionale su altri».

Donato ricorda che la sua decisione di candidarsi col Pci provocò delle reazioni nell’ospedale dove lavorava: «Quando è venuto fuori il fatto che io mi fossi candidato con i comunisti, eh, è successo mezzo finimondo. Mezzo finimondo… Per quello che poteva essere in ospedale. Le suore: “Ma guarda quel dottor […]! Sembrava una così brava persona”. E si svegliavano con me che ero comunista». Per aggiungere ancora comicità alla Storia, il succitato personaggio del tema di italiano, ignaro dell’impegno preso da Donato, gli aveva proposto di candidarsi con la DC in un comune della provincia. Donato ricorda che la proposta di candidarsi col Pci a consigliere comunale gli venne fatta in un giorno di festa da due persone, benché lui prima non si fosse mai occupato di politica: «Io gli avevo detto: ma scusate, perché venite a propormi? E perché sappiamo, conosciamo le tue idee». Si riferivano, appunto, all’attivismo sindacale di Donato: «Io fino ad allora di politica vera e propria non mi ero interessato. Mi interessavo di sindacato […] E facendo il sindacato dovevi prendere anche delle posizioni, e quando le prendevi, erano sempre posizioni contrarie ai democristiani. Se non per altro perché era quelli che gestivano l’ospedale». Donato fa risalire questa proposta all’inizio degli anni ’70, ma non ricorda l’anno preciso.

I successivi ricordi di Donato sono particolarmente interessanti, perché vanno a toccare una questione fondamentale, cioè il suo status economico agiato in contraddizione al fatto che andava a rappresentare un partito che diceva di voler fare gli interessi delle classi disagiate: «Una volta che son stato, che sono entrato nel giro, già mi aspettavo un’accoglienza abbastanza fredda perché allora comunisti erano, diciamo, i lavoratori, ma poveri […] Mentre invece sarà stato merito mio, non lo so, sarà stato merito dei comunisti che ho conosciuto. Sono stato accolto bene». Oltre a questa accoglienza positiva ma inaspettata, Donato ricorda con piacere delle visite che faceva con altri compagni di partito a un quartiere popolare della periferia della sua città. Donato precisa che non si trattava esattamente di giri propagandistici pre-elettorali: «Più che campagna elettorale erano… neanche di indottrinamento, ma, diffusione della buona novella, diciamo». Se da un lato il riferimento è alla pratica evangelizzatrice cristiana, è interessante come compaia, sembra, un elemento pedagogico che ricorda vagamente l’approccio leniniano (v. Che fare?) e che certamente sarebbe condannato come “elitista” dagli odierni populismi [5]. In quel quartiere, precisa Donato, «trovavi però terreno fertile, perché erano già, molti, lo erano già», essendo un quartiere abitato da «quelli che si chiamavano allora i lavoratori. La classe operaia in senso lato», tra i quali «molti erano artigiani. D’altra parte, anche la composizione del gruppo comunista era un pochino espressione di questo» (come parentesi comico-politica, Donato ricorda anche che l’accoglienza era talmente buona che una volta tornò a casa sulla Vespa miracolosamente guidata da un cugino, dato che avevano bevuto un’intera bottiglia di Vermuth Gancia: «Io non ero abituato a bere, ne sono uscito che non sapevo neanche dov’ero»).

Il segretario del PCI Enrico Berlinguer davanti all’Opera di Guttuso “Il funerale di Togliatti”

Parlando invece dell’attività politica istituzionale, Donato non ricorda particolari successi dato che il Pci si trovò sempre in minoranza (pur aumentando, nel tempo, il numero di consiglieri da 3 a 11). Ricorda inoltre, con un po’ di tristezza, che i numeri della politica facevano sì che spesso le maggioranze in Comune si reggessero su pochissimi voti, talvolta appartenenti a partiti minori. Pertanto, per poter andare avanti, era necessario mettersi preventivamente d’accordo con l’ago della bilancia di turno concedendogli qualche favore. Una volta fatto, il voto era garantito e si poteva andare avanti. Donato ricorda anche un atteggiamento del Pci eccessivamente attaccato a una visione superficiale del prestigio istituzionale. «Istituzionalmente la provincia valeva di più, avere una provincia comunista era più importante che avere un comune, anche se» quel comune «era capoluogo. E quindi per la provincia si sono mollati un sacco di cose».

Complessivamente, Donato ricorda che la sua militanza attiva nel partito è durata all’incirca dal 1975 al 1990, ma non ha un buon ricordo degli ultimi anni, dal 1985 al 1990: «Son stati cinque anni che peggiori non potevano essere. Perché c’era una decadenza, un decadimento complessivo, generale […] Del partito, degli esponenti […] E… per me, non vedevo l’ora di uscirne». Alla domanda se si trattasse di un decadimento solo locale o anche generale, Donato risponde: «Io credo a livello anche generale. Localmente sicuramente. Ma credo che fosse un riflesso della decadenza generale che si stava manifestando». È interessante che, subito dopo aver fatto menzione di questa decadenza, Donato sente il bisogno di parlare di Enrico Berlinguer: «Berlinguer per me è stato il mio idolo». Forse perché, essendo Berlinguer morto nel 1984, può darsi che Donato associ la sua morte alla decadenza finale del Pci. Donato non ha conosciuto Berlinguer personalmente, ma ricorda di essere stato ai suoi funerali.

La menzione di Berlinguer è stata l’occasione per Donato di spiegare la particolare ideologia della quale si sentiva e si sente convinto: «Io ero, sono nato e rimango berlingueriano». Per essere precisi, questo “berlinguerismo” significava «essere, se non antisocialista quanto meno inviso ai socialisti», e avere una buona opinione del cosiddetto “compromesso storico”: «Compromesso storico ero d’accordo allora, che non era il compromesso che c’è oggi» (l’intervista è stata registrata durante il governo Renzi-Berlusconi del 2014-2016, con tanto di “Patto del Nazareno”) [6].

Alla richiesta di arrischiare delle ragioni per questo decadimento del Pci, Donato nomina Berlusconi, benché il suo primo governo risalga al 1994, cioè alcuni anni dopo lo scioglimento del Pci. Ma, nota Donato: «Perché Berlusconi nasce prima. Nasce con Craxi, col craxismo. Il berlusconismo […] Ma può darsi, o forse meglio, che sia nato prima il berlusconismo che ha prodotto Berlusconi poi». Qui, è importante notare che l’impero televisivo berlusconiano, che certamente contribuì in misura preponderante alle vittorie politiche del suo proprietario, fu stabilizzato grazie a una legge, la legge Mammì del 1990, che fu approvata con forti responsabilità del Pci. In buona sostanza, il Pci si mise d’accordo per far passare la legge Mammì (ironicamente definita dai giornalisti di allora la «legge fotografia» o «legge polaroid», dato che si limitava a “fotografare” e legalizzare l’anomala situazione allora esistente) in cambio di una sua influenza politica sulla terza rete della Rai [7].

Sempre sulla decadenza del Pci, Donato nota che «questa che chiamiamo la cupio dissolvi è esistita sempre» all’interno del partito, pur non precisandone in significato. Il termine cupio dissolvi merita una precisazione. Si tratta di un termine religioso proveniente da San Paolo, e che esprime il desiderio di autodistruzione del corpo e di resurrezione dell’anima (bene tenere a mente questo particolare). Sui rapporti del Pci con l’Urss e paesi satelliti, Donato dice che sono stati improntati nel tempo a diverse sfumature: «C’è stato, c’è stato sicuramente, tutte queste cose […] ci sono state. La sudditanza. La critica. Ebbe’! Oh, la critica si è resa evidente, io dico anche molto prima, ma già con i fatti di Ungheria [del 1956] ci sono stati… c’è stata parte del partito che si è dissociato. Mentre parte ha avallato. Un fatto è certo: che in quei tempi il partito era monolitico. Doveva essere il verbo».

Una sezione del PCI

Questo monolitismo, secondo Donato, non è sinonimo di centralismo democratico, anzi: «Centralismo democratico sul quale io ero e sono d’accordo se è gestito, come dice il nome, democraticamente. Se tutti hanno la parola, la possibilità di parlare, di essere ascoltati e di ascoltare, per me è la forma migliore di democrazia quella». Interessante, poi, che secondo Donato il centralismo democratico sia perfettamente compatibile con l’idea di democrazia espressa da Stefano Rodotà nel suo libro Il diritto di avere diritti: «In questa frase secondo me c’è tutta la democrazia. Tutti abbiamo il diritto di avere diritti. Se tu riconosci questo, hai fatto già un passo molto lungo nella ginnastica, direbbe De Andrè, dell’obbedienza. La chiamava De Andrè» [8]. Donato parafrasa un verso della canzone «Nella mia ora libertà», contenuta nell’album Storia di un impiegato (1973). È difficile interpretare le parole di Donato. Nella canzone, la «ginnastica d’obbedienza» viene vista come una cosa negativa. Forse, Donato intende che bisogna allontanarsi da una concezione arrogante ed egoista del potere. Oppure, che un minimo di limitazione o “ginnastica” dell’obbedienza è indispensabile per poter garantire il convivere civile.

A una domanda sulle letture che Donato e suoi compagni facevano all’epoca, la risposta è stata: «Tex, Capitan Miki». Per la musica, invece, Donato ricorda di essersi appassionato a Fabrizio De Andrè, incontrando però le obiezioni di un prete locale, forse per motivi moralistici. Anche se questo stesso prete, nella memoria di Donato, veniva apostrofato pubblicamente nella via principale della città come «Don […] minchia d’oro» da una prostituta locale (un evidente complimento per sue le doti fisiche). La menzione di questo esimio religioso è stata l’occasione per una domanda sui rapporti fra il Pci e il clero. Secondo Donato, i comunisti «non sono mai stati anticlericali», dato che l’anticlericalismo «non fa parte della dottrina comunista». O meglio, l’attitudine del Pci non era del tipo «io ce l’ho con te perché sei prete […] Ce l’ho contro il fatto che tu sostieni una tua filosofia che la mia filosofia non ammette […] tant’è vero che, soprattutto in Italia, ma non solo in Italia, la maggior parte dei comunisti sono tutti “credenti” fra virgolette, non anti, anticlericali voglio dire».

Questa menzione del clero e della religione è importante, perché permette di fare una riflessione sull’atteggiamento in materia del Pci (soprattutto dell’ultimo Pci) e dell’ideologia comunista in genere. Una cosa è certa: basta avere delle conoscenze anche molto superficiali per sapere che nella dottrina comunista hanno sempre avuto una parte molto importante non solo la critica al clero, come vedremo, ma anche alla religione in quanto tale. Naturalmente, Marx è stato un autore estremamente prolifico, ma per sapere le sue opinioni in materia di religione non è necessario andare a cercare testi sconosciuti o inediti. Ricorriamo a una edizione del Manifesto comunista tradotta e introdotta da Palmiro Togliatti. A p. 73 leggiamo: «Le leggi, la morale, la religione, sono per lui [per il proletario] altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi» [9].

Marx ed Engels non potrebbero essere più chiari: la religione altro non è che un pregiudizio borghese. Non solo. Poche pagine dopo, i due si fanno beffe delle obiezioni della borghesia contro il comunismo: «nel corso dell’evoluzione storica […] la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto […] si mantennero sempre […] Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale» [10]. Marx ed Engels notano sprezzanti che il comunismo significa infatti «la rottura più radicale con le idee tradizionali», con buona pace della religione [11].  Ma già nel 1844 Marx aveva precisato, nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli» [12]. Alcuni interpreti dicono che Marx in realtà non avesse un’attitudine negativa verso la religione, considerandola un riflesso di determinati rapporti sociali. In questa visione, con il cambiamento dei rapporti sociali (rivoluzione) la religione non sarebbe stata più necessaria e sarebbe scomparsa. Al di là di quale sia l’interpretazione giusta, non c’è dubbio che negli scritti marxiani la critica verso la religione è chiaramente presente, ed è forte. Negarlo significa negare l’evidenza. Inoltre, non risulta che con il suo esempio personale Marx abbia mostrato che bisognasse adattarsi alla religione, per esempio nell’educazione dei figli (diversamente da quanto fecero molti membri del Pci e Berlinguer in prima persona) [13].

Questo per quanto riguarda il marxismo, ideologia alla quale, almeno inizialmente, il Pci riteneva di ispirarsi. Ma che dire dell’Urss, il paese che per lungo tempo fu il principale punto di riferimento del Pci? Qui il discorso si farebbe complicato, perché andrebbe a investire una contraddizione fondamentale del Pci che certamente ha contribuito alla sua fine, cioè il fatto che un partito interno alla democrazia parlamentare si ispirasse a una dittatura monopartitica instaurata con una rivoluzione armata, giusta o sbagliata che fosse. Fin dal 1917 i bolscevichi al potere mostrarono sempre antipatia e ostilità verso la religione, con campagne antireligiose continue e talvolta violente che hanno avuto una battuta d’arresto solo con l’avvento di Gorbachëv nel 1985. La loro opera fu sempre ispirata a un laicismo e ad un ateismo radicali, tant’è che l’ateismo scientifico veniva insegnato in tutte le scuole e università. La letteratura in materia, del resto, è sterminata [14]. Il dato storico interessante, però, è che dalla svolta di Salerno in poi, il Pci ha progressivamente attenuato la critica marxista alla religione, sino a eliminarla quasi del tutto con Berlinguer.

Sempre dentro, sempre critici

Giacomo è un po’ più giovane di Donato, dato che nel 1973-74, quando si avvicinò al Pci, aveva 25-26 anni. Anche Giacomo fu avvicinato al Pci da persone che frequentavano il partito, quando lui già lavorava come impiegato per un ente pubblico: «Il mio interesse per la politica è nato più o meno insieme all’attività lavorativa. Perché fino ad allora mi definivo un po’ anarcoide, con libro di Bakunin nella valigia». Giacomo ricorda di essersi avvicinato a Bakunin (ma senza seguito) durante alcuni anni di università frequentati al Politecnico di Torino, tra il 1967 e il 1968 (anche, se, dice, «per la verità al Politecnico non ci si è quasi accorti […] di quello che stava succedendo nel resto del mondo»). Poi, dice: «Guardavo verso sinistra. Quindi mi è sembrato quasi naturale aderire [al Pci]. Inizialmente andare a curiosare». Inizialmente senza tessera del partito ma iscritto alla CGIL, Giacomo fu progressivamente coinvolto da colleghi più politicizzati, assieme ai quali rivitalizzò «la sezione Lenin» che «era abbastanza attiva». Interessante punto di contatto tra l’intervista di Giacomo e quella di Donato è che anche Giacomo ricorda le visite al quartiere popolare periferico, anche se con l’obiettivo di distribuire l’Unità: «Ricordo che fra le altre cose non c’era domenica senza che noi andassimo a vendere l’Unità, a distribuire l’Unità nel quartiere […] Quindi sai […] Ci facevamo tutte le stradette, le case – non solo di quelli che sapevamo l’avrebbero presa, ma anche… ovviamente si tentava di darla anche a uno che magari qualche volta la prendeva qualche volta no».

Giacomo ricorda quei quartieri come «molto estesi, c’era tanta gente. Infatti, noi impegnavamo… eravamo diversi gruppetti nella sezione. Andavamo generalmente in due. E impegnavamo tutta la mattinata». Gli abitanti di questi quartieri provenivano prevalentemente dai paesi dei dintorni, ed erano soprattutto «impiegati, operai. Certo non cosiddetta classe medio-alta. Erano tutte persone che si erano un po’ arrangiate a farsi la casa da soli, quindi insomma muratori… ma anche tanti impiegati». Giacomo aggiunge: «E devo dire che quegli anni li ricordo anche con piacere, perché quasi dappertutto ci invitavano ad entrare, si scambiavano quattro parole. C’erano persone anche anziane, vecchi. C’erano molti comunisti lì, eh! […] ai quali faceva piacere. Anzi, era motivo d’onore prendere il giornale. Qualcuno ci offriva il caffè». Alla mia domanda di giovane ingenuo – perché andavate a distribuire il giornale? Non c’era un’edicola? – Giacomo risponde: «Ma era un modo per far politica, per star vicino alla gente. Non era solo il fatto […] di portare il giornale. Era un modo per anche sentire i problemi, eventualmente riportarli, discuterne. Cioè era un modo vivo, diverso da quello… Oggi ci si guarda attraverso la televisione. Cioè uno guarda e l’altro si fa guardare. E lì c’era proprio il contatto fisico, lo scambio di idee […] di prima mano. I malumori, ma anche gli apprezzamenti per quello che succedeva». Giacomo ricorda anche: «Abbiamo avuto anche il piacere, per diverso tempo, di dare, portare il giornale» a un ingegnere azionista che era stato veterano della Guerra di Spagna. All’epoca «era già molto anziano […] E ricordo che un paio di volte ci siamo anche seduti, con lui, a bere il caffè a casa sua. Così a chiacchierare». A differenza di Donato, Giacomo ricorda di essersi tenuto lontano dalle avventure alcoliche, accettando al massimo un caffè ma rifiutando il bicchiere di vino che qualcuno gli offriva.

