Medusa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 27 Nov 2025 22:54:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 13 https://www.carmillaonline.com/2025/08/23/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-13/ Sat, 23 Aug 2025 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89820 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Battaglia con Medusa

Il titolo del capitolo 11 del Domenicano bianco, La testa della Medusa, ci traghetta al cuore di un orizzonte simbolista dove Meyrink incontra idealmente von Stuck e tutta una schiera di altri visionari evocatori (Carlos Schwabe, Maximilián Pirner, Franz Stassen, Jeanne Mammen, Jacek Malczewski, Vasily/Wilhelm Kotarbinsky, Jean Delville, Fernand Khnopff, Gustav-Adolf Mossa, e persino realisti come Wilhelm Trübner) di quell’emblema folgorante, così denso di implicazioni e suggestioni da continuare a interpellare l’Occidente fin dall’antichità. Senza freudismi da rotocalco, è almeno intrigante leggere lo scontro tra Cristoforo e Medusa alla [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Battaglia con Medusa

Il titolo del capitolo 11 del Domenicano bianco, La testa della Medusa, ci traghetta al cuore di un orizzonte simbolista dove Meyrink incontra idealmente von Stuck e tutta una schiera di altri visionari evocatori (Carlos Schwabe, Maximilián Pirner, Franz Stassen, Jeanne Mammen, Jacek Malczewski, Vasily/Wilhelm Kotarbinsky, Jean Delville, Fernand Khnopff, Gustav-Adolf Mossa, e persino realisti come Wilhelm Trübner) di quell’emblema folgorante, così denso di implicazioni e suggestioni da continuare a interpellare l’Occidente fin dall’antichità. Senza freudismi da rotocalco, è almeno intrigante leggere lo scontro tra Cristoforo e Medusa alla luce del difficilissimo rapporto tra Gustav e sua madre, che pare averlo segnato per la vita.
Il capitolo si apre con una seduta spiritica alla Dr. Mabuse, ma in un contesto molto più povero. A un tavolo in una stanzetta miserabile sono il tornitore Mutschelknaus, una piccola cucitrice gobba con fama di strega, “un donnone vecchio e grasso” , un uomo dalla lunga chioma e il narrante Cristoforo. Su un armadio è un lumicino da notte in vetro rosso con sopra un disegno recante l’immagine della Madonna, il cuore trafitto da sette spade: e l’uomo dai lunghi capelli invita a pregare iniziando a borbottare un Paternostro. La donna grassa singhiozza, e lui invita a formare una catena “poiché gli spiriti amano la musica”. Si prendono per mano e pregano con fervore commovente, ma l’uomo lamenta non ci sia abbastanza forza – e finalmente un crepitio dall’armadio, seguito da uno del tavolo, avverte che qualcuno sta arrivando. Pitagora, spiega l’uomo…
La piccola cucitrice è in convulsioni, a un tratto la sedia le viene strappata via per cui i presenti la sollevano dal pavimento. Cristoforo coglie vibrazioni nell’aria e si domanda se siano quelle di un camion appena passato o se i suoi sensi si siano acutizzati in modo parossistico – e a un tratto coglie un ammonimento interiore a stare in guardia. Avverte l’ingresso nella stanza di “qualcosa di diabolicamente maligno, un essere orrendo, un miasmo di veleni” ma ricorda anche la promessa di Ofelia di stargli accanto e proteggerlo da ogni pericolo. In quel momento gli altri tre gridano all’unisono il nome di lei: sopra il corpo della cucitrice si formano due coni di miasmi bluastri, uno con la punta verso l’alto e il secondo verso il basso, e si congiungono a formare una grande clessidra come in un manifesto di grafica espressionista. Poi i contorni si definiscono quasi in una lanterna magica e appare Ofelia. Una visione chiarissima, eppure in Cristoforo, come se l’avo e Ofelia gridassero assieme dal suo intimo, risuona l’esortazione a tenere saldo il cuore: e intanto l’immagine formatasi della ragazza amata prende a camminare nella sua direzione. Lo bacia sulla fronte, gli stringe la mani al collo fino a fargli sentire il calore del suo corpo e farla sospettare tornata in vita: ma la voce di Ofelia in lui grida in modo angosciato che quella porta solo la sua maschera, lui non la abbandoni… Non lo farà, garantisce Cristoforo, e si chiede mentalmente, fissandola, chi sia costei che porta la maschera di Ofelia: “in quell’istante sul viso del fantasma guizza un’espressione inanimata, da statua di pietra, le pupille si contraggono come se fossero state colpite da un raggio di sole”. La larva si ritrae per non farsi smascherare, ma per un attimo Cristoforo le ha visto riflessa negli occhi la testa di un estraneo invece della propria. Poi lo spettro va a farsi abbracciare dal tornitore, e Cristoforo è colto dall’orrore: trattiene in mente il viso riconosciuto dell’estraneo che cerca di sfuggirgli, insieme di fanciullo e di fanciulla tanto belli ma spietati, con uno sguardo senza iride come una statua di marmo. Un volto che è punto di convergenza tra due mondi, “come una lente focale in cui si raccolgono i raggi del regno della distruzione, saturi d’odio: dietro tale punto si cela l’abisso di ogni disintegrazione, e l’Angelo della Morte ne è il simbolo più evanescente”. Ma alla domanda su quale forza dell’universo gli abbia infuso vita coi tratti di Ofelia, si risponde poco dopo che è “la forza impersonale del Male ad evocare cose prodigiose grazie alle mute leggi della natura”, recando però risultati inversi, infernali. E a modellare il tutto è l’anima della povera cucitrice isterica, che ha messo a disposizione della nostalgia del tornitore quel fantasma impressionante. “È qui all’opera, anche se in piccolo, la testa della Medusa, il simbolo del potere pietrificante che ci risucchia verso il basso”. Si è accennato al possibile influsso su questo romanzo – ancorché in termini liberi – di Zanoni di Edward Bulwer-Lytton, cui richiamano vari particolari: compreso proprio il richiamo simbolico alla Medusa, evocata in Zanoni nella gorgonica Custode della Soglia la cui comparsa ispira raccapriccio. L’“espressione inanimata, da statua di pietra” e lo “sguardo senza iride come una statua di marmo” evocano proprio una pietrificazione simbolica, come sotto lo sguardo della dea mostruosa.
Ora lo spettro è scomparso, la cucitrice rantola, il tornitore invita il Nostro a tacere che si trattasse di sua figlia e l’uomo coi capelli lunghi invita Cristoforo a ringraziare Pitagora: l’hanno invitato alla seduta per guarirlo dai suoi dubbi, “La Resurrezione dei morti è prossima”. La donna grassa lo invita a rinunciare alle vanità del mondo e ad aderire allo spiritismo che sta dilagando, e l’uomo dai lunghi capelli annuncia che le bestie selvagge si nutriranno di nuovo d’erba – ma come negli occhi del fantasma Cristoforo ha visto la testa di Medusa, così nella voce del tipo ne ode il messaggio: “Risorgeranno le vuote maschere dei defunti, ma non i nostri amati, non i trapassati compianti dagli esseri terrestri” e al posto del Signore lì si intende Satana. La danza di questi revenant non annuncerà dunque l’inizio del Regno millenario, sarà una danza infernale: e la voce lo sfida, desidera forse – smascherando il fenomeno – che il tornitore e gli altri precipitino nella disperazione? Lui non osa dire la verità al vecchio…

 

Una conoscenza prende ad ardere dentro di me: la terribile frattura che compenetra tutta la natura, non si limita solo alla terra, la lotta tra l’amore e l’odio, il contrasto tra il cielo e l’inferno si prolunga anche nel mondo dei defunti, molto al di là della tomba.
Lo sento: i defunti trovano la pace vera soltanto nei cuori di coloro che sono diventati vivi nello spirito; solo lì per loro c’è pace e solo lì trovano rifugio. Se i cuori degli uomini dormono, anche i morti dormiranno, se i cuori si destano spiritualmente, anche i morti diventeranno vivi e prenderanno parte al mondo fenomenico, pur senza essere sottoposti alla tortura inerente all’esistenza terrestre.
[…] Percepisco la certezza che si stanno preannunciando i tempi in cui la teoria dello spiritismo simile ad un’epidemia di peste inonderà l’umanità. Mi immagino la voragine della disperazione che inghiottirà l’umanità quando, dopo una breve ondata di felicità, vedremo i morti risorgere dalle tombe e mentire, mentire, mentire, in modo più spudorato di ogni altra creatura della terra, perché sono entità demoniache illusorie, sono embrioni, generati da un accoppiamento infernale.

 

In Meyrink è forse l’attacco più severo e senza appello allo spiritismo al tempo tanto di moda.
Alle mani che posano ancora sul tavolo sono aggrappati – avverte – esseri invisibili. L’uomo coi lunghi capelli sostiene che l’entità manifesta attraverso la cucitrice sia Pitagora ma lei fissa Cristoforo e proclama con voce da uomo: “Tu sai che io non sono Pitagora!”. Gli altri non hanno sentito, le loro orecchie sono sorde, spiega l’entità:

 

Porgersi le mani mette in moto un processo magico. Ma se si uniscono delle mani che non si sono ancora ridestate a vita spirituale allora è il Regno della Medusa ad affiorare dall’abisso del passato, e il mondo degli inferi rigurgita le larve dei morti; la catena delle mani vive, invece, è il muro difensivo che protegge la rocca della Luce Suprema. I servi della Medusa sono, a loro insaputa, i nostri strumenti; essi credono di distruggere, ma in realtà creano spazio all’avvenire. Simili a vermiciattoli che divorano le carogne, essi rosicchiano il cadavere della visione materialistica del mondo. Se non lo facessero, il fetore generato dalla putrefazione farebbe marcire la terra. Essi nutrono la speranza, mandando tra gli uomini gli spettri dei defunti, che stia per sorgere la loro aurora! Noi siamo ben felici di lasciarli fare.

 

La fonte del soccorso verrà dal Regno dello Spirito, anche se gli spiritisti non capiscono, rovesciando la vecchia Chiesa “senza sospettare di evocarne una nuova”. Estirpano solo ciò che è destinato a spegnersi: “la dottrina dimenticata del ‘Dissolvimento con il corpo e con la spada’ fungerà da base alla nuova religione e costituirà l’armamentario del pontefice spirituale”. Ma non si preoccupi per il vecchio tornitore, “nessun uomo di buona volontà si incamminerà mai verso l’abisso”.
Cristoforo passa il resto della notte sulla panchina del giardino, felice di sapere che lì riposano solo le spoglie dell’amata ma lei gli è inscindibilmente legata. Tra le nubi sembra emergere la testa della Medusa, come volesse inghiottire il sole. Lui spezza allora un rametto di sambuco e lo configge nel terreno, traendo l’impressione di arricchire il mondo della vita. E intanto il sole, nel cielo, divora la testa della Medusa.
Ma in realtà il tema ritorna. Se il Nostro si sveglia un mattino con le parole di Giovanni Battista sulle labbra – “Egli deve crescere e io invece diminuire” – la deminutio è a colpi di insulti pubblici, vecchi che profetizzano lui diventi un eccentrico come il nonno e gente operosa che biasima lui non lavori. C’era chi lo giudicasse un vampiro, altri un lupo mannaro – per la casuale concomitanza dell’abbattimento di un grosso cane feroce e di una sua ferita accidentale alla testa; un vagabondo l’aveva visto ed era morto con il viso contratto, un accusato di omicidio aveva visto in lui la presunta vittima… tutte persone – si rende conto – che hanno intravisto in lui la testa della Medusa. Chi la vede muore, chi la percepisce ne è raccapricciato.

 

Nelle pupille del fantasma tu hai scorto allora la caducità e l’elemento funereo che risiedono in ogni uomo ed anche in te. Se gli uomini non vedono la morte è perché essa dimora in loro, essi non sono Cristofori, cioè “portatori di Cristo”, bensì portatori della morte, che li rode da dentro come un tarlo. Soltanto colui che la scoverà, come hai fatto tu, sarà in grado di vederla; per costui essa diverrà “oggetto” e sarà finalmente in grado di fronteggiarla.

 

In effetti prende a riconoscere ovunque la “terribile Signora del Mondo: la Medusa dal volto splendido, eppure così orrendo”. D’altronde capisce di dover diminuire e che a crescere debba essere il suo progenitore. In qualche modo è vero che lui assorbe quelle vite.
Mentre il padre invecchia e diventa sempre più taciturno, Cristoforo esce sempre meno e alla fine smette persino di andare alla panchina, che in spirito ha trasportato nella propria camera. Ma con il padre comunicano a base di pensieri, tranne rare volte come quando il vecchio aveva parlato della morte. In quel momento, spiega, di alcune persone muore “una parte così grande che si potrebbe dire che non rimane più nulla”: di alcuni sopravvivono solo le opere, ma anche i grandi devastatori hanno ricevuto statue memoriali. Chi muore suicida o per violenza lascia sulla terra le proprie immagini – scambiate dagli spiritisti per fantasmi – e qualcosa che impregna i luoghi registrando la memoria dei fatti. Il padre stesso ammette di trattenere nel proprio corpo “troppi elementi che non è in [suo] potere trasformare alchemicamente”: non fosse per il figlio, sarebbe costretto a tornare in una nuova esistenza terrena, per portare a compimento almeno qualcosa. Per evitare quel ritorno, gli egizi si facevano mummificare, onde impedire che l’eredità delle loro cellule ricadesse di nuovo su di loro. Ma l’ereditarietà delle cellule non è solo un fatto materiale, come mostrano certe somiglianze tra un padrone e il proprio cane: “a ciò che si ama si imprime il marchio del proprio essere”, il che spiega l’intelligenza “umana” degli animali domestici. “Più gli uomini si amano profondamente, più cellule si scambiano”, e tra milioni di anni quella compartecipazione sarà totale. Quando era morto il nonno, il padre di Cristoforo aveva dunque assunto la sua eredità, fino a sentir decomporre quel corpo e liberarne le cellule prigioniere: e altrettanto succederà a Cristoforo, a ricapitolare alchemicamente la loro stirpe. Ma quel dissolvimento con il corpo che nel caso di padre e antenati era stato incompiuto sarà molto più radicale per lui,

 

perché la regina del regno della putrefazione non ci ha odiati nella stessa misura in cui odia te. Solo colui che la Medusa odia e teme nello stesso tempo riuscirà a farlo. Sarà ella stessa a compiere su costui ciò che vorrebbe impedire. Quando sarà giunta l’ora, si precipiterà su di te per dare alle fiamme ogni tuo atomo, con tale furia infinita che distruggerà in te la sua propria immagine e in questo modo farà quello che l’uomo non riuscirebbe mai a compiere con le proprie forze: uccidere una parte di se stessa e dare a te la vita eterna. Essa si trasformerà così nello scorpione che punge se stesso. Allora sarà giunto il momento della grande trasmutazione: non sarà più la vita a generare la morte, ma la morte genererà la vita!

