Black Mirror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Nov 2025 21:00:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginario e cultura di massa. Da Disney a Squid Game https://www.carmillaonline.com/2025/10/26/immaginario-e-cultura-di-massa-da-disney-a-squid-game/ Sun, 26 Oct 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90839 di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, Pop culture. Da Disney a Squid Game, Carocci, Roma 2025, pp. 100, € 13,00

A conferma dell’importanza che è andata ad assumere la cultura di massa nella costruzione dell’immaginario contemporaneo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, pur all’interno di una varietà di atteggiamenti che spaziano dall’allarmismo al compiacimento, passando dalla semplice presa d’atto, si è diffusa la convinzione che la realtà artificiale creata dalla cultura di massa attraverso i media si stia sempre più sostituendo alla realtà. In Pop culture il sociologo Vanni Codeluppi indaga la creazione di immaginario da parte della cultura di massa [...]]]> di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, Pop culture. Da Disney a Squid Game, Carocci, Roma 2025, pp. 100, € 13,00

A conferma dell’importanza che è andata ad assumere la cultura di massa nella costruzione dell’immaginario contemporaneo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, pur all’interno di una varietà di atteggiamenti che spaziano dall’allarmismo al compiacimento, passando dalla semplice presa d’atto, si è diffusa la convinzione che la realtà artificiale creata dalla cultura di massa attraverso i media si stia sempre più sostituendo alla realtà. In Pop culture il sociologo Vanni Codeluppi indaga la creazione di immaginario da parte della cultura di massa passando in rassegna alcuni suoi personaggi e fenomeni esemplari, oltre che emblematici delle trasformazioni sociali.

Tra i meriti dell’agile volume vi è quello di mostrare come anche gli esempi più apparentemente innocenti della cultura di massa concorrano alla costruzione di un immaginario votato soprattutto alla mercificazione, al consumo e al controllo sociale, ma anche quello di ricordare come il successo dei personaggi e dei fenomeni che si sono imposti nella cultura di massa derivi innanzitutto dalla loro capacità di dare risposta ad alcune esigenze fondamentali degli esseri umani.

Tenendo presente quanto l’immaginario veicolato dalla cultura di massa statunitense si sia imposto a livello globale, il viaggio di Codeluppi prende il via da alcuni celebri esempi di pop culture made in USA: l’universo Disney, Marilyn Monroe e Barbie. Lo studioso sottolinea come il successo del mondo Disney derivi soprattutto dalla sua capacità di rivolgersi anche agli adulti consentendo loro di sentirsi nuovamente bambini.  Al contempo Disney guarda ai bambini come a dei piccoli adulti-consumatori, contribuendo così a privarli dell’infanzia.

Tra le caratteristiche del mondo Disney, lo studioso mette in luce la tendenza a evitare il confronto diretto con l’attualità a cui vengono preferite ambientazioni proiettate in un immaginifico futuro o, più spesso, in un passato di fantasia che, come nel caso del medioevo fantastico, si propone come riflesso deformato dell’attualità consentendo al fruitore di guardare a quest’ultima con un rassicurante distacco. Particolarmente presente nel panorama disneyano, sottolinea Codeluppi, è anche l’esaltazione delle cultura meccanico-industriale cara al fondatore, così come al sistema produttivo statunitense. In generale l’immaginario disneyano è permeato dalla cultura consumista, tanto che, nei suoi parchi di divertimento,  il tema pedagogico dichiarato si rivela un mero presto «per mascherare il principale modello ideologico presente nei parchi della Disney: quello delle merci che devono essere acquistate» (p. 22). Presentato come componente del divertimento e della fantasia, il consumo viene proposto come parte integrante dell’esperienza a cui è tenuto a sottoporsi il visitatore. Circa poi gli sviluppi più recenti delle proposte Disney, l’autore si sofferma sul ricorso al “cinema dinamico”, un’esperienza immersiva che si inserisce all’interno del processo di progressivo annullamento della distinzione tra realtà e artificiale.

Andy Warhol è sicuramente tra gli artisti che meglio hanno intercettano l’immaginario statunitense degli anni Sessanta, come testimonia la scelta di misurarsi artisticamente non con il regno degli “elementi primari” (natura) ma con quello degli “elementi secondari” (artefatti) guardando all’essere umano come a un consumatore di prodotti seriali. In tale ottica l’artista ricorre ai personaggi dei fumetti, alle confezioni delle merci industriali e alle star dello spettacolo come Marilyn Monroe come ad altrettante icone che solleticano l’immaginario popolare. Codeluppi si sofferma su come l’attrice statunitense sia stata trasformata in quel particolare tipo di merci immateriali «che invitano alla sperimentazione, che non spingono a esclusioni e giudizi, ma si offrono costantemente al mondo» (p. 27). L’icona a cui è stata ridotta Marilyn l’ha elevata a immagine complessa, a «forma espressiva collettiva e condivisa che non presenta narrazioni, né particolari punti di vista e, proprio per questo, può agire efficacemente all’interno della cultura di massa coinvolgendo in profondità le persone» (p. 33).

Tra i fenomeni più longevi della cultura di massa vi è senza dubbio la bambola Barbie messa sul mercato sul finire degli anni Cinquanta e recentemente celebrata dal film Barbie (2023) di Greta Gerwig. Se da un lato tale bambola sembra proporsi come un modello di emancipazione femminile, dall’altro non sfugge come il corpo e la cura riservata all’aspetto tradiscano un assoggettamento all’immaginario maschile. Criticata per il suo proporre alle bambine un modello femminile inarrivabile, la casa produttrice ha modificato in senso leggermente più realistico le forme fisiche della bambola, proponendola, inoltre, in diversi colori di pelle, capelli e occhi, in versioni dai tratti Down e in sedia a rotelle. Nonostante ciò, il modello culturale incarnato dalla bambola in tutte le sue versioni resta quello di «un tipo di donna che considera la bellezza una virtù imprescindibile e che si presenta in pubblico sempre perfettamente curata, secondo un modello femminile tradizionale» (p. 41). Inoltre, ricorda Codeluppi, mentre da un lato la casa produttrice, in ossequio al cosiddetto “capitalismo woke”, ha inteso fornire ai consumatori un’immagine del marchio eticamente corretta, dall’altro dimostra ben poco interesse per le condizioni a cui sono costrette le lavoratrici cinesi che producono le bambole per conto della ditta californiana.