Il dopo Berlinguer e la sua icona

Giacomo distribuiva in quel quartiere periferico anche perché era il quartiere cui faceva capo la sua sezione, una delle cinque o sei presenti nella sua cittadina, e che ricorda come «abbastanza vivace». Oltre alle discussioni talvolta accese, Giacomo ricorda anche con un pizzico di ironia una caratteristica peculiare delle riunioni di sezione settimanali: «La cosa singolare era che a quei tempi, anche se si doveva parlare magari di un argomento della città, del quartiere, come regola il segretario di sezione […] partiva sempre con una sorta di relazione […] Introduttiva. Partiva […] dalle questioni internazionali [ride], quindi Russia, Stati Uniti e […] poi si avvicinavano i tempi dello strappo con la Russia […] e si partiva di là, poi si passava all’Europa, poi si passava all’Italia, poi alla» nostra regione, «e alla fine quando tutti eravamo esausti [M.G. ride] si arrivava magari al problemino di quartiere. Che era poi quello che magari» interessava maggiormente «chi abitava nel quartiere, che magari era meno interessato ai problemi internazionali e più al fatto che il quartiere non aveva ancora tutte le strade asfaltate, non aveva per niente servizi, e che… e così via. Però questa era la consuetudine, sia delle riunioni di sezioni, sia delle riunioni poi che si facevano periodicamente».

Col senno di poi, secondo Giacomo un’impostazione del genere era troppo dispersiva, «troppo pesante». È vero che lunghe e ricorrenti riunioni di questo tipo possono ben stancare delle persone già stanche dal lavoro, e certamente l’odierna politica digitale si serve di ben altri mezzi per tenere i contatti col popolo. La politica faccia a faccia di cui parla Giacomo, però, presenta anche innumerevoli vantaggi che il mondo del web non offre [15]. Inoltre, riunioni di questo tipo potevano essere positive ed istruttive, parlando di questioni di politica internazionale anche ai militanti di una piccola cittadina del Sud Italia, che così potevano sentirsi parte di un movimento internazionale. Del resto, Giacomo sente il bisogno di aggiungere: «Magari in una certa fase storica può anche essere che questo sia stato anche opportuno, necessario, perché contribuiva comunque a tenere accesa l’attenzione su problematiche che, anche se da lontano, ci riguardavano tutti».

«Poi piano piano», però, «le sezioni hanno iniziato a soffrire la mancanza di militanza. E quindi si sono un po’ ridotte di numero, di attività, e poi in fase successiva» le sezioni sono «quasi praticamente sparite». Per quanto riguarda la democrazia interna al partito, Giacomo ricorda che vi fossero sì degli attriti tra opinioni diverse, ma che la libertà di espressione fosse sostanzialmente garantita: «Ciascuno di noi diceva liberamente quello che pensava», anche se magari c’era chi diceva «ciò che conveniva per fare poi carriera». Nello specifico, Giacomo dice di aver fatto parte di un gruppo interno al Pci locale che aveva degli screzi con i dirigenti più ortodossi, i quali li accusavano di «fughe in avanti, che i tempi non erano maturi», appellandosi al «famoso, maledetto, “rinnovamento nella continuità”». Ma quale era l’oggetto del contendere? Secondo Giacomo, la «democrazia interna al partito», alcune «scelte urbanistiche», ma anche la lottizzazione politica della quale parla anche Donato. Allora, infatti, «era molto più apertamente politicizzata la sanità. Il presidente [delle Asl] veniva scelto. Oggi è la stessa cosa però si fa in maniera subdola. Prima era pacifico che c’era un accordo fra democristiani e comunisti per dire: questo ecco, questo fa il presidente della Asl. […] C’era un’alternanza. C’è chi prendeva quello, la camera di commercio. Quindi sai, queste battaglie le abbiamo fatte tutte. Col privilegio, l’orgoglio di essere sempre in minoranza». Giacomo precisa anche che questa «spartizione» degli enti pubblici è sempre esistita, a prescindere dal fatto che il Pci fosse maggioranza o meno.

Sempre su questo gruppo di “dissidenti”, Giacomo aggiunge che «soprattutto noi eravamo tutte persone che avevamo il nostro lavoro, non eravamo funzionari di partito. Quindi eravamo indipendenti da tutti i punti di vista […] Ragionavamo con la nostra testa», cosa che non tutti vedevano di buon occhio, tanto da arrivare a qualche tiro mancino. Giacomo è stato più volte candidato alle elezioni locali, ma «non son stato eletto perché i miei compagni di partito, dopo che passavo io a fare il giro della mia zona, della zona che mi era stata assegnata […] passavano a dare diverse indicazioni. Quindi […] “vota quest’altro” […] succedevano anche di queste cose». Nonostante questo, però «siamo andati avanti lo stesso, abbiamo fatto le nostre battaglie interne». Del resto, Giacomo precisa per la politica di «carriera» non l’ha mai interessato.

Questo gruppo di dissidenti si trovò poi a formare una rivista bimestrale alternativa che voleva essere «la coscienza critica del Pci […] ci apprezzavano quasi tutti, fuorché quelli della classe dirigente del Pci» che infatti tentò di sabotarla «in tutti i modi». «Soprattutto nei primi anni, quando eravamo molto motivati, molto impegnati […] abbiamo saltato anche le mille copie, siamo arrivati che vendevamo sulle 1200 copie ad uscita, che insomma, per questa zona non sono poche». Complessivamente, la rivista è durata dal 1987 al 2005.

Complessivamente, Giacomo dice di potersi essere orientato politicamente autonomamente: «Io non ho mai respirato aria di politica qui a casa mia […] Non se ne parlava, quindi io ho avuto la possibilità di orientarmi per i fatti miei». A una domanda su quali fossero i simboli politici che lo attiravano, Giacomo cita Berlinguer, come Donato: «Simboli in carne e ossa sicuramente c’era Berlinguer, che già da allora era un simbolo. Perché sia da quando era in vita sia dopo ha sempre rappresentato il modo corretto di intendere il comunismo, di intendere la sinistra […] quei continui richiami, inascoltati per lo più, alla correttezza […] La questione morale insomma. E lui li faceva […] Per tantissimi, direi per la maggior parte, era un simbolo. Poi vabe’, non so gli altri simboli. Il… quello che ha dato il nome alla mia sezione [Lenin] non l’ho mai visto come un simbolo in effetti […] Uno sicuramente dei padri fondatori, però era già… cioè non era, non aveva quel richiamo». Berlinguer, invece, «sicuramente era la personalità di maggior spicco, e che ti, proprio ti dava un… solo a sentirlo parlare delle vibrazioni particolari, ecco». A una domanda se anche Gramsci rappresentasse un simbolo, Giacomo risponde: «Gramsci sì. Vabe’ di Gramsci poi, non è che abbia letto tutto, ma avevo già letto allora diverse cose. Quindi anche Gramsci, ma non come Berlinguer». Anche Giacomo, come Donato, ha partecipato ai funerali di Berlinguer: «È stata una emozione grandissima proprio».

Conclusioni

Le due interviste con Donato e con Giacomo, messe a confronto, ci possono permettere di fare alcune conclusioni che esulano dal carattere strettamente locale, con l’aiuto di una letteratura selezionata. Banalmente, entrambe le interviste presentano delle scene di politica novecentesca che nell’odierno mondo “post-ideologico” possono sembrare lontane anni luce come la politica faccia a faccia, le visite, la distribuzione dei giornali, le sezioni. Altra cosa che oggi può sembrare lontana anni luce è che sia Giacomo sia Donato fanno esplicito riferimento a un partito che aveva un riferimento di classe (per quanto ampiamente inteso), cosa ben diversa dall’odierna politica. I quartieri che sia Giacomo sia Donato visitavano erano quelli periferici e popolari, abitati dai lavoratori. Un altro punto in comune delle due interviste è che in entrambe si fa riferimento a un impegno politico nato da stimoli etico-morali più che prettamente ideologici (l’antipatia verso le spartizioni o lottizzazioni partitiche).

La svolta della Bolognina

Alcune questioni più generali si intrecciano ai temi toccati nelle interviste. Che cos’era il Pci? Il Pci ha fatto bene a sciogliersi come ha fatto? Era una scelta inevitabile? Esiste oggi una sinistra in Italia? Se esiste, perché è cambiata tanto da diventare irriconoscibile? Il marxismo è morto? Sulla questione dell’inevitabilità della storia, sarebbe bene fare tesoro della lezione di Richard Pipes, che notava come certe cose possano facilmente apparire inevitabili a posteriori, ma ciò non significa che il paradigma dell’inevitabilità della storia sia sempre utile e giusto [16]. In generale, sappiamo da Lucio Magri che la decisione di sciogliere il Pci fu presa d’imperio per bypassare l’opposizione di buona parte della base [17]. Tuttavia, è indubbio che lo scioglimento fu la conseguenza di una profonda crisi, della quale qui non è possibile indagare completamente la genesi e le cause.

Come si accennava, si possono solo offrire alcuni spunti critici. Parlando dell’ammirazione per Enrico Berlinguer, molti ex militanti del Pci assumono toni nostalgici, quasi commossi. Se per qualcuno era addirittura un «idolo», per altri era comunque un «simbolo», anche ben più importante di Gramsci. La cosa che colpisce è la scarsità o assenza di resoconti critici su questa importante figura, che lasciano spesso il posto a una agiografia più o meno marcata. E il problema non è affatto facilitato dal fatto che molti dei commentatori appartengono all’area (post)Pci [18]. C’è di più: una agiografia di parte su una figura così importante potrebbe anche non stupire, ma stupisce e preoccupa il fatto che la simpatia e l’ammirazione sembrino universali, unendo anche personaggi lontani da quella tradizione politico-culturale, come Gianroberto Casaleggio e Marco Travaglio [19].

Un possibile approccio critico potrebbe partire da un esame più obiettivo di alcuni miti fondanti del “berlinguerismo” (termine giustificato sia dalla forte identificazione degli ex Pci con la figura di Berlinguer, sia dall’oggettiva differenza tra quest’ultimo e la precedente tradizione marxista), come per esempio il Compromesso Storico. Un tentativo è stato fatto da Lucio Magri e Paolo Persichetti, che nei loro libri notano che il Compromesso Storico fu in realtà una strategia molto mitizzata ma in un’ultima analisi irrealistica e fallimentare, per una serie di motivi [20]. La c.d. “questione morale” berlingueriana sarebbe un altro mito da rivedere criticamente. Quasi nessuno, infatti, fa notare che questa “questione morale” si riduce a un richiamo all’onestà, privandosi di qualunque elemento ideologico alternativo come l’emancipazione delle classi subalterne [21]. Usando la metafora del mercato politico, un consumatore/elettore sceglie una merce in base a delle caratteristiche che la differenziano dalle altre merci. Se le differenze non ci sono o non sono sostanziali, perché dovrebbe sceglierla? Senza contare che (naturalmente questo Berlinguer non poteva saperlo, essendo morto prima) dopo Tangentopoli questione morale e giustizialismo si sono mescolate creando un mix esplosivo, in gran parte responsabile dell’ascesa degli odierni populismi.

Del rapporto con la religione e di una lettura parziale del berlusconismo come causa primaria della crisi del Pci si è già detto. Il fatto che le letture di alcuni quadri del Pci fossero Tex e Capitan Miki merita un’ulteriore riflessione. Con tutto il rispetto per l’arte del fumetto, sembra che il Pci non curasse molto la formazione dei suoi quadri locali. Da dei membri di un certo livello di un partito che diceva di voler fare gli interessi della classe lavoratrice ci si aspetterebbe qualche incursione anche in autori come Marx e Gramsci, del resto ampiamente disponibili e ricchi di sistematicamente ignorati insegnamenti (il travisamento del quale Gramsci è stato vittima dalla sua morte a oggi meriterebbe un discorso a parte) [22]. Questo carattere negativamente “nazionalpopolare” (populista?) del Pci viene talvolta presentato dai suoi agiografi come prova di una grande vicinanza alla classe lavoratrice. Eppure non si direbbe, dato che l’evoluzione della sinistra italiana negli ultimi decenni è andata in un senso sempre più anti-popolare, elitista, post-ideologico e iperliberista.

Di fronte alla gravissima crisi che il marxismo ha vissuto verso la fine del XX secolo, vi sono stati vari approcci. Quello scelto dalla maggior parte delle élite di sinistra e da molti militanti è stato quello di appiattirsi sulle posizioni dell’ideologia avversaria, annacquare sempre di più la propria storia, le proprie origini e la propria specificità, presentando il tutto – è il colmo! – come una dolorosa necessità o addirittura come un impavido atto di coraggio [23]. Questo ha portato a una involuzione nella quale l’elettorato storico della sinistra, lasciato solo e disorientato, è stato facilmente captato dai partiti di vecchie e nuove destre, talvolta con sfumature rossobrune o neofasciste [24]. Del resto, la cosa sembra non essere compresa dalle élite di sinistra, ma è compresa benissimo dalle suddette destre [25].

Bisogna però dire che in questo desolante appiattimento capitolardo c’è stata una eccezione interessante, lo storico Domenico Losurdo (1941-2018). Nonostante alcune sue cadute stalinoidi e la sua visione eccessivamente realpolitik e campista della storia del movimento comunista e delle relazioni internazionali passate e presenti, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Losurdo ha avuto un atteggiamento diverso da quello di tanti suoi (ex) compagni. Eppure, proveniva dall’area culturale Pci! Anzi, si può dire che ne fu un intellettuale organico! Già negli anni ’90, infatti, mise in chiaro che c’era una bella differenza tra autocritica e autofobia, e la sinistra già da allora era purtroppo in preda alla seconda, con un atteggiamento religioso paragonabile a quello del primo messaggio cristiano: il mio regno non è di questo mondo! [26] Notò, inoltre, come l’Italia e non solo fosse ormai in preda a un vero e proprio monopartitismo competitivo, animato da leader di vari partiti che rappresentavano sostanzialmente gli stessi interessi socioeconomici [27]. Già nel XXI secolo e poco prima della morte, scrisse anche un libro eloquentemente intitolato La sinistra assente, dove documentava e si interrogava su questa grave assenza (o metamorfosi?) [28]. Fino alla fine, non smise mai di ribadire la necessità della rinascita del marxismo in Occidente [29]. Questo atteggiamento più critico, serio, e non agiografico, forse, potrebbe aiutarci a capire meglio la crisi in cui ci troviamo, e ad ideare le vie per uscirne fuori.

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Note

[1] Come esempio di agiografia in occasione del centenario: Fabrizio Rondolino, Il nostro Pci, 1921-1991. Un racconto per immagini (Milano: Rizzoli, 2021). Purtroppo, anche una rivista che si occupa di storia orale e che ha l’ambizioso intento di occuparsi del «mondo popolare e proletario» come Il De Martino, ha pubblicato in occasione del centenario un contributo meramente agiografico e senza nessuna riflessione critica: Maria Luisa Righi et al., «Storie e memorie del Pci: voci, suoni e miti del comunismo Italiano», Il De Martino 23 (2021).

[2] Alessandro Portelli, «What Makes Oral History Different» in The Oral History Reader, a cura di R. Perks e A. Thomson (London: Routledge, 1998): p. 68.

[3] Nel suo libro L’ uccisione di Luigi Trastulli: Terni, 17 marzo 1949. La memoria e l’evento (Foligno: Il Formichiere, 2021), Alessandro Portelli fa una lunga e interessante riflessione sul perché un nutrito gruppo di operai si erano collettivamente sbagliati sulla data e sulle circostanze della morte di un loro compagno. Come spiega bene Portelli, ciò non era causato dal fatto che gli operai volevano “mentire” allo storico, ma dal fatto che la loro memoria si era sedimentata collettivamente in un certo modo per ragioni precise.

[4] Per opere generali sulla storia della DC, vedasi: Agostino Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994 (Bari: Laterza, 1996); Nico Perrone, Il segno della DC (Bari: Dedalo, 2002); Luciano Radi, La Dc da De Gasperi a Fanfani (Soveria Manelli, Rubbettino, 2005); Giorgio Galli, Storia della Dc (Kaos edizioni, 2007).

[5] Vladimir Ilʹič Lenin, Che fare? (Roma: Editori Riuniti, 1970).

[6] Massimo Parisi, Il patto del Nazareno (Soveria Mannelli: Rubettino, 2016).

[7] Giuseppe Fiori, Il venditore. Storia di Silvio Berlusconi e della Fininvest (Milano: Garzanti, 1995).

[8] Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti (Roma-Bari, Laterza, 2012).

[9] Karl Marx e Friederich Engels, Manifesto del partito comunista (Roma: Editori riuniti, 1980).

[10] Ibid., pp. 86-87.

[11] Ibid., p. 87.

[12] Karl Marx, Scritti politici giovanili (Einaudi, Torino, 1975), p. 395.

[13] Nello Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 (Roma-Bari: Laterza, 1997).

[14] Qui si dà solo qualche sintetico accenno: Dimitry V. Pospielovsky, A History of Marxist-Leninist Atheism and of Soviet Anti-religious Policies (New York: Palgrave, 1987); Felix Corley, Religion in the Soviet Union (London: Macmillan, 1996); Paul Froese, «Forced Secularization in Soviet Russia: Why an Atheistic Monopoly Failed», Journal for the Scientific Study of Religion, Vol. 43, No. 1 (Mar., 2004), pp. 35-50; M. Sherwood, The Soviet War on Religion (London: Modern Books); Sabrina Petra Ramet (a cura di), Religious Policy in the Soviet Union (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); Victoria Smolkin, A Sacred Space is Never Empty. A History of Soviet Atheism (Princeton: Princeton University Press, 2018).