 

Il padre esulta a vederlo chiamato a essere la cima del loro albero… È diventato “freddo” fin da giovane, mentre loro sono rimasti “caldi” malgrado l’età: la radice della morte è l’istinto sessuale, che gli asceti si sforzano di estirpare fuggendo la donna: eppure solo la donna può recare aiuto. “L’elemento femminile, che qui sulla terra è separato da quello maschile, deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne”. Congiunti i poli, si compiranno le nozze e si instaurerà la freddezza magica che spezza le leggi della terra e fa sgorgare “tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito”.
Giunge il giorno dell’Assunzione di Maria, trentaduesimo anniversario del ritrovamento di Cristoforo sulla porta della chiesa: di notte il padre lo chiama e lui capisce che è alla fine. il vecchio ha indossato un mantello con una spada: comunica che la sua missione è terminata, vuole mostrargli un segno e intreccia le dita alle sue. Così, spiega, sono congiunti i membri della catena invisibile: se vi resterà congiunto, nulla potrà opporgli resistenza, “perché fin nei più remoti recessi dell’universo ti aiuteranno le forze del nostro Ordine”, ma stia in guardia “da ogni essere che ti verrà incontro nel Regno della Magia”. Le forze delle tenebre possono assumere qualunque forma, ma se provassero a inserirsi nella loro catena “si disintegrerebbero in atomi”: alle apparizioni lui richieda dunque sempre quella certa presa con le mani.
Poi il vecchio muore: e da sue istruzioni il figlio dovrà farlo seppellire accanto alla moglie nelle vesti rituali e con la spada. È di ematite, orientale e molto antica, reca sull’impugnatura un volto dai tratti mongolici, e dall’arma sembrano fluire correnti di vita: forse – come riporta la leggenda – è una di quelle spade che un tempo erano state uomini. Il cappellano, amico fedele, dovrà dire una messa per la propria pace.
Passa il tempo, la gente si è dimenticata dell’eremita Cristoforo che vive chiuso in casa. In qualche modo deve essersi procurato il necessario per vivere, ma la sua morte interiore ha resettato tutto. Certo, scendendo in strada si stupisce dei cambiamenti intervenuti: nel giardino la panchina non c’è più, sostituita da una statua della Madonna. Anche il cappellano è cambiato, stenta a riconoscerlo: viene a trovarlo, lieto di ritrovare in lui tanto del padre, e gli racconta di quanto fosse rimasto colpito all’affermazione di Cristoforo bambino d’essere stato confessato – nientemeno! – dal Domenicano Bianco. Ma ora crede di aver capito: i miracoli in città si stanno moltiplicando. C’è chi ha visto la misteriosa ombra bianca della chiesa e lui stesso ha assistito al manifestarsi del Domenicano Bianco, “quanto di più sacro possa immaginare”, anche se ignora possa trattarsi di un vivo con poteri particolari o invece di un’apparizione spettrale. Ma l’ha visto nelle vesti di un papa del futuro “che si chiamerà Flos Florum”: nella profezia di Malachia, anche rispetto a Meyrink si tratta di un pontefice futuro, visto che nel tempo si è abbinato quel motto a Paolo VI (Giovanni Battista Montini, 1963-1978: la definizione Flos Florum verrebbe attribuita al giglio, e nello stemma di Paolo VI ne compaiono appunto tre). Nel frattempo gli avevano detto che il tornitore era impazzito per la scomparsa della figlia, il cappellano l’ha visitato per consolarlo ma è stato il tornitore a consolare lui – evidentemente è un essere cui Dio ha concesso la grazia. E ora compie miracoli, al punto che la cittadina sta diventando luogo di pellegrinaggi. Al momento il tornitore sta attraversando il contado, guarendo i malati con l’imposizione delle mani, ma l’indomani, all’Assunzione, sarà di ritorno. Sì, il cappellano sa che il vecchio ha praticato per qualche tempo lo spiritismo ma ora se n’è allontanato… d’altronde si chiede se sia meglio quello o il materialismo dilagante. Comunque pare che il tornitore abbia anche risuscitato un morto, facendo fermare il relativo carro funebre e ordinando al morto di rialzarsi: peccato sia impossibile fargli spiegare qualcosa, è sprofondato in uno stato d’estasi via via sempre più profondo. In quell’occasione aveva però detto qualcosa: la Madonna gli sarebbe apparsa davanti alla panchina, dove cresce il sambuco piantato da Cristoforo, e sorrideva beata come la sua Ofelia. Ma in quel caso, grazie alla Vergine, sapeva che si trattava d’un semplice morto apparente – visti che lui stesso era stato sepolto vivo, e il cappellano non coglie il nesso. Peraltro l’apparente risuscitato, che era uno storpio noto in città, era morto subito dopo travolto da un cavallo imbizzarritosi nella confusione.
Comunque il tornitore aveva compiuto molte altre prodigiose guarigioni e l’albero di sambuco era diventato il centro di ogni genere di miracoli. Compreso il ravvedimento di grandi numeri di miscredenti… Cristoforo vede nella purezza di cuore del tornitore il correttivo ai prodigi della Medusa e nella trasformazione di Ofelia nella Madonna lo “stesso processo magico in opera durante la seduta spiritica”. Ma quando chiede al cappellano se il diavolo possa assumere l’aspetto di una figura sacra, quello si ribella: e a quel punto Cristoforo capisce che occorre l’avvento di una grande Guida spirituale perché la verità non uccida coloro che la ascoltano.
L’indomani viene destato da uno scampanio vivace, con inni mariani; vede comparire il vecchio tornitore, ma avverte anche l’ammonimento interiore di Ofelia a stare in guardia. Ci sono anche il losco Paride e la signora Aglaja intenti a lucrare tra i devoti. Intanto il tornitore è occupato a parlare con l’immagine mariana che pare rispondergli e china addirittura il capo. Cristoforo avverte però l’esortazione di Ofelia e anche la voce di Medusa che, circonfusa da antichi sentimenti di devozione in lui presenti, gli chiede di prostrarsi e adorarla… Per non farlo si lascia allora scivolare in una resistenza passiva, perdendo coscienza e ritrovandosi nella nicchia del portone. Ma intanto la folla dei devoti – che hanno strappato di dosso al vecchio brandelli di vesti per farne reliquie – si dirige verso la chiesa. Svuotatosi il vicolo, il Nostro scende e raggiunge il luogo di sepoltura dell’amata: le chiede di poter rivedere il suo volto, e per un attimo una luce inghiotte la statua della Madonna. Per un istante vi vede il volto di Ofelia sorridente, poi torna a riapparire la statua. “Avevo gettato uno sguardo nell’eterno presente, che per i mortali è solo una vuota, incomprensibile parola”.
Tali sviluppi, preparati dalle frasi a inizio romanzo su Lourdes e l’inconscio – “Ciò non significa che la Madre di Dio non sia altro che l’inconscio, no, l’inconscio è la ‘Madre’ di ‘Dio’” – appaiono estremamente interessanti in un periodo in cui di apparizioni mariane si parla parecchio: limitandosi alle principali, Roma 1842, La Salette (Francia) 1846, Lourdes (Francia) 1858, Champion (Usa) 1859, Pontmain (Francia) 1871, Gietrzwald (Polonia) 1877, Knock (Irlanda) 1879, Fatima (Portogallo) 1917. Tanto più in rapporto a suggestioni escatologiche come quelle sulla profezia di Malachia, a mostrare che Meyrink non costruisce il suo “sistema” – con tutte le virgolette del caso, l’etichetta è discutibile e forse lui stesso non sarebbe d’accordo sull’utilizzarla – solo con dottrine esoteriche minoritarie delle tre grandi religioni e con importazioni di dottrine orientali, ma accede a un immaginario cristiano (e cattolico) diffuso. A lui interessa un nocciolo di ricerca interiore liberissima, le forme sono come scale da gettar via una volta approdati al giusto piano del discorso: e ciò vale anche per tutti gli arzigogoli esoterici di questo specifico romanzo. Costruito con materiali molto vari, dalle posture delle mani nelle incisioni su temi sacri tedesche alle notizie sulle apparizioni mariane…
Cristoforo prende dunque visione dell’eredità di famiglia, ispezionando la casa e i suoi tesori coperti di polvere, ciascuno però con la sua storia, amori, sofferenze da raccontare – che lui è in grado di recuperare per il lascito nel suo sangue. Ma più scende ai piani inferiori, più le impressioni che gli derivano risultano “buie, severe, disadorne” e intessute di speranze deluse. Nella cantina sbarrata, in cui era vissuto il progenitore Christophorus Jöcher il lampionaio, non riesce neppure a entrare.
Tornato alle sue stanze, gli pare di essersi caricato di influssi magnetici come per un liberare di fantasmi del passato. I desideri, i patemi e le mete irraggiunte degli antenati affluiscono in lui, ma quando se ne libera restano risucchiati dagli oggetti della stanza: perà sente anche lui il desiderio di agire, mosso non dall’egoismo degli antenati ma dall’urgenza della lotta contro la Medusa. Poi è colto dalla stanchezza, precipita nel sonno e in sogno si vede intento a cercare di forzare la porta della cantina. Quando riesce ne sortisce un vecchio, e al risveglio se lo trova in effetti davanti – con il capo stranamente coperto da un berretto di pelliccia. Spiega di aver bussato, nessuno rispondeva ed è entrato: è stato “inviato dall’Ordine”, di cui il padre faceva parte – e ora il figlio avrebbe titolo per accedervi, se vuole. Cristoforo è ben disposto ma chiede qualche informazione di più, suo padre gli ha solo accennato qualcosa. Il vecchio – che ha barba rada e robuste mani da manovale – spiega:

 

Allora, che tu sappia: da tempi immemorabili esiste sulla terra un gruppo di uomini che guida il destino dell’umanità. Senza di loro da molto regnerebbe il caos. Tutti i grandi condottieri, se non erano iniziati della Comunità, furono ciechi strumenti nelle sue mani. Il nostro fine è eliminare le differenze fra poveri e ricchi, tra servi e padroni, tra sapienti e ignoranti, tra oppressori e oppressi, e trasformare questa valle di lacrime in un paradiso, una terra in cui la parola “dolore” sia sconosciuta. Il fardello sotto il quale geme l’umanità è la croce della personalità. L’anima universale si è frantumata in innumerevoli esseri individuali e questo stato di cose ha generato il caos. I nostri tentativi sono volti a riportare l’unità al posto della molteplicità.
Gli spiriti più nobili si sono posti al nostro servizio e l’ora del raccolto è alle porte. Ognuno dovrà diventare il proprio sacerdote. La gente è matura per scuotersi di dosso il giogo della Chiesa. La bellezza è l’unico dio, al quale l’umanità d’ora in poi rivolgerà le sue preghiere. Ma essa ha bisogno ancora di uomini vigorosi che le indichino la via per salire lassù in alto. Per questo noi padri dell’Ordine abbiamo emanato influssi mentali sul mondo che come dei falò hanno incendiato i cervelli per dare alle fiamme la dottrina individualista! La guerra di tutti per tutti! Trasformare la giungla selvaggia in un giardino, questo è il compito che ci siamo posti! Non senti come tutto in te incita all’azione? Perché continui a rimanere qui e a sognare? Forza, salva i tuoi fratelli!

 

Il passo è interessante. La presenza di fantasiosi gruppi di eletti che muoverebbero pedine nei retroscena della storia è del resto un altro tema caro a certa narrativa esoterica, teosofica o legata ad altre tradizioni: la grande differenza è tra chi li vede come persone in carne e ossa e chi li proietta su un altro piano dell’essere – pur con tutte le ambiguità e zone grigie del concetto.
Ovviamente rispetto al Volto verde la situazione è diversa, ma alcune consonanze sembrano presenti, in forma forse più radicale e simbolicamente schematica. L’amore e la vittoria sulla mortalità, il dominio sull’angoscia della morte, una dimensione apocalittica…
Preso dall’entusiasmo, il Nostro si informa sulle condizioni per l’ammissione nell’Ordine, sentendosi rispondere: “Cieca ubbidienza! Rinuncia ad una volontà propria! Agisci per il prossimo e non per te stesso!”, tutti passi necessari per condurre “dal groviglio selvaggio della molteplicità alla Terra Promessa dell’unità”. Sul resto non si preoccupi, pensieri e ordini li trasmetteranno loro: e alla disponibilità di Cristoforo, lo fa giurare. Si rende anzi conto in un barlume di agnizione che il volto del vecchio era raffigurato sul pomo di ematite della spada del padre e il suo pollice deforme era lo stesso di un vagabondo morto sulla piazza del mercato. Chiede dunque di dargli il segno, e porge al vecchio la mano con la destra insegnatagli dal padre. Ma si verifica una metamorfosi, il vecchio non è più un essere vivente ma un ammasso di membra divise: Cristoforo si copre gli occhi e la larva è sparita, lasciando solo un anello fluttuante contenente in forma vaga e coi contorni trasparenti il volto del vecchio… Ma a un tratto dalle labbra gli giunge la voce del progenitore, che lo avvisa della falsità di quell’immagine del Maestro, costruita dai Lemuri dell’abisso per sviarlo verso azioni insensate e miraggi fosforescenti come la “rinuncia a se stesso”. Vogliono distruggere “il sommo bene che un essere può conquistare: la consapevolezza eterna in quanto individuo” facendo leva su presunzione e avidità di potere, per cui “l’uomo si illude di ardere di un amore altruistico per il prossimo” finendo con l’essere una guida cieca. Il cuore dell’uomo non può racchiudere l’amore se non donato dall’alto, e ripetono il precetto di amarsi gli uni gli altri fino a vanificarlo. Così hanno profanato tutte le dottrine giunte dall’Oriente, e giudicano egoismo l’“unica azione che valga la pena di compiere, il lavoro su se stessi”. Intruppano la gente illudendola con il miraggio di diventare guide e a quel punto illuminati, e “sanno che la vita sulla terra è una fase di transizione” per cui illudono di poterla trasformare in Paradiso. “Essi hanno messo in libertà le ombre dell’Ade e infondono loro vita con una fluida forza demoniaca, affinché gli uomini credano che sia giunta l’ora della resurrezione dei morti”: e quella larva con le sembianze del Maestro la sguinzagliano tra chiaroveggenti, spiritisti e praticanti di disegni automatici. Si presenta come Giovanni Re, per far loro equivocare con l’Evangelista: tutto ciò per ingannare chi è maturo per cercare nella Verità e seminano dubbi dove sarebbe richiesta fede incrollabile. Non è chiarissimo quale filone esoterico qui Meyrink sta stigmatizzando, ma Cristoforo ha distrutto lo spettro esigendo la presa trasmessagli dal padre…
Risvegliato dalle parole del progenitore, il Nostro ha la sensazione di “precipitare nello spazio sconfinato”: poi si riprende, con la sensazione che una corrente magnetica l’abbia attraversato, e di sentirsi mutato, come gli si fosse dischiuso un nuovo senso. Poi sente di avere qualcosa in mano, una spada gli pende dal fianco, tenuta da una catena. Il senso interiore del tatto – il senso legato alle mani della presa iniziatica e del peculiare modo di pregare – sembra essersi destato in lui.