Codeluppi si sofferma anche su come il film Balde Runner (1982) di Ridley Scott abbia saputo incarnare e al tempo stesso trasmettere, in apertura degli anni Ottanta, il senso della “fine dell’utopia”, la condanna a sopravvivere in una realtà priva di vie d’uscita, in uno stato di crisi permanente, mancante di connessioni con il passato e il futuro, in una condizione identitaria sempre più precaria e in una crescente difficoltà nel relazionarsi con l’Altro. Sia i replicanti di Blade Runner che gli esseri antropomimetici della serie Westworld (dal 2016) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy presentano qualche traccia di coscienza, tanto da ribellarsi al sistema che li ha prodotti. Soprattutto nella serie televisiva la condizione di questi esseri antropomimetici in balia del controllo aziendale rimanda palesemente a quella degli esseri umani contemporanei che, invece, sembrano meno propensi alla ribellione.

Un ruolo importante nella cultura di massa spetta a star della musica pop come Madonna, Lady Gaga e Taylor Swift, che Codeluppi, riprendendo le interpretazioni proposte da Brendan Canavan e Claire McCamley (The Passing of the Postmodern in Pop?, 2020), indica come tre esempi di altrettante fasi evolutive dell’epoca postmoderna. Madonna incarna il classico american dream realizzato: una ragazza proveniente da una famiglia working class di immigrati del Michigan che, trasferitasi a New York con pochi dollari in tasca, riesce a divenire una celebrità. Il successo di Madonna deriva da un’indubbia abilità nel trasformarsi interpretando di volta in volta diverse figure femminili stereotipate. In linea con quanto sostenuto da Jean Budrillard (Miti fatali, 2014), Codeluppi ritiene che Madonna abbia saputo fare della mancanza di un’identità forte un’occasione per assumerne tante e diverse.

Come Madonna, anche Lady Gaga ha costruito la sua popolarità sull’abilità di trasformare costantemente la sua immagine. Pur evitando di proporre un’immagine fortemente trasgressiva di sé, Lady Gaga ha saputo suscitare identificazione tra gli adolescenti che, per i più diversi motivi, non si sentono pienamente accettati dalla società e ciò ha fatto di lei una sorta di regina delle identità diverse. In linea con l’ultima fase evolutiva del postmoderno, il personaggio di Taylor Swift, nel suo aspetto da brava ragazza di provincia, semplice, diretta e facilmente imitabile dalle adolescenti, sembra incarnare invece una sorta di riappacificazione dell’individuo con una società in cui i continui cambiamenti non sono più dettati dal soggetto che non si adegua alla realtà, ma sono ad esso imposti dalla flessibilità richiesta dal mercato. Secondo Codeluppi il principale motivo del successo ottenuto da Taylor Swift deriva dalla capacità identificativa che permette alle adolescenti di riconoscersi nella lotta a cui è costretta la loro star semplice e genuina nel farsi strada in un mondo controllato dagli uomini. Altra indubbia abilità della cantante è quella di ricorrere nelle sue canzoni a testi in equilibrio tra autoreferenzialità e apertura alle problematiche altrui, consentendo così a tante adolescenti di identificarsi in quei testi in quanto percepiti come sinceri. Se Lady Gaga si propone come una sorta di madre protettrice delle identità diverse, Taylor Swift si presenta non come star, ma come “la migliore delle amiche” a cui guardare.

Nella cultura di massa un ruolo importante spetta sicuramente agli eroi del mondo Marvel di cui Codeluppi si è recentemente occupato all’interno del volume La morte della cultura di massa (2024) tratteggiandone l’evoluzione a partire dallo loro comparsa negli anni Trenta del secolo scorso, passando per il processo di umanizzazione a cui sono stati sottoposti negli anni Sessanta, sino alla recente creazione di un grande e unico Marvel Cinematic Universe i cui film, sfruttando l’abitudine del pubblico più giovane alla serialità delle piattaforme, non mancano di rinviarsi l’un l’altro. Il successo del sistema Marvel avrebbe, secondo il sociologo, contribuito ad accelerare la crisi dei film di fascia media. Codeluppi si sofferma in particolare sul personaggio Joker che nei due film di Todd Phillips – Joker (2019) e Joker: Folie à Deux (2024) – è giunto a emanciparsi completamente dall’universo Batman manifestandosi come un irrecuperabile soggetto privo di scrupoli a cui una parte della popolazione guarda come a una vittima del sistema e come simbolo a cui rifarsi per scatenare una rivolta a prescindere dalle sue intenzioni di prendervi parte.

Nella formazione della cultura di massa ha indubbiamente un ruolo di primo piano la televisione sin dalla sua nascita quando, almeno nel panorama italiano, proponendosi una funzione pedagogica, mantiene gli spettatori rigorosamente all’esterno dello schermo, dando luogo a una comunicazione frontale priva di interattività. Tale modello televisivo (Paleotelvisione) viene soppianto, a partire dagli anni Ottanta, da quella che Umberto Eco ha definito Neotelevisione, caratterizzata, oltre che da un’inedita spettacolarità, dalla ricerca del coinvolgimento degli spettatori all’interno dei programmi. Una nuova evoluzione del medium televisivo ha dunque condotto alla cosiddetta Transtelevisione che ha adottato il modello comunicativo dei reality show a cui si rifanno gli stessi talent. Tale modello comunicativo si basa sullo spettacolo offerto da persone comuni che, dal momento che hanno oltrepassato lo schermo, si limitano a mettere in scena, per quanto in maniera esasperata, ciò che li accomuna agli spettatori. Il successo di molti di questi sconosciuti personaggi televisivi, più che da una qualche abilità extra-ordinaria (indispensabile nella Paleotelevisione), sembra derivare dalla capacità che manifestano nella gestione della loro immagine in pubblico, che, del resto, è ciò che chiede il modello di società attuale, di cui Codeluppi si è occupato, ad esempio, nel libro Mi metto in vetrina (2015).

