Georges Bataille – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 WestWorld: la valle della disrupzione / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/29/westworld-la-valle-della-disrupzione-1/ Wed, 29 Mar 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76466 di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose È la mia scoperta quotidiana (Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza [...]]]> di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose
È la mia scoperta quotidiana
(Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza il film di Crichton. Nemmeno per il “noi o loro” del finale del film del 1973. Il ‘loro’ stava a indicare le machine, gli “hosts”, che si distinguono dal ‘noi’, gli umani, solo per qualche tratto fisico (tanto che, nel film, si consigliava ai nuovi arrivati di osservare le mani dei soggetti per capire se si trattasse di androidi o meno). Nel “WestWorld” di questo secolo la distinzione fisica tra umani e androidi è inesistente. Tuttavia, come nel film, nella serie la garanzia di trovarsi davanti a un umano si palesa esclusivamente nell’impossibilità, per gli hosts, di ucciderlo. Infatti, nel parco le armi non funzionano quando rivolte contro un umano (nella serie, gli hosts non possono puntarle contro gli ospiti umani), rassicurando così i visitatori sul fatto che l’androide non riuscirà mai a ucciderli. Non che l’androide non desideri compiere tale azione, semplicemente egli (esso?) non potrà mai passare all’atto – il che non è una rassicurazione secondaria per gli umani nel parco. Al di là del fatto, non banale, di non perdere la vita in quello che teoricamente è un gioco, questa garanzia serve proprio ad esorcizzare il fantasma della singolarità tecnologica, poiché l’umano potrà sempre imporre la sua superiorità sull’androide inerme. Di conseguenza, seguendo una logica inversa rispetto a quella dell’Etica nicomachea, in WestWorld, quello che caratterizza e trascende l’umano è proprio la sua capacità di uccidere, è proprio la brutalità che è capace di esercitare sui (ormai) suoi simili, sugli androidi che, del resto, per la loro condizione di macchine, saranno sempre soggetti alla violenza umana.

Si potrebbe ipotizzare che è proprio la similitudine morfologica tra hosts e umani che fa della serie WestWorld una grande ‘valle perturbante’1. dove gli individui si trovano sempre sul confine tra l’empatia e la repulsione, ma mai nel mezzo di esse. E questa valle perturbante è proprio il luogo di conquista – proprio come il far west nel nostro immaginario – dell’irrazionale attraverso la totale disinibizione dell’individuo. È la valle dove l’individuo festeggia la sua vittoria irrazionale, festeggia la sua totale disinibizione attraverso un saturnale di violenza sull’oggetto percepito come soggetto; sul corpo reificato che diventa soggetto proprio attraverso l’esercizio della violenza2. Infatti, a differenza del concetto marxista di reificazione (Verdinglichung), che posiziona il fenomeno nella sfera semantica dell’alienazione – e perciò viene a disegnare una distorsione dello scambio organico tra uomo e natura proprio del capitale –, qui la violenza ci ricorda che la reificazione si sviluppa su un piano fenomenologico anche al di fuori di condizioni relazionali determinate dal capitale. In altre parole, la violenza, che secondo Simone Weil presuppone sempre la trasformazione del soggetto in oggetto, finisce per allontanare il fenomeno della reificazione della sfera dell’alienazione per riportarlo alla sua sfera semantica originaria, quella dell’Entfremdung, dello straniamento.

Questo aspetto compare del resto già nell’opera di Georges Bataille il quale, pur condividendo in gran parte la comprensione marxista della reificazione – soprattutto nel riconoscimento della praxis come forza di reificazione3 – ha messo in luce la forza reificante di diverse pratiche rituali. Mi riferisco in particolare alla sua analisi di alcuni riti aztechi, posti dal filosofo in rapporto con la reificazione in contesto industriale4. Attraverso il lavoro di Bataille, allora, emerge come il fenomeno della reificazione non sia un aspetto esclusivo della forza che il valore di scambio (Tauschwerten) esercita sull’essere e come lo stesso fenomeno si manifesti anche al di fuori della relazione capitalista. Questa affermazione diventa ancora più chiara quando negli scritti di Bataille, analizzando lo sperpero (di energie e vite/beni/oggetti sacrificati) nei riti sacrificali aztechi, il filosofo mette in luce il passaggio da soggetto ad oggetto subito dal sacrificato in quanto dono al dio Sole5.

Nella valle perturbante di WestWorld ci troviamo di fronte ad un fenomeno di passaggio analogo, messo in moto proprio dalla violenza irrazionale. Gli hosts, che soggetti non sono – ma che vengono percepiti come tali – finiscono per diventare oggetti a seguito di una trasformazione propiziata dal loro sacrifico, e cioè dalla violenza. Infatti, essere destinatari della violenza irrazionale converte gli hosts in un oggetto. E questo accade benché tutto faccia presupporre – dal loro aspetto, alle loro apparenti facoltà mnemoniche – che precedentemente all’atto violento essi fossero soggetti dotati di libero arbitrio, che esistessero, quindi, perché capaci di esprimere volontà. Oltre a ciò, ad affermare (almeno apparentemente) la condizione di soggetti degli hosts è proprio la percezione che lo spettatore ha di loro. Uno spettatore che, non solo li riconosce come soggetti autonomi, ma che, proprio per via delle violenze e brutalità da loro subite, finisce per umanizzarli a dismisura. Ed è proprio per effetto di questa umanizzazione che, nella serie, soprattutto nella prima stagione, l’empatia può svilupparsi esclusivamente in direzione dell’androide. Ed è ancora per questo motivo che la barbarie degli hosts nei confronti degli umani, messa in atto nella seconda stagione, può essere percepita come una reazione di legittima difesa.