 

L’altra realtà confina direttamente con la nostra pelle, eppure non ce ne accorgiamo. La fantasia s’arresta, proprio nel punto in cui potrebbe creare un nuovo dominio!
L’anelito dell’uomo a forgiarsi divinità e la paura di essere solo con se stesso e diventare creatore del proprio mondo è ciò che gli impedisce di dispiegare le forze magiche che giacciono assopite in lui. […]
“Basta che tu stenda la mano e toccherai il volto della tua amata”, mi seduce ardentemente un pensiero, ma rabbrividisco all’idea che realtà e fantasia siano la stessa cosa. La verità ultima mi appare con un’orrenda smorfia digrignante!
La consapevoleza che da nessuna parte, né qui né là, ci sia realtà, e che esista solo l’immaginazione, mi sembra ancora più terribile della possibilità di diventare vittima di un contatto demoniaco o venir sospinto nel mare sconfinato della follia e delle allucinazioni!

 

Ma preferirebbe restare un pellegrino e vedere il padre e ricongiungersi con l’amata, preferirebbe cioè l’infinito da creatura al sole dell’eternità da dio coronato di forza creatrice… e impugnando la spada diviene consapevole del volto sul pomo.
“Quando scoccherà l’ora del grande incontro voglio essere a cielo aperto!”, per cui si arrampica sul tetto piatto della casa, sopra la città immerso nella notte. Il suo passato pare chiedergli di stringerlo a sé, di non lasciarlo perire nell’oblio.
All’orizzonte un baluginare di lampi, un occhio gigantesco che si spalanca, un ululato lontano: “Hai ucciso tutti i miei servi, ora tocca a me venire”. È la signora delle tenebre, Medusa. E una folata di vento gli annuncia la camicia di Nesso: lui all’inizio non capisce, mentre il fiume sottostante lo invita s nascondersi e gli alberi frusciano terrorizzati: “La sposa del vento dalle mani strangolatrici! I centauri della Medusa, la caccia selvaggia! Abbassate le teste, il cavaliere con la falce sta arrivando!” – si noti l’immaginario simbolista da quadro di Von Stuck (1863-1928, nato e morto per inciso nella stessa Baviera dove vive Meyrink). Ma nel suo cuore la voce di Ofelia dice che lo attende…
Echeggiano colpi, brillano luci, qualcosa precipita: sono sfere, i bolidi – probabilmente intende quelle meteore capaci di emettere suono, di avere luci di colore vario (al contrario della quasi totalità delle meteore comuni, dove è bianco), forse mixate qui all’immaginario sui fulmini globulari. Ma chiaramente il fenomeno naturale ha in questo caso valenza simbolica:

 

“I bolidi!” Quando venni a sapere della loro esistenza nei libri che lessi da ragazzo, credetti che la descrizione dei loro misteriosi comportamenti fosse una favola, invece, sono proprio reali! Esseri ciechi, carichi di energia elettrica, bombe dell’abisso cosmico, teste di demoni senza occhi, bocca, orecchie e naso, emersi dalle voragini della terra e dell’aria, vortici roteanti attorno al punto centrale dell’odio, il quale privo degli organi di senso, semicosciente, cerca a tentoni le vittime della sua furia distruttiva.
Se questi esseri possedessero una figura umana, di quale terribile forza sarebbero dotati? La mia tacita domanda li ha attirati, la sfera incandescente che all’improvviso abbandona la sua traiettoria si sta forse dirigendo verso di me? Ma proprio quando ha quasi raggiunto la ringhiera, fa marcia indietro, scivola sopra un muro, s’infila in una finestra aperta ed esce da un’altra, assume una forma allungata, un raggio infuocato scava un cratere nella sabbia con un tale fracasso di suoni che la casa trema e il pulviscolo sale fino a me.
La sua luce accecante come un sole bianco mi brucia gli occhi; la mia figura per un istante è illuminata in modo così vivido che il riflesso mi riempie le palpebre e si scava nella mia coscienza.

 

Domanda a Medusa se lo veda, lei risponde di sì, “maledetto!”. Una sfera rossa si solleva, diventando sempre più grande, lui stende le braccia e mani invisibili afferrano la sua con la presa dell’Ordine – la catena vivente si perde all’infinito… e tutto ciò che di corruttibile resta in lui viene arso. Rimane eretto a rosseggiare di fiamme con la spada al fianco: “Sono dissolto, per sempre, con il corpo e con la spada”. Perché in fondo, come aveva spiegato, il segreto tra i segreti è la trasmutazione alchemica della forma corporea, attribuendo al corpo la più vasta latitudine fisica, psichica e intellettuale. Ma solo chi è odiato dalla Medusa può raggiungere la meta finale, perché riduce al suo stato originale l’essenza dell’iniziato permettendogli di rinascere.

(13-continua)

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La nave come scrigno di sogni https://www.carmillaonline.com/2024/07/25/la-nave-come-scrigno-di-sogni/ Thu, 25 Jul 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83588 di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, [...]]]> di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, ispirata a Linosa ma, come scrive l’autore in una nota finale, “non vi è stato alcun tentativo di raccontare un territorio specifico, bensì quello di costruire un’isola fantastica che prendesse spunto da una tra le isole minori italiane più piccole e lontane, in tutti i sensi”. Ci troviamo perciò di fronte a un’isola “fantastica”, che si trasforma in un vero e proprio contenitore di avventura perché il romanzo di Marmeggi si inserisce pienamente nel modo narrativo dell’avventura, oltre che in quello del cosiddetto ‘romanzo di formazione’, perché viene raccontata – appunto – la formazione di due ragazzi, Mimì e Flora, studenti dell’ultimo anno di scuola media. È un romanzo per ragazzi? Sicuramente sì, e dovrebbe figurare anche fra i libri consigliati nelle scuole, ma è anche un libro per tutti e che appassionerà tantissimo i grandi. Bisogna dire che è anche un romanzo antifascista, e oggi, vista la particolare temperie politica che si addensa su questo paese, ce n’è particolarmente bisogno. L’avventura e l’immaginazione, in L’isola di Medusa, diventano degli strumenti di resistenza all’odio e alla violenza che sempre di più circondano la nostra quotidianità.

Mimì e Flora, fin da quando erano bambini, percorrono in lungo e in largo la loro isola a caccia di tesori nascosti, realizzando una mappatura fantastica del territorio, come Jim dell’Isola del tesoro di Stevenson. L’isola è uno spazio eterotopico e fantastico, aperto all’avventura e all’immaginazione, uno spazio che, nella letteratura di tutti i tempi, ha sempre assunto connotazioni utopistiche (basti solo pensare ai Viaggi di Gulliver di Swift o al Robinson Crusoe di Defoe). Però, come già nel precedente romanzo di Marmeggi, Il respiro del dinosauro (qui la recensione su “Carmilla”), lo spazio insulare appare in netta opposizione a quello della nave. Se l’isola si configura come il luogo del controllo, dell’odio nei confronti dello ‘straniero’ portato avanti da alcuni personaggi (nel Respiro del dinosauro, ambientato nel 1929, i portatori d’odio erano proprio dei piccoli fascisti), della fuga continua per sfuggirgli, le navi e le imbarcazioni sono un vero scrigno di sogni, come leggiamo nella frase di Foucault citata in esergo: nelle civiltà senza battello, la mappatura del controllo poliziesco prende il sopravvento, e sostituisce l’immaginario avventuroso di pirati e corsari.

L’isola di Medusa è un romanzo antifascista anche perché mostra due giovani che, con tutte le loro forze, si oppongono all’odio strisciante nei confronti degli stranieri, dei migranti e degli immigrati, un odio che sembra attraversare in lungo e in largo l’Italia contemporanea, a cominciare da un tragico e recente fatto di cronaca – la morte del lavoratore indiano, sfruttato, sottopagato e abbandonato morente come un oggetto dal suo datore di lavoro – per arrivare alle frasi razziste contro ebrei e immigrati ad opera dei giovani ‘meloniani’, come è emerso da un’inchiesta nei giorni scorsi. Durante una delle loro scorribande sull’isola, dopo che il territorio è stato spazzato dalla furia del ciclone Medusa (che viene personificato e tratteggiato come il personaggio mitico da cui trae il nome), Mimì e Flora si imbattono in un giovane migrante africano, Seydou, arrivato clandestinamente a bordo di un peschereccio, e rischieranno anche la vita per aiutarlo a proseguire il suo viaggio. Figure dell’odio sono invece Santuzzo e la sua banda, che girano per l’isola a bordo di un’ape verde militare divertendosi a sparare agli uccelli. Sarà proprio la banda di Santuzzo, xenofoba e violenta, a dare la caccia a Mimì, Flora e Seydou con un feroce pitbull.

Non vorrei rivelare di più sulla trama di questo romanzo: è giusto che il lettore vi si immerga lentamente e scopra volta per volta i risvolti narrativi, anche sorprendenti, che si celano nelle sue pagine. Basti dire che, in maniera nettamente opposta rispetto al territorio dell’isola setacciato dalla banda dei violenti (non meno violenti dei rastrellamenti fascisti di Il respiro del dinosauro), si configura lo spazio navigante, sia esso peschereccio, barca da diporto, nave merci o traghetto. È grazie a un peschereccio che Seydou è arrivato sull’isola, fuggendo agli inferni libici, ed è grazie a esso che riesce a progettare una fuga (come nel film Terraferma di Emanuele Crialese): come quest’ultima si evolverà dovranno scoprirlo i lettori. Il traghetto, poi, per i ragazzini dell’isola, assume i tratti di un universo fantastico in movimento, che li conduce verso le nuove esperienze che la vita spalancherà loro nel continente, dove dovranno recarsi a studiare, lontano dall’isola. Il traghetto è la nave che li fa volare lontano, attraverso i sogni, come il mitico aviatore inglese George Birinchein, figura ispirata al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Vi sarà poi una nave merci, che dovrà portare gli aiuti dopo le devastazioni del ciclone Medusa, che appare veramente come un grande scrigno di salvezza per gli isolani.

La nave – dice Foucault – è “l’eterotopia per eccellenza” che, a partire del XVI secolo, non rappresenta “soltanto il più grande strumento di sviluppo economico […], ma anche la più grande riserva di immaginazione”1. Un’immaginazione che apre percorsi sempre più inesplorati anche alla letteratura ed all’arte, perché senza navi i sogni si inaridiscono e l’odio strisciante di nuovi, territoriali e sovranisti microfascismi rischia di imprigionare le nostre esistenze, nell’immaginario e nella realtà.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, trad. it. S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 316. 

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Beghe di Titani (Victoriana 30/II) https://www.carmillaonline.com/2021/09/14/beghe-di-titani-victoriana-30-ii/ Tue, 14 Sep 2021 20:33:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68244 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la puntata precedente)

A fronte di alcune scene nelle prime tavole del Perseus Cycle di Edward Burne-Jones, dove le figure sono immobili come statue (tanto da sembrare perfette per un tableau vivant), una sorta di coreografia emerge invece nel quinto episodio della serie e ancor più nel sesto, entrambi dedicati all’uccisione di Medusa.

Secondo il mito, spiccata la testa della Gorgone, dal suo sangue sarebbero sorti il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, figli dei suoi amori con Poseidone, e lo studio conservato a [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la puntata precedente)

A fronte di alcune scene nelle prime tavole del Perseus Cycle di Edward Burne-Jones, dove le figure sono immobili come statue (tanto da sembrare perfette per un tableau vivant), una sorta di coreografia emerge invece nel quinto episodio della serie e ancor più nel sesto, entrambi dedicati all’uccisione di Medusa.

Secondo il mito, spiccata la testa della Gorgone, dal suo sangue sarebbero sorti il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, figli dei suoi amori con Poseidone, e lo studio conservato a Southampton, intitolato The Death of Medusa I o, appunto, The Birth of Pegasus and Chrysaor, 1876-85, ne offre un’impressionante trasposizione visiva (a cui si abbina, nella presenza di didascalie identificative dei personaggi, un ultimo riverbero di quella commistione tra testo e immagine così vividamente espressa nella tavola di Cardiff con le Graie). La decollazione risulta infatti disturbantemente sostitutiva di un parto per vie naturali (d’altra parte, la mitologia ci ha abituati a nascite atipiche: basti pensare ad Atena o a Dioniso, per ciascuno dei quali è stato Zeus a fare da “incubatrice”, assimilandone i feti all’interno del suo corpo). L’impudico squarcio del collo/utero di Medusa è coperto dalla figuretta fluttuante e nuda di Crisaore, e questa sovrapposizione genera un curioso effetto per cui si ha l’impressione che, dalle ginocchia in giù, il gigante neonato sia ancora dentro al canale uterino “alternativo” della genitrice. Nemmeno Pegaso è lontano dall’apertura: il cavallo, rampante e in volo, è con ogni probabilità uscito per primo e ora sovrasta la Gorgone; tuttavia, le sue zampe posteriori circondano ancora la sua spalla sinistra e, in particolare, uno degli zoccoli sta proprio dietro al collo privo di testa.

In ogni caso, in un ripudio completo di ogni tentazione gore, il corpo decapitato di Medusa, il cui busto è ancora eretto, si adagia elegantemente sul lato sinistro della sommità rocciosa che la ospita insieme al suo uccisore. Nel modo in cui le sue forme sono state modellate, e in particolare nella resa del panneggio del peplo, Burne-Jones ha adottato un linguaggio che è fortemente debitore della statuaria greca: a livello di suggestione, sembrerebbe quasi che la Gorgone morente e priva di testa si sia trasformata a tutti gli effetti in una scultura marmorea, come in una sorta di personalissimo contrappasso per aver trascorso l’esistenza a rendere chiunque la guardasse un’inerme e inanimata statua di pietra. Sul piano formale, invece, è una soluzione che non stupisce, soprattutto se si considerano le numerose sessioni di copia dal vero al British Museum che il pittore avvia subito dopo aver ottenuto la commissione, concentrandosi in special modo sulle raffigurazioni antiche di Perseo e Medusa. A lavorare al suo fianco, c’è la moglie Georgiana: ormai l’amante scomoda Maria Zambaco è stata scalzata. E a proposito degli studi portati avanti dalla coppia per la realizzazione del ciclo, sbirciando tra le collezioni del museo, salta agli occhi una hydria attica a figure rosse attribuita al Pittore di Pan e rinvenuta a Capua, circa 480-460 a. C, che mostra il corpo di Medusa decollata in una postura del tutto simile e pressoché speculare a quella predisposta da Burne-Jones per lo studio di Southampton. Vero è che si tratta di un tipo di rappresentazione legato all’iconografia del vinto in battaglia; tuttavia, una simile tangenza è decisamente affascinante, quanto lo è l’eventualità che il pittore preraffaellita sia stato influenzato da questo specifico esempio di pittura vascolare greca.