In conclusione di Pop culture Codeluppi si sofferma su alcune serie televisive che hanno portato all’interno della cultura di massa riflessioni critiche sulla società contemporanea e sul ruolo negativo esercitato su di essa dai media e, più in generale, dalle tecnologie. La serie televisiva coreana Squid Game (dal 2021) scritta, diretta e ideata da Hwang Dong-hyuk, estremizzandoli, mostra egregiamente gli esiti nefasti a cui possono condurre i processi di gamificazione a cui sono sempre più frequentemente tenuti a sottostare gli esseri umani contemporanei in ambito lavorativo e, più in generale, nella loro quotidianità. Così come in Squid Game a trarre godimento non sono i vincitori delle sfide mortali, ma i facoltosi spettatori privilegiati che scommettono sui contendenti osservandoli dagli schermi, nella società contemporanea a trarre profitto dai processi di gamificazione a cui sono sottoposti gli individui sono esclusivamente le corporation che prosperano sulla competizione degli esseri umani ridotti a gamer.

Codeluppi si sofferma anche sulla serie britannica Black Mirror (dal 2011) ideata e prodotta da Charlie Brooker per le riflessioni critiche che propone a proposito del rapporto tra gli esseri umani contemporanei e le nuove tecnologie, soprattutto mediatiche. Certo, se da un lato serie come Squid Game e Black Mirror hanno indiscutibilmente il merito di invitare gli spettatori a riflettere sulle nuove forme di sfruttamento a cui sono sottoposti quotidianamente, dall’altro lo fanno all’interno di piattaforme che prosperano ricorrendo ai meccanismi del capitalismo digitale contemporaneo. Insomma, mentre la piattaforma, attraverso sue opere, ci mette in guardia circa la deriva a cui conducono gli attuali processi di gamificazione e di sorveglianza digitale, questa non manca di profilarci, mercificarci e renderci produttivi.

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Glaskupan (2025) – Quando la liminalità nordica genera mostri https://www.carmillaonline.com/2025/05/21/glaskupan-2025-quando-la-liminalita-nordica-genera-mostri/ Wed, 21 May 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88222 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della figlia di [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della figlia di quest’ultima che la catapulta nella sua tragica infanzia segnata dall’esperienza di un rapimento e dallo stato di prigionia che l’ha vista rinchiusa all’interno di una struttura trasparente sottoposta allo sguardo del rapitore senza poterlo a sua volta vedere.

Riuscita a fuggire alla reclusione che l’avrebbe probabilmente condotta alla morte – come avvenuto ad altre ragazzine catturate prima di lei –, non appena sufficientemente grande, Lejla aveva lasciato il paese per trasferirsi il più lontano possibile dall’orribile trauma infantile. La mancata individuazione del colpevole del suo rapimento, oltre a contribuire all’incapacità della giovane di elaborare compiutamente il suo trauma, non può che insinuare il dubbio che la nuova scomparsa di una ragazzina in paese sia addebitabile alla stessa persona.

Lejla non può sottrarsi dall’indagare su quanto accaduto in paese sia perché si tratta di conoscenti sia a causa delle analogie con quanto le è accaduto da piccola, episodio oscuro che continua a tormentarla. Per quanto non le sia chiaro se le analogie siano reali o solamente da lei immaginate, risolvere il nuovo caso può rappresentare una resa dei conti definitiva con il proprio trauma infantile. Caso vuole che la figura paterna da cui fa ritorno la protagonista, Valter (Johan Hedenberg), sia una ex poliziotto ormai in pensione che a suo tempo si era occupato del suo caso, mentre ora a capo delle locale stazione di polizia è il fratello di quest’ultimo, Tomas (Johan Rheborg).

Lo spettatore è sapientemente indotto a guardare al paesino ed ai suoi abitanti con gli occhi di Lejla, personaggio definito con precisione nella sua personalità e bene interpretato dall’attrice, sin dal momento del suo arrivo sul posto. Ancor prima dei nuovi tragici eventi in cui si imbatte la giovane, tutto in quel luogo, dalle cose più banali ai personaggi che incontra nuovamente dopo tanto tempo, assumono un’aria ansiogena ed inquietante. Se gli abitanti del paese non possono che guardare a Lejla come alla ragazzina che riuscì a salvarsi dalla tragica esperienza del rapimento, questa, a sua volta, non può fare a meno di percepire qualcosa di allarmante in ognuno di essi.

L’essere stata costretta a sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore all’interno della “scatola trasparente” induce la giovane a provare profondo fastidio ogni volta che uno sguardo si posa su di lei, compreso quello della figura paterna. Ad infastidirla non è tanto lo sguardo reciproco con le persone ma la sensazione di essere guardata a sua insaputa.

Come si conviene in una narrazione di tale tipo, i sospettati del nuovo caso si moltiplicano e l’idea che ci sia un collegamento con i fatti accaduti in passato non tarda a prendere piede, così come dalle indagini non possono che emergere le torbide dinamiche di una piccola comunità che, come al solito, sotto l’apparente normalità paesana nasconde ombre e non detti.

Ecco allora che, insieme a chi indaga, lo spettatore viene ad esercitare il suo ruolo voyeuristico che guarda impietosamente alle vite altrui senza accettare di essere a sua volta osservato: Tomas, ad esempio, farà di tutto per celare a tutti la relazione segreta che lo riguarda emersa casualmente dalle indagini. La scatola di vetro a cui è stata costretta Lejla da piccola sembra riecheggiare nelle modalità con cui il paese ed i suoi abitanti sono osservati nella quotidianità durante le indagini.

Il ricorso ad una fotografia dalle tonalità livide e distaccate contribuisce a creare l’effetto di una luminosità televisiva quasi a rimandare a quella scatola di vetro capace di offrire trasparenza a senso unico, di soddisfare il desiderio di potere scopico da esercitare sugli altri, mostrando al tempo stesso come ad emergere sia l’intimità delle persone che fanno da contorno alla malvagità più profonda che, invece, riesce tutto sommato a sottrarsi allo sguardo indagatore.