La violenza degli hosts sembra qui una legittima risposta alla carneficina irrazionale e immotivata portata avanti fino a quel punto dagli umani. In ogni caso, mi pare che già all’inizio della seconda stagione, l’empatia dello spettatore sia ormai tutta per loro, per le macchine. Non ce più spazio per un ‘noi o loro’, nemmeno per un ‘noi e loro’. È qui che risiede, a mio avviso, la differenza della serie rispetto alla narrazione originale creata da Michael Crichton negli anni Settanta. Il WestWorld di questo millennio non ci permette di vedere nel West lo scenario di una lotta tra umani e androidi. La conquista qui è di tutt’altra natura.

A differenza del film di Critchton, la trama del WestWorld di questo millennio non si fonda su una netta dicotomia tra umani e macchine. Gli hosts di questo millennio hanno perso completamente l’essenza macchinica – non sono concepiti in base alla parcellizzazione e frammentazione della produzione propria del taylorismo – e sono ormai entità digitali, stampe a tre dimensioni di tessuti organici. Inoltre, il malfunzionamento, il glitch (programmato?) che avvia la rivolta si manifesta chiaramente con l’apparente acquisizione di facoltà mnemoniche da parte degli androidi. Quello che nel film degli anni Settanta sembra una reazione meccanica, un riflesso violento e irrazionale prodotto da un errore elettronico che permette agli androidi di oltrepassare il Rubicone e uccidere un umano, appare nella serie come una reazione violenta articolata e fondata sui ricordi, sui traumi personali che finiscono non solo per costruire l’identità degli hosts, ma che li rende capaci di stabilire relazioni di empatia con gli umani6. Riprendendo la formula di Blade Runner (1982), nella serie si pretende di costruire un essere umano attraverso l’installazione di ricordi. Come ci spiega la mitica scena del film di Ridley Scott, dove appena concluso il Voight-Kampff test effettuato a un replicante ignaro di esserlo, emerge chiaramente la difficoltà di differenziare l’umano dal replicante dotato di ricordi:

Il commercio è il nostro obiettivo, qui alla Tyrell. “Più umano dell’umano” è il nostro motto. Rachel è un esperimento, niente di più. Abbiamo iniziato a riconoscere in loro una strana ossessione. Dopotutto, sono emotivamente inesperti, con pochi anni… In cui immagazzinare le esperienze che voi e io diamo per scontate. Se li dotiamo di un passato, creiamo un cuscino o un guanciale per le loro emozioni. Di conseguenza, possiamo controllarli meglio. 
– Ricordi. Lei parla di ricordi

Sono i ricordi che umanizzano gli hosts proprio perché nel processo di evocazione di un ipotetico passato, nell’evocazione del vissuto, si costruisce l’empatia con lo spettatore. Di conseguenza, come già accennato, la violenza esercitata dagli hosts è percepita come legittima reazione alla barbarie umana. Inoltre, l’atto violento, quando compiuto da un host, viene compreso come espressione di una naturale indeterminatezza dell’androide, il ché si aggiunge a rinforzare l’umanizzazione di queste entità intelligenti. Il risultato è che in questa valle perturbante la sindrome di Frankenstein non si manifesta, e la valle è perturbante proprio perché la repulsione è verso gli umani, autori delle peggiori atrocità. Gli hosts sono, agli occhi dello spettatore, propri simili; gli hosts sono individui completamente familiari a noi, umani. Tuttavia, la loro presenza costruisce un Unheimlich, generato proprio dall’incapacità dello spettatore di riconoscersi nell’umano; in altre parole, l’Unheimlich che si manifesta nella serie risiede nella forza che spinge allo spettatore a vedere nell’umano ‘l’Altro’.

(1continua)


  1. Su questo concetto, vedere Mori M., (1970), The Uncanny Valley, Tr. Eng. K.F. McDorman & T. Minato. Energy, 7:33-35.  

  2. Weil S., (2014), L’Iliade ou le poème de la force, Éclats, Paris.  

  3. Su questo argomenta, vedere Bataille G., (1949), La part maudite, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 62.  

  4. Duarte, G.A., (2015), “La chose maudite”. The concept of reification in George Bataille’s The Accursed Share, in Human and Social Studies De Gruyter, Vol. 4 (1): 91-110.  

  5. Bataille G., (1949), “La part maudite”, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 55.  

  6. A questo proposito, consiglio il testo di Alfredo Rizza, The ‘Death of Neighbour’ Seen in a Black Mirror – (“Be Right Back” on Solaris), dove l’autore analizza, attraverso il concetto di tecnologie fatiche e l’interazione linguistica, la forma in cui la fantascienza ha introdotto nell’imaginario collettivo l’ipotesi di ricreare un soggetto per mezzo di una ricostruzione linguistica dei suoi messaggi, email, discussioni, e conversazioni.  

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Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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Pagine di indolenza e di rifiuto del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/10/31/41194/ Mon, 30 Oct 2017 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41194 di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati [...]]]> di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati a tornare» (p. 176).