Infine, sulla destra, Perseo distoglie lo sguardo dalla testa recisa di Medusa, che allontana da sé con un gesto deciso e repentino del braccio (reiterando, per esempio, la medesima dinamica di grande potenza simbolica di certe stampe tedesche di età rivoluzionaria in cui un collaboratore del boia, mostrando la testa mozzata del consacrato Luigi XVI, rimane gorgonizzato dallo stesso spettacolo che sta offrendo, come si denota dalla sua espressione allucinata per il terrore da tabù violato). Inoltre, ai piedi dell’eroe, sono caduti attorcigliandosi alcuni serpenti che fungevano da capigliatura per la Gorgone, a indicarne inequivocabilmente la sconfitta.

Proprio in quest’ultima scelta figurativa, che rende visibile l’annientamento del Mostro-Femmina in tutte le sue peculiarità, torna a emergere il nesso mitico legato al binomio donna/serpente, ai temi del volto/maschera e dello sguardo tremendo, alla dignità terribile, ctonia e arcaicissima, dell’Avversaria dell’eroe fallico/solare, alla violenza (venata d’ambiguità, a dispetto d’ogni rarefazione simbolica) ch’egli le reca: tutti elementi connotanti la crisi continua d’un modello femminile non consumato nell’angusto spazio storicamente impostole, e che rimandano in travisamenti e inquietudini al potere dell’antica Dea. Di tale maschera dai tratti fatali e perturbanti – il conosciuto/non riconosciuto, con tutte le eco possibili –, il gorgoneion ostentato dall’eroe analogo Perseo rappresenta forse la più fortunata epifania, e a quell’immagine riecheggiata con frequenza ossessiva nell’arte occidentale (dai suoi albori fino al cinema di genere, The Gorgon/Lo sguardo che uccide della Hammer e Bram Stoker’s Dracula) pare interessante guardare per cogliere in modo indiretto, come in uno specchio, il fondo di umori, sangue e imbarazzi di tutta una dialettica col mostro.

La “Gorgone arcaica era una Dea potente della vita e della morte, e non il successivo mostro indoeuropeo che gli eroi come Perseo devono uccidere” (per citare la pioniera dell’archeomitologia, Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica), ed era connotata nelle immagini più antiche da simboli di rigenerazione (ali d’api, antenne a serpente) ormai incomprensibili nel mondo classico, e probabilmente identificabile con l’aspetto mortifero di un’unica Dea lunare del ciclo vitale – in sostanza l’Ecate poi recepita nel mondo greco. D’altro canto, proprio il suo dramma codificato nel mito, con quanto di sfuggente e onirico possa evocare a noi moderni, si rivela capace di agglutinare un tessuto incomparabilmente fitto di stereotipi e provocazioni circa il rapporto tra Femminile e mostruoso, e di conseguenza (almeno per l’ottica occidentale) tra bellezza e orrore – come suggestivamente rilevato da Jean Clair in un suo celebre saggio. Ciò conduce alla spiazzante, misteriosa statura dell’Antagonista dell’eroe, prototipo di innumerevoli epigoni: il fatto stesso che la quest di Perseo veda l’attraversamento dei “regni di tre volte tre dee” (Károly Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia) – cioè le Graie, le Ninfe datrici di armi e le Gorgoni sui confini del mondo – la iscrive quale catabasi nella sfera della Grande Dea e delle sue infinite manifestazioni triadiche, transitate nell’era cristiana (basti citare le Tre Marie evangeliche, oggetto di lunga devozione popolare) e nel folklore, e infine precipitate nel fantastico popolare (il terzetto di vampire del Dracula che Van Helsing giustizierà nelle bare – e le cui teste, nel film di Coppola, scaglierà dagli spalti). Dalla stessa matrice sorgeranno legioni di dee inquietanti e mostri-femmina, singoli (Echidna, la Sfinge, Scilla…) o a gruppi (Sirene, protovampire e demoni-donna, Succubi, Strigi), deflagranti dai più arcaici racconti sugli dei alle favole delle nutrici di tutto il mondo occidentale e ben oltre: creature pronte a insidiare e divorare, e forti di un potere di orrore e fascinazione continuamente sconfitto e riproposto, contro il quale si provano gli eroi.

Un’intera costellazione di motivi del mito di Medusa verte in effetti sul carattere fatale, attrattivo e repulsivo a un tempo, che ritroveremo fino alle ultime icone popolari della vamp. Pensiamo al tema arcaico (e iniziatico) del volto/maschera, come quelle che si affiggevano in onore di Ecate e la rappresentavano, poi degradato in tutta una letteratura sulla donna mentitrice, attrice, maschera vuota cui l’uomo opporrebbe la propria verità (pena la nullificazione, come le vittime abbrutite dalla mangiauomini, Theda Bara e colleghe). Oppure alla visione pietrificante come sguardo fatale, sostenibile solo a testa girata (ancora Van Helsing dovrà ammettere il proprio turbamento quasi paralizzante davanti ai corpi delle tre Spose del castello Dracula) e in via riflessa/mediata attraverso uno specchio/scudo (che accentua nel segno del virile il motivo folklorico delle rifrazioni rivelative – come poi nelle storie di doppi e vampiri). Ancora, si pensi al tema connesso degli occhi, spalancati o invece chiusi nel sonno: le Graie custodi con un solo occhio che si passano a turno, e in certe versioni le palpebre serrate delle Gorgoni aggredite nel sonno da Perseo (come poi delle Sorelle addormentate trafitte da Van Helsing). Del resto, una simil-gorgone pure imparentata con Ecate, la libica Lamia dal volto insonne (per condanna di Era) e mutato in maschera da incubo, poteva riposare solo levandosi gli occhi dalle orbite e deponendoli in un vaso accanto a sé… magari dopo aver bevuto molto vino. Forse non è casuale la connessione con un’altra Terribile Signora africana, la dea-leonessa egizia Sekhmet – aspetto tremendo della cosmica Hathor nel mito della distruzione dell’umanità (Papiro 86637 del Museo egizio del Cairo, c.d. Calendario dei Giorni Fortunati e Sfortunati): la dea viene addormentata con birra tinta di ocra rossa ed ematite dal Dio Sole Ra per impedirle di sterminare totalmente il genere umano.

Peraltro il viso di Medusa, in origine orchessa barbuta o dea-cinghiale – cioè la femminilissima “dea con la lingua” della fase nera del ciclo (sulla simbolica del maiale in relazione al mestruo, cfr. Jutta Voss, La Luna Nera. Il potere della donna e la simbologia del ciclo femminile, Red, 1996) –, assume nel tempo (già dalla metà del V sec. a.C.) tratti sempre più aggraziati, evocando così un crescente orrore per l’atto della decollazione e un’emozione sottilmente più perversa, nel segno dell’eredità sadica/sadiana che dalla Vergine Ghigliottina condurrà al romanzo gotico, ai supplizi di eroine romantiche (compresa la cattivissima Milady de Winter) e alle decapitazioni di belle vampire. Anche l’associazione tra Gorgone e serpenti – compagni benevoli della Dea neolitica, immagini della dea egizia Renenutet/Thermouthis, associati alla Grande Dea minoica (si pensi alle celebri statuette della dea dei serpenti, come quella conservata al Museo archeologico di Candia, proveniente da Cnosso) o a gran parte degli dei levantini e greci, nonché, se velenosi, legati alla Signora della morte – richiama una lunga tradizione di donne-serpenti della letteratura, con echi gino/sessuofobici memori di un’ostilità semitica e indoeuropea verso la bestia che striscia: la stessa protovampira Lamia, associata a Ecate in arcaicissimi tratti canini, vedrà nel tempo una privilegiata assimilazione al mondo del serpente. Se è poi vero che un altro antico legame di Medusa alla sfera animale, attraverso i cavalli, e la sua immagine come fantastica giumenta, sposa dello stallone Poseidone, madre col suo sangue del cavallo alato Pegaso, paiono meno utilizzate nei richiami artistici moderni, è almeno suggestivo raffrontarvi l’associazione perturbante, linguistica e simbolica, tra giumenta (ted. mähre) e incubo (franc. cauchemar, ingl. nightmare – in riferimento al demone incubo germanico mara) che tanto peso avrà, per esempio, nell’arte di Johann Heinrich Füssli (1741-1825). Anzi, in termini paradigmatici, proprio il grande visionario svizzero ossessionato dal tema di Perseo evocherà spesso in dipinti e bozzetti quell’inversione dei ruoli – l’uomo come testa mozza, la donna fallica, castratrice e appunto decapitatrice – che l’Occidente ginofobico s’era compiaciuto di contemplare in infinite Giuditte, Erodiadi e Crimildi: un brivido masochista che non sovverte ma piuttosto conferma la costellazione mitica (la Femmina inquietante, l’Eroe, la testa mozzata) e può svelare qualcosa sui rapporti sfuggenti, gli scambi equivoci e le contiguità tra mostro e teratomaco dei quali s’è accennato. Emblematico, del resto, è il rapporto tra la Gorgone come sesso reso volto e Baubò (figura grottesca e ineliminabile dei misteri eleusini, che parlerebbe tramite la vulva) come volto reso sesso.

La sesta “stazione”, The Death of Medusa II, o Perseus Pursued by the Gorgons, ripropone un’altra vicenda narrata in “The Doom of King Acrisius” (II, 261-262): quando le sorelle immortali di Medusa, Steno ed Euriale, si accorgono della sua uccisione, si lanciano all’inseguimento di Perseo, ma questi riesce a dileguarsi grazie ai calzari alati e all’elmo dell’invisibilità in una sorta di nebbia o di nube spiraliforme che gli circonda il capo. Nel disegno di Stoccarda, 1876-90, le due sorelle, sollevatesi in volo con gesti concitati, sono paludate in vesti scure; anche il corpo di Medusa, accasciato al suolo sulla destra, è ricoperto da un peplo azzurrino – mentre nello studio preparatorio a Southampton, 1881-82, le tre Gorgoni sono nude. È interessante rilevare come parte del tessuto panneggiato, ripiegato sull’attaccatura del collo reciso, stia svolazzando oltre le sue scapole, forse a voler suggerire lo spostamento d’aria causato da Perseo, che sta balzando sopra di lei per darsi alla fuga. Nel contempo, l’eroe sta infilando la testa mozzata nella bisaccia delle Ninfe: in entrambi i disegni, questa ha gli occhi chiusi ma, a differenza della versione di Stoccarda in cui è rimasta incompiuta, in quella di Southampton si può notare che i serpenti della sua capigliatura sono ancora irti (quindi, vivi e pericolosi). Pur nella drammaticità della situazione, i movimenti delle figure risultano comunque aggraziati e, in particolare, Steno ed Euriale sembrano muovere passi di danza: più che un inseguimento pare una pantomima, e il modo in cui le due sorelle si affiancano farebbe quasi prevedere una giravolta (con reminiscenze della Danza delle gru messa in scena da Teseo e compagni dopo l’uscita dal Labirinto?); similmente e in piena sincronia, anche Perseo effettua uno scarto laterale ritmato ed elegante, che potrebbe quasi ricordare un salto ballato.

Si conclude così la perigliosa missione di Perseo, ascrivibile a un generale contesto iniziatico (in riferimento non a qualche strambo senso esoterico, ma a quello basico di un rito di passaggio maschile all’età adulta): l’eroe rifrange nello specchio (rendendo accessibile alla vista l’invedibile per tabù), decapita e trattiene il gorgoneion della Dea Tremenda. Non solo taglia la testa/maschera con la harpe, l’antica spada a falce lunare dei Titani faccia-di-gesso delle iniziazioni (nel ciclo di Burne-Jones l’arma sembra però identificarsi nel cosiddetto falcione che, pur derivando da falx, può avere – come qui troviamo – lama diritta), ma come lui l’iniziando, in taluni riti di passaggio ellenici, poteva dover fissare una maschera lunarmente riflessa in un recipiente d’argento.

Il solare Perseo, d’altronde, appare patrocinato da divinità patriarcali, come il fallico Ermes (di cui, peraltro, sembra riecheggiare l’aspetto, come una sorta di ipostasi tutta umana), la nata-dal-solo-padre Atena e (attraverso il prestito della cappa dell’invisibilità) il rapitore Ade, subentrato alla Grande Dea quale primo responsabile della Casa dei defunti. La dialettica misterica tra lo stesso Ade, gestore dei “diritti” della morte nel segno del normativo/maschile, la rapita/violata Kore/Persefone e la “Grande Madre Terra” Demetra troverà un’ultima rifrazione nel trio letterario del cacciatore di vampiri, della vampira amante (giovane) e della vampira regina (madre), magistralmente dipinto da Joseph Sheridan Le Fanu in Carmilla e gravido di eco per la mitopoiesi neogotica: a questo proposito, può essere interessante confrontare la decapitazione di Medusa come rappresentata sul tempio di Selinunte, circa 540 a.C., con quella cinematografica di Carmilla – l’attrice Ingrid Pitt – in una notissima sequenza di The Vampire Lovers (Regno Unito, 1970), in cui il capo mozzo viene sollevato dal vindice generale Spielsdorf – interpretato non casualmente da Peter Cushing, l’ammazzavampiri per antonomasia dell’horror popolare. Gli esempi tematici potrebbero evidentemente continuare, ma proprio Perseo, col perturbante trofeo/feticcio levato in alto a rapprendere gli sguardi, pare l’ideale prefiguratore di un uso politico della visione d’orrore e insieme il più legittimo capostipite della dinastia dei cacciatori di mostri del fantastico moderno, particolarmente del cinema: un eroe dallo statuto problematico, che decapita la Femmina addormentata attraverso un gioco di rifrazioni (i media, appunto) e con il sostegno di potenti forze patriarcali, per poi scappare – letteralmente – verso nuove avventure. Tra queste, ne spicca una notissima e dall’iconografia variamente pruriginosa, ovvero la liberazione dall’ennesimo mostro (con testa gorgonica di cinghiale, come suggerisce qualche antica decorazione vascolare) della bella Andromeda incatenata allo scoglio.