Quello in cui si svolge l’azione è uno spazio liminale, lontano dal centro. Il paese immaginario di Granås, situato nella regione di Dalarna nella Svezia centrale, presentato dalla serie, fa parte di un’estrema landa dell’universo geografico scandinavo, estremamente distante, ad esempio, da Stoccolma, solamente evocata nel corso della storia come una città per certi aspetti ‘corruttrice’, che attira i giovani dei paesi e li spinge ad abbandonare la propria terra.

Lejla ha fatto ritorno al luogo della sua infanzia giungendovi dagli Stati Uniti, dove si era da tempo trasferita costruendosi una nuova vita come criminologa comportamentista: si può star certi che quegli “Stati Uniti” evocati dalla ragazza coincidono con una grande città, non certo con l’estrema periferia dell’Ovest o del Centro degli States. Tornare al proprio paesino natale equivale a una vera e propria regressione verso gli spettri e i fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza, come aveva magistralmente mostrato Luchino Visconti in Vaghe stelle dell’orsa (1965), in cui la protagonista Sandra (Claudia Cardinale) ritorna dopo molti anni al suo paese natale, Volterra, un territorio di provincia abitato dai fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Ecco che quelle spazialità liminali rappresentate dal film, ben lontane dall’immagine idilliaca di un mondo ovattato immerso in una natura da cartolina, assumono in sé qualcosa di mostruoso: si vedono notturni boschi inquietanti, lande ghiacciate al crepuscolo o all’alba, fattorie isolate in mezzo alla neve, una piccola stazione di polizia ove gli agenti vengono impunemente irrisi da un gruppo di giovinastri xenofobi del luogo, strade che, dopo pochi agglomerati di case, si perdono praticamente in mezzo al nulla. È questo il luogo in cui torna Lejla, è il luogo dove si nascondono i mostri della sua infanzia: il suo rapimento e la sua esposizione nella “cupola di vetro” a cui viene fatto riferimento nel titolo.

Nelle serie televisive crime nordiche, come si è soliti definirle con tutta le approssimazioni delle etichette di genere, frequentemente la liminalità si rivela generatrice di mostri: si pensi, ad esempio, alle islandesi Trapped (Ófærð, dal 2015) o I delitti del Walhalla (Brot, 2019) in cui i crimini più atroci non avvengono nelle città ma in luoghi sperduti e isolati, in cui la stazione di polizia appare essa stessa sommersa dalla barbarie di molti abitanti del luogo. Gli unici che non se ne vanno da questi luoghi o sono onesti e integerrimi poliziotti – ma in Glaskupan neanche tanto – oppure sono rozzi e imbarbariti abitanti, chiusi e xenofobi, personaggi che di quella liminalità sembrano aver assunto il peggio.

Si può ricordare come anche in un episodio della sesta stagione (2023) della serie TV britannica Black Mirror, dal titolo Loch Henry, diretto da Sam Miller, uno spazio nordico lontano dal centro (in questo caso si tratta della campagna scozzese) si configura come un oscuro luogo generatore di mostri. Qui a fare ritorno al proprio paese natale, Loch Henry, è Davis (Samuel Blenkin), un giovane studente di cinema che vi si reca assieme alla fidanzata Pia (Myha’la Herrold), di origini americane. I due arrivano da una grande città come Londra e si spingono nei meandri più liminali della campagna scozzese; nella fattispecie, nel paesino di Loch Henry, negli anni Novanta, si erano consumati degli orrendi delitti dei quali l’unico colpevole era stato individuato in Iain Adair (Tom Crowhurst), un folle psicopatico. Davis e Pia scopriranno che l’orrore, invece, proveniva dalla sfera più intima e insospettabile, cioè dalla stessa casa di Davis: efferati complici di Iain Adair erano infatti il padre, Kenneth (Gregor Firth) – un poliziotto morto in circostanze poco chiare – e la madre di Davis, Janes (Monica Margaret Dolan), che accoglie la coppia. Tra l’altro, oltre a provenire da un universo ovattato e accogliente, l’orrore efferato è provocato da un tutore dell’ordine, l’insospettabile poliziotto padre di Davis.

Come in Glaskupan, l’autore di crudeli delitti è proprio un poliziotto, colui che invece dovrebbe vigilare sull’ordine e sulla tranquillità di quei lontani e liminali paesini. Non si può non ricordare, allora, come anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) di David Cronenberg, l’autore degli efferati crimini che incombono su uno sperduto paesino del Canada sia proprio un insospettabile giovane poliziotto, aiutato dalla complicità dell’altrettanto insospettabile madre, poi scoperto grazie alle capacità sensitive di Johnny Smith (Christopher Walken).

Al posto del mostro fantastico, spettro, creatura o vampiro, in quelle foreste e nei paesini di diverse storie crime nordiche c’è il ‘mostro criminale’, non meno terribile di una ostile creatura fantastica. Non c’è un essere mostruoso generato dal folklore o dal mito ma la quintessenza del crimine che ha le sue stesse radici in un folklore contemporaneo, in una vox populi che, a volte, deriva anche dalla tecnologia mediatica.

Si prenda, ad esempio, un interessante film britannico dove è presente un mostro ‘tradizionale’: Il rituale (The Ritual, 2017) di David Bruckner, in cui un gruppo di amici inglesi che si avventura in una foresta svedese viene assalito da una orrenda creatura dalla connotazione divina, nata dal mito e dal folklore del posto. Come Harker, in Dracula di Bram Stoker, inglese e razionalista, si avventura nella irrazionale Transilvania fino all’incontro col mostro, così gli amici, non a caso inglesi, si allontanano dal loro universo razionale fin nel cuore della irrazionale Svezia, nei suoi luoghi più liminali. Potrebbero benissimo essere i dintorni del paese di Granås messo in scena da Glaskupan. Ma qui non si annida il terribile mostro divino, bensì una serie di crimini che coinvolgono diversi individui a cavallo fra il passato e il presente.

Un’altra presenza mostruosa, strettamente legata al territorio, è proprio il passato: è quest’ultimo ad emergere come un mostro, una terribile creatura incarnata in abusi e crimini svariati ed è più facile che emerga in spazi estremi e periferici piuttosto che nel cuore di una grande città. I tempi di Jack lo Squartatore e del Mostro di Düsseldorf sembrano ormai definitivamente superati; evidentemente il mostruoso contemporaneo che ricompare dal passato non abita più in quelle grandi città che, invece, si mostravano esse stesse infernali a cavallo tra Otto e Novecento. La metropoli contemporanea nel suo volersi smart è forse alle prese con altre mostruosità che non sembrano venire percepite come tali.