[15] Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero (Roma: Laterza, 2011); Neil Postman, Amusing Ouselves to Death. Public Discourse in the Age of Show Business (London: Penguin, 2005).

[16] Richard Pipes, A Concise History of the Russian Revolution (New York: Vintage Books, 1996), pp. 383-384. In realtà, Pipes contraddice la sua saggia riflessione poche pagine dopo, quando dice che la fine dell’Urss era inevitabile (p. 405).

[17] Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci (Milano: Il Saggiatore, 2012).

[18] Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer (Roma: Laterza, 2004). V. anche il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer (2014). In Enrico Berlinguer e la fine del comunismo (Torino: Einaudi, 2006), Silvio Pons fa un tentativo (per quanto insoddisfacente) di uscire dal paradigma agiografico.

[19] V. Gianroberto Casaleggio intervistato da Marco Travaglio, https://www.youtube.com/watch?v=OWsaWMcPkMo,https://www.youtube.com/watch?v=8ZmulG8z5iI. È anche significativo che Travaglio concluda il suo spettacolo del 2009 Promemoria con le famose parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale.

[20] Magri, op. cit. V. anche Paolo Persichetti, La polizia della storia (Roma: DeriveApprodi, 2022).

[21] Salvo Lo Galbo, «Le stelle che si frantumano e la caduta delle meteore», Unità di classe n. 9, marzo 2021, pp. 4-5.

[22] V. Marco Gabbas, «Guerrilla War and Hegemony: Gramsci and Che», Tensões Mundiais/World Tensions v. 13, n. 25 (July-December 2017): pp. 53-76, https://revistas.uece.br/index.php/tensoesmundiais/article/view/346). Sull’”operazione Gramsci” v. anche: Nello Ajello, Intellettuali e PCI: 1944-1958 (Roma: Laterza, 1997). Anche Aurelio Lepre fa saggiamente notare nel suo libro Che c’entra Marx con Pol Pot? (Roma: Laterza, 2001 – versione ebook) che Gramsci perorava la “guerra di posizione” in Occidente, ma «[Q]uesto non significa che fosse diventato un socialdemocratico o un riformista: come affermò esplicitamente nella sua analisi dei rapporti di forza, anche per lui il momento dello scontro militare era decisivo. […] In realtà, Gramsci aveva della democrazia una concezione ben diversa da quella liberaldemocratica e, pur criticando Stalin (ma non Lenin), rimase sempre un comunista. […] Gramsci voleva una “democrazia organica”, che doveva realizzarsi non sul piano individuale, ma all’interno della “personalità collettiva” delle classi». Interessante che in tempi recenti anche Diego Fusaro abusi del concetto gramsciano del nazionalpopolare per i suoi fini populistici.

[23] Naturalmente, le tante folgorazioni sulla via di Damasco sono state alimento anche per una letteratura comico-satirica. V. Ilya Kuriakin, Il compagno Veltroni. Dossier sul più abile agente della Cia (Roma: Stampa alternativa, 2000). V. anche: Denis Jeambar e Yves Roucaute, Éloge de la trahison. De l’art de gouverner par reniement (Paris: Seuil, 1988).

[24] Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2017); Thomas Picketty, Capital and Ideology (Cambridge: Harvard University Press, 2020).

[25] Adriano Chiarelli, Capitan Selfie. Eccessi, contraddizioni e manie nelle dichiarazioni di Matteo Salvini (Roma: Nutrimenti, 2020).

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi (Napoli: La scuola di Pitagora, 2005).

[27] Domenico Losurdo, La seconda repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo (Torino: Bollati Boringhieri, 1994).

[28] Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra (Roma: Carocci, 2014).

[29] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Roma: Laterza, 2017).

 

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La storia perfida di Bellocchio https://www.carmillaonline.com/2022/12/03/la-storia-perfida-di-bellocchio/ Fri, 02 Dec 2022 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74928 Alessandro Barile

L’uscita, tra il 14 e il 17 novembre scorso, del film a puntate Esterno notte sulla Rai, ha fomentato nuovi dibattiti e conseguenti polemiche sull’interminabile rievocazione del rapimento Moro. Stavolta, però, i clamori sembrano giungere soprattutto da sinistra. Se la rilettura storica di Bellocchio, nella sua commistione onirica di realtà e immaginazione, ha messo d’accordo gli epigoni della «fermezza», chi da questa fermezza venne a suo tempo travolto si è trovato ancor più confuso di prima. Tra i protagonisti reali e gli eredi ideali degli anni Settanta molte cose [...]]]> Alessandro Barile

L’uscita, tra il 14 e il 17 novembre scorso, del film a puntate Esterno notte sulla Rai, ha fomentato nuovi dibattiti e conseguenti polemiche sull’interminabile rievocazione del rapimento Moro. Stavolta, però, i clamori sembrano giungere soprattutto da sinistra. Se la rilettura storica di Bellocchio, nella sua commistione onirica di realtà e immaginazione, ha messo d’accordo gli epigoni della «fermezza», chi da questa fermezza venne a suo tempo travolto si è trovato ancor più confuso di prima. Tra i protagonisti reali e gli eredi ideali degli anni Settanta molte cose sembrano fuoriuscire da una certa zona di comfort storico-politica. Ma prima di tutto bisogna riconoscere a Bellocchio, qualsivoglia lettura si abbia della vicenda storica e di come il film la racconta, di essersi opportunamente tenuto lontano dalle scorciatoie complottiste: «dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse» è la sentenza emessa dal funzionario americano in un colloquio con Cossiga. Tanto basta per accostarsi al film con maggiore serenità d’animo. Il banchetto dietrologico di Cia e Kgb, palestinesi e piduisti avrà modo di riconvocarsi in altra sede. E con questo non vogliamo negare le interferenze interessate e i “poteri paralleli” che si attivarono durante il sequestro (nazionali e internazionali). Movimenti e interessi che si scatenarono però dopo e che, in ogni caso, non determinarono gli eventi ma tentarono, per quanto possibile, di non subirli passivamente. Il lungo Sessantotto italiano, il portato della sua violenza politica, è generato e rimane comprensibile storicamente e politicamente solo nella logica di scontro tra la mobilitazione politica e lo Stato, all’interno della quale i diversi attori chiamati ad interpretarne una parte agirono più o meno liberamente.

Il rapporto tra movimento e lotta armata è una delle maggiori controversie. Bellocchio, piegando in maniera disinvolta alcuni eventi simbolici (l’esproprio dell’armeria del 12 marzo 1977 in diretta connessione con il marzo 1978), edifica un collegamento chiaro: il lottarmatismo è il frutto, non storicamente inevitabile, ma politicamente logico, del livello di mobilitazione raggiunto dai movimenti della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta. Con ciò il regista non propone, semplicisticamente (e anche stupidamente), una giudiziaria chiamata in correo, men che meno un legame esplicito e cosciente tra “partito legale” (ma quale?) e organizzazione armata. Bellocchio non è Calogero. Quel che invece emerge è un rapporto di filiazione: da quel livello, già di per sé “esasperato”, di mobilitazione, di violenza politica diffusa, di “consequenzialità” di certe scelte, di militarizzazione delle strategie, poteva sorgere – e infatti è sorto – un piano di lotta ancor più esasperato: lo scontro armato tra una parte della sinistra e lo Stato. Esprimere tale concetto ci sembra dunque affrontare la realtà per quel che è stata, senza celarne i lati spiacevoli o in contrasto con analgesiche mitopoiesi. Le Br romane non vengono dal nulla. Sono, al contrario, il risultato di un processo storico-politico preciso, e composte da militanti riconosciuti e attivi nei gruppi della nuova sinistra. Dire ciò, raccontarlo in un libro di storia o in un film che gioca molto con la fantasia delle sliding doors, significa fare della cattiva storia? Significa, semmai, rigettare le versioni di comodo. E d’altronde, a parlare di «geometrica potenza» del 1978, da coniugare con la «terribile bellezza» del 12 marzo 1977, non era certo un ingenuo tifoso della lotta armata, ma un noto dirigente dei movimenti degli anni Settanta.

Il film (composto di sei “episodi”, o temi narrativi) affronta l’affaire Moro attraverso una specifica chiave autoriale: l’introspezione psicologica dei personaggi. Un motivo di lungo corso in Bellocchio, derivante dalla sua lunga frequentazione con Massimo Fagioli. La psicologia del potere democristiano è presentata nei suoi vari tipi antropologici e morali: Moro vittima degli eventi (e del potere), Cossiga corroso tra amicizia e ragion di Stato, Andreotti severo (e taciturno) guardiano degli equilibri di potere. La psicologia dei brigatisti è raccontata attraverso il rapporto-scontro tra Valerio Morucci e Adriana Faranda, ambedue dubbiosi ma sottomessi al duro “realismo della rivoluzione” impersonato da Mario Moretti. E vi sono poi ruoli di contorno: il Papa, Berlinguer e il Pci, la famiglia di Moro. Qui la narrazione di Bellocchio procede controversa. Funziona bene nel raccontare la Dc e i suoi principali esponenti, perché i dilemmi, i tic e le perversioni dei protagonisti appaiono come il frutto velenoso dell’esercizio del potere. Dirigenti ben integrati “nel sistema” (culturale, professionale, universitario, economico) reagiscono al Beruf weberiano attraverso forme di inevitabile dilaniamento interiore. Inevitabile, forse, perché troppo recente, ancora – come dire – “piccolo borghese”, dipendente da voleri altrui (il Vaticano, la grande industria, gli Usa e la Nato). E se la santificazione di Moro è il pegno che sembra inevitabile pagare alla possibilità di raccontare la vicenda (vedasi Todo modo per capire com’era trattato Moro prima della sua morte), la ricostruzione dei meccanismi psicologici di potere risulta nonostante tutto efficace, beffarda, realistica.

Funziona meno bene, invece, quando ad essere psicologizzati sono i militanti delle Br. Qui non c’è professione, ma vocazione, e i suoi interpreti, lungi dall’essere integrati ingrati al “sistema”, ne rappresentano una possibile disintegrazione. Non esiste la violenza politica perché vi sono dei “terroristi malati” e preda di “astratti furori” nichilistici (una sorta di nečaevšina di matrice dostoevskiana); semmai, sono le scelte tragiche che ogni lotta palingenetica impone ad incidere anche sulla mente dei militanti, alterandola. La psicologizzazione del rivoluzionario è d’altronde un territorio assai frequentato, e da Dostoevskij a Conrad a Nabokov è sempre servita a sottrarre legittimità razionale alle scelte politiche radicali. Anche Bellocchio cede alla versione di comodo che fa della rivoluzione il risultato d’uno straniamento interiore, che tresca – peraltro – con esibiti rimandi alle tematiche vitaliste di matrice dannunziana (la “bella morte”, i riferimenti al Mucchio selvaggio ecc). Pensare a Prospero Gallinari o Mario Moretti come esaltati nietzscheani, insomma, ce ne vuole. Ciò non toglie che qualcuno possa esserlo stato (ma bisognerebbe cercare altrove che nelle Br) ma, anche qui, non spiegherebbe nulla del processo storico che ha portato alla lotta armata in Italia. I Sàvinkov, in quegli anni, furono semmai altri.
Quello che invece assolutamente non convince è il ruolo del Pci, e di Berlinguer in particolare. Un ruolo sottodimensionato, laterale, subalterno. Di fatto irrilevante. Eppure il Pci è stato il soggetto decisivo nel condurre in porto una «politica della fermezza» che aveva contro non solo i socialisti e il Vaticano, ma una parte importante della stessa Democrazia cristiana. Lo smarcamento comunista avrebbe lacerato irrimediabilmente la tenuta del potere democristiano, con tanti saluti alle pur invadenti pressioni americane. La domanda decisiva è allora: perché in un paese così apparentemente debole si impose una ragion di Stato pronta a sacrificare uno dei suoi massimi esponenti? Le ragioni sono molteplici, nessuna delle quali conduce al rischio di un “riconoscimento politico” dei brigatisti. In gioco vi erano due interessi concorrenti e compartecipi nell’edificazione di una politica serrata alle preghiere del prigioniero Moro. Da un lato il posizionamento dell’Italia nello scenario internazionale. Cedere su Moro avrebbe comportato l’automatica retrocessione del paese a entità compiutamente dipendente dai voleri del campo euro-atlantico. Nonostante la sua indipendenza geo-politica sia stata, dal 1945 in avanti, relativa, questa stessa “relatività” era un fatto di non poco conto, che garantiva di un certo margine d’azione e di proiezione internazionale che l’Italia della guerra fredda giocava con discreta originalità. Ma vi era anche la questione del “compromesso storico”. Un Moro liberato, e libero a quel punto di far valere la sua “ritorsione morale” sulla parte della Dc fautrice della fermezza (Andreotti in primis), avrebbe dapprima indebolito la Dc, poi probabilmente accelerato l’incontro coi comunisti, a quel punto dischiudendo loro le porte degli incarichi ministeriali (ricordiamo che nel governo Andreotti che si apprestava a ricevere la fiducia alla Camera il 16 marzo vi era l’appoggio, ma non la presenza diretta, di esponenti comunisti).

Vi era poi un interesse comunista. Il Pci espresse la più rigida fermezza (seppure nelle forme gesuitiche che Bellocchio mette perfidamente in scena nel confronto tra Berlinguer e gli altri leader politici: «fatela» – la trattativa (economica) coi brigatisti – «ma non ditelo») per due ordini di motivi. Il primo è stato più o meno rilevato da tutti: la sua trasformazione in “partito d’ordine”, pienamente fedele alla legalità costituzionale, era compiuta e non poteva darsi altra scelta realistica che non l’assoluta difesa delle istituzioni. Una difesa dell’ordine costituito che Berlinguer – e tutto il gruppo dirigente comunista – portarono alle ultime conseguenze persino di fronte alla possibile scomparsa della loro sponda politica in seno alla Dc: Moro appunto. La morte di Moro era un problema politico per il partito comunista, e nonostante ciò non vi fu mai tentennamento. E questo anche perché – ed è il secondo ordine di motivi, che però nessuno evidenzia – una “vittoria” dei brigatisti avrebbe comportato un indebolimento del partito in quei settori operai che non stavano partecipando affranti al requiem della democrazia. Se sarebbe esorbitante parlare del rischio di “perdere le fabbriche”, nondimeno per il Pci si sarebbe aperta una fase di più complicata gestione nel proprio bacino sociale, militante ed elettorale. Non vogliamo con questo esagerare l’internità del brigatismo nelle fabbriche del nord Italia. Sarebbe però un errore negarla risolutamente. E questa “zona grigia” poteva ampliarsi, coprire con una certa “indifferenza” le azioni terroristiche in fabbrica, corrodere l’ideologia della legalità che il Pci aveva costruito in quarant’anni di lavoro culturale, sindacale e sociale nella classe operaia del paese. Con ciò occorre, però, un supplemento di interpretazione, onde evitare possibili fraintendimenti.

Nelle concitate giornate successive al sequestro, precisamente il 28 marzo (e poi ancora il 2 aprile), Rossana Rossanda scrisse due celebri articoli su «il manifesto» in cui si riferiva alle Brigate rosse come parte «dell’album di famiglia comunista». Parte, dunque, di una storia comune, per linguaggi, temi, modo di articolare le posizioni politiche, conclusioni a cui si giungeva. La (ancora oggi geniale) uscita di Rossanda incontrò il più violento (e prevedibile) rifiuto del Pci. A seconda di come si interpreti il passaggio dell’album di famiglia, avevano però ragione sia Rossanda che Macaluso (che rispose a nome del Pci all’articolo del «manifesto»). Aveva ragione Macaluso a rifiutare qualsiasi possibile contiguità: sin dall’origine del “partito nuovo” nella Resistenza, il Pci aveva di fatto abbandonato qualsiasi ipotesi di fuoriuscita dalla legalità. La difesa (e anzi la sostanziazione effettiva) dell’ordine costituzionale, col suo corredo istituzionale fondato sulla lotta parlamentare, costituiva l’orizzonte pressoché unico della sua strategia politica. La famigerata «doppiezza» di cui Togliatti sapientemente si serviva era funzionale proprio a tenere dentro al partito tutte le molteplici spinte provenienti dalla classe operaia, governandole in funzione di una tattica parlamentare che si sovrapponeva alla strategia di lungo periodo. Era insomma l’articolazione della guerra di posizione gramsciana (certo piegata, e forse un po’ travisata, dal Togliatti editore di Gramsci), che comportava il consolidamento delle proprie posizioni e l’accrescimento graduale della propria forza politica ed elettorale. L’unica “lotta armata” pensabile per il Pci sarebbe stata quella da attuarsi in caso di colpo di mano reazionario, fino almeno ai primi anni Settanta tra le possibili (ma non probabili) opzioni dei vari poteri in competizione nel paese. E però aveva ragione anche Rossanda: le Br non appartenevano all’album di famiglia del Pci, ma sicuramente facevano parte di una tradizione del movimento comunista che solo i corifei del togliattismo postumo potevano negare con tale vigore e sprezzo della storia del movimento operaio. Il blanquismo, il bolscevismo e il cominternismo degli anni Trenta, e poi gli innesti del maoismo e del castrismo, costituiscono elementi di una storia comune, anzi: di un’unica storia, a cui senza dubbio apparteneva anche il Pci, ma che non si esauriva epifanicamente nel Pci. Questo era la lotta armata in Italia, di cui si possono condannare le scelte politiche, le soluzioni estremistiche, le ipotesi irrealistiche di partenza e di arrivo, ma di cui non si può disconoscere una matrice interna alla storia e alle logiche di emancipazione della classi subalterne.