(– continua)

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Beghe di Titani (Victoriana 30/I) https://www.carmillaonline.com/2021/09/04/beghe-di-titani-victoriana-30-i/ Sat, 04 Sep 2021 20:30:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68037 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Chi si trovi a passare per Stoccarda, farà bene a fare un salto alla Staatsgalerie, ad ammirare alcuni gioielli – stranoti, ma sempre tali da illuminarci dentro – dell’arte preraffaellita. Nello specifico, ci riferiamo alle opere relative all’incompiuto Perseus Cycle di Edward Burne-Jones (1833-1898), tra cui spiccano le sole quattro tavole a olio effettivamente ultimate. Insieme a queste, non si possono non considerare i dieci studi a guazzo a grandezza naturale conservati alla Southampton City Art Gallery, in grado di fornire un’idea di come sarebbe potuto apparire il ciclo completo (da tenere presente è anche Perseus and Andromeda, 1876, all’Art Gallery of South Australia di Adelaide, sorta di esplorazione iniziale di due dei soggetti della serie). La commissione, intrapresa nel 1875 e portata avanti praticamente fino alla sua morte, appartiene dunque all’ultima fase della produzione di Burne-Jones, e intreccia le sue letture di pagine dell’amico William Morris (1834-1896) – alla base delle tavole è “The Doom of King Acrisius” da The Earthly Paradise – a dialettiche virtualmente un po’ complicate tra i due. Ed è bene guardare dietro le cornici.

Tra il 1870 e il 1877, Burne-Jones espone soltanto due lavori, vessato com’è da attacchi della stampa (le nudità del suo Phyllis and Demophoön, 1870, sono state giudicate particolarmente riprovevoli) e ancora devastato dalla passione per la sua modella, Maria Cassavetti Zambaco (1843-1914), a sua volta pittrice, scultrice e disegnatrice di medaglie, figlia di un commerciante angloellenico e nipote del console greco. Il fatto è che Burne-Jones è sposato con Georgiana “Georgie” MacDonald (1840-1920), pittrice, artista dell’incisione e cara amica di George Eliot e John Ruskin (oltre che zia, tramite una delle varie sorelle, di Rudyard Kipling): dopo i primi anni d’idillio, il matrimonio è appunto buferato dall’ingresso di Zambaco, di cui Burne-Jones si innamora perdutamente. La donna cerca di convincerlo a lasciare la moglie, a togliersi la vita assieme col laudano, arrivando poi a tentare il suicidio nel Regent’s Canal con pubblico scandalo. Nel frattempo si sono lasciati, ma Maria continuerà ad apparire nei quadri di Edward come una dark lady o un’incantatrice (emblematico il meraviglioso The Beguiling of Merlin, 1872-77, dove i due incantatori/pittori paiono abbastanza trasparentemente in scena), e finirà comunque tagliata fuori dai giri di amici comuni. Intanto, Georgiana approfondisce l’amicizia con William Morris, la cui moglie Jane ha un rapporto con Rossetti. Nonostante alcune allusioni nelle poesie di Morris suscitino il dubbio che chieda a “Georgie” di lasciare il marito, formalmente nessuno dei due matrimoni si scioglie e tutto resta compresso nell’intreccio delle loro vite. Georgiana “vince”, e le sue lettere sul tema sono un capolavoro di buonsenso e di dolcezza; ma non giudichiamo male la tumultuosa amante, con la sua passionalità mediterranea. Maria morirà a Parigi nel 1914, in una sorta di esilio dai giorni preraffaelliti, parecchio dopo la morte di Edward. Questa è la situazione che idealmente sta dietro il Perseus Cycle.

Il periodo è difficile, ma nel 1875 arriva a Burne-Jones una commissione interessante, da parte dell’allora giovane deputato conservatore Arthur Balfour (1848-1930), poi destinato ad assurgere a Primo Ministro: un ciclo di dipinti da opere letterarie per il salotto della sua casa di Londra. Il pittore sceglie il mito di Perseo, ispirandosi al testo dell’amico Morris e progettando una sequenza di dieci scene, sei in forma di dipinti ad olio e quattro come pannelli in bassorilievo e tecnica mista. Tutte le opere devono essere incastonate in una cornice di girali d’acanto sviluppata intorno alle pareti superiori del salotto. All’esposizione alla Grosvenor Gallery di Londra nel 1878, tuttavia, il lavoro non viene gradito (in particolare, piovono critiche sulla tavola Perseus and the Graiae del National Museum Wales di Cardiff, su cui torneremo) e Burne-Jones abbandona la realizzazione dell’originale soluzione in bassorilievo che aveva inizialmente avviato.

Per quanto altri eroi della mitologia classica presentino caratteristiche più amate, pochi quanto Perseo – con la cassa che lo chiude bambino assieme alla madre, la Gorgone da decapitare e poi la testa/maschera pietrificatrice da brandire, lo scudo/specchio e la spada falcata, il cavallo alato Perseo, Andromeda e il mostro marino, le costellazioni annesse… – hanno evocato agli artisti soluzioni visive d’impatto. Non stupisce che nell’occidente sessista – e in particolare nelle arti tra Otto e Novecento, quando una serie di topoi affermati come la donna incatenata, addormentata o morta consentivano di ridurla a spudorato oggetto di controllo e creazione maschile – abbia avuto tanto successo. Anche nei meravigliosi cicli di Burne-Jones (non solo quello di Perseo, ma gli altri della Pygmalion and Galatea series, della Briar Rose e di St George and the Dragon, come del resto in tavole come King Cophetua and the Beggar Maid), dove pure tanta eleganza e dolcezza illumina i dipinti, l’eroe maschile assume un ruolo un tantino equivoco di salvatore, animatore e creatore, e le donne ridotte a oggetto trascolorano su un piano di puro mito, e di atemporale bellezza estetica.

Resta il fatto che, al di là delle ambiguità, il mito di Perseo sia una festa per la fantasia. E non è un caso che una decina d’anni fa, a misurare le potenzialità della nuova santabarbara di effetti speciali, sia stato ripescato nella forma del vecchio film Scontro di titani (Clash of the Titans) di Desmond Davis (1981), uno strano peplum fuori stagione che vantava un ottimo cast e alcune trovate brillanti, soprattutto grazie al genio di Ray Harryhausen – alternate a scene francamente narcotiche – in vista di un remake Clash of the Titans (in Italia poi titolato senza grossa fantasia Scontro tra titani) di Louis Leterrier, 2010, che in origine doveva essere molto più sovversivo. Se il film campione d’incassi del 1981 mixava miti greci a modiche concessioni nordiche – essenzialmente nel nome del mostro marino della scena-tormentone “Liberate il Kraken!” invece che Ceto come nel mito greco – il remake avrebbe dovuto essere molto più sincretista, arruolando nel progetto come vilain principale la dea-mostro ancestrale mesopotamica Tiamat, e coinvolgendo contro di lei a fianco di Zeus anche divinità non olimpiche come Thoth, Osiride, Marduk, e persino Yahweh. Ma quel progetto degli sceneggiatori John Glenn e Travis Wright avrebbe causato qualche mal di pancia sul piano della politica confessionale e confuso gli spettatori, per cui viene drasticamente riformato. Troviamo così riproposto l’Olimpo in stile sandalone del 1981 (dove Zeus era nientemeno che Laurence Olivier, Claire Bloom impersonava Era, Maggie Smith un’arrabbiatissima Teti, Ursula Andress ovviamente Afrodite), ma con un diverso design un po’ ucronico, e viene sviluppata in forma attiva un’ostilità solo virtuale nei miti greci, tra Zeus (Liam Neeson) e il fratello Ade (Ralph “Voldemort” Fiennes). Per il resto, con qualche libertà come il ritorno del Kraken (stavolta una bestiaccia a vertiginosi effetti di computergrafica invece dello stop motion di Harryhausen) e la presenza nel secondo film di Djinn stregoni del deserto, le trame delle due pellicole ricalcano più o meno la storia dei mitologi.

In Scontro di titani, per compiacere i censori che avevano posto il veto alla nudità di Andromeda, la si era fatta interpretare da un’attrice di raro candore, la fresca Judi Bowker emblema d’innocenza (già Chiara d’Assisi in Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli, 1971, e Mina Harker nel televisivo Count Dracula di Philip Saville, 1977), incatenata a una roccia ma debitamente paludata, mentre un Kraken a metà tra il Mostro della laguna nera e l’Aquila moralista del Muppet Show emergeva dalle acque: tutto il torbido di secoli di Andromede sadomaso nell’arte veniva così sostanzialmente disinfettato. Ora però sono cambiati i tempi, non basta più incatenare l’eroina (Alexa Davalos) ferma alla roccia: in Scontro tra titani viene perciò appesa a una sorta di argano steampunk (o più propriamente Ptolemypunk, roba da ingegneri alessandrini) per l’esposizione al mostro. Certo, fa effetto che Argo diventi una città di mare (ma il suo porto Nauplia non è in fondo distante) e la storia di Andromeda venga spostata in Grecia dal Levante dei Peleset (Ioppe, odierna Giaffa, ma in fondo i mitologi parlavano anche dell’Etiopia, dunque con coordinate geografiche piuttosto vaghe). Peccato per la sceneggiatura bocciata, sia perché era molto più originale e visionaria, sia perché la storia di Perseo, se la si legge un po’ tra le righe, svela imprestiti meticci molto più genericamente “mediterranei” che non “greci” nel senso del classicismo di Canova (e dei peplum). Si prevedeva l’amore tra Perseo e una Dea della terra, l’ascesa del minaccioso culto di Tiamat, un’Andromeda inizialmente circondata da schiavi sessuali maschi… Ma vari sceneggiatori si avvicendano, e alla fine invece di Tiamat c’è Ade.

La novità è che ora arriverà anche un sequel: La furia dei titani (Wrath of the Titans) di Jonathan Liebesman, 2012, dominato da un tema della morte degli dei che piacerebbe a Plutarco. In compenso, ha un ricco serraglio da Theogony Park: chimere, ciclopi, il Minotauro, un Crono immane fuggito dal Tartaro… A interpretare un’Andromeda ora finalmente attiva, a capo di truppe, e non passiva principessa da salvare, è adesso Rosamund Pike.

Uno degli aspetti d’interesse per gli artisti, nel ciclo di Perseo, è in effetti costituito dalla ricchezza di spunti creativi delle sue singole “stazioni”, quelle che per Burne-Jones diventano tavole. Per questo, merita considerarle nell’ordine – almeno a grandi linee – della sequenza da lui offerta.

La prima, The Call of Perseus, è ispirata a “The Doom of King Acrisius”, I, 248-50, combinando due scene: allo sconvolto Perseo quella che sembrava una vecchia (a sinistra, in secondo piano) si rivela Atena, pronta ad assisterlo nella terrifica impresa che lo attende (a destra, in primo piano). Delineando un’interfaccia visiva al componimento di Morris, Burne-Jones mantiene comunque un’autonomia, modificando leggermente i contenuti, come si può notare in particolare nel modo in cui è abbigliata la dea. Né nel dipinto di Stoccarda, né nel cartone preparatorio conservato a Southampton è infatti presente “l’usbergo sulle ginocchia” descritto dal poema; soltanto nel secondo è ben visibile la corazza pettorale e, per quanto in entrambi Atena sia dotata di elmo, la sua foggia è davvero troppo semplice per potersi accordare adeguatamente all’aggettivo “fair”. Eppure, la soluzione adottata da Burne-Jones nella tavola di Stoccolma supera in suggestione i versi di Morris: infatti, è come se cogliesse il momento in cui il manto della vecchia scompare per lasciar posto all’armatura di Atena, in una sorta di trasparenza improvvisa, quasi una trasfigurazione, del tessuto che freme addosso alla dea.

Atena chiama Perseo a una prova e, al contempo, gli offre una spada e uno specchio (in altre versioni uno scudo lucido), mezzi necessari per uccidere una sua nemica, la Gorgone Medusa pietrificatrice. Il giovane è nudo, e va considerato che sovente la “prova con mostri” dell’eroe – Eracle, Edipo, Odisseo… – si ascrive a un contesto iniziatico, di rito di passaggio: un transito al mondo adulto di ogni maschio della comunità. Ecco il senso della nudità, ed è almeno suggestivo ravvisare eco iniziatiche in taluni legami od omologie tra eroi e mostri combattuti. È il tema di quello che potremmo definire l’eroe analogo, come Eracle per Era e tanti altri: così Perseo, dal nome infero e lunare che evoca la Dea Tremenda nelle ipostasi di Perse, Persefone – e dunque Ecate – è associabile alla Gorgone anguicrinita, al punto da potersi domandare se in origine non ne fosse un semplice paredro. Al centro, insomma, Perse, la Dea infera dalle chiome di serpente, e accanto a lei Perseo: tanto più che l’unico verso pervenuto delle Forcidi di Eschilo assimila Perseo al cinghiale, come dea-cinghiale è la Gorgone associata alla Luna, e l’arma di lui è la harpe, la spada falcata lunare. A contrapporli sarà poi una diversa, sopravvenuta teologia che abbinerà a lui, assurto a grande eroe indoeuropeo che con la harpe decapita il mostro femmina lunare e ctonio, un’altra dea, protettrice-guerriera e vergine.

Per quanto riguarda la seconda tavola, Perseus and the Graiae, degna di particolare attenzione è la versione conservata al National Museum Wales di Cardiff, 1877-78, ovvero l’unico pannello in bassorilievo e tecnica mista a essere stato completato.

I volti e le mani delle figure sono dipinti ad olio direttamente sul supporto ligneo di quercia, mentre lo sfondo tenné, rigato dalle venature, è volutamente privo di pittura, riuscendo così a creare la suggestione di uno scenario scabro, arido e brullo. Le vesti sono invece modellate in gesso a bassorilievo e rese preziose dalla successiva applicazione della foglia d’oro per i pepli bruniti delle Graie, dalle cui pieghe traspare la base di colore rosso, e della foglia d’argento su pigmento grigio scuro per l’armatura di Perseo, con un risultato particolarmente vivido e straordinario per la cotta di maglia, che appare a tutti gli effetti “più vera del vero”. Infine, la scena è sovrastata da un testo latino composto da lettere dorate in mogano intagliato, fissate singolarmente sul pannello di quercia: il componimento, in esametri dattilici, è opera di Sir Richard Claverhouse Jebb (1841-1905), eminente classicista e traduttore, e riassume le vicende del ciclo di Perseo.

La tavola di Cardiff risulta essere la prima versione delle Graie: seguono quella di Southampton, 1877-80, dove il testo è inserito all’interno di un riquadro con fondo blu oltremare, delimitato da una cornice dorata, a ricordare certi tipi di decorazione nei manoscritti miniati, o alcune soluzioni adottate dai pittori rinascimentali (cfr. la Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova), e per terza quella ben più tarda di Stoccarda, 1892, dipinta ad olio, dove il componimento scritto viene espunto e le tonalità diventano più scure e monocrome (evoluzione che sembrerebbe tradire tutto il peso delle critiche ricevute alla Grosvenor Gallery). E sempre a proposito di notazioni coloristiche, è interessante notare un dettaglio legato ai pepli delle Graie di quest’ultima versione: la tinta bluastra dei tessuti è quella che richiama più strettamente il colore dei mantelli da loro indossati nel poema di Morris (I, 253-55).