Il mostro-crimine emergente dal passato esige poi una sua vittima, preferibilmente una bella fanciulla. Ed è questo il ruolo di Lejla, che non a caso è stata rinchiusa in una teca di vetro, come prima e dopo di lei innumerevoli altre bambine e ragazzine, ed esposta: la radice folklorica di questo mostro-crimine esige un’esposizione al suo cospetto. Nulla di diverso, in sostanza, dall’esposizione della fanciulla al mostro: come acutamente rileva Furio Jesi, «nella cultura tedesca collegata più o meno direttamente al pietismo» si può incontrare «una vera e propria esposizione della donna – madre, sorella, sposa – al mostro – mostro, spettro “vampiro”»1.

Lejla, nel corso della storia, verrà drogata da un perverso criminale e la vedremo muoversi barcollante come una sonnambula nella notte nel bel mezzo di un cupo bosco, come in una truce fiaba. Sempre Jesi ricorda come nel mito germanico la figura della sonnambula appaia sotto le vesti di Kundry, «la cui persona nel Parsifal è periodicamente dominata dalla forza demonica dell’incantatore Klingsor, che la fa cadere in uno stato magicamente ipnotico o sonnambolico e si serve della bellezza di lei per tentare e vincere i paladini della purezza»2.

Al posto dell’incantatore diverse storie crime nordiche mettono il criminale, più o meno folle, che si serve della purezza e della bellezza dell’eroina. Non è un caso che nella serie televisiva Glaskupan, come punto di convergenza del crimine venga evocata proprio la notte di Valpurga, facente parte al massimo grado della cultura folklorica germanica e svedese, la notte in cui, nel Faust di Goethe, assistiamo al grande sabba delle streghe e in cui Harker giunge al castello di Dracula.

Lejla, sonnambula e fanciulla esposta al mostro del crimine, appare totalmente avvolta dalla mostruosità del passato facente parte del suo spazio liminale. Frequentemente quella mostruosità non giunge dall’esterno, dalle foreste notturne o dalle lande ghiacciate, ma dal calore domestico vicino al camino acceso.

Se nelle fiabe e nel folklore il mostro sta al di fuori e aggredisce la delicata intimità del calore domestico, in diverse storie crime nordiche, come in Glaskupan, è già dentro quelle tiepide e silenziose case, che appaiono anche tremendamente gelide, segnate dalla mostruosità del loro sussistere al limite di uno spazio geografico aperto a un passato che emerge come un inquietante spettro.


  1. F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 50. 

  2. Id., Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2018, p. 104. 

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Severance – Scissione: nuove forme di schiavismo nel tardo capitalismo https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/severance-scissione-nuove-forme-di-schiavismo-nel-tardo-capitalismo/ Tue, 22 Apr 2025 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87682 di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

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di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

Questo è il surreale inizio di Scissione – in originale Severance – una brillante serie distopica, che racconto di un mondo dove le persone possono scindere la propria coscienza tra lavoro e vita privata. Grazie a un microchip impiantato nel cervello, possono creare un alter-ego di se stessi che esiste solo per lavorare: è sveglio e attivo solo nei luoghi e negli orari di lavoro e non ha nessun ricordo della sua vita fuori dall’ufficio. Se il titolo italiano sembra rimandare al concetto di personalità scissa (che in inglese si dice invece split personality), il titolo originale Severance, oltre a significare separazione, viene usato nell’ambito lavorativo per indicare la liquidazione dopo il licenziamento (severance pay). E infatti più oltre alle implicazioni psicologiche della scissione, la serie vuole riflettere sulle dinamiche del lavoro, su come il rapporto sbilanciato tra lavoro e vita privata possa influire sulla nostra personalità e soprattutto sulle dinamiche di potere e controllo messe in atto dai datori di lavoro per ottenere il massimo profitto dagli impiegati.

Nella prima scena assistiamo a quella che è a tutti gli effetti la nascita di un interno (innie) – così vengono chiamate le coscienze lavoratrici, in contrapposizione agli esterni (outies) che li hanno generati e vivono la vita normale fuori dall’ufficio. Il tavolo da riunioni è come un grembo materno in cui la nuova coscienza si risveglia, adulta e consapevole di tutte le nozioni comuni, ma del tutto ignara della sua identità e senza alcun ricordo personale. Questi interni vengono chiamati solo con il nome proprio, seguito appena dall’iniziale del cognome, una rappresentazione della loro assoluta mancanza di storia.

La serie, trasmessa da Apple TV nel 2022 e ora alla seconda stagione, è stata creata dal quasi esordiente Dan Erickson ed ha visto la luce grazie alla produzione e alla regia di Ben Stiller, che molti conoscono soprattutto come attore di commedie, ma che ha all’attivo diversi film da regista e, soprattutto in televisione, si è dedicato a progetti drammatici (consigliatissima la serie Escape at Dannemora). Erickson racconta che l’idea per Scissione gli è venuta sperimentando sulla propria pelle l’alienazione del lavoro da ufficio, quando, prima di avere successo come sceneggiatore, lavorava per una ditta produttrice di porte. La ripetitività e il senso di inutilità del proprio lavoro lo ha portato a immaginare di poter dimenticare le ore passate in ufficio, anzi di poter evitare del tutto di esperirle. Da qui l’idea della scissione: una tecnologia che permette di creare un doppio di sé che vive solo per lavorare. Questo concept fantascientifico non è altro che una metafora dello sfruttamento dei lavoratori e del lavaggio del cervello da parte delle aziende, che hanno esigenza di eliminare qualsiasi elemento di distrazione e disturbo per avere persone completamente dedite alle loro mansioni, anzi che vivono solo per questo, immolate sull’altare dell’efficienza e della produttività.

L’aspetto più crudele della scissione è che gli interni non sono altro che schiavi fatti schiavi da se stessi: infatti il responsabile della loro vita da incubo, reclusi nell’ufficio, è il loro esterno, quindi l’altro se stesso. Un altro di cui non sanno nulla, ma che decide del loro destino, un altro così vicino, ma eternamente irraggiungibile.