Il Pci fu dunque sicuramente vittima degli eventi, ma non spettatore inerme. Si mosse coscientemente in una direzione precisa, e non valutarne il ruolo di puntello strategico delle scelte di Andreotti e Cossiga significa, qui sì, fare una cattiva storia, una storia addomesticata. E d’altronde, la scena delle guardie del corpo di Moro e Berlinguer (il “popolo”) che fraternizzano mentre i due leader orchestrano l’incontro storico (in macchina, come sovversivi in clandestinità), un incontro avverso alle resistenze tanto degli “estremisti di sinistra” quanto a democristiani e americani, è la sintesi e la summa di una visione politica identificabile, che da Togliatti e De Gasperi arriva a Moro e Berlinguer passando per Scalfari e «Repubblica».
La conclusione del film lascia spazio a facili what if di limitata capacità euristica. La storia, per chi la vuole conoscere, è già tutta dispiegata. Una pagina sanguinante della storia d’Italia, che sarebbe ora di chiudere giuridicamente per continuare a valutarne politicamente tutta la portata.

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La variante cinese https://www.carmillaonline.com/2022/01/04/la-variante-cinese/ Tue, 04 Jan 2022 22:55:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69895 di Nico Maccentelli

“Uno degli elementi più negativi nel pensiero comunista europeo degli ultimi 30 anni è sicuramente rappresentato da una concezione astratta del “socialismo”. Ridotto a una serie di princìpi totalmente indipendenti dalla realtà storica, validi in modo identico per qualsiasi formazione sociale (europea, asiatica, africana o americana), pressoché impossibili da rispettare concretamente. Una sorta di paradiso originario collocato nel lontano futuro anziché nel passato remoto.”

Inizia così un articolo di Contropiano a firma di Francesco Piccioni su un pezzo di Guido Salerno Aletta, dal titolo: Tra stato e mercato [...]]]> di Nico Maccentelli

“Uno degli elementi più negativi nel pensiero comunista europeo degli ultimi 30 anni è sicuramente rappresentato da una concezione astratta del “socialismo”. Ridotto a una serie di princìpi totalmente indipendenti dalla realtà storica, validi in modo identico per qualsiasi formazione sociale (europea, asiatica, africana o americana), pressoché impossibili da rispettare concretamente. Una sorta di paradiso originario collocato nel lontano futuro anziché nel passato remoto.”

Inizia così un articolo di Contropiano a firma di Francesco Piccioni su un pezzo di Guido Salerno Aletta, dal titolo: Tra stato e mercato la Cina e l’Occidente neoliberista, attaccando praticamente chi riguardo la Cina di oggi non ripone fiducia nelle “magnifiche sorti” del suo inesistente socialismo.

In realtà l’articolo in questione inizia con un falso storico-temporale che occulta e separa dalla questione cinese odierna un tema fondamentale per tutto il movimento comunista novecentesco e odierno: la lotta contro il revisionismo e ciò che differenzia una sinistra rivoluzionaria da questo. Altrimenti la storiella della “concezione astratta del socialismo” non reggerebbe. E il falso è nella datazione dei 30 anni.

E in realtà non sono 30, bensì 60 anni che questo dibattito divide il movimento comunista, sin dai tempi in cui il maoismo ha rappresentato nello scontro politico con il togliattismo la linea di demarcazione tra una visione rivoluzionaria e una revisionista. E fu proprio la politica rivoluzionaria maoista a fare da incipit a gran parte delle lotte di liberazione antimperialista e alle sinistre rivoluzionarie dalle campagne alle metropoli.

Dunque è dai primi anni ’60 che inizia la polemica tra il Partito Comunista Cinese e quello italiano (1). Da questa polemica nacque un linea rivoluzionaria che ripudiava il gradualismo togliattiano, la coesistenza pacifica con il capitalismo, che criticava una visione politica che metteva al centro il riformismo, le riforme di struttura versus un riproposizione del leninismo nei suoi principi tutt’ora validi negli anni ’60 come oggi.

Detto per inciso, l’approccio revisionista è stato poi sviluppato attraverso il denghismo con la sconfitta della Rivoluzione Culturale di Mao e l’avvento della borghesia burocratica nel PCC. Per cui se una chiave di lettura marxista va data della Cina di oggi è da allora che occorre partire, non da 30 anni fa. E non certo da una visione pragmatica e tecnocratica che evidentemente ha affascinato i compagni di Contropiano.

In Italia, la critica al togliattismo proveniente dai compagni cinesi agli inizi degli anni ’60 fu il propellente di tutto il movimento comunista alla sinistra del PCI. E questa datazione postuma è solo un tentativo di mistificare la questione per non far vedere che ci si sta sbarazzando non dell’acqua sporca, ma del bambino. Questa impostazione filo cinese è in palese contraddizione con la provenienza politica di molti compagni della sinistra di classe. È una questione che pertiene la memoria storica della lotta di classe rivoluzionaria in Italia e non solo, su questa separazione tra rivoluzione e riformismo hanno combattuto generazioni di comunisti, scegliendo strade e strategie politiche di rottura con la compatibilità “tattica” col capitalismo.

Questa “concezione astratta del socialismo” non creò solo le organizzazioni di stretta osservanza maoista, ma influenzò tutta la sinistra extraparlamentare  e lo stesso operaismo. Questa “concezione astratta del socialismo” in Cina diede vita alla più straordinaria mobilitazione dal basso per un intero decennio dalla metà degli anni ’60 fino al 1976: la Rivoluziona Culturale con le Guardie Rosse, che rimettevano in discussione la presenza nel PCC di un’ala borghese che stava andando esattamente dove la Cina è arrivata oggi.

Per cui si abbia il coraggio di dire che Mao aveva sbagliato e Deng Xiaping ragione invece di starci a girare attorno facendo giochetti sulle date. Almeno Giorgio Cremaschi nel suo intervento al convegno della Rete dei Comunisti dello scorso anno sulla Cina è stato coerente con la sua storia politica (la sua provenienza è il PCI) nel sostenere che Togliatti aveva ragione e Mao torto. È più apprezzabile perché pur se opinione che ritengo sbagliata, quanto meno è lineare col suo imprinting politico.

Di fatto senza questa spaccatura nel movimento comunista internazionale, non ci sarebbe stata politica rivoluzionaria, autonomia di classe, ma neppure quella critica culturale che partiva dai Sartre, dai Sanguineti fino ad arrivare ai Godard, ai movimenti operai e studenteschi dalla Francia del maggio agli USA dei campus, all’Italia con le due ondate del ’68 e del ’77, alle culture dell’antagonismo e della rottura con le convenzioni borghesi degli anni ’70, nelle quali il PCI stesso si ritrovava ingessato, incapace di capire i mutamenti della società, dei cicli di produzione del capitale, della composizione di classe e via dicendo.

Dunque per Piccioni e soci un’analisi critica riguardo una Cina governata da un’oligarchia di mandarini di stato e di partito con forti interessi finanziari e azionari nelle multinazionali cinesi private e di stato è astratta. Per costoro il fatto che l’intreccio di interessi e potere tra i 600 miliardari cinesi e questi mandarini sarà un dettaglio: peccato che sia il risultato di un revisionismo che ha fatto leva sulle contraddizioni di una rivoluzione in un paese di centinaia di milioni di persone, bloccandola e facendo tornare indietro gli orologi della storia, creando una nuova borghesia in un’economia di fatto capitalista che di socialismo non ha più neppure l’odore. 

Forse per costoro sono astrazioni anche le posizioni politiche delle forze comuniste che oggi come ieri combattono concretamente l’imperialismo, come il Partito Comunista delle Filippine: qui le sue annotazioni al fulgido e magnificamente progressivo discorso di Xi Jinping.

Saranno astrazioni, ma a queste domande che sorgono spontanee nel vedere la Cina di oggi che risposta diamo? Che risposta diamo a:

nel  potere classista composto da un’oligarchia di burocrati insieme al manageriato di multinazionali, del capitale privato…

nell’integrazione tra capitali finanziari e multinazionali…

nella polarizzazione tra 626 miliardari che concentrano la ricchezza sociale e le classi popolari cinesi in un miliardo e 400 milioni di persone…

nel divario salariale abissale tra classi e settori sociali…

nel ammortizzare la caduta tendenziale del saggio di profitto occidentale consentendo proficue esternalizzazioni al capitale occidentale…

nell’uso della forza-lavoro dalle campagne come i nostri caporali usano quella esterna dei migranti…

… che socialismo c’è?

È sufficiente uno stato che pianifica per definire una società come socialista? Dalle mie parti era la socializzazione dei mezzi di produzione non lo sviluppo di un’economia privata (pur con tutte le sue diversità dai modelli neoliberale e ordoliberale occidentali) a definire la transizione al socialismo. Nemmeno Togliatti con le sue riforme di struttura dava come prospettiva l’uscita dalla povertà e basta… ma che il popolo non governi, non si socializzino i mezzi della riproduzione sociale, non si abbia come scopo l’uguaglianza sociale. L’armonia confuciana regni tra sottoposti e dignitari del sovrano. E tutto resti così com’è nelle differenze sociali, nei rapporti di classe. Ma la critica a tutto questo è evidentemente un’astrazione per i nostri amici di Contropiano. Astrazioni che hanno ricadute ben concrete in una lotta di classe che in Cina è proseguita anche nella repressione antioperaia da parte delle autorità dello stato e del PCC contro i gruppi maoisti e i lavoratori che protestano e vogliono sindacati indipendenti (2).

Un’economia capitalista, che si fonda sul globalismo e l’interconnessione di filiere, capitali e mercati, che non va verso la socializzazione dei mezzi di produzione, ma verso uno sviluppo di questo modello capitalistico, per gli amici di Contropiano è “socialismo dalle caratteristiche originali”. Sino alla bestialità di definire “lotta di classe” la contraddizione intercapitalistica tra Cina e potenze imperialiste atlantiste (3), come se da parte cinese vi sia un proletariato al potere con la sua strategia internazionalista al socialismo, che sia comunismo di guerra o NEP, o arrivo a dire persino revisionista e kruscioviana “coesistenza pacifica”. Persino quest’ultima, persino il revisionismo classico non arriva alle alte vette di spregiudicata tecnocrazia e integrazione intercapitalistica degli attuali gruppi dirigenti cinesi, così ben decantate dai suoi esegeti.

Cosa significa allora oggi riesumare il denghismo (perché di questo si tratta), il suo approdo non a un socialismo, ma neppure a una sua transizione, bensì a un sistema capitalistico che utilizza altre leve della politica economica, più stato nel mercato (un refrain dello “stato piano” degli anni del dopoguerra della seconda metà del Novecento)? Cosa significa tessere le lodi del confuciano PCC di Xi Jinping, che ha abbandonato la teoria e la prassi maoiste della contraddizione? Cosa significa collocare la Cina di oggi in una sorta di “socialismo originale”, termine usato non solo da Salerno Aletta e Contropiano, ma anche da Carlo Formenti, e dal gruppo di Marx21?

Significa porsi alla destra del riformismo togliattiano uscito dall’VIII congresso del PCI nel 1956 (4) e, se si analizza bene, probabilmente anche di quello di Amendola degli anni ’60: una posizione ancora più moderata delle “riforme di struttura”, ancora più gradualistica, ancora più compromissoria col mercato capitalistico.

Dobbiamo arrivare all’Eurocomunismo del periodo berlingueriano per trovare quelle logiche di commistione con i tempi e i modi della produzione capitalistica, della riproduzione sociale del rapporto capitale/lavoro che oggi caratterizzano le stesse logiche cinesi: quando il PCI nel laboratorio emiliano metteva in atto con il decentramento produttivo la scomposizione di classe funzionalizzando la “rossa” Emilia ai tempi e ai modi della produzione capitalistica e alle modalità in cui il capitale procedeva con la ristrutturazione dei cicli di produzione.

La politica economica dei “mandarini” cinesi di partito nel rapporto capitale/lavoro non ricorda forse queste alchimie produttiviste e di irrigimentazione della forza-lavoro in Emilia di un PCI che negli anni ’70 spacciava l’attacco alla rigidità operaia per modernità? E non sono forse queste le politiche sociali e di produzione tipiche della peggiore socialdemocrazia? 

Concludo con un’ultima perla, sempre dall’articolo Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista.

Sino ad ora abbiamo visto il nostro autore criticare la “concezione astratta del socialismo” rivolta a chi critica il “socialismo originale” cinese. Come se non fosse ovvio che il socialismo scientifico si basa sull’analisi concreta della situazione concreta. Come se non fosse evidente che dalla storia della lotta di classe e dalle esperienze di socialismo del Novecento si è compreso che ogni paese, ogni formazione economico-sociale deve trovare il suo percorso al socialismo nel processo rivoluzionario di abbattimento del capitalismo.

Sicuramente sono tanti i comunisti che hanno un approccio libresco e astratto della rivoluzione socialista. Vengono in mente le battaglie di cortile tra i vari “ismi”, rivangando diatribe superate ed episodi morti e sepolti della storia del movimento comunista mondiale: queste caricature del marxismo servono alla fine per creare un comodo alibi. La rampa di lancio dei salti della quaglia.

Ma venendo al sodo: cosa sta alla base dell’analisi concreta della situazione concreta dell’autore di questo articolo? Ossia, contro la visione “astratta” del socialismo cosa contrappone il nostro? Ce lo spiega così:

“Ricordiamo che la definizione di Marx era molto più laica: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro. Che è certamente una formulazione astratta, ma che descrive un criterio invece che una serie di “istituti” teoricamente caratterizzanti una formazione sociale “socialista” (inevitabilmente varianti a seconda del livello di sviluppo di un certo paese, le tradizioni locali, le culture, ecc). L’“eguaglianza” – per esempio – in condizioni di povertà o di relativo benessere generale, in pace o in guerra, ecc, può significare cose molto diverse.”(5)

Va bene l’originalità di un dato socialismo in un dato contesto sociale, ma se il socialismo si distingue per la sola massima timbrata e controfirmata da Marx: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro, c’è proprio da star freschi! Anche perché Marx ha detto tanto altro nella definizione di socialismo. E non è un caso che proprio un aspetto dirimente manchi dalla definizione data da Piccioni. Una questione su cui Marx, Engels, Lenin, praticamente tutti hanno posto al centro dell’ontologia del socialismo. La socializzazione dei mezzi di produzione, ecco cos’è l’aspetto qualificante il socialismo. Ed è qui che casca l’asino.

Che una classe dirigente borghese utilizzi lo Stato e la pianificazione per un’economia di mercato sarebbe già socialismo, è così? Lo abbiamo già visto prima che non basta.

Ma proprio per non scadere in una visione astratta, occorre considerare tutto il processo economico-sociale, non solo lo sviluppo delle forze produttive (chi le sviluppa? Anche nel capitalismo c’è una borghesia che le sviluppa…), non tanto quindi un approccio tecnocratico, ma una progressione a forte partecipazione popolare, un processo economico-sociale che nella transizione procede alla socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale. In Cina dal 1976 avviene il contrario. E parlare delle centinaia di milioni che stanno uscendo dalla fame, di progresso tecnologico, non caratterizza questo paese come socialista, quando insieme alla crescita di una forte economia privata si forma una vasta classe media, quando le differenze sociali si acuiscono e, soprattutto, quando non c’è una reale democrazia socialista di popolo.

Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro… grazie, anche nel capitalismo può essere applicato questo criterio. Allora questo cosa vuol dire: che se io sono disabile e le mie capacità danno una certa performance nel lavoro, ottengo in base al mio lavoro? Ma questo è liberalismo! Esattamente come la concezione cinese. Semmai il criterio è quello di dare a tutti in base ai propri bisogni, dare a tutti l’opportunità e il diritto a un’esistenza soddisfacente. Questa è l’uguaglianza, non il pastrocchio darwiniano che emerge da queste poche righe maldestre! E il liberalismo si pone per l’appunto alla destra del togliattismo, ossia di una visione gradualistica del cambiamento al socialismo.

Solo se affianchi questo tipo di uguaglianza sociale alla socializzazione dei mezzi di produzione (questo voleva dire Marx), ossia alla democrazia economica e sociale, alla gestione di un’economia sempre più pubblica e sempre meno privata da parte degli organismi democratici popolari, si può parlare di transizione al socialismo. Ciò che non sta avvenendo in Cina. La Cina è un paese liberale la cui progressione non è la socializzazione.

In definitiva la “variante cinese” è un virus ideologico che colpisce i comunisti, non è “uno spettro che si aggira per l’Europa”. È parte di un revisionismo ricorrente che si ripresenta nei contesti più impensabili e in forme sempre nuove.

Ma allora, l’ultima domanda che sorge al di là di tutte le belle chiacchiere sulle “magnifiche sorti del socialismo” cinese, è: quale politica per il proletariato italiano? Un movimento comunista affetto da questa variante cinese quale strategia politica svilupperà in coerenza con questa nuova visione così “concreta” che ha assunto?

Chiedo per un amico.