Le tre dee antiche (Γραῖαι, cioè grigie, ovvero le anziane per antonomasia, a incarnare le fasi dell’invecchiamento) appaiono accucciate in uno scenario desertico – ben diverso dalla sala dalle bianche colonne descritta da Morris –, e si stanno passando l’unico occhio – quello che hanno in comune, secondo il mito – e Perseo si piega a sottrarlo, tenendolo tra le dita, per costringerle a indicargli la strada. Un occhio, tra l’altro, irradiato di luce dorata; non a caso, il “lumen” di cui sono prive le Graie, come recita l’iscrizione; un organo, insomma, che diventa simile a una stella brillante, capace di illuminare il cammino (con fors’anche un vago riferimento alle metamorfosi in costellazioni che concludono il mito di Perseo). E, ancora, è tutta di Burne-Jones la trasfigurazione in pura Bellezza di soggetti canonizzati nel segno del Brutto, la cosiddetta Beautification of Ugliness. Le Graie del mito sono in generale descritte – tranne che da Eschilo – come orrende e grottesche (un solo occhio e un solo dente in comune), ma qui notiamo all’ennesima potenza la tendenza del pittore a trasfigurare con tratti delicati qualunque personaggio, a rendere eteree anche figure come queste dee arcaiche, che pure una gravità la mostrano, nell’ambito di una ben precisa poetica che smarca da un certo realismo – tra polvere, trucioli e sudore – di Millais e Holman Hunt. D’altra parte, qualcosa di questa delicata bellezza riflette l’eleganza di colori e modelli che Morris ha dispensato nei suoi incredibili tessuti e carte da parati. In più, la particolare tecnica della tavola di Cardiff permette di trovare la pelle delle Graie – soprattutto quella a sinistra – effettivamente grigia come da etimologia, più che delicata e pallida com’è di solito nei personaggi di Burne-Jones (inclusa quella dell’eroe, a prefigurare di lontano i maliziosi adolescenti di Aubrey Beardsley), conservando pur tuttavia i tratti morbidi della grazia della gioventù. Quanto ciò appaia singolare nel caso delle tre antiche dee è evidente.

La stazione pittorica successiva manca in Morris, che semplifica la storia. Secondo il mito, le Graie hanno dovuto rivelare dove si trovino le armi speciali per uccidere Medusa: così, Perseo viene indirizzato da ninfe d’acqua il cui statuto è un po’ diverso da versione a versione. Per alcuni si tratterebbe di ninfe dello Stige sulla soglia dell’Ade, per altri di ninfe marine. Proprio come Nereidi vengono spesso considerate, e lo si evince anche da due varianti di titolo attribuite alla terza tavola: Perseus and the Nereids o Perseus and the Sea Nymphs (altrimenti The Arming of Perseus).

In questo tableau rarefatto, troviamo di nuovo l’idealizzazione dei volti; in particolare, nel dipinto di Stoccarda, le ninfe diventano pressoché identiche nei lineamenti, senza contare che, rispetto allo studio conservato a Southampton, anche le loro capigliature si uniformano in crocchie brune e i pepli dai colori iridescenti come conchiglie vengono dismessi in favore di monotone nuances azzurrine. Le ninfe poggiano delicatamente i piedi su una sorta di pozzanghera, a richiamo delle acque familiari o infere, e nel cartone preparatorio, che ha una luminosità un po’ più accentuata, questa assomiglia a sua volta a una sottile lamina d’argento applicata sul terreno sabbioso, seppur sospinta a rialzarsi quasi impercettibilmente lungo il bordo, in corrispondenza di lievi increspature spumose. Le interlocutrici dell’eroe sono di nuovo tre, a ricordare le Grazie della Primavera di Botticelli (laddove le Nereidi sarebbero, malcontate, una cinquantina, mentre a rigore lo Stige verrebbe amministrato da una sola, omonima, ninfa Oceanina), e gli porgono tre oggetti, cioè l’elmo dell’invisibilità, una bisaccia speciale in cui collocare la testa mozza della Gorgone e una coppia di calzari alati. Davanti a loro, un androgino Perseo, stretto nell’armatura, ha assunto, per infilare una delle calzature, una posizione seduta un tantino innaturale e goffa, come preoccupato e forse disilluso da quelle che restano spiazzanti immagini del Femminile: si potrebbe addirittura azzardare – bentrovato ma forse un po’ forzato – che la scelta di tre simil-Grazie alluda al terzetto di belle cugine composto da Maria Zambaco, Marie Spartali Stillman e Aglaia Coronio, dette appunto “the Three Graces”. Tuttavia, è possibile che la situazione apparentemente calma (una commissione importante, la gioia della pittura che offre a Burne-Jones le sue armi incantate), ma in realtà increspata da un senso di tensione sospesa (per tutto ciò che si è detto su quegli anni turbinosi del pittore, forse evocati anche nello sfondo scurito del dipinto di Stoccarda), influisca un po’ su tutte le sue scelte iconografiche. Forse, una certa confusione e fatica del pittore è anche avvertibile nel gioco visivo di contrapposizioni tra la morbidezza degli abiti delle ninfe – che in fondo appartengono a una dimensione di bellezza intangibile e senza tempo – e la rigidezza costrittiva della tenuta che inguaina l’eroe, o la loro pacatezza a fronte della sua preoccupazione carica di implicazioni mortifere.

Tornando ancora allo sfondo scuro che lambisce le Nereidi, forse non è un caso che ci sia un’evidente somiglianza con quello delle Graie di Stoccarda: entrambi presentano infatti fluttuanti profili montagnosi dominati da nebbiose sfumature antracite, ma con connotazioni ben più drastiche per quel che riguarda il secondo dipinto: questo sembra estinguere la luce invece presente nel pannello di Cardiff, come la fiamma di una candela viene smorzata dall’incombere dello spegnitoio, a suggerire il peso di una vecchiaia incombente e il progressivo approssimarsi della morte (d’altra parte, la realizzazione delle Graie di Stoccolma precede di soli sei anni la fine dell’esistenza di Burne-Jones). Per contro, non si può non notare nella figura di Perseo una determinazione a sopravvivere in una realtà spesso durissima, ed ecco le armi speciali delle Nereidi, di cui prontamente inizia a servirsi.

Nella sequenza, la quarta tavola è The Finding of Medusa, 1888-92: di nuovo, l’ispirazione è a Morris, che però ambienta la scena in una sala di pietra dai muri neri, eretta oniricamente in mezzo a una landa lunare increspata di serpenti. Nello studio conservato a Southampton, siamo invece in una sorta di grotta oscura, o di forra (mentre nel disegno alla Staatsgalerie l’ambientazione rocciosa risalta maggiormente poiché rischiarata da quello che sembra un pallido albeggiare rosato). La metà sinistra dell’opera è dominata dall’alta figura paludata di Medusa, una femme fatale dai tratti fascinosi e gelidi, con chiome ribelli fluttuanti (dove, notiamo, non si riconoscono i serpenti che Morris dice impigliati tra i capelli). Lei passeggia nella sala, dice il poema, volgendo il capo da un muro all’altro, e gemendo al cader giù di quei serpenti dalle chiome. In basso sulla destra, sono invece accucciate le altre due Gorgoni, con grandi ali (vecchie e curve, dice Morris, con gli occhi resi di sasso dalla grande angoscia, mentre qui di nuovo le troviamo giovani e belle). Ci si aspetterebbe che la presenza statuaria di Medusa mirasse allo spettatore, pronta a impietrirlo; invece, lo sguardo è vagamente sfuggente, quasi fosse già stata sconfitta, e ancora più emblematiche sono le sorelle, che occhieggiano quasi spaventate. Secondo il poema, Medusa sta piangendo la propria trasformazione in mostro per aver amoreggiato in modo blasfemo con Poseidone nel tempio di Atena. Ed è alle spalle delle sorelle che sorge Perseo, rivolto all’indietro per guardare nello specchio datogli dalla dea protettrice; la bisaccia è già pronta all’uso, la mano destra è ben serrata sulla spada e il torace è protetto da un’elegante corazza con decorazione a lobi fogliati, distinguibile soltanto nel disegno di Stoccarda. L’eroe però, spiega Morris, è turbato dall’angoscia di Medusa:

 

[…] “Vorrei che mai

avesse rivolto a me il suo volto pien d’angoscia”.

Ma con ciò Pallade di tal pensier l’ha folgorato:

“È poi ver che vuole vivere colui che fu portato

a tal dolor e a tale miserare

da cui né nume né uom può liberare?

Poiché il voto tremendo di Pallade la lega

fino al passar di tutto, di cielo e terra omega

ma voglia Dio che la cosa sia finita”.

 

Atena rende l’atto di Perseo, un po’ ambiguamente, quasi un’eutanasia. Medusa risulta insomma, in tutti i sensi, una donna perduta (come le vampire vittoriane, in fondo): non può essere liberata dalla sua condanna, come invece la Bella Addormentata del ciclo della Briar Rose, e non resta che salvarla in altro modo. Del resto, per i vittoriani, una donna che non possa essere passiva e sottomessa – e Medusa, bella e potente come le dee di Rossetti, ma anche più avulsa dal contemporaneo e proiettata nel mito con tutta la torpida indolenza della femme fatale – non ha che un unico ineluttabile destino, la morte.

Come oggi generalmente accettato, fu la rilettura teologica da parte delle società patriarcali della maschera della Grande Dea neolitica – specie in aspetti oscuri o mortiferi avvertiti, a torto o a ragione, come allarmanti – a popolare di mostri-femmina l’immaginario dell’antichità: un sottofondo che, combinato nelle teratomachie divine ed eroiche dei popoli d’occidente come in infinite favole di paura, sopravvivrà fino ai miti moderni e postmoderni cifrato in elementi sorprendentemente arcaici. Persino al di là del furioso infierire contro mostri-femmina malvagi, l’immaginario occidentale pare consacrare la violenza a regola di pietà contro la diversità femminile in quanto tale. Un esempio impressionante è costituito dalla leggenda irlandese di Libon, superstite coi due fratelli a un’inondazione del I secolo che avrebbe sterminato il resto della popolazione, e per questo mutata in sirena. Libon sarebbe vissuta tranquilla nel suo mondo marino fino al 588, quando incontrò i santi Beoc e Comgall, che benevolmente le proposero di tagliarle la coda – rendendola una donna “normale” – o di ucciderla, in quanto mostro. Libon scelse la morte, e per il sacrificio, bontà loro, venne santificata e ricordata con il nome di santa Libon o santa Mengen, «colei che è nata dal mare», raffigurata nelle chiese irlandesi proprio come sirena dalle gambe a forma di coda di pesce.

(– continua)

 

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / III) https://www.carmillaonline.com/2018/09/07/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-iii/ Fri, 07 Sep 2018 21:13:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48629 di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema [...]]]> di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema non ci soffermiamo): e in particolare lo spettacolo della spaventosa fine sulla ghigliottina di Madame du Barry già prefigura al lettore in chiave di doppio visibile la successiva morte, questa non descritta e circonfusa d’ombre, della donna dal collier di velluto. Un’altra testa appare effigiata sulla tabacchiera del bizzarro medico-trickster conosciuto da Hoffmann all’Opéra – lo stesso che poi apparirà a sciogliere il collier nella fatale camera d’albergo: «una piccola testa di morto» (La donna, cit., p. 105), un «piccolo teschio di diamanti» (ivi, p. 106), estremamente rivelativo nelle mani di quel personaggio cangiante, sorta di medium o psicopompo a cavallo tra i mondi della vita e della morte, del delirio e dell’irruzione sovrannaturale. Inoltre, come vedevamo, la testa di Arsène rotola via come quella di Antonia sparisce dal ritratto, in un rapporto di parallelismo e oscura specularità. E infine, chiuso il romanzo, Dumas lo inserisce nel ’51 in quell’ampia raccolta Les mille et un fantômes, il cui primo “capitolo” omonimo – a sua volta costituito da un mosaico di racconti – ritorna con insistenza sul tema delle esecuzioni capitali e in particolare delle decapitazioni, fino ai più macabri dettagli medico-legali (una bella edizione, I Mille e un Fantasma, con i Brogliacci di Paul Lacroix e il saggio introduttivo I fantasmi di Dumas e Lacroix, a cura di Marco Catucci, è da poco apparsa per i tipi Robin, Torino 2018). Lo scrittore – con il complice Lacroix che gli porge una serie di storie nel segno del bizzarro e dello spettrale – sembra insomma particolarmente interessato a tale simbolica, ne esplora le suggestioni e la sviluppa in una serie di variabili. In effetti il tema della testa tagliata, separata dal corpo, reca una ricchissima serie di provocazioni. Solo a titolo di esempio, in rapporto a opere che negli ultimi decenni le hanno incalzate, pensiamo all’uso che ne fa Giuseppe Genna nell’intrigante e amarissimo thriller/noir Le teste (Mondadori, Milano 2009) o alla comparsa quasi contemporanea della traduzione italiana del grande saggio di Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, uscito in Francia nel 1998 (Donzelli, Roma 2009).

D’altra parte un secondo elemento emerge molto chiaro: ne La donna dal collier di velluto, come nel primo testo della raccolta del ’51, le teste che rotolano sono tutte di donne. Non sembra un caso che Dumas inserisca a un tratto nel dialogo i nomi di Sade e di Justine: e proprio l’icona del supplizio femminile sembra qui costituire il punto d’incontro più inquietante – e peraltro consono alla spettacolarità feticistica odierna – tra strazio del corpo e provocazione sensuale, inabissamento psichico e terrori della Storia. A un livello generale, di salutare messa a fuoco degli aspetti equivoci di questa connessione estetizzante, rinvierei al bel testo di Adriana Cavarero, Orrorismo – ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli, Milano 2007), e in questa dimensione non mi addentro – del resto il rapporto tra sadismo e agonie romantiche è stato abbondantemente studiato. Tale chiave, comunque, non esaurisce il discorso.

Tanto più che la testa (femminile) che cade è associata a un terzo elemento: una conseguenza fatale, inesorabile, che si abbatte sullo spettatore quasi folgorandolo – sia egli lo sciagurato Gottfried Wolfgang destinato alla follia, sia (a maggior ragione) l’Hoffmann che quel delirio, si immagina, proietterà nei suoi scritti come un’eredità virale. Ciò che Irving e Borel associavano alla pura epifania della Decapitata, Dumas lo riconduce a un meccanismo più complesso e interiormente devastante, legato a un giuramento sacro e a una morte a distanza, in rapporto con un Femminile che spiazza.