Federico Bellini nel suo saggio analizza pagine di resistenza all’egemonia dell’azione scritte da autori come Herman Melville (Bartleby, 1853), Joseph Conrad (The Nigger of the “Narcissus”, 1897) e Samuel Beckett (Murphy, 1938). Ad accomunare i personaggi attorno ai quali i tre grandi scrittori costruiscono le loro opere – Bartleby, James Wait e Murphy – è, seppure in modalità differenti, il non lavoro. Il mite impiegato Bartleby di cui racconta Melville inizia improvvisamente a rifiutarsi di assolvere alle mansioni d’ufficio: di punto in bianco “preferirei di no” diviene la sua risposta automatica alle richieste che gli vengono fatte. Il marinaio James Wait, originario delle Indie Occidentali, di cui ci racconta Conrad, è reso pigro dalla malattia che lo condurrà alla morte prima di sbarcare dopo un lungo viaggio in cui l’intera ciurma si prodiga per sostenerlo. Il giovane perdigiorno Murphy di origini irlandesi che vive nel sud ovest londinese narrato da Beckett, è alle prese con una serie di nevrosi che gli impediscono l’azione e lo isolano dal resto della società. Attraverso tali personaggi letterari che si rifiutano di lavorare i tre scrittori riescono a dare corpo a uno sguardo alternativo sulla loro epoca, su quella fetta di modernità, che grossomodo copre la seconda metà dell’Ottocento, costruita sull’egemonia dell’azione, del fare e del trasformare.

Scrive Giovanna Borradori nella Prefazione del volume che intrecciando l’analisi dei personaggi creati dai tre grandi scrittori, La saggezza dei pigri invita il lettore a «immaginare tre distinte possibilità di quello che potrebbe succedere se ci lasciassimo alle spalle l’ansia di plasmare il nostro circostante, per usarlo e trasformarlo» (p. 14). Bellini «ci fa scoprire […] come il livello simbolico che innerva e accomuna le narrazioni di Melville, Conrad e Beckett catapulti ciascuno dei loro eroi fuori dal solco della modernità: ovvero fuori dallo spazio in cui l’umano, attraverso quell’azione orientata alla produzione che è il lavoro, non solo stabilisce la propria funzionalità sociale ed economica, ma afferma il proprio senso della vita» (p. 14). Dunque, Borradori invita a leggere La saggezza dei pigri «a partire da una riflessione su almeno tre domande chiave dell’orizzonte neoliberalista che ci forza a interrogarci sul senso del fare anche al di là del lavoro, almeno come l’abbiamo concepito a partire dalle rivoluzioni industriali che hanno contraddistinto la modernità: in che senso l’essere umano è capitalizzabile? Che cosa sta dietro all’incessante esortazione di investire su noi stessi? E da ultimo, è possibile disinvestire nel capitale umano, soprattutto quando si tratta del proprio? » (p. 17). In effetti, a ben guardare, le pagine passate in rassegna da Bellini sembrano esplorare «un aspetto importante della condizione contemporanea della precarietà, che è il non-lavoro» (p. 17).

Seppure, per dirla con le parole di Marcel Mauss, il lavoro è il «fatto sociale totale» della civiltà moderna occidentale, l’idea di lavoro ed il suo statuto, ricorda Bellini, sono variati nel corso della storia. Ricostruendo sommariamente le tappe principali di tali trasformazioni, l’autore riprende quanto sostenuto da Dominique Méda (Le travail: une valeur en voie de desparition?, 2010) circa il far coincidere l’inizio del concetto moderno di lavoro con la pubblicazione nel 1776 di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations di Adam Smith, in cui il lavoro viene pensato come astratto e come unità di misura del valore economico. Al secolo successivo spetta il compito di elevare il lavoro a valore etico rendendolo criterio di giudizio dell’umanità dell’uomo. In Georg Wilhelm Friedrich Hegel il lavoro viene inteso come processo attraverso cui l’essere umano si appropria della natura e realizza la propria essenza. «Lavoro, Arbeit, diventa allora il nome dell’attività dello Spirito stesso, il processo attraverso il quale esso si esplica nel reale e nella storia. Il lavoro trapassa dunque dall’essere unità di misura del valore a essere valore in sé, forma essenziale e generica di sviluppo della coscienza» (p. 20).

Successivamente Karl Marx riporta il lavoro al piano concreto della struttura economica del suo tempo. «Così facendo Marx distingue l’essenza del lavoro come essa si configurava nel pensiero hegeliano […] dallo stato reale del lavoro come si offriva storicamente. La conformazione del lavoro sotto il dominio del capitale conduce infatti agli occhi di Marx a uno stato antitetico rispetto a quello del lavoro considerato secondo la propria verità: al posto di consegnare all’uomo la sua essenza esso gliela nasconde. Nello spazio che si apre fra l’essere e il dover essere del lavoro si colloca la dimensione dell’azione politica cui Marx affida la possibilità di condurre il lavoro verso la propria essenza. Così facendo, anche nella critica alle forme storiche e concrete del lavoro, diventa ancora più cogente l’identificazione che si afferma fra lavoro ed essenza dell’uomo» (pp. 20-21). Michel Foucaut spiega invece come la concezione moderna della malattia mentale sia legata all’etica del lavoro dalle sue origini. Nel corso dell’Ottocento il lavoro finisce per identificarsi con la normalità, dunque con la salute, tanto che esso diventa la cura privilegiata di parecchie malattie. Dunque, «il lavoro nel corso dell’Ottocento viene a identificarsi anche come più alto valore morale, principio antropologico, garante della norma sociale e della salute individuale e fonte di ispirazione estetica» (p. 23).

A fianco di tutto ciò, tuttavia, scrive Bellini, si sviluppa un’altra storia che vede nel lavoro un valore negativo. «Come l’etimo della parola esprime in tutte le principali lingue indoeuropee una dimensione di fatica e sofferenza, così i miti sulla sua origine – dalla cacciata dal Paradiso Terrestre ai vari racconti dell’Età dell’Oro – mostrano il lavoro come una caduta da un primitivo e perduto stato di beatitudine» (p. 23). Si tratta di una lettura negativa del lavoro radicata e diffusa quanto quella positiva e, anche in questo caso, si tratta di un’ostilità storicamente variabile; al variare delle forme, del ruolo e del senso del lavoro, variano altrettanto le forme e i significati del suo rifiuto. «La passività di Diogene il cinico non coincide con l’otium della latinità classica; l’isolamento dell’eremita medievale non ha molto da spartire con il ritiro finalizzato allo studio del De Vita Solitaria del Petrarca; i malinconici rinascimentali hanno poco in comune con i flâneurs che passeggiano per la Parigi “capitale del XIX secolo”» (p. 23).