§ § §

Per approfondimenti, rimando a un mio articolo apparso sempre su Carmilla:

Mi è semblato di vedele un gatto!

e a un intervento sul mio blog:

https://maccentelli.org/piano-contro-mercato/

 

Note:

1.  Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi e Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi, Reprint a cura della Cooperativa Editrice Nuova Cultura, Casa Editrice in lingue estere Pechino, 1963

2. Ho analizzato qui, sempre su Carmilla, un articolo della sociologa cinese Pun Ngai sulla lotta operaia nel 2018 alla Jasic Technology di Shenzhen

3. https://contropiano.org/news/news-economia/2021/12/30/loccidente-sta-perdendo-la-lotta-di-classe-0145289

4. Si veda: https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2019/03/Socialismo-e-riforme-di-struttura_Togliatti-1956_download.pdf

5. Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista: https://contropiano.org/news/politica-news/2022/01/01/tra-stato-e-mercato-la-cina-e-loccidente-neoliberista-0145335?fbclid=IwAR3CMeiHCYYD-KfsXdMIJ25-WuJl8Y61ZQ3OFxljZpy8BOUwyAIN1y82i1w

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Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/tra-soggetto-e-oggetto-la-classe-operaia-di-panzieri/ Tue, 09 Feb 2021 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64791 di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.

Il libro di Cerotto, dopo aver delineato la biografia politico-intellettuale del pensatore romano e la storia redazionale dei “Quaderni rossi”, dedica un lungo capitolo alla ricostruzione del dibattito teorico-politico nell’ambito del marxismo italiano del dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta. Il panorama è dominato dallo storicismo marxista del Partito Comunista di Togliatti che, utilizzando il pensiero di Gramsci, vuole ricongiungersi all’eredità del neoidealismo italiano per mostrare la politica della classe operaia come continuatrice e innovatrice della cultura nazionale, operazione funzionale alla predisposizione di una politica di alleanze. L’analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi segna il passo a favore della ricerca di una egemonia politica tarata sulle particolarità economico-sociali e culturali italiane. Tra le conseguenze, sul piano teorico, ci sono la sottovalutazione del grado tecnico-scientifico raggiunto dal processo di produzione e l’indifferenza verso i possibili contributi della sociologia e delle nuove scienze sociali. Lo forze produttive, nel loro sviluppo, sono considerate senz’altro il polo positivo, razionale, oggettivo, mentre i rapporti di proprietà costituiscono il polo negativo che, attraverso l’anarchia del mercato, limita e perverte le potenzialità dei progressi tecnico-produttivi. A questo si può porre rimedio con le riforme di struttura ovviando all’incapacità del capitalismo nazionale di realizzare autonomamente uno sviluppo economico accessibile a larghi strati della popolazione. Si delinea così la via italiana al socialismo.
Come si pone Panzieri nei confronti di questo articolato panorama teorico-politico?  Possiamo partire da una sua citazione, tratta da Plusvalore e pianificazione, opportunamente riportata da Cerotto.

Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché semplicemente divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale. E ciò consente allo sviluppo capitalistico di perpetuarsi anche dopo che l’espansione delle forze produttive ha raggiunto il suo massimo livello. 

Insomma, il dispotismo capitalistico è inestricabilmente intrecciato con esigenze razionali di tipo tecnico-produttivo. Questo rapporto si materializza concretamente nelle macchine. Esse non si sviluppano esclusivamente con il fine di aumentare la produttività del lavoro, ma con quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Esse sono portatrici certamente di una razionalità nell’ambito dei processi produttivi, ma di una razionalità specificamente capitalistica. In breve ogni stadio dello sviluppo tecnologico costituisce un rafforzamento del potere del capitale, del suo dispotismo sulla forza-lavoro vivente.

Questo rafforzamento significa anche, secondo Panzieri, la progressiva estensione del principio di pianificazione non solo all’interno della fabbrica, che si ingigantisce grazie ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale, ma anche all’esterno del processo produttivo vero e proprio. La pianificazione capitalistica, sostiene Panzieri, diventa un elemento basilare per il mantenimento della struttura di potere capitalistico, superando le contraddizioni derivanti dall’anarchia del mercato, tipica della fase concorrenziale del capitalismo. Anche a discapito della ricerca immediata del massimo profitto, ciò implica la necessità di aumentare notevolmente investimenti e produttività. Questo a sua volta richiede la più completa disponibilità della forza lavoro che può essere garantita da un accordo con i sindacati e con le altre organizzazioni della classe operaia.
Secondo le elaborazioni dei “Quaderni Rossi”, la politica di piano che si sviluppa nei primi anni Sessanta del Novecento non mira a subordinare le scelte economiche al potere politico, ma assegna allo stato la responsabilità di stimolare certi investimenti privati tramite un apposito sistema di incentivi. Le punte più avanzate del capitalismo italiano, pubblico e privato, convergono a grandi linee sugli obiettivi della pianificazione e non a caso sostengono la costituzione del centro-sinistra (nel 1962 il PSI entra nell’area di governo e a fine 1963 per la prima volta partecipa direttamente all’esecutivo). I settori più arretrati si oppongono ad entrambi. La conflittualità interna al fronte capitalistico contribuisce a mascherare il riformismo subalterno delle organizzazioni operaie da politica rivoluzionaria. Anche la conflittualità operaia, se mantenuta entro un certo livello, può giovare allo sviluppo capitalistico perché impedisce ai suoi settori più arretrati di fare affidamento esclusivamente sul basso costo della forza-lavoro costringendoli a investire e innovare.
La strategia delle riforme di struttura, secondo Panzieri, non prevedendo un intervento diretto nella sfera produttiva esclude la rottura rivoluzionaria del sistema favorendo soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia. Già nelle Sette tesi Panzieri, ponendo in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo del capitalismo italiano, sostiene la necessità di spostare l’asse dell’intervento politico nei luoghi della produzione dove hanno origine le principali contraddizioni della dicotomia classista e dove risiede la reale fonte del potere. In altri termini, solo prendendo di petto il luogo dove si svelano le reali contraddizioni del sistema capitalistico, la lotta in fabbrica innalza i lavoratori a reali protagonisti della politica.

Questo spostamento comporta un doppio movimento. Da una parte, infatti, si deve indagare la sfera della produzione capitalistica che non è al suo interno indifferenziata. Essa presenta un’articolazione gerarchica. Esistono dei punti di maggior sviluppo che sono trainanti rispetto a tutto il resto. E tale articolazione del processo produttivo complessivo non è indifferente rispetto alle sorti politiche della lotta di classe. D’altra parte, con altrettanta forza, si deve affermare che il comportamento operaio non è una mera riflessione passiva della struttura del capitale. Quest’ultima condiziona lo sviluppo dell’antagonismo operaio, pone le condizioni e i limiti del suo possibile esplicarsi, ma non lo determina meccanicamente. Per questo è necessaria, utilizzando le parole di Panzieri riportate da Cerotto, “un’osservazione scientifica assolutamente a parte” sulla classe operaia. Assume cioè importanza l’inchiesta operaia, non solo come strumento di conoscenza, ma anche come strumento di intervento politico. La realtà osservata attraverso l’inchiesta non è un oggetto passivo, ma un’unità vivente che va colta nei suoi momenti di svolta, di repentino mutamento, soprattutto attraverso l’inchiesta “a caldo”, cioè quella effettuata durante i momenti più aspri del conflitto.
Proprio sulla necessità di tenere insieme questi due livelli dell’analisi e dell’intervento politico si consuma la frattura, nell’ambito della redazione dei Quaderni Rossi, tra i “sociologi di Torino”, raggruppati attorno a Panzieri, e i “filosofi di Roma”, guidati da Mario Tronti. Una rottura, argomento dell’ultimo capitolo del libro di Cerotto, che ha come oggetto immediato la valutazione degli eventi del luglio 1962 e le prospettive che si aprivano dopo la manifestazione esplicita di un elevato grado di insubordinazione della nuova classe operaia al piano del neocapitalismo.1 Per Panzieri le rivendicazioni operaie espresse nel fuoco acceso dello scontro, così come rilevate dall’inchiesta “a caldo”, contengono il massimo spirito anticapitalistico che, però, non può essere immediatamente generalizzato all’insieme della classe. Come si legge in una citazione riportata in epigrafe all’ultimo capitolo del libro di Cerotto, Panzieri accusa Tronti di sostenere una filosofia della storia hegeliana, una filosofia della classe operaia quando utilizza questi momenti alti dell’antagonismo per supportare la sua rivoluzione copernicana. Rivoluzione che consiste nella tesi, opposta a quella del marxismo classico, che è l’antagonismo della classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale. Una tesi che giustificava la necessità di dare immediatamente espressione politica a questo nuovo soggetto operaio. Panzieri, invece, resiste all’idea di trasformare la rivista in un gruppo militante, in un nuovo partito, volendo limitare il suo contributo politico alla costruzione di un’“avanguardia interna” alla classe, dal momento che solo il susseguirsi delle lotte operaie avrebbe potuto determinare la loro progressiva organizzazione.

Personalmente sono convinto che ancora oggi sia necessario tenere insieme i due livelli di cui si è parlato a proposito di Panzieri: da una parte l’analisi della struttura del capitale quale fondamento materiale della soggettività proletaria; dall’altra la continua attenzione allo sviluppo del lato soggettivo che mantiene rispetto a questo fondamento un livello di indeterminatezza. La specifica riflessione sulle dinamiche di soggettivazione dei subalterni, aggiungo, può risultare tanto più feconda quanto più il punto di osservazione è interno ai conflitti e ai movimenti. In assenza del primo livello possiamo ottenere soltanto una una fenomenologia del conflitto che, per quanto preziosa possa risultare sul piano descrittivo, difficilmente può aiutarci a prefigurare un processo generale di ricomposizione delle disperse soggettività in campo. In assenza del secondo, invece, risorge immancabilmente lo spettro dell’autonomia del politico in cui non si dà ricomposizione, ma solo subordinazione, reale o immaginaria, delle concrete soggettività antagonistiche a una guida esterna.
Certo, se essere comunisti vuol dire essere la parte più risoluta dei partiti operai come indicava Marx nel 1848, questo significa porsi sulla frontiera più avanzata dell’antagonismo di classe, laddove si può dare la confluenza fra dimensione oggettiva e soggettiva; una frontiera a partire dalla quale, in altri termini, un soggetto collettivo è potenzialmente in grado di farsi mondo, di produrre una nuova oggettività. Da questo punto di vista è comprensibile il senso del gesto teorico di Tronti che, con la sua rivoluzione copernicana, mette al centro la classe operaia, come “motore mobile del capitale”. Gesto ripetuto in forme diverse dal successivo operaismo e post-operaismo. Ma se dimentichiamo che la tendenziale confluenza tra soggetto e oggetto si dà soltanto nei momenti più alti dell’antagonismo e pretendiamo di ritrovarla sempre e comunque nel nostro mondo dominato dal capitale, i costrutti teorico-politici che ne derivano rischiano di assomigliare sempre più a visioni lisergiche, come la moltitudine dell’ultimo Toni Negri.
Se vogliamo mantenere una presa sulla realtà e al tempo stesso non rassegnarci alla triste virtù del realismo con annessa autonomia del politico, come ben presto fece Tronti, non ci rimane che l’ostinata ricerca, pratica e teorica, delle vie sotterranee di una possibile ricomposizione delle molteplici forme di conflittualità sociali. Forme conflittuali che nella realtà continuano a darsi perché il capitalismo è un sistema basato necessariamente sull’incessante e crescente ricerca dello sfruttamento e perciò intrinsecamente antagonistico. E in questa ricerca la lezione di Panzieri ci può tornare ancora utile, 
anche ritornando a riflettere su cosa rimane oggi di una delle sue tesi fondamentali e cioè che una lotta generale contro il capitalismo non può prescindere dai conflitti che si verificano nella sfera della produzione e in particolare nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.


  1. Il 7 luglio 1962, nel corso di uno sciopero dei metalmeccanici a Torino, si diffonde la voce che UIL e SIDA hanno firmato un accordo separato con la FIAT. Alcune migliaia di operai si dirigono a Piazza Statuto dove ha sede la UIL dando inizio a tre giorni di violenti scontri con la polizia. 

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Essere militanti comunisti, libertari e rivoluzionari nell’Italia della guerra fredda https://www.carmillaonline.com/2019/11/27/essere-militanti-comunisti-libertari-e-rivoluzionari-nellitalia-della-guerra-fredda/ Wed, 27 Nov 2019 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56322 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 456, € 40,00

Con questo terzo ed ultimo volume giunge a conclusione la monumentale opera di ricostruzione, curata da Franco Bertolucci, dedicata all’esperienza dei GAAP svoltasi interamente nel periodo compreso tra gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e la tragica rivolta dei consigli operai ungheresi del 1956. Dopo l’attenta ricostruzione delle vicende, dei congressi e dei dibattiti intervenuti all’interno della ristretta cerchia di [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 456, € 40,00

Con questo terzo ed ultimo volume giunge a conclusione la monumentale opera di ricostruzione, curata da Franco Bertolucci, dedicata all’esperienza dei GAAP svoltasi interamente nel periodo compreso tra gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e la tragica rivolta dei consigli operai ungheresi del 1956.
Dopo l’attenta ricostruzione delle vicende, dei congressi e dei dibattiti intervenuti all’interno della ristretta cerchia di militanti, spesso operai, che l’animarono e dei giornali che ne costituirono il filo rosso organizzativo, condotta nei primi due volumi (qui e qui), questo terzo tomo è dedicato principalmente alla ricostruzione delle biografie dei singoli militanti.

Militanti noti poi anche in seguito, come Pier Carlo Masini oppure Arrigo Cervetto, oppure scomparsi dalla memoria pubblica o anche solo della cerchia ristretta di coloro che mai hanno voluto assuefarsi alla via segnata dal modo di produzione capitalistico né, tanto meno, ai tradimenti e alle baggianate politiche diffuse dallo stalinismo sempre imperante, sia apertamente che sotterraneamente, all’interno di quello che per anni si è vantato di essere il più grande partito comunista dell’Occidente: il PCI.

Biografie che l’espertissimo Bertolucci, che già aveva coordinato il Dizionario biografico degli anarchici italiani sempre per la Biblioteca Franco Serantini1di cui è anche direttore, ha ricostruito insieme ai suoi collaboratori con grande precisione e partecipazione. Con un’attenzione che si manifesta sia nella scelta, operata nella stesura di tutti e tre i volumi, di lavorare sempre su materiali di prima mano e su carteggi e documenti precedentemente inediti o quasi sconosciuti, sia nel rispetto, ci sarebbe da dire nell’umiltà, dimostrato in ogni riga del testo nei confronti di quei coraggiosi militanti libertari e della Sinistra Comunista che in quegli anni difficili cercarono di giungere ad una ricomposizione di classe tutt’altro che sociologica e libera dalle infingardaggini della precedente partecipazione al conflitto imperialista che aveva contribuito a cancellare, quanto il regime fascista precedente, dalla memoria del proletariato italiano l’idea di una lotta di classe finalizzata alla rivoluzione e non alla democrazia partecipativa di cui tanti dirigenti del Partito Comunista, con Togliatti in testa, erano andati ragliando in giro.

Anni che videro non soltanto una dura azione repressiva messa in atto dai governi democristiani dopo il 1948 nei confronti dei lavoratori più attivi sul piano sindacale e politico, ma anche la manifestazione di quale fosse il vero volto del socialismo sovietico una volta applicato ai lavoratori dei paesi dell’Europa Orientale conquistati dalla armate “rosse”. Un volto che si rivelò appieno durante la feroce repressione della rivolta di Berlino Est nel 1953 e di quella ungheresi del 1956.

Si è pertanto scelto di presentare qui una lunga citazione dalla lettera di dimissioni dal PCI vicentino da parte di Bruno Tealdo2 del 30 giugno 1953, tratta dall’enorme mole di lettere e documenti privati o dalle relazioni interne delle/alle varie componenti dei GAAP tutte contenute nella seconda parte di questo terzo tomo, che sembra riassumere in poco spazio tutta l’amarezza, la delusione e allo stesso tempo la determinazione che animò nelle loro scelte questi militanti della rivoluzione futura e del mondo a venire.