Ma il vero cattivo della serie è la Lumon, la mega-compagnia biotech che ha inventato il microchip e vive grazie al lavoro degli impiegati scissi. La serie mostra l’azienda come una struttura di potere opprimente, basata su pratiche che esaltano un culto della personalità del fondatore (il signor Kier) e legano gli impiegati in una forma di devozione, che ricorda il fenomeno delle sette. La Lumon (come molte aziende reali) ha un codice etico e una lista di principi, che danno al lavoro un aspetto vocazionale, che serve a giustificare l’esistenza dei lavoratori scissi. E questa devozione si spinge fino alla scissione, alla creazione di persone che per tutta la loro esistenza avranno l’unico scopo di lavorare per la Lumon, che sono vive solo grazie e per l’azienda.

La Lumon rappresenta tutte le grandi aziende che cercano di migliorare la propria immagine aderendo a grandi ideali e proclamando di avere degli alti obbiettivi etici, mentre l’unico loro interesse è il profitto e lo sfruttamento sempre maggiore del plusvalore dato dai lavoratori. Lo stesso Erickson racconta come i datori di lavoro vogliano far sentire i dipendenti come una famiglia, convincendoli che hanno uno scopo più alto del mero guadagno (per esempio lo slogan di Starbuck è “Non facciamo solo caffè, ma rendiamo il mondo un posto migliore”). Questa identificazione del lavoratore con la mission aziendale non è solo disturbante, ma crea una vera alienazione da se stessi, dai propri obbiettivi e desideri personali. La società tende a identificare le persone con il loro lavoro: si dice “tu sei un avvocato, un commesso, un operaio”, ma questo in realtà non dice assolutamente nulla della persona. Questo paradosso è mostrato molto bene in una scena in cui il protagonista Mark va a cena con delle persone che gli chiedono che lavoro faccia e lui con imbarazzo ammette di essere un lavoratore scisso e quindi di non avere alcuna idea di quale sia il suo lavoro. La scena mette in evidenza come la separazione della coscienza, che potrebbe apparire desiderabile, in realtà finisca per creare due personalità parziali che non riescono a trovare senso nella propria esistenza. Mark prima faceva il professore universitario, un lavoro appassionante e soddisfacente, mentre ora si ritrova incapace di dare una forma a se stesso perché ha scelto di cancellare il lavoro dalla propria esperienza di vita; dall’altra parte il suo interno è altrettanto incompleto, non avendo alcuna identità a parte essere un impiegato.

Un aspetto particolare della serie è il tono della narrazione che, pur partendo da un presupposto da thriller fantascientifico alla Black Mirror, sceglie di essere una tragicommedia umana, venata di ironia surreale e sarcasmo sociale. Gli autori citano come riferimenti film come Brazil (dove è messa in scena una tecno-burocrazia opprimente), Matrix e The Truman Show (che mettono in discussione il rapporto reale/immaginario) e Being John Malkovich, dove è evidente il discorso sull’identità; ma ci sono anche riferimenti beckettiani nella dilatazione temporale sospesa che i protagonisti interni vivono negli spazi dell’ufficio. La serie ha un particolare tono malinconico, con elementi umoristici nel racconto paradossale della vita lavorativa degli scissi, che la rende uno dei più interessanti prodotti seriali degli ultimi anni.

Al centro della storia c’è Mark Scout che ha deciso di fare la scissione dopo l’improvvisa morte della moglie: incapace di superare il lutto, Mark ha scelto di rimuoverlo dal suo cervello per otto ore al giorno, ma la sua vita da esterno rimane arida e senza gioia, gli unici rapporti sociali li ha con la sorella e il marito di lei, mentre lui sembra condannato a una perenne solitudine. Il suo stato emotivo è messo in mostra anche attraverso l’ambientazione: una provincia americana invernale, segnata dalla monotonia dei grigi e dall’atmosfera gelida e ovattata del silenzio della neve
Ma dall’altra parte c’è anche Mark S., l’interno che lavora per la Lumon, che mostra invece i lati positivi del carattere di Mark. L’interno è infatti una persona dal cuore gentile, affezionato ai suoi colleghi di lavoro, sinceramente motivato a fare del mondo un posto migliore e per questo, almeno all’inizio, lo vediamo dedicarsi con entusiasmo al lavoro.

A fare da contraltare alla spensierata vita di Mark S. c’è Helly R., la giovane donna che abbiamo visto all’inizio, appena arrivata nel reparto di scissione, che non riesce ad accettare la sua nuova condizione. Nelle prime puntate Helly fa ripetuti tentativi di fuga, ma ogni volta che scappa dalla porta del piano della scissione, si trova a rientrarvi subito dopo. Questo perché da interna non ha alcun potere, è la sua controparte esterna che decide come vivere e la costringe ad essere al lavoro ogni giorno. Helly non può scegliere perché ogni volta che si trova fuori dall’ufficio non è più cosciente e l’esterna in un video in cui le dice esplicitamente: “Tu non sei una persona, io sono una persona. Tu non puoi decidere.”

Altri due personaggi completano il reparto di Macrodata refinement dove lavorano i personaggi: sono Dylan G. e Irving B. (interpretato da uno straordinario John Turturro). Entrambi rappresentano dei topoi dell’impiegato: Dylan è ossessionato dalla produttività e ambisce a degli inutili premi aziendali (dei ridicoli aggeggi anti-stress tipo trappole per le dita), mentre Irving appare rigidamente identificato con gli astratti principi etici della Lumon, ma in realtà è perseguitato da inquietanti visioni e finirà per sfidare la policy aziendale per amore.