Ancora: il teatro di morte del romanzo si riferisce, come abbiamo visto, a un’epoca storica molto precisa. Un’epoca abbastanza vicina a Dumas – come ad altri narratori misuratisi sul tema – da recare un sapore di drammatica contiguità. Anzi un sapore che al narratore francese, erede dei valori di quella Rivoluzione, lascia un retrogusto amaro (o piuttosto dolciastro, ferrigno) e proietta ombre grevi. Tanto più che quei fantasmi, riproposti in infiniti memoriali, ma anche in tutta una ricchissima e pervasiva iconografia, sembrano strutturarsi secondo forme che accedono al mito.

Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti. E come in quei giochi ottici dove dobbiamo rilasciare lo sguardo a cogliere un’immagine cifrata, e questa all’improvviso emerge in uno spessore virtuale nella confusione dei segni, il mostruoso rivela una prima immagine. Quel che Dumas sta richiamando sottotesto, attraverso echi e allusioni, è anzitutto il mostro che emerge in filigrana da infinite immagini dei giorni del Terrore: una Dea tremenda la cui icona è la testa tagliata e minacciosa, sollevata a segno pietrificante di un rito pagano. La Gorgone Medusa, insomma.

A dare la stura al sottotesto mitico di tanta iconografia è il terremoto simbolico dell’esecuzione di Luigi XVI. Spigolando tra le innumerevoli stampe raffiguranti l’esecuzione del re, ne troviamo per esempio una tedesca, anonima, esistente in numerose varianti e in realtà simile a modelli francesi ma più cruda. Un collaboratore del boia appare mostrare al popolo la testa mozzata del consacrato da Dio: si coglie la terribile energia della postura di quest’uomo, l’espressione allucinata e la sensazione che sia spaventato dalla testa che cerca di allontanare da sé, e quasi pietrificato dallo spettacolo che sta offrendo al popolo (cfr. La ghigliottina del Terrore. Catalogo della mostra curata da V. Rousseau-Lagarde e D. Arasse, Torino 17 febbraio – 10 marzo 1987, Polistampa, Firenze 1986, p. 67). Si noti che questo bozzetto lo troviamo riproposto in seguito – stessa postura del carnefice – in un’immagine relativa all’esecuzione di Robespierre. Il nostro Hoffmann avrebbe potuto trovarsi tra le mani proprio questa stampa, e la sua febbre interiore ne sarebbe stata certamente sollecitata.

Ma è proprio in seguito alla morte del re che si diffonde un tipo d’immagini anche più astratto e simbolico – anche questo poi riproposto per altri personaggi, Robespierre compreso. Particolarmente esplicito in una celebre acquatinta dell’editore rivoluzionario Villeneuve, il gesto del boia che solleva la testa mozzata del re, isolato però dal contesto,

 

si riduce a un avambraccio anonimo, rappresentante incontestabile della giustizia esercitata in nome del popolo. Viene così fissato una volta per sempre il valore di questo gesto dimostrativo che, nella tradizione delle immagini, è quello di Perseo che pietrifica Polidette mentre mostra la testa tagliata di Medusa. Nel rituale dell’esecuzione rivoluzionaria, l’esibizione della testa è destinata a terrificare, anzi, a pietrificare i nemici della patria. Di conseguenza, la testa del ghigliottinato diventa il suo vero volto smascherato nella morte e questo tipo di iconografia può essere definito “ritratto del traditore smascherato” [La ghigliottina del Terrore, cit., p. 51].

 

Nel senso che il volto dell’ultimo istante, come in un conato di terribile verità, coi suoi tratti e l’espressione assunta smaschererebbe il traditore: e in effetti, nel romanzo di Dumas, la testa tagliata è memoria e denuncia per Hoffmann del suo tradimento di Antonia e dei voti fattile.

Si noti che questo continuo ritorno delle immagini della morte del re e della sua testa, ostentata a pietrificare i nemici della patria, va ben oltre l’orizzonte delle stampe popolari: le troviamo su medaglie, coperchi di scatole e oggettistica varia, porcellane – dove magari la tazza cela l’immagine effigiata sul piattino sottostante, come nell’effetto moralizzatore della morte nascosta e poi rivelata delle anamorfosi…

Ma gli oggetti tradiscono lo spirito dell’epoca: e così, quando lo spiacevole medico dalla tabacchiera con la testa di morto brandisce un binocolo, la persona che si vede fissata attraverso quelle lenti, «chiunque fosse, trasaliva immediatamente e subito volgeva gli occhi verso chi la guardava, come se vi fosse stata costretta da un invisibile potere. E restava in tale posizione finché lo straordinario medico cessava di fissarla» (La donna, cit., pag. 109 – corsivo mio): restava cioè pietrificata da quello sguardo gorgonico. Certo qui Dumas strizza l’occhio all’Hoffmann narratore, ai cannocchiali dell’allarmante Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia, un figuro oniricamente bifronte come (scopriremo) questo medico che ha due diverse forme di apparizione. Ma il motivo della lente che ammicca a una visione diversa, e a una diversa messa a fuoco di quel mondo sottile ai confini indecidibili dell’incubo, per Dumas non si consuma nel semplice delirio. La gorgonizzazione legata alle lenti, infatti, non è imputabile solo alla personalità inquietante del medico: il binocolo, specifica questi, gli viene dall’amico Voltaire, dunque è in fondo, simbolicamente, la lente stessa dei Lumi. E come ad aggiungere un ulteriore livello di spiegazione, è a questo punto che il medico cita Justine di Sade: il suo accenno fuggevole a «una giovanissima donna che aveva letto quel romanzo» (ivi, p. 110) ed è «morta felicissima» (ibidem)«E l’occhio del medico scintillò di piacere al ricordo delle cause di quella morte» (ibidem) – reca il senso della saldatura tra Lumi, libertinismo e orrore che qui sembra costituire un sotterraneo specifico, personale e culturale, dello sguardo gelido di Medusa. Non a caso, subito dopo viene dato il segnale del secondo atto (siamo all’Opéra) e il medico annuncia: «Ora vedremo Arsène» (ibidem).

Quando poi la danzatrice appare – bellissima, con la flessuosità di una lucertola (ivi, p. 112) a richiamare un’affinità coi rettili non incongrua in una parente delle Gorgoni –  e Hoffmann si fa sfuggire un commento ammirato ad alta voce, lo sguardo di lei dal palco gli fa l’effetto di una scarica elettrica (ivi, p. 111): ancora una volta un occhio che folgora e mesmerizza, un occhio da basilisco o con effetto gorgonico. Evidente quando Hoffmann scopre di non poter quasi allontanarne lo sguardo, e per riuscirvi è costretto a «uno sforzo così doloroso che emise un grido, come se i nervi del collo, divenuti di marmo, gli si fossero spezzati in quel momento» (ivi, p. 114). Ma, come nota Hoffmann/Dumas, «una visibile correlazione si era stabilita tra i […] due sguardi» (ivi, p. 112) di Arsène e del medico, e anzi «vedeva distintamente i raggi che uscivano dai diamanti del fermaglio di Arsène [quello che trattiene il fatale collier di velluto viola] incontrarsi a mezza via con quelli che uscivano dalla testa di morto sulla tabacchiera del dottore in una linea retta, urtarsi, respingersi, e scaturire di nuovo in un fascio unico fatto di migliaia di scintille bianche, rosse e oro» (ivi, pp. 112-113). Uno scambio che parla il linguaggio del fato, e annuncia la sorte di Arsène ma insieme la potenza simbolica di un dramma, una sorta di riconoscimento del gorgoneion sulla strada di Hoffmann. Quella correlazione tra l’occhio del serpente e l’uccello che affascina (ivi, p. 121) inseguirà in forma allucinatoria Hoffmann anche in seguito: e ricordiamo che sarà proprio quel medico, alla fine del romanzo, a salire alla stanza riconoscendo il cadavere di Arsène. Suscitando nel lettore il dubbio che tutta la vicenda sia in realtà una rilettura a posteriori in chiave di delirio.

Scopriremo anzi che il fermaglio del collier di Arsène ha forma di ghigliottina. «Sì, ne fanno di graziose» commenta il dottore «e tutte le nostre donne raffinate ne portano almeno una» (ivi, p. 115). Ma il giovane si è fatto passare il binocolo, e attraverso quelle lenti fatali, per un bizzarro effetto ottico (ancora le lenti de L’uomo della sabbia), il giovane tedesco ha una sorta di amplesso con Arsène – un amplesso necrofilo in cui si sovrappongono le emozioni della giornata, l’immagine danzante diventa quella di Madame du Barry con la testa mozza, o viceversa Arsène appare danzando fino ai piedi della ghigliottina e tra le mani del boia. Il desiderio monta a tal punto che Hoffmann, dopo aver invano cercato soccorso nel talismanico ritratto di Antonia (altra testa), è costretto a fuggire dalla sala. Quando più tardi torna però davanti all’uscita degli attori per rivedere Arsène, «agitato da quella strana apparizione» (ivi, p. 119), non nota nemmeno il freddo e la neve che cade, trasformando «la redingote tedesca in una statua di marmo» (ibidem). Ancora insomma la pietrificazione: come nel dramma mitico della Gorgone ma in termini liberissimi, gli elementi dello sguardo fatale e della mutazione in pietra vengono cioè riproposti in una serie di suggestioni, fino alle estreme latitudini del concetto. Come quando più tardi Hoffmann, arricchitosi al gioco per farsi bello con Arsène, torna alla casa di lei e pregusta «la gioia di coprire con tutto quell’oro il bel corpo che gli si era svelato e che, rimasto di marmo davanti al suo amore, si sarebbe animato davanti alla sua ricchezza, come la statua di Prometeo quando ebbe trovato la sua vera anima» (ivi, p. 160). Dove il richiamo a un procedimento inverso alla pietrificazione gorgonica denuncia in fondo l’arida Arsène come vuoto simulacro, statua di pietra, proprio attraverso la squallida prospettiva di un’animazione per lucro.

Ma torniamo al Nostro pietrificato dal gelo. Arsène scompare immediatamente sulla carrozza di Danton, Hoffmann la insegue invano: e quando un paio di giorni dopo, ossessionato dall’immagine di lei, torna a teatro e apprende che i suoi gesti inconsulti durante e dopo lo spettacolo hanno segnato la rovina della diva e il suo allontanamento, il teatro e il medico stesso appaiono completamente diversi, privi di ogni lustro od orpello. Il visionario Hoffmann scopre così che l’ambiente visto due giorni prima apparteneva a una realtà passata – l’Opéra prima della rivoluzione, luccicante di gioielli ed eleganza – rievocata come per magia; il medico non ha tabacchiere preziose ed è un uomo qualunque, gli spettatori in sala sono poveracci, e persino i busti esposti (le ennesime teste) non raffigurano più Apollo e Tersicore come pareva a Hoffmann, ma Voltaire e Marat. Era la presenza di Arsène, spiega il medico, a trasfigurare tutto: «vi dico che l’amate, giovanotto, e che avete visto la sala attraverso il prisma del vostro amore» (ivi, p. 125). Eppure, ancora una volta, il discorso non si esaurisce qui: il dottore confida di non aver mai posseduto, neppure nei tempi più prosperi, una tabacchiera con pietre preziose come quella ostentata dal suo alter ego. Tutto ciò appartiene dunque a una dimensione sospesa tra l’allucinazione e qualche diverso piano della realtà: cioè Dumas rende partecipe il lettore, attraverso il suo gioco a più livelli, di una percezione sottotesto. Ed è con questo binocolo (per rifarci all’immagine già hoffmanniana delle lenti che colgono la realtà a una diversa distanza e profondità) che noi stiamo esplorando il romanzo, e troviamo la Gorgone. Come la Gorgone non si consuma in un’identità divina ma è al centro di una costellazione che comprende la testa tagliata e lo specchio, lo sguardo fatale, la pietrificazione e i serpenti, così anche qui ciò che rileva non è una banale identificazione tra Arsène e Medusa ma un contesto dinamico, un dramma mitico in cui i singoli elementi si compenetrano e si riassestano continuamente.

Così il dottore, come l’inquietante e indecidibile Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia riappare a Hoffmann qualche tempo dopo nel suo primo sembiante ingioiellato: spiega che il giovane avrebbe potuto rintracciarlo con facilità chiedendone l’indirizzo «al primo cimitero […] incontrato» (ivi, p. 131) e domandando del dottore dalla testa di morto (ibidem). Si definisce anzi il medico dell’Opéra (ibidem), ma alla fine del romanzo, davanti al corpo reclino di Arsène, spiegherà di essere il medico delle prigioni (ivi, p. 174): due ambiti in apparenza antitetici e saldati oniricamente attraverso la natura indecidibile di questa figura bifronte – ma con una tragica contiguità nel teatro del supplizio in piazza. Ridestandosi nell’Opéra ormai deserta dove si è assopito o passando nottetempo ai piedi della ghigliottina, Hoffmann si confronta con scene paradossalmente simili.

Comunque il giovane non si deve disperare per la scomparsa di Arsène, perduta nel labirinto di Parigi: ella infatti ha incaricato il medico di cercarle un pittore che la ritragga, e l’artista Hoffmann si offre con entusiasmo. Una carrozza tenebrosa chiamata dal dottore conduce il giovane a casa di Arsène, e la Bellissima appare da una porta nascosta «dietro uno specchio mobile» (ivi, pp. 135-136): come, viene da pensare, quello di Perseo. L’accesso all’immagine della Gorgone è possibile solo tramite uno specchio, e in queste pagine di epifania di Arsène il richiamo allo specchio torna ossessivamente. Arsène vuole farsi ritrarre in costume da Baccante, e la sconvolgente esperienza del suo denudamento vede una rifrazione entro gli specchi del boudoir; poi Hoffmann viene improvvisamente buttato fuori (è arrivato l’amante in carica), e umiliato comprende che per la mantenuta di lusso egli rappresenta un pittore qualunque, «una macchina da ritratti, come uno specchio che riflette i corpi che gli si presentano» (ivi, p. 142).