Se la storia dell’affermazione del lavoro come valore egemonico della cultura occidentale ha una qualche unità, sottolinea Bellini, le voci letterarie, artistiche e filosofiche che hanno reagito ad esso risultano frammentate e disparate. «Diverse e anche opposte intenzioni possono infatti supportare il rifiuto del lavoro: la rivendicazione di privilegi aristocratici, l’edonismo individualistico romantico, l’esaltazione utopica della tecnologia come liberatrice dell’umanità dalla fatica, la nostalgia per la società preindustriale compongono una varietà che non si lascia includere sotto un solo indice o in un’unica genealogia» (pp. 23-24).

Il “diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue è ben altra cosa rispetto, ad esempio, dall’esaltazione del rien faire del dandismo; se nel primo caso si auspica un proletariato emancipato dalla logica borghese capitalista nell’indirizzarsi al rifiuto e non al “diritto al lavoro”, nel secondo caso il rifiuto del lavoro ha a che fare con «un altezzoso atteggiamento individualista e nichilista, alieno alle dinamiche di classe e privo di ogni rivendicazione progressista» (p. 24). Altrettanto diverse sono le argomentazioni espresse da Giuseppe Rensi (L’irrazionale. Il lavoro. L’amore, 1923) volte a «dimostrare l’impossibilità di superare il lavoro sebbene “in una vita degna del nome di umana […] non c’è tempo e posto per esso”» da quelle espresse, ad esempio, da Guy Debord e Raoul Vaneigem che si scagliano contro il lavoro considerandolo «un valore borghese e funereo». Se nel caso di Rensi non vi è traccia di un possibile superamento del lavoro, ciò è invece centrale nel «discorso dei situazionisti, i quali ritenevano che una volta liberatisi dalla perversione del lavoro, “l’inversione della creatività”, si sarebbe infine prodotta la rivoluzione che avrebbe condotto la créativité au pouvoir» (p. 25).

Da parte nostra ricordiamo come sull’onda della conflittualità di classe dispiegatasi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento si siano sviluppate modalità di rifiuto del lavoro a partire dal suo esplicito e strategico alludere al diritto all’ozio, derivanti dal riconoscersi della forza-lavoro come variabile indipendente dalla logica del profitto e dai meccanismi del mercato capitalistico. In quella lunga stagione conflittuale il proletariato ha saputo collocarsi ed esprimersi in opposizione al capitale esercitando un ruolo attivo e autonomo nello scontro di classe nella consapevolezza che il conflitto andava giocato attorno al lavoro, sul terreno dei rapporti sociali di produzione e riproduzione.

Il lavoro è il fine stesso (ed è il fine a se stesso) del capitale: lavoro, dunque, in quanto lavoro astratto, valore e capitale, come imposizione illimitata di lavoro e lotta contro di essa […] In quanto lavoro astratto, in quanto lavoro senza qualità e limiti, l’imposizione capitalistica di lavoro abbraccia una dimensione sincronica ed una diacronica. Nel primo caso si parla di valorizzazione del capitale, movimento senza limiti intrinseci della triade denaro-merci-più denaro e, quindi, accumulazione del proletariato ed espansione del rapporto di classe. Nel secondo caso si parla di lavoro che tende a sussumere tutti gli aspetti della vita, sia di quella produttiva che di quella riproduttiva. È chiaro che queste dimensioni prendono forma con caratteri determinati, come risultato di strategie capitalistiche particolari […] L’antagonismo può esprimersi, dunque, sia fra i salariati che fra i non salariati, fra i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche high-tech del Nord, come fra quelli/e dei sweatshops delle zone di esportazione del Sud, fra le lavoratrici della riproduzione della forza-lavoro in un milione di condizioni lavorative diverse, nella fabbrica globale della forza-lavoro, così come fra gli indios od i contadini del Sud del mondo, forzati alla miseria per la produzione di prodotti per l’esportazione, ecc. Checché se ne dica, il lavoro in quanto lavoro capitalistico nelle sue molteplici forme è oggi tutt’altro che marginale. Esso è invece centrale al ciclo complessivo del capitale. Il problema teorico e politico non è tanto quello di optare per una delle due ipotesi sinora delineatesi in merito ad una presunzione di attuale centralità di uno specifico comparto di classe, l’operaio-massa dell’operaismo italiano degli anni ’60 od il lavoratore immateriale degli anni ’90 […] il problema è quello della pluralità dei soggetti antagonistici, è quello della loro reciprocità, all’interno della scala gerarchica sociale, e della/e forma/e della loro generale ricomposizione politica. Lo scontro di classe si gioca a livello mondiale ed investe tutti i rami del lavoro di produzione di merci e di riproduzione della forza-lavoro («Vis-à-vis», n. 1, 1993).

In tale impostazione la categoria del lavoro risulta pertanto centrale nella comprensione del capitalismo e nella formulazione di ipotesi di suo superamento ed è in tale contesto che deve essere intesa quella particolare stagione di rifiuto del lavoro diffuso che ha indubbiamente sue peculiarità che la differenziano da altri rifiuti del lavoro.