“Dopo aver a lungo riflettuto, sono venuto nella determinazione di dare le mie dimissioni dal Partito Comunista Italiano.
[…] La mia iscrizione al PCI avvenne all’indomani della guerra di liberazione, e da allora ho dato al Partito tutta la mia attività, prima come Segretario di cellula, poi come Segretario di Sezione, membro del Comitato Federale e della Commissione Organizzatrice […].
Ricordo bene le riunioni del Comitato Federale, alle quali durante il periodo della mia attività avevo partecipato. Ogni volta ricevevo la netta sensazione che non si trattava di elaborare tutti insieme un programma di lavoro, ma soltanto di approvare ciò che alcuni piccoli dittatori avevano precedentemente stabilito.
Sono essi che tracciano la linea politica del partito, linea politica che è sempre meno rivoluzionaria, sempre più legalitaria e parlamentare. Molti compagni dissentono da questa linea politica, ma le loro opinioni non vengono tenute in nessun conto.
Dal ’45 ad oggi, le cellule e le Sezioni del Partito non hanno fatto altro che dell’ordinaria amministrazione. Non vi è stato, e non vi è tuttora, quello spirito di lotta che, anche in un momento come questo affatto rivoluzionario, dovrebbe animare un Partito che si dice comunista e che non perde invece occasione per riaffermare, con le parole e con i fatti, il proprio ossequio ed assoluto rispetto della legalità democratica. I dirigenti del Partito hanno più volte soffocato iniziative di lotta partite dalla base e sentite dalla base.
[…] Nella nostra Provincia, quante lotte non prtate a termine, quante lotte abbandonate! Ricordo la ex-Caproni, l’Isotta Fraschini. Ricordo la serrata dell’ILESA, la quale riassunse poi le operaie, ma non quelle iscritte al PCI. Ricordo i mezzadri ei piccoli fittavoli, che non hanno ancor avuto quanto stabilito per legge. Ricordo la mancata lotta contro un governo che puniva i ferrovieri con 10 giorni di sospensione, per avere il 30 marzo scioperato contro la legge truffa. Ci si è limitati a piccole proteste, e tutto è finito in una bolla di sapone. Ricordo l’abbandono della lotta per la bonifica di S. Agostino, nella quale molti giovani avrebbero trovato un po’ di lavoro, molti padri la possibilità di dare del pane ai propri figli. Eppure questa agitazione aveva l’appoggio di esercenti di piccoli commercianti, in quanto la bonifica, oltre a dare lavoro a molti disoccupati, avrebbe arrecato anche un beneficio alle campagne circostanti.
I compagni hanno atteso e attendono una prova che il PCI è il loro Partito rivoluzionario; continuano a dare la loro opera incessantemente; continuano ad avere fiducia nei loro dirigenti; ma io oggi non credo più che una tale prova possa venire da questo Partito.
Non lo credo più, perché gli ultimi avvenimenti della Germania-Est mi hanno aperto gli occhi. Ciò che non mi era chiaro mi è diventato chiaro: oggi io ho capito la vera natura di questo Partito.
Se il Partito Comunista fosse veramente il partito della classe operaia non avrebbe lanciato i carri armati sulla popolazione inerme che chiedeva condizioni più umane di lavoro; non avrebbe fatto fucilare decine di operai; non ne avrebbe incarcerati migliaia. Se il Partito Comunista fosse veramente il Partito della classe operaia, non avrebbe represso nel sangue una protesta legittima e sacrosanta, proprio come fanno i governi borghesi; non sarebbe ricorso alla vile menzogna di qualificare come agenti provocatori e fascisti intere masse di operai in sciopero. […] (Vedi L’Unità del 26/6/1953).
Anche i governi borghesi reprimono le agitazioni operaie con la scusa che sono sobillate da Mosca e che fanno il gioco di Mosca: il governo sedicente comunista si comporta nello stesso modo, dunque è anch’esso un nemico degli operai; ormai no ho più dubbi e per questo abbandono il Partito.”3

Un’opera che si rivela dunque, anche in quest’ultimo volume, essere imprescindibile per chiunque si interessi con serietà, impegno e passione alle vicende della lotta di classe in Italia e alle sue forma di autonoma espressione ed organizzazione.


  1. M. Antoniolo, S. Fedele, G. Berti, P. Iuso, (coordinatore F. Bertolucci) Dizionario biografico degli anarchici italiani, 2 voll, BFS 2003-2004  

  2. Bruno Tealdo (1912-1999) subito dopo le sue dimissioni dalla federazione del PCI di Vicenza fu additato come provocatore e “espulso” per indegnità politica per avere calunniato “il glorioso paese di Lenin e di Stalin” ed essersi rifugiato in uno sparuto gruppetto di anarchici senza seguito (così come recitava l’ Amico del popolo, organo della federazione provinciale vicentina del PCI, nel numero speciale pubblicato proprio per infangarne il nome e le scelte)  

  3. Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.3 I militanti: le biografie, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 9/2019, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 267-268  

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Frammenti di vite spezzate https://www.carmillaonline.com/2016/06/07/frammenti-vite-spezzate/ Mon, 06 Jun 2016 22:01:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30859 di Fiorenzo Angoscini

Quaderni FLC pinto Quaderni della Piazza, Giuseppe Magurno e Marina Renzi (a cura di), LUIGI. Una storia semplice (con Ezia Valseriati, 2013, pp.94, euro 10,00); GIULIETTA. La tête bien faite (2014, pp.154, euro 10,00); LIVIA. La ricerca dell’umano (2014, pp.144, euro 10,00); ALBERTO. Una questione scientifica (2015, pp.156, euro 10,00); CLEMENTINA. Una concreta utopia (2016, pp.186, euro 10,00); EUPLO, BARTOLOMEO, VITTORIO. Percorsi del lavoro (2016, pp.152, euro 10,00), Federazione Lavoratori della Conoscenza-CGIL Brescia

In occasione del 42° anniversario della strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) si è conclusa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Quaderni FLC pinto Quaderni della Piazza, Giuseppe Magurno e Marina Renzi (a cura di), LUIGI. Una storia semplice (con Ezia Valseriati, 2013, pp.94, euro 10,00); GIULIETTA. La tête bien faite (2014, pp.154, euro 10,00); LIVIA. La ricerca dell’umano (2014, pp.144, euro 10,00); ALBERTO. Una questione scientifica (2015, pp.156, euro 10,00); CLEMENTINA. Una concreta utopia (2016, pp.186, euro 10,00); EUPLO, BARTOLOMEO, VITTORIO. Percorsi del lavoro (2016, pp.152, euro 10,00), Federazione Lavoratori della Conoscenza-CGIL Brescia

In occasione del 42° anniversario della strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) si è conclusa la “fatica” editoriale intrapresa quattro anni fa dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza, quella che era la CGIL Scuola, il sindacato a cui erano iscritti ben cinque degli otto caduti nella piazza bresciana, assassinati dalla bomba fascista del 28 maggio 1974.

E proprio il titolo della collana, coniato appositamente per tale iniziativa, è esplicito, chiaro, inequivocabile: Quaderni della Piazza. Per sottolineare la centralità, ed importanza, di questo luogo.
Simbolo di democrazia, incontro e confronto, area libera nel senso di spazio dove proporre e verificare tesi, avanzare proposte, sostenere convinzioni e adottare decisioni conseguenti.
Nel 2000, durante le manifestazioni (ed occupazione permanente della piazza) per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, uno dei migranti protagonista di quelle lotte, definì Piazza della Loggia “il nostro parlamento”.

Questa dichiarazione, o slogan semplificato, rende molto bene il significato che gli si è voluto attribuire, il ruolo che ha svolto, l’importanza che ha assunto.
Nella “Piazza” ci si raduna, ci si incontra, si discute e dibatte, si decide: tutti e tutti insieme.
Un grande esempio di democrazia diretta e partecipata.

Molto significativa l’affermazione, scritta da Pierpaolo Begni, segretario provinciale FLC CGIL di Brescia, nella premessa dell’ultimo “quaderno”, quello dedicato ai tre caduti, lavoratori “manuali” e non “intellettuali” come gli altri cinque, ma che vale per tutti: “Un impegno fatto di attenzione per l’altro e soprattutto voglia di affermare il dissenso rispetto al riemergere del fascismo…precursori del progetto di democrazia radicale che emerse dalle lotte degli anni ’70”.

Il lavoro dei curatori, certosini tessitori ed indagatori delle esperienze umane, culturali, sindacali, politiche e professionali degli otto antifascisti trucidati dopo (molto tempo dopo) la Liberazione dal nazifascismo, è stato condotto con discrezione, eleganza, leggerezza (nel senso di non intrusione invasiva) raccontando molte delle sfaccettature, anche della vita privata, di ognuno di loro. Tracciando dei profili personali molto coinvolgenti.

Andando a briglia sciolta, senza ordine cronologico o d’importanza, si scopre che Bartolomeo Talenti, iscritto alla Federazione Lavorati Metalmeccanici (esperienza ‘unitaria’ di Fiom-Fim-Uilm), era “comunista, convintamente comunista. Ma, per motivi che non conosco (è il figlio Ugo che ricorda ndr) non aveva la tessera del PCI e non era iscritto, di conseguenza, a nessuna sezione. Acquistava e leggeva “ l’Unità” […] Seguiva, naturalmente, con preoccupazione gli attacchi alla democrazia che venivano dall’estrema destra e che avevano toccato anche Brescia. Ed era determinato come tutti gli antifascisti […] Per questo si trovava in Piazza Loggia” , oltre che padre indispensabile, provetto ed abile “basculatore-rampatore” (specializzazione della lavorazione dei fucili da caccia e precisione nell’industria delle armi) e calciatore-ala destra in un ruolo di buon livello professionistico (per i tempi di allora: anni ’40) in due formazioni di serie C: il Mantova (due anni) e il Brescia.

A Brescia, invece, Luigi Pinto foggiano del ’49, giunge nel 1972 per prendere servizio, come insegnante di applicazioni tecniche, presso la scuola media statale di Siviano a Monte Isola1 (Bs) dopo aver girovagato e lavorato in gran parte della penisola, Sardegna inclusa, come perito tecnico, diploma conseguito al termine dall’anno scolastico 1967-’68 presso l’Istituto Tecnico ‘Saverio Altamura’ di Foggia. Mentre frequentava l’Itis, durante le vacanze estive, svolgeva lavori precari e saltuari per potersi pagare i libri di testo dell’anno successivo.Nel settembre del 1973, solo otto mesi prima di essere dilaniato (morirà il 1 giugno 1974) dalla bomba nera, si era sposato con Ada Bardini, insegnante.Luigi era un militante dell’Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia.

Alla stessa organizzazione apparteneva anche Giulietta Banzi, insegnante del liceo classico ‘Arnaldo da Brescia’ e moglie dell’ avvocato Luigi Bazzoli, assessore democristiano all’urbanistica del comune di Brescia. Di famiglia e classe agiata, decise di affiancare “gli ultimi del mondo, gli ultimi di un tempo (per) dividere lavoro, amore, libertà”.2. Concorse, con Luigi Pinto, Livia Bottardi, Clementina e Lucia Calzari, Alberto Trebeschi, Pietro Bontempi, ed altri, a fondare il Sindacato CGIL Scuola a Brescia.
Il Nuovo Canzoniere Bresciano le ha dedicato un commovente ricordo musicale (tutto in dialetto) intitolato “La Giulia”,3 parole e musica di Tiziano Zubani.

Quaderni FLC lavoratori Sempre nell’ultimo ‘quaderno’, quello dedicato ai tre ‘operai’, si delinea la storia, la vita e, purtroppo, la morte, di un altro lavoratore ‘manuale’, questa volta della cazzuola, dei mattoni e della calce, dopo essere stato contadino e vignaiolo-cantiniere: Vittorio Zambarda.
Vittorio, inizia giovanissimo la sua attività antifascista, aderisce, subito dopo il 25 aprile, al Partito Comunista Italiano, nel quale milita fino al giorno della strage e della morte e per molti anni è segretario della sua sezione, quella della frazione Campoverde di Salò. Iscritto anche alla Federazione Lavoratori della Costruzioni-CGIL, il 26 maggio 1974, all’età di sessant’anni, due giorni prima della strage, termina una “vita di lavoro” e spera di potersi godere la meritata pensione.

Martedì 28 maggio è a Brescia, oltre che per partecipare alla manifestazione antifascista, anche per perfezionare la pratica di quiescenza, intesa come cessazione dal servizio del lavoratore.
Non riuscirà a “chiudere la pratica” e non potrà usufruire di quella parte di salario differito che mensilmente gli veniva trattenuto. Lo scoppio lo investe e ferisce gravemente. Muore il 16 giugno.

Di Livia, Clementina ed Alberto occorre parlarne collettivamente proprio per l’amicizia che li legava e le attività che condividevano. Livia, trentuno anni da poco compiuti, insegnava materie letterarie alla scuola media “Bettinzoli” ubicata nel quartiere dove anche lei abita; Clementina, coetanea di Livia, docente di Italiano all’ Istituto Magistrale “Veronica Gambara” ed Alberto (marito di Clementina), di poco più “grande”, ha 36 anni quando viene ucciso, laureato in fisica, insegna questa materia all’Itis “Benedetto Castelli” ed è iscritto al PCI. Partito a cui aderisce dopo aver frequentato e “praticato” l’ Oratorio della Pace4 ed essere stato iscritto al Partito Radicale (1957). La famiglia Trebeschi (con tutti i suoi ‘rami’ genealogici) è una delle più note, anche storicamente, dinastie bresciane. I due rami principali si differenziano totalmente ed ideologicamente. Uno, a cui appartiene Alberto, e il fratello Arnaldo, più ‘liberale-libertario’, l’altro, quello dell’ ex sindaco (1975-1985) democristiano Cesare Trebeschi (cugino di Alberto ed Arnaldo) più “conservatore”.5

Insieme e con il marito di Livia, Manlio Milani, la sorella gemella di Clementina, Lucia, suo marito Giorgio Zubani partecipano e contribuiscono ad organizzare le iniziative, e proiezioni, del Circolo del Cinema di Brescia (costituito nel 1966); con altri docenti ed insegnanti, come sopra già detto, fondano il Sindacato CGIL Scuola.
Inoltre, sono tutti, teste pensanti del “Circolo Culturale Arialdo Banfi” di Piazza Garibaldi-Porta Milano che, insieme ed affiancato dal “Circolo Culturale Julian Grimau” di Piazzale Arnaldo-Porta Venezia, sono tra i più attivi e vivaci della città. Anche i più spregiudicati, sia in senso politico che di costume. Per il ruolo e funzione che svolgono sono sempre “sotto tiro”6. A Livia Bottardi Milani, nel 1975, un anno dopo la strage, viene intitolata la sezione bresciana dell’Associazione Italiana Educazione Demografica, con cui aveva iniziato a collaborare nel 1972. Il 27 maggio dello stesso anno anche la biblioteca dell’Istituto Tecnico Commerciale “Cesare Abba” viene ‘intestata’ alla professoressa che, nell’anno scolastico 1972-1973, aveva insegnato lì.

Infine, ma non da ultimo, tutt’altro, incontriamo Euplo Natali, il più anziano (69 anni) delle otto vittime, marchigiano di Iesi (An) migrato a Brescia in cerca del duro mestiere. Per vivere.
Sulle rive del fiume Mella giunge diciottenne, dopo aver conseguito il diploma di Perito Industriale; era un tecnico “sì, non un operaio” tiene a specificare il figlio Elvezio nella sua testimonianza. La precisazione non è una presa di distanza, una discriminante rispetto alla classe operaia, bensì la riaffermazione di quella che in molti definiscono “l’etica comunista del lavoro”. I militanti politici dovevano essere i “migliori”, i più capaci e precisi. Dovevano essere, come sosteneva Brecht, “gli indispensabili”. Sempre a rischio di licenziamento, rappresaglia, trasferimento nei reparti confino erano i più professionalmente diligenti. Ma mai complici e, soprattutto, politicamente conflittuali.
Viene assunto alla Tubi Togni, poi Acciaieria Tubificio Bresciana, ma nel 1941 viene licenziato per motivi politici: è un antifascista convinto.
Grazie alle sue competenze professionali viene subito assunto alla Breda (fabbrica d’armi) e nel 1943, proprio per le sue capacità, viene reintegrato all’ATB.

Dal ’43 al ’45 non si sottrae al lavoro politico, non risulta ufficialmente essere un gappista ma rappresentante del PCI nel Comitato di Liberazione Nazionale della “Stocchetta” (località periferica di Brescia) dove risiede. Dal 1945 al 1948 è segretario della locale sezione comunista.
Terminato il mandato non accetta il rinnovo dell’incarico per “divergenze” con alcuni compagni. Pur essendo un comunista critico: “Rimase, comunque, sempre iscritto al PCI” . Ed alla Federazione Lavoratori Metalmeccanici (secondo la testimonianza del figlio Elvezio).

Purtroppo, recentemente (2013) l’immagine personale e politica di Euplo è stata infangata dalle farneticazioni di un fascista che ha tentato di coinvolgere (legittimato, purtroppo, da una indiretta ma irresponsabile accettazione di confronto che il presidente dell’associazione famigliari delle vittime strage di Piazza della Loggia gli ha concesso, marzo 2011) il militante antifascista e comunista in una impossibile trama perversa secondo cui, Euplo Natali, sarebbe autore e vittima dell’eccidio del 28 maggio 1974. “In primis tra le otto vittime di Brescia c’è un gappista ex-partigiano, Euplo Natali, sul quale si è fatto un insolito silenzio”. Tralasciando lo stile ”letterario”: è un nostalgico di cui non viene citato volontariamente né il nome del fascista in questione, tanto meno il titolo del sedicente romanzo storico di cui è autore, per non concedergli la benché minima “pubblicità”.

Basti ricordare che ad Euplo Natali è stata dedicata (ed è tutt’ora intitolata) la Casa del Popolo di viale Risorgimento, nel quartiere bresciano di Urago Mella. Zona popolare e proletaria nella zona ovest della città. Al suo nome è anche dedicata una Polisportiva che opera nello stesso rione.
Come sempre i fascisti sono ignoranti, stupidi ed arroganti. Oltre che assassini.

In chiusura non posso esimermi dal ricordare che Euplo Natali (ero giovanissimo: 9-10 anni, ed in maniera solo visiva: lo guardavo dalla finestra di casa mia nel Quartiere Primo Maggio, entrare ed uscire, insieme al figlio Rolando, entrambi sempre in bicicletta, dal cancello dell’officina “avvolgimento motori elettrici” dove collaboravano) e Livia Bottardi (che ho avuto come insegnante di Italiano, Storia e Geografia per un anno alle scuole medie inferiori) sono le due vittime della strage che ho avuto modo di conoscere prima dell’eccidio.