Ma anche la locuzione “macchina da/per ritratti” è significativa: proprio la ghigliottina è stata definita come “macchina per ritratti”, nel senso che isolando la testa del ghigliottinato, la mette sotto gli occhi dello spettatore. Suggestivo constatare come nel romanzo, in parallelo all’isolarsi “in ritratto” della testa mozza di Arsène, sparisce quella del ritratto di Antonia. D’altra parte proprio il citato tema del “traditore smascherato” riconduce a un ritratto-maschera in cui si condensa e riassume tutta la storia dell’individuo e il senso della sua vita (La ghigliottina del Terrore, cit., pag. 169). Una maschera: il che da un lato richiama all’uso, proprio durante la rivoluzione, di maschere funerarie rapidamente modellate sui tratti dei giustiziati, come volti ingrigiti dalla pietrificazione gorgonica; e dall’altro alla stessa Gorgone, figura-maschera anche nell’accezione più materiale. Un po’ tutta la Rivoluzione francese – ma in particolare la sua fase più drammatica, il Terrore – è all’insegna di questo volto di dea irriconosciuta in demone, dea-maschera o dea-testa, sorta di Bafometto corrucciato (e a proposito dell’idolo-testa Bafometto ricordiamo la mitologia sulla vendetta dei Templari consumata proprio in quei giorni con l’esecuzione del re Capeto). Un mostro immagine di un Femminile scatenato e sconvolgente: simbolica adatta, del resto, a quella Rivoluzione Francese in cui le donne si conquistano la «scena pubblica come vittime e come mandanti. Una furia da baccanti [ricordiamo che così voleva vestirsi Arsène per il ritratto] aveva soffiato sulla storia, e le donne volgevano a se stesse un volto inconoscibile, troppo vicino all’indistinto primordiale» (V. Papetti, La “debole mano” della signora Radcliffe, Introduzione ad Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, Bur Rizzoli, Milano 2010, p. 23), tra aspersioni lunari di sangue, gioielli a forma di ghigliottine e carmagnole sfrenate in abiti da sacerdotesse – coi musicanti magari abbigliati da satiri. Se Dioniso aveva insomma casa in Francia nei giorni del Terrore, il volto terrifico della Dea lo accompagnava. E se la mutazione artistica del volto di Medusa, da grottesco com’era nell’arte greca a più semplicemente femminile, ancorché anguicrinito e cereo, appare diffusa fin dal Rinascimento, la svolta definitiva può ravvisarsi proprio «in un tempo tanto mitologico», come lo definisce Dumas (La donna, cit., p. 100), quale la stagione rivoluzionaria: quando cioè la Gorgone decollata assurge a figura della “libertà alla francese” come – per gli intellettuali oltremanica – la saggia ed equilibrata Atena del contraltare “all’inglese”.

Tra i mostri-femmina delle mitologie d’Occidente la Gorgone è forse il più emblematico. Una figura i cui protomodelli sprofondano in un passato lontanissimo, fino a quelle maschere neolitiche della Dea della morte che sembrano plausibili prototipi del gorgoneion, il pietrificante capo di Medusa, o persino più indietro. Il nome del resto che in greco suona una sorta d’epiteto (gorgós, “terribile”) potrebbe provenire dal sanscrito garjana, sorta di onomatopea di un ringhio bestiale (garg come urlo). Il tema della mutazione delle vittime in pietra legata alla fatalità della maschera sacra ben si sposa con la funzione (come per altri mostri ibridi) di protettrice di edifici. Ciò che non semplifica la comprensione agli imbarazzati mitologi del mondo classico, che si interesseranno particolarmente a Medusa, unica mortale di tre Gorgoni sorelle e caduta – in qualche passato remoto – sotto la spada falcata dell’eroe maschio Perseo. Comunque un mostro, bloccato nell’atto di una boccaccia apotropaica dal valore forse magico: eppure le sue caratteristiche (compresi i nessi del termine greco con una costellazione semantica legata all’idea di “regnare”, cfr. qui) finiscono col richiamarla a una dignità ben più alta, all’aspetto minaccioso della grande Dea della vita e della morte. Gli Orfici chiameranno non casualmente gorgoneion il volto della luna, e tale lascito lunare permarrà ancora nelle vamp spettrali romantiche e simboliste – compreso dunque lo spettro di Arsène. Perché, a grattare la vernice della maschera, la mostruosità di Medusa si rivela in fondo la minacciosità mitizzata, irriconosciuta della donna: e questo aspetto, in pulsioni, fremiti e polluzioni, erutterà nell’arte tra Otto e Novecento. Quando diventa oggetto di una vera e propria ossessione, spostando spesso l’attenzione dal contesto generale (Perseo sparisce) alla testa di lei: e non necessariamente tagliata, anche se il distinguo diventa relativo. Del resto nel mito gorgonico si intrecciano temi diversi e spesso (non sempre) equivoci: così, accanto al rapporto tra femminile e mostruoso – e tra donna e serpente – troviamo il motivo della fascinazione fatale (la femme fatale, appunto) che pietrifica in una succube passività; il tema dello specchio, che permette di contemplare l’incontemplabile, fino alle ultime interpretazioni come metafora per il cinema; la decollazione da parte dell’eroe virile… Lo stesso urlo (garg), permette di decrittare anche in questa chiave il soggetto androgino – del resto l’antica Gorgone aveva connotati spesso bisessuali in un’identità femminile – di un’intera nebulosa di opere di Edvard Munch: emblematico è il bozzetto conservato al Bergen Kunstmuseum dove vediamo solo la testa urlante tra una foresta di mani disperatamente sollevate. Un tema insomma che impatta con incredibile potenza sulla modernità, sia in forme artisticamente “alte” – per le quali si rinvia a Jean Clair nel suo celebre saggio Méduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel (Gallimard, Paris 1989, tr. it.: Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo, Milano 1989) – sia in altre di un immaginario molto più popolare.

Infatti il rapporto della Gorgone con il genere horror è molto più stretto di quanto spesso si creda. Si pensi alla decapitazione di dark lady letterarie come Milady de Winter (cioè ‘dell’inverno’, un nome adatto al volto oscuro della Dea) che lo stesso Dumas pone in scena ne I tre moschettieri; o alle vampire di letteratura e cinema, eredi e ipostasi della Terribile Femmina in un tripudio di vagine dentate e denti fallici, che inevitabilmente dopo il trattamento col paletto richiedono il taglio della testa. Ma si è già accennato alla Gorgone portata in scena da Fisher per la Hammer: un film che narra di uomini alla deriva, e di una donna che suo malgrado e senza saperlo, travolta da amnesie lunari, è posseduta dallo spirito del Mostro-Femmina. Ancora il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola, 1992, vede una delle vampire del castello del Conte dotata di una chioma medusea con serpenti. Nel romanzo, infatti, davanti a una di loro, l’ospite Jonathan Harker ha la sensazione di averla già incontrata, senza però ricordare dove: e se oggi sappiamo trattarsi di un riferimento alla vampira del racconto-frammento Dracula’s Guest (o meglio di un testo simile nelle prime cento pagine rimosse del romanzo), tra le possibili identificazioni c’era appunto Medusa – e probabilmente di lì gli sceneggiatori mutueranno la suggestione del film. Certo il riferimento a un ricordo sfuggente, un conosciuto/non riconosciuto dalle forti implicazioni erotiche reca per noi un senso molto preciso nel segno del Perturbante. E che questo si associ alla Gorgone, mostro sottotesto di una storia plurimillenaria e dello stesso romanzo di Dumas che abbiamo tra le mani, pare qualcosa di estremamente rivelativo.

[3-Continua]

 

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Je suis Naja https://www.carmillaonline.com/2016/04/02/je-suis-naja/ Sat, 02 Apr 2016 21:33:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29602 di Irene Incarico

Occhi di tenebra(Il racconto che segue è apparso nell’antologia Occhi di tenebra, contenente ventisei storie ispirate al mito di Medusa, per i tipi Delmiglio, Verona 2015.)

Sleep, sleep now my child / In the sea of crystal trouble For better is the violent sigh / Than all that you leave behind

MOONSPELL, ‘Than the Serpents in my Arms’

Non potevo dire quello che ho visto. Non posso. Primo, perché non voglio la polizia a tormentare me e la mia famiglia. Secondo, perché non tutto il male viene per nuocere. Ho detto che [...]]]> di Irene Incarico

Occhi di tenebra(Il racconto che segue è apparso nell’antologia Occhi di tenebra, contenente ventisei storie ispirate al mito di Medusa, per i tipi Delmiglio, Verona 2015.)

Sleep, sleep now my child / In the sea of crystal trouble
For better is the violent sigh / Than all that you leave behind

MOONSPELL, ‘Than the Serpents in my Arms’

Non potevo dire quello che ho visto. Non posso. Primo, perché non voglio la polizia a tormentare me e la mia famiglia. Secondo, perché non tutto il male viene per nuocere. Ho detto che ero rimasta tutto il tempo in biblioteca e che ero uscita direttamente, senza passare dalla palestra. Tanto avevo il permesso, visto che ho l’esonero dalle attività fisiche. E poi perché Naja mi sta simpatica. Mi stava. Non so nemmeno dov’è, cosa fa, non so nemmeno cos’è. So solo che lei era un po’ come me, almeno sotto un certo punto di vista. Un bersaglio. Il bersaglio della nostra classe, proprio come la sottoscritta, Patrizia Padraig, la bruttina con l’apparecchio ortopedico e la media dell’otto e mezzo. Lei, col suo fazzolettone da musulmana in testa, il nome egiziano e la faccia un po’ troppo abbronzata, da Signora-Fatima-Che-Mangia-Solo-Kebab, era la mia perfetta partner. Due cazzutissime Carrie White nella stessa classe, nemmeno Stephen King ci aveva pensato, eh? Le povere sfigate che nessuno vuole come compagne di banco. Che nessuno vuole accanto sul pullman della gita. Con cui nessuno scatterebbe un selfie se non per postarlo su Facebook come trofeo: guarda, ho la foto con lo sgorbio e con la marrocchina mussulmana, con due erre e esse, come se i vocabolari e i libri di geografia mancassero.
Ma Naja è speciale, e lo avrebbero capito anche gli altri, se avessero passato un po’ di tempo a parlare con lei e fossero andati oltre le loro paranoie da camicie verdi della domenica, che vedono torri gemelle in fiamme nascoste anche nel cesso e che trovano divertenti le battute di Salvini sulle ruspe.
Naja parla un sacco di lingue, per esempio, non solo arabo e francese e italiano. Conosce il latino e il greco meglio dei professori. A volte l’ho vista leggere certi libriccini che sembravano in aramaico, ma ho preferito non fare domande. Se non avesse viaggiato tutta la vita per il lavoro del padre – non ho mai capito cosa faccia – di certo non sarebbe ancora al liceo, alla sua età. Età, sì, certo. Come se fosse facile dire che Naja ha vent’anni. A volte sembra una donna grande, quando parla. A volte sembra una vecchia stanca. Altre volte sembra fuori di testa, con tutte quelle storie sugli Udjet che sono gli ultimi discendenti del popolo della dea Merseger – o come diavolo si scrive – dispersi per l’Europa e costretti a nascondersi in esistenze normali e fittizie. Le storie sui serpenti, gli scorpioni e le punizioni. I viaggi e i racconti di epoche in cui no, non potrebbe mai avere vissuto una ventenne.
Per questo non dirò quello che ho visto. Non voglio ritrovarmi la polizia a tormentarmi, e tantomeno quelli coi camici bianchi e le pilloline, pronti a farmi chissà quale perizia. Io sono stata in biblioteca, in palestra non ci sono mai entrata, punto. E se anche sapessi dove è andata Naja dopo quello che è successo, no, non lo direi a nessuno. Perché tra Carrie White bisogna aiutarsi.

È di 26 vittime, di cui 20 minorenni, il terribile bilancio della strage avvenuta ieri presso il liceo Tommaso Parentucelli di Sarzana, cittadina in provincia di La Spezia. Ad un solo giorno di distanza dalla sparatoria presso la sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, l’insospettabile e tranquilla località lunigianese è stata teatro di quello che fin dalle prime indagini sembra essere un attacco terroristico di matrice islamica. I corpi dell’intera classe 5B e dell’insegnante di educazione fisica sono stati rinvenuti nella palestra dell’istituto dall’operatore scolastico che ha dato l’allarme. “Era l’ultima ora. Ho fatto il mio solito giro e prima di chiudere sono sceso a controllare la palestra. Li ho trovati lì. Tutti morti. Pietrificati” è ciò che l’uomo ha raccontato alle forze dell’ordine. Da un immediato controllo, le uniche sopravvissute all’eccidio della 5B sono risultate essere la diciassettenne P.P., esonerata dalle lezioni di educazione fisica, e la diciannovenne francese di origini egiziane Naja Udjet, iscritta da pochi mesi presso il Parentucelli e proveniente dall’hinterland parigino. Sono scattate subito le indagini e la Udjet, insieme alla sua famiglia, sembra essere sparita nel nulla, lasciando dietro di sé un appartamento vuoto, numerosi documenti falsi e un’unica traccia: il suo hijab blu, il tanto contestato velo con cui era solita presentarsi a scuola, abbandonato in mezzo ai corpi delle vittime. La comunità islamica locale esclude ogni possibile legame con la studentessa e la sua famiglia – attualmente ricercata dalle squadre antiterrorismo dell’At.Pi – e si resta in attesa di eventuali rivendicazioni e collegamenti con i fatti di Parigi. Per il momento, resta sconosciuta la causa della morte dei 26 ragazzi, ad una prima analisi apparentemente stroncati dall’utilizzo di armi chimiche. Alcune ipotesi preliminari sembravano implicare l’utilizzo dei già noti gas nervini Sarin o Tabun, ma lo stato di rigidità estrema delle salme sembra far pensare al test di un nuovo tipo di gas, ancora sconosciuto.

Non dirò mai quello che ho visto. Primo, perché tanto ormai non servirebbe a niente. Secondo, perché a volta la natura sistema le cose da sola, con degli strani, stranissimi fenomeni. Non lo dirò, ma ho visto tutto. Dalla finestra del corridoio. Ho visto gli occhi di Naja, mentre quei figli di puttana la tormentavano. “Devi gridarlo, troia musulmana, oppure te ne torni da dove sei venuta” sbraitavano, infervorati “Devi gridare JE SUIS CHARLIE. Dai, mezza negra del cazzo, che il francese lo parli così bene, no?”. Ho visto il professore ridacchiare e fare finta di niente, come se fosse uno scherzo divertente. Le ragazze che sogghignavano e cercavano i cellulari per filmare il tutto, strizzate nei loro leggings Nike, tutte uguali come Barbie rincoglionite. Poi ho visto le mani di quei cretini, tese verso il fazzoletto blu di Naja.
“Toglitelo, mezza negra di merda. Togliti quel velo schifoso!” gridavano “E poi mettiti in ginocchio e urla JE SUIS CHARLIE”.
Sono state le loro ultime parole.
Le hanno strappato l’hijab, con una violenza da branco, quegli stupidi fighetti infervorati dalla sbornia mediatica del momento. Avrei voluto saltare dentro e gridare “Smettetela, imbecilli!” ma non ce n’è stato bisogno.
Perché è successo. Non so dire bene cosa. Un brulicare nell’aria. Forme distorte attorno alla testa di Naja. Mille piccoli occhi lucenti, piccole lingue sibilanti pronte a punire.
Un senso di vittoria denso come fango mi ha travolta. Poi, il silenzio rotto solo dal rumore dei miei piedi, mentre scappavo, senza nemmeno rendermene conto, nel corridoio che non finiva più. Una frase mi si rimescolava in testa, come un groviglio di serpenti: je suis Naja.

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