Detto di quanto il concetto di lavoro e il suo rifiuto siano storicamente variabili, venendo al campo letterario le rappresentazioni della negazione del lavoro risultano sicuramente assai variegate. «Tuttavia, al fine di proporre una tipologia a maglia larga all’interno della quale tracciare il territorio d’indagine, si può muovere da una generica definizione del lavoro per poi, negandola, definire il suo opposto. Il lavoro, nel senso più generico, è costituito da “ogni attività, manuale o spirituale, con cui l’uomo produce un risultato utile” e quindi dall’instaurarsi di una relazione fra un soggetto e una parte di realtà – fisica o meno – che viene, per mezzo di questa relazione, trasformata. Tale trasformazione, affinché sia prodotto di lavoro e non di un semplice sforzo (come quello compiuto giocando o facendo sport), deve venire riconosciuta dal soggetto stesso e dalla comunità come il frutto della volontà di accrescere di valore il segmento di realtà coinvolto» (pp. 27-28).

A partire da tali presupposti basilari, sostiene Bellini, si possono individuare tre elementi in gioco: «una realtà che viene trasformata; una soggettività cosciente che vi interviene; un’altra soggettività collettiva che riconosce la trasformazione. Nel lavoro il soggetto si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso il reale su cui interviene e verso la collettività alla quale richiede il riconoscimento dell’attività medesima. Ridotto a questi minimi termini, il lavoro si dimostra simile al linguaggio: il luogo in cui l’individuo è messo in relazione contemporaneamente con il mondo e con gli altri uomini per mezzo di segni che attivano una relazione triplice fra realtà, società e soggetto. A ciascuno di questi aspetti corrisponde una funzione della significazione: quella di indicare il mondo e gli oggetti che lo costituiscono; quella di sviluppare un’interazione con gli altri soggetti; quella di permettere al soggetto di esprimersi. Ugualmente il lavoro articola l’esistenza del singolo da un lato in rapporto con il mondo che viene modificato, da un altro in rapporto alla società cui prende parte e in ultimo con se stesso. Eliminando a turno gli elementi che compongono il lavoro sarà ora possibile ottenere una tipologia del non-lavoro» (p. 28).

Interrompendo la relazione con il mondo sociale si ha un soggetto che vuole e può agire sul mondo ma che rifiuta di mettere il proprio sforzo al servizio della società. In tal caso il conflitto si esercita nei confronti della realtà sociale come nel caso dello sciopero. Se ad interrompersi è il lato del mondo condiviso, allora viene meno la necessità di intervenire sulla realtà e si entra in un modello di non lavoro proprio di una supposta “Età dell’Oro” ove si vive senza necessità di faticare. Quando invece è il soggetto a sottrarsi dalla relazione col mondo e la società, continua Bellini, «questo rimane come sospeso al di sopra dei flussi delle forze sociali e materiali» (p. 29). Ed è proprio di questa modalità che si occupa La saggezza dei pigri, dunque di «forme di rifiuto del lavoro che hanno la loro origine non in una protesta nei confronti della società o in una negazione del bisogno di trasformare la realtà, ma nel gesto di un soggetto che si sottrae a entrambe queste dimensioni» (p. 29).

Bartleby di Melville, Il Negro del “Narciso” di Conrad e Murphy di Beckett ruotano attorno a figure che, seppure in modi diversi, rifiutano il lavoro in un momento storico ben preciso, il secondo Ottocento, in cui «come reazione all’affermarsi del lavoro come valore e alle trasformazioni prodotte dalla seconda rivoluzione industriale, le rappresentazioni letterarie di rifiuto del lavoro si moltiplicano e assumono un ruolo sempre più importante e non più limitato a esempio morale negativo o macchietta comica». Ed allora Bartleby di Melville diviene lo specchio di quel mondo caratterizzato dalle grandi e repentine trasformazioni che conducono all’inurbamento e al diffondersi del lavoro burocratico impiegatizio, trasformazioni che «catalizzano l’evoluzione di un ethos nel quale si combinano laboriosità e parsimonia con un atteggiamento di compiaciuto sentimentalismo caritatevole» (p. 30). Nell’opera di Conrad, invece, si ritrovano «le ansie di un’epoca nella quale le rivendicazioni dei lavoratori, l’affermarsi di stili di vita considerati decadenti e i primi segni della crisi del discorso imperialista producono da un lato il vagheggiamento per un ipotetico passato in cui la società era unita nella comunione del lavoro, dall’altro il tentativo di rilanciare per una nuova epoca l’etica vittoriana» (p. 30). In Murphy di Beckett si rintraccia «la moderna scissione della soggettività, lacerata fra un’ingiunzione alla socialità e alla produttività e l’attrazione per gli abissi dell’interiorità» (p. 30). Le tre opere prese in esame da Bellini presentano al contempo «un punto di vista radicalmente individuale e la testimonianza dell’esperienza di un’epoca che, in certa misura, è la nostra» (p. 32).

Questi personaggi non lavoratori si pongono nei confronti della loro epoca come figure enigmatiche irriducibili all’ordine della grande macchina produttiva, come “oggetti inutilizzabili”, per dirla heideggerianamente, e soltanto l’abilità dei grandi scrittori permette di costruire una narrazione ruotante attorno all’inerzia dei personaggi ma, sottolinea lo studioso, occorre anche il contributo del lettore a cui è richiesto un lavoro di interpretazione, tanto che si potrebbe dire che la fatica evitata dal protagonista dell’opera finisce per essere addossata al lettore.