  1. Monte Isola è la più grande isola lacustre d’Europa, ed è al centro del Lago d’Iseo  

  2. Tratto da “L’Internazionale” di Franco Fortini  

  3. Che bèla la Giulia che bèla le sguanse culur del lat sintila parlà se lè bèla la te fa namurà. Sintila quand la dis “la vita bisogna doprala a cambiàs noalter e la nostra storia per fal gom le nostre mà”. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perchè. E chela matina a la scola quand ghera l’ocupasiu’ disie a chèla sent la de fora sti atenti compagn al purtù. La Giulia la usa ”i fascisti i ria so dai mur la dedrè riciama i compagn stom po atenti se sa ol ndà aanti amo un dè”. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perchè. E chela matina so en piasa co l’acqua che ignia so un po rada go dit “ve che sota l’ombrela che fet pò le en mèss a la strada”. La va sota el portec de frèsa en temp per dim l’oltima volta “a venser la sarà la vita” la nostra speransa e la canta. Quando to ìsta per tera, col sanc go pensàt sul a me vulie domandat amò scusa, ta ghet mia ìt vita a se. Che bèla la Giulia, lia bèla le sguanse culur del lat vidila le èn piàsa per tera e me con la oio de usà. La vita lè Giulia la vita che vens chèst tal pode surà e quand che so stracc ma sal dise argota garo bè emparat. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perché. Ascoltabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=NCYUbrv67Wg  

  4. Vivace ambiente cattolico bresciano, annesso alla omonima Chiesa che appartiene alla Congregazione Oratori di San Filippo Neri  

  5. Per approfondire ulteriormente la figura di Alberto Trebeschi, vedi anche: C. Bragaglio, P. Corsini (a cura di), Alberto Trebeschi. Scritti 1962-1974. Diario, lettere, interventi, Brescia, Luigi Micheletti Editore, 1984  

  6. In luglio ed ottobre del 1969 i locali di Piazzale Arnaldo, dove hanno sede il ‘Circolo Grimau’ e la sezione ‘Aldo Caprani’ del PCI subiscono attentati. Domenica 8 marzo 1970, fascisti provenienti anche da altre province lombarde assaltano le sedi del “Circolo Banfi”, sezione “Giuseppe Gheda” del PCI e “Giuseppe Verginella” dell’ANPI di Piazza Garibaldi. Per questo raid squadristico, una vera e propria spedizione punitiva armata, vengo arrestati alcuni tra i più pericolosi arnesi del neofascismo regionale. Alcuni nomi: Annamaria Romagnoli (moglie di Giancarlo Rognoni) Nestore Crocesi, Francesco Petronio, Edoardo Ceft, tutti di Milano. Raffaele Maio, Enzo De Canio, Piero Raffi di Brescia, Pietro Tedeschi di Gottolengo ed alcuni componenti della cosiddetta banda di Salò: Umberto Lora, Vittorio Manca, Pietro Iotti. Diego Battista Odelli di Borno, Sergio Geroldi di Lovere, Marco Salvetti di Darfo, Federico Ghezza di Piancogno. Tre giorni dopo, una bomba ad alto potenziale distrugge la forneria dei fratelli Verzelletti, posta all’angolo tra via Pusterla e Piazzale Cesare Battisti a Porta Trento, e viene messa in relazione con l’assalto di Piazza Garibaldi. I Verzelleti, noti antifascisti comunisti, erano a difesa della sede. (Notizie tratte da 28 maggio 1974. Strage fascista a Brescia. Dossier di dieci anni di violenza fascista, Edizioni Movimento Studentesco, giugno 1974)  

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Otello Gaggi: perseguitato dal fascismo, eliminato dallo stalinismo https://www.carmillaonline.com/2015/06/17/otello-gaggi-perseguitato-dal-fascismo-eliminato-dallo-stalinismo/ Wed, 17 Jun 2015 20:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23275 di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati [...]]]> di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati e dallo squadrismo nero, finirono con l’essere lì eliminati fisicamente nel corso delle epurazioni volute da Stalin e dai suoi accoliti per eliminare ogni opposizione interna al Partito Bolscevico e all’Internazionale Comunista. Tragedia che in alcuni casi continuò anche fuori dei confini dell’URSS dopo la caduta del fascismo e dell’occupazione tedesca, come nel caso dell’omicidio del militante internazionalista Mario Acquaviva avvenuto a Casale l’11 luglio 1945 ad opera del partigianesimo togliattiano.1

Per molti anni infatti, grazie anche alle connivenze del Partito Comunista Italiano, il cui leader Palmiro Togliatti aveva pienamente condiviso la responsabilità dei provvedimenti letali presi nei confronti dei rifugiati politici che avevano osato criticare le scelte dello stalinismo, si è venuto così a formare, precedendo nel tempo quello di estrema destra nei confronti della shoa, una sorta di vero e proprio “negazionismo di sinistra” tutto teso a negare oppure a giustificare tali provvedimenti liquidatori nei confronti di centinaia di militanti antifascisti italiani che avevano cercato scampo nell’URSS.

Esattamente come nel caso del negazionismo, tali rimozioni o, ancor peggio, giustificazioni storico-politiche avevano tutte l’obiettivo di negare la realtà dei fatti o, addirittura, le testimonianze dirette di chi era sopravvissuto sia alle purghe che al gulag e aveva potuto tornare in Italia a denunciare ciò che era avvenuto,2 nonostante le denunce su ciò che stava avvenendo o era già avvenuto fossero note, grazie all’opposizione all’estero sia internazionalista che trozkista. O, ancora, grazie alla prima dettagliata sintesi, con tanto di elenco di qualche centinaio di nomi, pubblicata da Alfonso Leonetti nel 1978.3

Il saggio di Giorgio Sacchetti, professore associato di Storia contemporanea e docente a contratto di Storia delle ideologie del novecento in Europa presso il dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova e già autore di altri saggi sulla storia del movimento libertario ed antifascista, ricostruisce le vicende e la tragedia di un operaio anarchico delle ferriere di San Giovanni Valdarno che, riparato in modo avventuroso in Russia per sfuggire alla vendetta fascista , avrebbe trovato la morte nei campi di lavoro siberiani dopo più di un decennio di detenzione, cui era stato condannato come “controrivoluzionario”.

Come recita il titolo di uno dei testi più celebri sull’argomento: una piccola pietra nel mare delle storie, dimenticate e rimosse, dell’antifascismo e dell’antistalinismo classista,4 eliminato per volontà dei vertici del partito sovietico e di quelli asserviti di quello italiano. Piccola, ma significativa. Un’autentica sineddoche storico-politica utile a comprendere come le vicende, anche infinitesimali, di una parte dell’antifascismo e del sovversivismo italiano tra gli anni venti e il 1945 possano rappresentare un’intera tragedia non ancora completamente affrontata dalla storiografia di classe.5

Rispetto all’edizione pubblicata nel 1992, sempre dalla Biblioteca Franco Serantini, la presente può avvalersi di nuovi documenti ed importanti testimonianze anche dei parenti russi collegati alla nuova famiglia che il Gaggi aveva là ricostituito. Ma è soprattutto dalle carte del “processone” contro quello che fu definito il soviet del Valdarno (quasi un centinaio di imputati, tra cui lo stesso Otello, latitante per i fatti di Castelnuovo Sabbioni del 1921) che “ traspaiono chiari i termini di uno scontro di classe di inaudita brutalità nel quale la schermaglia giudiziaria è solo un pretesto per saldare i conti politici e sindacali ormai pendenti fin dal periodo del famoso Biennio rosso”, utili ai fini di comprendere “quale sia stato il clima della violenta battaglia tra fascisti e sovversivi in quell’epoca e la successiva «normalizzazione»” (pag. 9)

Dal voluminoso e inesplorato fascicolo del Casellario politico, presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma, sono inoltre usciti importanti documenti soprattutto relativi agli anni della sua permanenza nell’URSS e accurate informative dell’ambasciata italiana a Mosca, luogo quest’ultimo di indicibili transiti controllato a vista dalla polizia sovietica, postazione dell’OVRA e crocevia di ambigui personaggi. Sono carte preziose per capire il destino doloroso della comunità italiana in quel paese. Ne esce uno spaccato assai significativo sulla situazione di terrore e di sospetto vissuta in tutto l’ambiente dell’emigrazione” (pp. 9-10) Cui vanno ancora aggiunti stralci dall’interrogatorio al Gaggi trascritti negli archivi sovietici.6

Nato a San Giovanni Valdarno il 6 maggio 1896 nella numerosa famiglia di un operaio siderurgico, Otello percorrerà nella sua gioventù tutte le tappe di una militanza politica radicale. Assunto come operaio in ferriera a 15 anni, “sa il fatto suo come mestiere, ma «non è assiduo al lavoro» come lamentano i caporali dello stabilimento di quel giovane che, per di più, ha frequentazioni con soggetti poco raccomandabili e risulta accanito lettore di stampa sovversiva” (pag. 22)

Dall’Archivio centrale dello Stato risulta, poi, che: “Ha fatto propaganda contro la guerra del 1915 partecipando come promotore abusivo a manifestazioni clamorose, sì da essere denunziato. Antimilitarista per viltà e per assenza di sentimento patriottico, nonché per indole ribelle, incorse sotto le armi in delitti che condussero alla sua espulsione dall’esercito” (pag. 23)

Evidentemente, anche in questo caso, le vicende del Gaggi rappresentano ancora una volta molto bene la situazione generalizzata di conflitto e di rifiuto del militarismo e della guerra che si era venuta a creare in Italia nel corso del primo macello imperialista, se è vero che: “Su circa 5.200.000 sudditi del Regno, chiamati alle armi dal 1915 al 1918, in 870.000 subiscono denunzie all’autorità giudiziaria. Di questi oltre la metà (470.000, in maggioranza residenti all’estero) per renitenza alla leva e il resto per fatti commessi sotto le armi. Su 350.000 processi celebrati dai tribunali di guerra sono 140.000 le sentenze di assoluzione e 210.000 quelle di condanna […] Il 15% dei mobilitati e il 6% di coloro che, come Gaggi, pure avevano risposto alla chiamata scendendo in trincea e accettando di indossare la divisa di soldato, si trovarono quindi sotto processo per il loro NO alla guerra” (pag. 27)

Ma saranno i drammatici fatti del 23 marzo 1921 a segnare il destino di Otello, quando in Valdarno, a seguito di una provocazione fascista si svilupperà un violento scontro tra forze dell’ordine e squadristi da un lato e lavoratori antifascisti che per armarsi e reagire avevano svaligiato un’armeria. Tra gli antifascisti si conteranno un morto e nove feriti, mentre nel vicino bacino minerario i minatori sequestreranno l’intera direzione degli impianti e resterà ucciso un ingegnere e ferito il direttore degli stessi.

Per questo motivo, tra i manifestanti colpiti da provvedimenti giudiziari, 92 su 94 saranno accusati di omicidio. Tra questi Otello Gaggi che, pur essendo stato riconosciuto dai testimoni della parte avversa come colui che si era frapposto tra i minatori armati e il direttore nel tentativo di salvarlo dalla furia proletaria, sarà condannato in contumacia a trent’anni di reclusione, tre anni di vigilanza e 165,50 lire di pena pecuniaria.

Ha inizio da quel momento il travagliato viaggio di Otello verso il paese di utopia: la terra dei soviet. Occorre qui comprendere “come nel movimento operaio italiano e internazionale nasca e perduri il mito della Russia rivoluzionaria, mito di lunga durata che si rivela terreno fertile per lo sviluppo successivo di categorie politiche come lo stalinismo ( e il «togliattismo» per quanto riguarda la specifica vicenda italiana). Con una dinamica in parte analoga a quella già in atto per le masse cattoliche nei confronti dell’autorità millenaria dell’istituzione Chiesa, si instaura un vincolo di tipo ideologico fideistico, mutuato dall’attesa messianica del «sol dell’avvenire», nei confronti dello Stato sovietico appena sorto” (pp. 47-48)

Cui occorrerebbe aggiungere che una parte della fiducia derivava anche, nel caso in questione, dal fatto che all’epoca dei fatti di Castelnuovo dei Sabbioni (la località mineraria di cui si è prima parlato) “il PCd’I è stato appena costituito a Livorno, eppure già riscuote vasti consensi e simpatie tra il movimento operaio valdarnese. Non solo socialisti seguaci di Bordiga, ma anche sindacalisti dell’USI e molti anarchici passeranno al nuovo partito” (nota pag, 39)

Anche se l’accusa di “bordighismo” sarà quella che dopo il 1926, sia in URSS che nel partito italiano sotto la direzione di Togliatti, porterà molti militanti all’espulsione o addirittura alla condanna ai lavori forzati o alla morte, l’entusiasmo iniziale verso il nuovo leader del movimento operaio e per il giovane partito nato a Livorno spingerà molti sovversivi a parteggiare per l’Unione Sovietica e il partito bolscevico. E forse anche per questo motivo il Gaggi, dopo una funambolesca fuga di massa avvenuta il 6 giugno 1921 dal carcere in cui era stato rinchiuso in stato di “arrestato provvisorio”, finirà col giungere ad Odessa sul Mar Nero.

Risulterà in seguito che già nel 1922, a Baku, l’anarchico toscano sarà condannato a tre anni di detenzione per motivi politici, anche se dal dicembre 1921 all’aprile dell’anno successivo era stato ospite dell’Hotel Lux di Mosca, riservato in genere ai dirigenti di partito o ai loro familiari. Ma le condizioni di esistenza del Gaggi e della nuova famiglia che egli ha ricostituito in Russia si faranno via via più precarie, in un clima di sospetto e di delusione che il militante valdarnese non manca di segnalare nelle sue missive ai compagni più fidati.

Gaggi che svolge l’attività di venditore di libri “sospetto ai gerarchi”, a partire dal 1930, pur non perdendo la sua abitudine alla critica, si vedrà sempre più minacciato e diffidato, mentre a partire “dal 1933 tutti gli stranieri residenti nel paese iniziano ad essere considerati, in quanto tali, «nemici dell’URSS»” e “di lì a poco si approverà anche la cosiddetta legge sul «tradimento della patria» che comporta la pena capitale ed estende la responsabilità penale ai familiari del condannato” (pag. 64).

Il totale abbandono delle istanze internazionaliste sulle cui basi era nato l’esperimento sovietico e il ritorno al nazionalismo di stampo slavofilo , segna l’inizio della catastrofe per migliaia di militanti del partito sovietico e per molti di coloro che avevano sperato di trovare nell’URSS un rifugio sicuro dall’ondata montante del fascismo e del nazionalsocialismo. Così la notte del 28 dicembre1934, quattro settimane dopo l’assassinio di Sergej Kirov, considerato l’astro nascente del nuovo firmamento bolscevico in grado di insidiare la leadership del dittatore georgiano, che avrebbe dato la stura alle purghe e ai processi di Mosca, “«gli organi addetti alla sicurezza dello Stato proletario» prelevano dalle loro abitazioni con un’azione simultanea nella città di Mosca, undici persone di cui dieci di nazionalità italiana” (pag. 68). Tra questi l’anarchico valdarnese e la sua compagna russa.

Gaggi negli interrogatori finirà col confessare le sue “terribili colpe”, soprattutto quella di aver condiviso con altri compagni l’opinione “«che in URSS i lavoratori vivano male e che nel paese non ci sia libertà»” (pag.70). Riconosciute, quindi, le proprie colpe il militante toscano sarà successivamente condannato a tre anni di confino. Andrebbe qui segnalato che nel quinquennio 1929 – 1934 era in corso un avvicinamento di carattere politico-economico tra Italia fascista e Russia stalinizzata che avrebbe portato alla realizzazione di progetti comuni, con la realizzazione di fabbriche (per esempio quella di una di cuscinetti a sfera nel 1932, le cui foto dell’inaugurazione con Togliatti al centro si trovano ancora presso l’Archivio storico Fiat). E pare quindi evidente che uno dei caposaldi del business tra imprenditori e gerarchi italiani e gerarchi sovietici7 dovesse essere proprio quello della pacificazione delle frange operaie e politiche più ribelli.

E proprio nel 1935, anno della condanna al confino di Gaggi, ha inizio il mito dell’operaio Aleksej Stachanov che, secondo la vulgata stalinista, avrebbe estratto, con una tecnica di divisione dei ruoli lavorativi di sua ideazione, la notte del 31 agosto, 102 tonnellate di carbone, pari a quattordici volte la quota prevista, in meno di sei ore. Mentre erano proprio gli operai che rifiutavano l’enorme sforzo produttivo richiesto dall’industrializzazione a marce forzate sovietica ad essere deportati ed eliminati dopo aver impiccato ai soffitti delle officine i loro colleghi stakanovisti.8

Le vicende politiche dello stalinismo e delle sue vittime sono state trattate troppe volte, da un lato e dall’altro della barricata, da un punto di vista ideologico e politico mentre a ben guardare9 sono sempre i concreti rapporti di classe a definire i regimi, i modi di produzione che li sostengono e le loro eventuali e tutt’altro che “innaturali” alleanze. Soprattutto nei confronti della risorsa lavoro: dalle officine al gulag e ai lager.