I quattro impiegati del reparto sono supervisionati dall’inquietante Mr. Milchick (che non ha fatto la scissione), un uomo con un eterno sorriso stampato in faccia, dai modi affettatamente gentili, che rappresenta la facciata ipocrita della Lumon e l’atteggiamento di benevola indulgenza e controllo costante che l’azienda ha per i propri impiegati, che tratta come bambini da disciplinare. In effetti gli interni hanno una coscienza giovane e ingenua e lo vediamo nel modo in cui gioiscono delle ridicole gratifiche che l’azienda offre loro, che sono un’ambita variazione dalla routine del lavoro al computer. Così nelle puntate vediamo la “musical dance experience”, un momento di svago in cui si balla e si festeggia, e i i momenti di team building, con i giochi in cui a turno si racconta la propria vita (anche se gli interni hanno ben poco da raccontare) e anche le feste di saluto per il pensionamento, che in realtà per gli interni significa la fine della loro esistenza ed è quindi più un funerale.

Ma c’è un altro personaggio fondamentale nella dirigenza Lumon: Miss Cobel (interpretata da un’ottima Patricia Arquette), la gelida direttrice del reparto scissione. Se Milchick è il volto umano ed empatico dell’azienda, Cobel rappresenta il potere e il controllo totale che la Lumon ha sui lavoratori. Miss Cobel non concede nessuno spazio di autonomia e sembra non avere nessuna comprensione delle difficoltà degli impiegati, trattandoli in maniera del tutto funzionale. Ed è lei a commissionare le punizioni necessarie dopo i ripetuti tentativi di fuga di Helly. Così vediamo un altro spazio degli uffici: la break room o sala del personale che, invece di essere un luogo di svago e pausa del lavoro, è una stanza buia dove il lavoratore che ha fatto qualcosa che non doveva è costretto a leggere un’elaborata confessione e richiesta di perdono, che deve ripetere per centinaia di volte, finché non sembrerà sincero a insindacabile giudizio del superiore Mr Milchick.

Un altro luogo significativo è l’Ala dell’Eternità: un ambiente museale dove si celebra il fondatore della Lumon, Kier Egan, con una riproduzione in scala naturale della sua casa e una celebrazione dei suoi discendenti che hanno ricoperto il ruolo di CEO, raffigurati in statue di cera. Questo spazio mostra il culto della personalità su cui si basano le pratiche aziendali: Kier è rappresentato come una sorta di messia (viene detto spesso Praise Kier, sia lode a Kier) e quindi lavorare alla Lumon significa essere i suoi adepti.

L’entità dominante dell’azienda si manifesta negli spazi del lavoro: l’ufficio di Scissione è più che un’ambientazione simbolica, ma diventa quasi un personaggio, rappresentando il corpo dell’azienda all’interno del quale sono prigionieri i lavoratori scissi. Gli uffici della Lumon sono un labirinto di corridoi bianchi, rischiarati dalla monotona luce dei neon, corridoi in cui vediamo i personaggi camminare per un tempo lunghissimo, che si diramano in deviazioni tutte uguali e che sembrano avere un solo punto di partenza, l’ascensore da cui si entra al piano della scissione, e un solo punto di arrivo, l’ufficio del reparto Macro Data Refinement dove lavorano i protagonisti. Anche la stanza del MDR è particolare: una sala spropositatamente grande che al centro ha un cubicolo con quattro scrivanie per gli impiegati, il pavimento verde acido e il soffitto bianco grigio coi neon che incombe dall’alto. Questo luogo di lavoro freddo e funzionale, eppure tremendamente inutile nel suo spreco di spazio, è privo di qualsiasi elemento umano, del tutto spersonalizzato e spersonalizzante, e sembra ridurre gli umani che lo abitano a piccole formiche operose perse in un eterno vagare per i corridoi o nella ripetizione dei loro compiti ossessivi al computer.

E proprio a proposito del lavoro al computer vale la pena far notare come esso appaia del tutto arbitrario e apparentemente insignificante. Quando Mark spiega alla nuova arrivata Helly cosa deve fare, le mostra semplicemente un monitor su cui scorrono una serie di numeri incolonnati e le dice di individuare i numeri particolari e metterli in una casella insieme. Ma come si capisce quali sono i numeri particolari? Mark risponde che deve scegliere i numeri che le fanno paura; di fronte all’incertezza di Helly, Mark la incoraggia a fare pratica e le promette che ci prenderà la mano. Il lavoro del reparto Macro Data Refinement sembra essere quello di trattare questi misteriosi numeri in modo incomprensibile, senza una logica, ma agendo in base alle sensazioni. Di fronte alle difficoltà di Helly ad affrontare un compito che appare del tutto inutile e ripetitivo, Mark le ricorda che il loro lavoro è “misterioso e importante.” Questo è un concetto che viene ripetuto spesso e serve come unica spiegazione per i compiti senza senso che gli impiegati devono svolgere; ma avere qualcosa di misterioso e importante da fare è anche un modo per dare un senso di soddisfazione, per avere l’idea di servire uno scopo più alto, anche se i lavoratori scissi non hanno idea del piano generale, ma devono funzionare come formiche operaie.

Il design della Lumon è ispirato all’architettura funzionalista degli anni ’50 e ’60 (in particolare alle costruzioni di Eero Saarinen), e anche la tecnologia è antiquata: i computer hanno i grandi monitor col tubo catodico degli anni ’80, quando vediamo dei filmati sono proiettati su vecchi televisori con dei videoregistratori, ma anche fuori dall’ufficio ci sono macchine vecchie e cellulari non ancora smart. Secondo alcuni questo indicherebbe che il mondo in cui è ambientata la serie sia una realtà parallela alla nostra, simile, ma non uguale. Ma potrebbe anche non esserci alcuna spiegazione narrativa per questo aspetto: la mancanza di tecnologia digitale all’interno della Lumon potrebbe essere solo un modo per esasperare il senso di isolamento degli interni, un modo per tagliarli fuori dal mondo.