Le figure del rifiuto del lavoro si contrappongono alla moderna visione del mondo per la quale il lavoro, o in senso più essenziale l’azione […], è alla radice del senso dell’esistenza. Contro tale visione esse presentano realtà umane ricondotte per mezzo della negazione dell’agire alla loro dimensione minimale, al loro grado zero […] Lo stato elementare che si annuncia nella passività del non lavoratore è una riduzione della soggettività moderna ai suoi minimi termini, in cui contemporaneamente si manifesta la forma essenziale di tale soggetto e un’istanza di resistenza a esso. Allontanandosi dal lavoro si crea una distanza da cui valutarlo e questo arretrare non è un’opposizione, ma l’apertura di uno spazio di possibilità, di un diverso modo di relazionarsi col mondo. Nel non lavoratore emerge una dimensione primitiva dell’essere umano che è la sua dimensione infantile, nella quale si coniugano strettamente l’essere “in potenza” e l’essere “im-potenza”, la più ampia possibilità e la più radicale fragilità: a partire da questo nodo paradossale si può valutare in che senso i nostri eroi realizzino il loro essere “soggetti rotti” (p. 167).

Con la passività di Bartleby saltano le certezze in favore di una “logica della preferenza” che si presenta come apertura a un indistinto possibile e che finisce col rovesciarsi in una statica impossibilità. «Così, il non preferire di Bartleby, puro conato di una possibilità che mai si realizza, si rovescia e finisce per coincidere con il suo contrario, con la possibilità consumata, col tentativo fallito, con l’occasione sprecata» (p. 168).
In Murphy il «silenzio della potenzialità corrisponde al rinchiudersi nello spazio autistico e mortifero dell’impossibilità, dell’incapacità, dell’inattività del corpo morto» (p. 168). In Wait «è l’impotenza esibita del marinaio la fonte del suo potere di seduzione nei confronti del resto della ciurma e il catalizzatore delle potenzialità di rivolta e messa in discussione dei rapporti di potere. Allo stesso tempo, questa esibizione di impotenza viene attratta in un doppio meccanismo di simulazione, di finzione della simulazione o di finzione al quadrato, nel quale la potenzialità inganna se stessa in un gioco di specchi» (pp. 168-169).
Pertanto, alle diverse modalità con cui questi personaggi del non lavoro «attraversano la dimensione del possibile, dunque – la logica della preferenza di Bartleby, la chiusura nel piccolo mondo di Murphy, la finzione al quadrato di Wait – corrispondono tre modi del suo decadere in impotenza: l’irrigidimento minerale, la dispersione magmatica, la dissoluzione in simulacri» (p. 169).

Dalle rappresentazioni di individui caratterizzati dal calo o dalla perdita delle loro funzionalità sembra emergere una dimensione dell’umano solitamente repressa nella cultura moderna «fondata sull’utilizzabilità e sull’utile», sulla «razionalità funzionale». Questi esseri umani non lavoratori, non funzionali, finiscono per essere trascinati all’interno di quel magma di oggetti dismessi nella letteratura moderna di cui si è occupato Francesco Orlando (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura: Rovine, reliquie, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, 1993).

Se questo represso “antifunzionale” viene a galla attraverso l’infittirsi di riferimenti alle molteplici forme del decadimento e del disuso nella letteratura, altrettanto potrà dirsi delle rappresentazioni del non lavoro. Il non lavoratore infatti assorbe e soggettivizza quanto nell’oggetto desueto si dà in forma oggettiva e oggettuale; il gesto con il quale schiva il lavoro rende non funzionale tutto quanto lo circonda, spogliando ogni cosa del suo essere mezzo in vista di un fine e considerandola, per tornare al gergo heideggeriano, nella sua “semplice-presenza”. Lasciando così che gli oggetti si svuotino della loro funzionalità e si perdano in un’universale decrepitezza, il rifiuto del lavoro trascina fra essi il soggetto, che rinuncia a ravvivarli con la propria attività: è quindi il non lavoratore stesso che si configura come “oggetto desueto”, uomo che ha cessato di servire la grande macchina del lavoro e della sua ideologia (pp. 169-170).

Bellini si sofferma anche sul rapporto tra scrittura e non lavoro a partire dalle possibili analogie tra le modalità con cui gli scrittori si specchiano nei loro personaggi e la tendenza romantica di cui parla Jean Starobinski (Portrait de l’artiste en saltimbanque, 2004) di vedere l’artista come un saltimbanco. Seguendo la linea tracciata da Georges Bataille, che vuole lo scrivere come opposto del lavorare, emergerebbe fra scrittori e non lavoratori «un’affinità profonda, una solidarietà radicale, che consiste in uno stesso modo di venerare e celebrare la vita in ciò che ha di più umile e prezioso, nel suo esporsi come esistenza nuda al di fuori di ogni produzione e produttività» (p. 189).

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Antropologia e movimento No Tav: divulgare conoscenza per produrre consapevolezza https://www.carmillaonline.com/2017/04/06/antropologia-movimento-no-tav-divulgare-conoscenza-produrre-consapevolezza/ Wed, 05 Apr 2017 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37413 di Sandro Moiso

chiroli-ora-sempre-no-tav Roberta Chiroli, ORA E SEMPRE NO TAV. Pratiche e identità del movimento valsusino contro l’alta velocità, Mimesis 2017, pp. 192, € 18,00

Fin dalle sue origini settecentesche ed illuministiche l’antropologia ha portato con e in sé una dialettica contrapposizione tra funzione sistemica e sistematizzante nei confronti delle culture esaminate in rapporto alla società (occidentale) che le studiava e una funzione eversiva nei confronti dei valori e delle tradizioni di quella stessa società che intendeva esaminare e sottoporre al proprio insindacabile giudizio gli stili di vita, le culture e le società altre.