Per quanto riguarda le vicende del Gaggi, “si saprà poi che, in data 29 luglio 1937, era stato nuovamente arrestato «per attività antisovietica svolta tra gli altri prigionieri» e per questo condannato (9 gennaio 1938) a ulteriori cinque anni di carcere. Dal 1938 in poi risultano tre trasferimenti in campi di lavoro destinati alle costruzioni ferroviarie, al disboscamento e alle coltivazioni agricole, tutti situati a nord del paese e gestiti da diverse amministrazioni del sistema concentrazionario sovietico” (pag.88)

Ed è a questo punto che si perdono definitivamente e sciaguratamente le sue tracce, nonostante l’appello rivolto da Victor Serge a Palmiro Togliatti che naturalmente, quando era ancora Ministro del Governo antifascista di Roma, si rifiutò di rispondere. Ma qui occorre fermarsi, anche se le responsabilità togliattiane e del partito italiano stalinizzato nell’opera di eliminazione della dissidenza interna ed internazionale risultano dettagliatissime nel lavoro di Sacchetti. Opera che, seppur segnata a tratti da un’eccessiva enfasi libertaria, tutti coloro che ancora si ritengono avversari del capitale e delle sue maschere politiche e nazionali dovrebbero leggere. Soprattutto chi ancora oggi si crogiola nel “mito” di Stalin e della “patria dei lavoratori”.


  1. Si legga in proposito Giorgio Bona, Sangue di tutti noi, Scritturapura casa editrice, Asti 2012  

  2. Si vedano, soltanto come esempio: G. Fabre, Roma a Mosca. Lo spionaggio fascista in URSS e il caso Guarnaschelli, Dedalo 1990, in cui, sulla base di pochissimi e superficiali elementi si cerca di avvalorare la tesi staliniana dell’appartenenza degli oppositori ai servizi segreti fascisti e ad un complotto controrivoluzionario anti-sovietico, già sbandierato ai tempi dell’eliminazione della vecchia guardia bolscevica e trotzkista. Oppure, sull’altro fronte: Dante Corneli, Il redivivo tiburtino, testimonianza diretta di un sopravvissuto che, una volta tornato in Italia , non trovò nessuno disposto a pubblicare le sue memorie, né nel suo partito, il PCI, perché ritenuto un provocatore, né tanto meno nella restante editoria che lo riteneva comunista e quindi sovversivo. Costringendolo così a pubblicare privatamente la sua testimonianza; cosa che lo accomuna a Primo Levi, il cui fondamentale Se questo è un uomo venne infatti stampato nell’autunno del 1947, in 2.500 copie, da una piccola casa editrice torinese, la De Silva diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, avevano rifiutato il manoscritto. Soltanto nel 1958 la casa editrice Einaudi, che ne avrebbe poi fatto uno dei suoi monumenti, lo avrebbe accolto ripubblicandolo nei suoi “Saggi”  

  3. A. Leonetti, Vittime italiane dello stalinismo in URSS, Milano, La Salamandra 1978  

  4. Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra. Le lettere di un operaio comunista morto nei gulag di Stalin, prima edizione Garzanti 1982 con prefazione di Alfonso Leonetti, poi Marsilio 1998  

  5. Tanto che in Italia una delle opere più importanti sull’argomento, fino ad ora pubblicate, è stata per lungo tempo disponibile soltanto nel volume collettaneo REFLECTIOS ON THE GULAG with a documentary appendix on the italian victims of repression in the URSS, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Annali Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Trentasettesimo 2001 poi solo parzialmente ripubblicato in Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli UE/saggi 2004  

  6. Riportati nel testo di F.Bigazzi e G.Lehner (a cura di), Dialogho del terrore.I processi ai comunisti italiana in Unione Sovietica (1930 – 1940), Ponte alle Grazie, Firenze 1991  

  7. Si veda sempre in proposito il fondamentale: Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  8. Come ricordava Danilo Montaldi nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia (1919 – 1970), Edizioni Quaderni Piacentini 1976  

  9. Come nel caso di Margarete Buber Neumann, moglie di un importante dirigente del partito tedesco, rifugiatosi nell’URSS per sfuggire al nazismo e qui eliminato durante le grandi purghe staliniane, restituita alla Germania nazista e ai suoi lager in occasione del patto Ribbentopp – Molotov del 1939  

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Il pensiero di Gramsci: un’eredità controversa https://www.carmillaonline.com/2014/07/15/pensiero-gramsci-uneredita-controversa/ Mon, 14 Jul 2014 22:10:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16082 di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata [...]]]> di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra1 .

Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.

Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Bologna, si occupa di Gramsci ormai da molti anni. Gli ha dedicato opere e articoli che da soli basterebbero già a riempire una biblioteca sull’argomento e, forse proprio per questo, con quest’ultima opera ha voluto realizzare una corposa ed importante sintesi del pensiero politico di quell’uomo dagli occhi chiari “da sognatore” che sempre avevano colpito quello che è stato considerato, spesso a torto, uno dei suoi grandi avversari all’interno del Partito Comunista delle origini: Amadeo Bordiga.

Diviso in diciotto capitoli, di cui circa la metà costituiti da rielaborazioni di articoli precedenti, il libro affronta tutte le maggiori questioni politiche e filosofiche poste dal pensiero gramsciano, sia durante il periodo di militanza “libera”, prima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista di cui fu uno dei fondatori, sia nel periodo della detenzione, attraverso i Quaderni dal carcere e, in misura minore, le lettere.

La teoria o le teorie di Gramsci sono qui ordinatamente suddivise in due tempi, prima e durante il carcere, e per temi.
Così, nella prima parte i temi principali finiscono con l’essere quelli della coscienza di classe e del suo manifestarsi nel soggetto, della sua rappresentanza politica attraverso la democrazia e/o la rivoluzione e, in fine, quello della anticipazione e previsione dei tempi . Temi che è impossibile vedere separati da quella che fu la riflessione sulla crisi e sui compiti del Partito Socialista, portata avanti sulle pagine, soprattutto, de L’Ordine Nuovo (fondato nel 1919) e attraverso l’esperienza delle lotte operaie che accompagnarono la prima Guerra Mondiale e poi, successivamente alla stessa, l’occupazione delle fabbriche e il Biennio Rosso.

Temi che, però, accompagneranno ancora la sua riflessione all’interno del Partito Comunista e durante la sua brevissima permanenza effettiva ai vertici dello stesso dopo il congresso di Lione, tra il gennaio del 1926 e il novembre dello stesso anno quando fu arrestato e condannato a vent’anni di galera dai tribunali del regime.
Argomenti, comunque presenti, in maniera nemmeno troppo sotterranea, anche in tutta la sua elaborazione successiva, che costituisce non solo la “seconda parte” del libro, ma quella decisamente più cospicua (12 capitoli su 18) del testo.

Qui entrano in gioco le categorie “gramsciane” più note: la società civile, la “quistione dell’egemonia”, le rivoluzioni passive, il cesarismo, la transizione, l’americanismo e il fordismo oltre che l’analisi del fascismo come “razionalizzazione regressiva”, quella del Risorgimento e del pensiero di Machiavelli applicato alla storia d’Italia e della sua lotta tra le classi. Dove si rivela, come afferma fin dalla prima riga Burgio, tutta l‘inattualità di Gramsci.

Inattuale perché lontano dai discorsi politici, mediatici e filosofici odierni. Tutti così superficiali e privi di rigore. Improntati al facile consumo parolaio, a differenza del discorso gramsciano spesso intricato nella ricerca di un rigore oggi non più di moda. Discorso spesso sviluppato in solitudine quasi assoluta. Lontano dal Partito e, spesso, dalle sue scelte, sempre più indirizzate dal formalismo e dall’autoritarismo dell’Internazionale stalinizzata. Un discorso che spesso, soprattutto nella prima parte, è lontano da Marx e più vicino alla tradizione idealistica del Croce.

Ma inattuale, forse, anche per la canonizzazione imposta, come si è già detto prima, a partire da Togliatti che volle, in qualche maniera, potersi presentare al suo ritorno in Italia, a capo del Partito Comunista (diventato) Italiano, come legittimo erede del suo pensiero e che ha fatto sì che si sviluppasse, a partire dal 1950, uno dei più importanti istituti di ricerca politica legati alla sinistra istituzionale: la Fondazione Antonio Gramsci, divenuta poi Istituto Gramsci nel 1954. Istituto che dal 1994 conserva l’intero Archivio storico del Partito Comunista Italiano, dall’anno della sua costituzione (1921) all’anno del suo scioglimento (1991).

Insomma una autentica rifondazione delle stesse origini del Partito Comunista Italiano che, rimuovendo le scomode figure di Amadeo Bordiga e Brunio Fortichiari ( solo per citare due nomi desaparecidos per un lungo periodo dalla storiografia piccista), faceva del comunista sardo il “vero” fondatore del partito stesso, trasformandolo in una sorta di santo protettore della sua linea e delle sue scelte . Ciò, naturalmente, poco toglie alla figura di Gramsci, ma molto è servita ad alimentare una lettura del suo pensiero che è andata dalla convenienza politica più sfacciata, per giustificare ad esempio la “svolta” del compromesso storico fino a recenti, e ancor più forzate letture, in chiave liberale. Complicando quindi, e di molto, la questione dell’effettiva valenza del suo pensiero.

Eppure come si fa a non cogliere, oggi, tutta l’attualità di una riflessione su una borghesia pavida: “Prodotta secoli addietro «dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale»” (pag. 374) oppure sul fatto che “Sul piano politico-storico, l’alto prezzo pagato dal paese all’attitudine antipopolare di gran parte della sua borghesia ( i Quaderni parlano di un «egoismo gretto, angusto, antinazionale») è nientemeno che la mancata formazione di quella volontà collettiva senza la quale è impossibile, secondo Gramsci, dare vita ad uno Stato moderno forte e dotato di adeguate potenzialità di sviluppo” (pag. 375).

Per Gramsci “ogni rivoluzione passiva risulta da un rapporto di forze che permette al dominante di dirigere (volgendole a proprio vantaggio) trasformazioni divenute inevitabili” così che “la rivoluzione passiva è il «documento storico reale» della debolezza dei subalterni. Dell’insufficiente forza d’urto delle classi sociali subordinate e, in primo luogo, dell’inadeguatezza delle loro élites politico-intellettuali, incapaci di ordinare, potenziare e finalizzare quella forza, dando alle domande di mutamento uno sbocco pienamente rivoluzionario” (pp. 370 – 371). E anche se l’analisi riguarda soprattutto le élites risorgimentali è chiaro che la riflessione di Gramsci , qui sintetizzata da Burgio, non poteva non riferirsi ai compiti posti all’organizzazione di classe nell’ora del dominio fascista.

I Quaderni inquadrano il fascismo nel contesto analitico relativo alla rivoluzione passiva. Al pari del «nuovo industrialismo» americano – ma con un sovrappiù di brutalità e violenza militare tipico del bonapartismo – il fascismo rappresenta un paradigma della forma novecentesca di rivoluzione passiva, cioè un intervento restaurativo privo di valore progressivo. Concepito e realizzato al solo scopo di arginare gli effetti distruttivi della crisi e di prolungare le sopravvivenza della forma sociale capitalistica (la sua «durata»)” (pag. 393).

Il fascismo, come il fordismo e l’americanismo, doveva rispondere ad impellenti esigenze di programmazione e pianificazione della produzione, ma esattamente come le altre due forme ancora doveva svolgere la sua funzione di mantenimento dell’ordine economico-sociale borghese e dello sfruttamento di una classe su un’altra. In questo contesto, all’interno della produzione industriale moderna, taylorizzata, Gramsci individuava però le condizioni di quella che potrebbe essere la moderna autonomia operaia ovvero la capacità dei lavoratori di esercitare la loro egemonia sulla società attraverso forme di controllo della produzione e di autogoverno dei produttori.

Una posizione parzialmente proto-consigliarista, che già in passato si era scontrata, questa sì davvero, con le posizioni bordighiane. Nel febbraio del 1920, “commentando le manifestazioni di massa («movimenti spontanei e incoercibili») e le lotte del lavoro in corso nel paese, Gramsci scrive che esse «hanno, per i comunisti, valore reale in quanto rivelano che il processo di sviluppo della grande produzione industriale ha creato le condizioni in cui la classe operaia acquista coscienza della propria autonomia storica, acquista coscienza della possibilità di costruire, con l’ordinato e disciplinato lavoro, un nuovo sistema di rapporti economici e giuridici che sia basato sulla specifica funzione che la classe operaia svolge nella vita del mondo». Non si tratta di concessioni alla retorica rivoluzionaria, ma di un ragionamento da prendersi alla lettera. Nel senso che l’idea di un sovvertimento generale della gerarchia dei poteri a partire dalle trasformazioni dei processi industriali è sottesa all’intera analisi di quello che i Quaderni chiameranno «nuovo industrialismo»” (pp. 332 – 333).

Il testo di Burgio solleva quindi tante questioni quante effettivamente ne deve sollevare una attenta lettura dell’opera di Gramsci, di cui rappresenta un ottimo compendio, ma per non tediare oltre il lettore occorre fermarsi a questo primo, superficiale approccio propositivo.
Uno degli appunti che si possono fare al lavoro sul “sistema gramsciano” è forse quello di una accettazione un po’ troppo passiva della vulgata togliattiana della distanza tra Gramsci e Bordiga (tra i quali rimase sempre una grande e reciproca stima ed amicizia a differenza di quanto avvenne tra il primo e Togliatti con cui i rapporti si erano chiusi molto presto) che servì, prima, durante e dopo il fascismo a giustificare le giravolta del Partito Comunista e del Comintern e del Cominform, pubblicando sia la corrispondenza che gli stessi Quaderni dal carcere in modo da far corrispondere una continuità di intenti tra il pensiero gramsciano e le scelte politiche del Migliore2.

Qualche nota di carattere storico in più e qualche ulteriore riferimento a qualche opera recente sui reali rapporti tra Gramsci e Togliatti3 non avrebbero guastato e avrebbero contribuito a liberare una volta di più Gramsci dalle catene interpretative che gli sono state imposte, non solo dal fascismo, a partire dal 19264 .
Catene che ne hanno spesso fatto una sorta di monolito, appianandone le contraddizioni (ad esempio il suo prolungato idealismo di stampo crociano così evidente, anche se negato, nella prima parte del libro di Burgio) e banalizzandone anche gli aspetti più contraddittori ma gravidi di spunti di riflessione.

Però negli ultimi due capitoli del testo in questione l’autore apre due significative parentesi sui legami tra il pensiero di Gramsci e quello di Antonio Labriola e di Benedetto Croce fornendoci ulteriori dati per comprendere una figura in eterno bilico tra determinismo e idealismo che, più che attraverso Marx, era giunto ad una più definita dialettica materialistica non solo attraverso gli spunti forniti da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche attraverso il confronto, talvolta anche duro ma mai scorretto, con un rivoluzionario più vicino al determinismo marxista come Bordiga. Citato, purtroppo, nel testo solo e sempre in chiave negativa così come la tradizione del PCI togliattiano ci voluto tramandare fin dagli anni del Comintern.

Il testo di Alberto Burgio ha sicuramente il pregio di riordinare sistematicamente un pensiero magmatico, a tratti onnivoro e difficile da seguire attraverso la ragnatela di rimandi filosofici, economici, storici e culturali che derivavano spesso, soprattutto nei Quaderni, dalla solitaria lettura impostagli dalla condizione di carcerato; ma, talvolta, lo fa con una eccessiva determinazione nel volerne garantire l’intima coerenza, perdendo così l’occasione, ed è questo l’altro appunto che gli si può fare, di renderlo più vitale e attuale sottolineandone le contraddizioni e tutte le differenti influenze a cui fu sottoposto nella sua evoluzione storica reale, liberandolo dalle incrostazioni dovute ad una lettura, troppo spesso, a senso unico e di carattere quasi agiografico.


  1. Basti pensare che solo a partire dal 1975 furono pubblicati, a cura di Valentino Gerratana, i Quaderni nel loro effettivo ordine cronologico. Mentre per un’edizione quasi integrale delle Lettere dal carcere è occorso ancora più tempo. Infatti la prima edizione del 1947 ne conteneva 218, mentre altre 77 inedite furono pubblicate nel 1964 e ancora 119 l’anno successivo. L’ultima edizione, uscita nel 1995 ne comprende 494 in tutto.  

  2. Ad esempio, nella prima edizione delle Lettere dal carcere qualsiasi riferimento a Bordiga era stato espunto sistematicamente  

  3. si veda ad esempio: Chiara Daniele, a cura di, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi1999  

  4. In quell’anno Bordiga, il 22 febbraio, aveva presenziato al VI Plenum allargato dell’Internazionale Comunista e aveva chiesto conto della situazione venutasi a creare all’interno del partito russo ai danni dell’opposizione e della società nel suo insieme. Il 14 ottobre di quello stesso anno l’Ufficio Politico del PC d’I, capeggiato da Gramsci, aveva scritto al Comitato centrale del partito comunista russo più o meno sugli stessi temi. Ventiquattro giorni dopo Gramsci veniva arrestato in Italia e nel 1929 Bordiga veniva definitivamente espulso come deviazionista trotzkista dal partito di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Il nome di Togliatti non compare né tra quelli che si riunirono nel 1920 come frazione astensionista e comunista, né tanto meno tra i fondatori del partito Comunista a Livorno nel 1921  

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