Si potrebbe dire però che, fin [...]]]> di Sandro Moiso

chiroli-ora-sempre-no-tav Roberta Chiroli, ORA E SEMPRE NO TAV. Pratiche e identità del movimento valsusino contro l’alta velocità, Mimesis 2017, pp. 192, € 18,00

Fin dalle sue origini settecentesche ed illuministiche l’antropologia ha portato con e in sé una dialettica contrapposizione tra funzione sistemica e sistematizzante nei confronti delle culture esaminate in rapporto alla società (occidentale) che le studiava e una funzione eversiva nei confronti dei valori e delle tradizioni di quella stessa società che intendeva esaminare e sottoporre al proprio insindacabile giudizio gli stili di vita, le culture e le società altre.

Si potrebbe dire però che, fin dalla rosseauiana condanna del processo civilizzatore inteso come allontanamento dallo stato di grazia e purezza appartenuto alle culture primitive, in cui non si era ancora potuta manifestare la proprietà privata come strumento di dominio e spossessamento dell’altro, sin dagli inizi una parte consistente degli studi antropologici ha tradito il mandato da sempre assegnato alle scienze occidentali: produrre conoscenze destinate a sistematizzare, riordinare e ricomporre non solo l’universo, macro e micro, che ci circonda ma anche l’intera società/mondo che ne dirige e utilizza la ricerche.

Insomma, mentre il compito prioritario dell’antropologia avrebbe dovuto essere quello di integrare le culture che fossero compatibili con un certo modello morale, politico ed economico di sviluppo e giustificare l’esclusione di quelle incompatibili con lo stesso, una parte significativa del lavoro antropologico ha finito col ritrovare e ricercare nelle comunità umane differenti non solo le radici, vere o presunte, del nostro vivere quotidiano ma, spesso, differenti e validi spunti per un diverso ed equilibrato agire sociale. Intra e infra specie e natura.

In particolare nel corso del ’900 le ricerche antropologiche hanno finito, probabilmente a partire dal Saggio sul dono di Marcel Mauss,1 pubblicato per la prima volta nel 1923-24, col costituire spesso la negazione della falsa coscienza della superiorità del modello occidentale e capitalistico di sviluppo. Basti pensare, ad esempio, all’uso che i surrealisti e in particolare Georges Bataille fecero di quel saggio per criticare capitalismo e stalinismo allo stesso tempo.2

Critica radicale di un modello di sviluppo che si acutizzò a partire dalla seconda metà del XX secolo a seguito di una più diffusa presa di coscienza classista e antimperialista. Prova ne siano le opere di Pierre Clastres, Marshall Sahlins, Dell Hymes insieme a quella di Robin Clarke e Geoffrey Hindley (quest’ultimo non propriamente un antropologo), solo per citarne alcuni.3 Ancora prima delle opere di David Graeber, più volte citato nel testo.

Non a caso, e sempre più spesso, alcune delle analisi più interessanti sui movimenti sociali e sulle lotte dal basso sono opera di studiosi che hanno fatto, e fanno, ricorso a metodi di studio di carattere antropologico. Soprattutto nell’ambito del movimento valsusino contrario alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità e al sistema politico-economico che cerca di imporla.4

Così sarà forse per questo motivo che attraverso tutto quanto è stato poco innanzi rapidamente descritto si è giunti ad un autentico corto-circuito tra ricerca e contesto culturale in cui la prima è prodotta. Corto circuito che ha visto l’autrice del libro, Roberta Chiroli ex-studentessa di Antropologia alla Ca’ Foscari di Venezia, essere condannata in primo grado per aver condiviso le esperienze del movimento al fine di meglio comprenderne e interpretarne le ragioni. Cosa che ha costretto la stessa Procura di Torino, che l’ha condannata, a gettare la maschera e dare un giudizio sulle attività di ricerca universitaria.

Come afferma Erri De Luca nella sua efficace Prefazione: “In Valle di Susa valgono i rapporti di forza; il danneggiamento simbolico di una recinzione del famigerato cantiere è considerato attacco al cuore dello Stato. La tesi di laurea di una studentessa è un atto sovversivo.
Roberta Chiroli non ha studiato il campo da dietro i cordoni delle truppe, da dove non si vede e non si capisce niente. Lei non sta da «embedded» al seguito delle operazioni militari e non si attiene alle varie versioni fornite dallo Stato Maggiore delle truppe in campo. La sua tesi è perciò incriminata di complicità: lei stava nelle manifestazioni. Inoltre si vuole scomunicare il riconoscimento di materia universitaria alla resistenza civile della Valle. Non sia mai che si diffonda la ricerca.
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E come narra la stessa autrice nella Premessa, i carabinieri prelevarono la sua tesi depositata presso l’Università Ca’ Foscari per conto della Procura di Torino che l’ha poi usata come prova autoaccusatoria nel processo del 15 giugno 2016. “I No Tav. La mia tesi riguarda proprio loro, i «ribelli della montagna» che da venticinque anni lottano contro la realizzazione della nuova linea Alta Velocità costruendo percorsi di cittadinanza attiva e socialità che sfidano i diktat dei governi democratici e immaginano un altro mondo possibile. Il mio «essere là» in mezzo agli attivisti per documentare le pratiche di lotta del movimento ha costituito, per la Procura torinese, un motivo sufficiente per condannarmi in quanto – dalla sentenza – «il fatto stesso che sia rimasta sul posto unitamente ad altri partecipanti ha integrato un contributo apprezzabile perché l’efficacia di azioni di questo tipo è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha contribuito a formare». Il giudice inoltre ha specificato che la mia responsabilità non derivava da condotte delittuose materiali, oltre alla mia mera presenza fisica, ma morali: «ha fornito un apprezzabile contenuto causale quanto meno sotto il profilo morale rispetto alla commissione di entrambe le fattispecie di reato».6

Al di là del fatto che il giudizio sul “numero elevato di persone che ha contribuito a formare” possa costituire il miglior complimento che si possa fare ad una ricercatrice sincera ed appassionata come la Chiroli, rimane pur sempre il fatto che in tale contesto ciò che la Procura ha espresso non è stato soltanto un giudizio sulla persona, ma anche sull’attività di ricerca scientifica e su quali siano le modalità della sua conduzione e le sue finalità giuridicamente ammissibili.

Infatti, ci ricorda ancora la ricercatrice, le parole espresse dalla Procura torinese hanno sollevato la reazione di una parte del mondo accademico, perché condannano “direttamente la ricerca sul campo e portano a interrogarsi su quale sia il ruolo della ricerca antropologica e dell’Università pubblica in generale all’interno dello Stato italiano, quale sia il riconoscimento che le istituzioni danno al lavoro di ricerca e quali limitazioni impongono, anche servendosi di strumenti giudiziari. La mia vicenda ha ribadito agli addetti del settore quanto in Italia l’antropologia sia poco conosciuta e le sue metodologie spesso fraintese o ritenute “non scientifiche” perché hanno abbandonato da tempo la pretesa di neutralità.

Naturalmente nell’assurdo, ma autentico balletto ri-ordinativo e giudiziario non potevano mancare i media mainstream con il loro ruolo di diffusori dell’ignoranza e della conservazione sociale.
I giornali hanno fatto ripetutamente riferimento alla famigerata «osservazione partecipante» teorizzata da uno dei pilastri della disciplina, Bronislaw Malinowski, che però nel corso di quasi un secolo ha subito revisioni e aggiornamenti dando luogo a diverse interpretazioni del significato dell’imprescindibile «ricerca sul campo» […] Nella contemporaneità tanti antropologi hanno teorizzato e promosso un tipo di ricerca che fosse «impegnata», attenta cioè a decostruire i discorsi egemonici del potere per farne emergere le ipocrisie e gli effetti che colpiscono le classi subalterne, ad indagare quali effetti socio-culturali hanno le logiche dell’economia globale e a cercare di comprendere posizioni antagoniste ignorate, sviluppando una narrazione altra del dissenso che restituisse legittimità alle popolazioni e gruppi in lotta.7

Il testo, che ripercorre la storia e le pratiche del Movimento fin dalle proteste contro la costruzione dell’autostrada A32 e dell’elettrodotto che avevano preceduto la proposta di realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa, sottolinea come uno dei principali fattori di mobilitazione sia stato fin dagli inizi quello di “divulgare conoscenza per produrre consapevolezza”. Obiettivo che, fin dalla fine del 1991, fu alla base del comitato Habitat “formatosi in larga parte per volontà degli stessi soggetti attivi contro l’autostrada, docenti universitari, ambientalisti e militanti8

Poi, dall’iniziale gruppo di una dozzina di persone che aveva costituito il primo nucleo di resistenza allo sviluppo dell’autostrada, pian piano la partecipazione avrebbe iniziato a crescere fino alle migliaia di partecipanti attuali. A concorrere a ciò furono sia l’ottusità dello Stato e delle sue forze del disordine, di cui la morte dei due giovani militanti Sole e Baleno fu una diretta e spietata conseguenza, che la determinazione di militanti e studiosi nel far crescere la consapevolezza dei valligiani e di tutti coloro che, pur non essendo residenti in valle, oggi si oppongono al progetto del tav.

Come ho già detto prima, con le sue pagine dense e documentatissime, il testo di Roberta Chiroli si inserisce perfettamente in tale contesto e porta avanti il compito di quella che dovrebbe essere la vera ricerca scientifica e sociale ovvero quello di negare e superare i limiti che alla stessa conoscenza, e più in generale alla cultura, sono posti per motivi di ordine politico ed economico.
La ricerca e la stessa scrittura non potranno mai rispettare i confini del bon ton istituzionale e del servaggio imposto, come questo caso ben dimostra, con metodi inquisitoriali.

Metodi inquisitoriali che come l’autrice dimostra sono stati applicati in tutta la materia giuridica riguardante le vicende di lotta e resistenza della valle, ma che hanno finito con l’intaccare anche la presunta, ma tutt’altro che tale, “indipendenza” della ricerca. Destino che finisce con l’accomunare il destino dell’antropologo a quello dei popoli, delle società o dei movimenti che egli intende studiare; che un malinteso senso morale borghese, ereditato dal cristianesimo più retrivo, tende a giudicare sempre “inferiori” al proprio ordito istituzionale e culturale. E soprattutto economico.


  1. Marcel Mauss, Saggio sul dono, Einaudi 1965, 1991 e 2002  

  2. Georges Bataille, La parte maledetta. La società di impresa militare/religiosa –il capitalismo – lo stalinismo, bertani editore, Verona 1972 e, ancora, G.B., Il limite dell’utile, Edizioni Adelphi 2000  

  3. Si vedano: Pierre Clastres, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, Feltrinelli 1977 e Archeologia della violenza e altri scritti di antropologia politica, la salamandra 1982; Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani 1980 (che nell’edizione francese conteneva un’introduzione di Pierre Clastres intitolata Società contro lo Stato, società contro l’Economia, pubblicata in Italia sul numero 1 di An.Archos, la salamandra 1979); Dell Hymes ( a cura di), Antropologia radicale, Bompiani 1979; Robin Clarke – Geoffrey Hindley, La sfida dei primitivi, la salamandra 1980  

  4. Si vedano i recenti Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi edizioni 2016 e Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre corte 2016. Entrambi recensiti su Carmillaonline  

  5. pag. 12  

  6. pag. 15  

  7. pag. 16  

  8. pag. 50  

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