Scissione esprime un forte messaggio politico attraverso un high concept fantascientifico estremamente efficace, che incarna le dinamiche di controllo necessarie alla crescita virale del tardo capitalismo. Il bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale è qui paradossalmente risolto con la scissione della coscienza, che crea una personalità totalmente schiava del lavoro. La serie è uscita all’inizio del 2022, nell’anno precedente l’America è stato segnata dal fenomeno sociale della Great Resignation, in cui 47 milioni di americani si sono licenziati dal lavoro, anche a seguito dei mutamenti portati dalla pandemia. Con il lavoro da remoto molte persone si sono rese conto dell’inutilità di spendere mezza giornata in ufficio, quando potevano svolgere lo stesso quantitativo di lavoro da casa, gestendo molto meglio il proprio tempo. Questa ridefinizione dell’equilibrio vita privata/lavoro ha portato a guardare con occhio diverso i rapporti con i datori di lavoro, portando a rivendicazioni che valorizzassero in maniera maggiore gli spazi e i tempi personali. E questa ribellione dei lavoratori è proprio l’elemento che definisce l’arco narrativo di Scissione: la presa di coscienza e l’unione fra gli interni scissi li porterà a rompere i confini dell’isolamento dell’ufficio, per rivendicare uno spazio esterno di autonomia e libertà. La rivoluzione al capitalismo schiavista della Lumon, la grande compagnia monstre che governa addirittura la coscienza delle persone, è l’orizzonte che ha fatto la forza della serie, che nei tre anni trascorsi tra la prima e la seconda stagione è diventata una delle serie più viste e più discusse della contemporaneità.

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WestWorld: la valle della disrupzione / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/08/westworld-la-valle-della-disrupzione-3/ Sat, 08 Apr 2023 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76566 di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark [...]]]> di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.

Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.

Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.

In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.

Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):

Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.

Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.

Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.

Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.

Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.

Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.

Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.

(3Fine)


  1. Si veda: Sontag S., (2003), Regarding the Pain of Others, Penguin, London.  

  2. M. Horkeimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Paperbacks Einaudi, Torino 1980  

  3. Baudrillard J., (1976), L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, p. 24.  

  4. È importante ricordare che i due tipi di produzione impongono l’uso, consumo e distruzione dei corpi. È interessante a questo punto anche ricordare l’analisi sull’uso dei corpi nella produzione industriale proposta da Marcuse. Infatti, come già notava negli anni Sessanta del secolo scorso, il contesto tecnologico lasciava intravedere la possibilità tecnologica di risparmiare l’uso del corpo nella produzione, il ché significava la completa trasformazione della forza lavoro. Davanti a una possibilità tecnologica capace di sostituire la forza lavoro incarnata dal proletariato, Marcuse metteva in luce il paradosso del capitale che continuava ad usare i corpi umani nella produzione. Questo paradosso comincia a diventare ricorrente nella fantascienza contemporanea. Pensiamo, per esempio, alla serie britannica Black Mirror, e soprattutto al secondo episodio della prima stagione Fifteen Million Merits. Su un’analisi di questo fenomeno, veda Duarte G.A., (2021) “Black Mirror. Mapping the Possible in a Post-Media Condition”, in Duarte G.A., Battin J.M., (eds.) Reading “Black Mirror”. Insights into Technology and the Post-Media Condition, Transcript, Bielefeld, pp. 25-50.  

  5. Williams R., (2005), Culture and Materialism, Verso, London, p. 37.  

  6. Agamben G., (2006), Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.  

  7. Anders G., (2003), Die atomare Drohung: Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, C.H. Beck, München.  

  8. Stiegler B., (2018), Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou?, Actes Sud, Arles, p. 71.  

  9. Per un’analisi approfondito su questi episodi di violenza e la loro relazione al contesto mediatico, veda Berardi (Bifo) F., (2015), Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini + Castoldi, Milano.  

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Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza


  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Nemico (e) immaginario. Linee di fuga e conflitto oltre l’oscuro riflettere di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2020/04/28/nemico-e-immaginario-linee-di-fuga-e-conflitto-oltre-loscuro-riflettere-di-black-mirror/ Tue, 28 Apr 2020 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59302 di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. Certo la rete è territorio in cui imperversano dominio, alienazione, profitto e mercificazione, come denuncia la serie ideata da Charlie Brooker, ma non mancano, nemmeno lì, stratagemmi di sottrazione, di resistenza e sovversione.

Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020), sottolineano come la serie, mancando di cogliere la complessità del reale, si riveli «uno spettacolo tanto fine dal punto di vista della concezione estetica, dell’architettonica e degli effetti speciali quanto superficiale sul piano sociologico, con particolare riferimento alla sociologia dell’immaginario e della vita quotidiana. Ad un’analisi puntuale, non è meramente un racconto che smaschera l’ideologia dominante nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi, ma si pone anche come un suo specchio e strumento. L’una e l’altro appaiono disinteressati a cogliere il brulichio culturale in fermento al di là degli schermi e oltre i dispositivi di potere in campo.» (p. 69)

La rivoluzione industriale ha comportato un’estensione del dominio dell’alienazione ben oltre lo spazio lo spazio e il tempo del lavoro; se nelle pellicole che hanno messo in scena la tradizionale alienazione operaia questa si dava soprattutto nel momento del confronto lavorativo con la civiltà delle macchine durante la produzione, mantenendo momenti di libertà al di fuori di essa, in Black Mirror – es. 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), Nosedive (Caduta libera, ep. 1, serie 3, 2016) e White Christmas (2014) – , sostengono Attimonelli e Susca, gli individui si presentano come «corpi post-umani integralmente assorbiti dalla tecnostruttura e dalle sue ramificazioni, senza più alcun margine di autonomia, salvo quello concesso da errori di sistema che, sebbene fatali, rappresentano i soli ed ultimi passi possibili per raschiare un residuo di libertà.» (pp. 88-89) Ad essere mostrata è pertanto una civiltà del tutto priva di godimento in cui l’esistenza è completamente in balia dell’alienazione.

A che livello, si chiedono gli studiosi, è allora possibile «intercettare uno iato dalla condizione associata con lo scambio tra la forza-lavoro del proletario versus il salario nell’Ottocento e il dono di sé del soggetto contemporaneo sotto forma di docilità nel rendere trasparenti i dati personali, nell’essere tracciati e nell’accogliere le multiple ingiunzioni provenienti dall’esterno della sfera personale?» (p. 70) Ad un modello che si regge sulla retribuzione sembra affiancarsi, più che sostituirsi, un modello fondato su un principio emotivo, affettivo e simbolico, piuttosto che materiale. Ciò non significa, sostengono Attimonelli e Susca, che non vengano monetizzate le attuali forme di socialità digitale, ma piuttosto che «ciò ha luogo a un piano troppo distante dalla sfera del vissuto perché possa essere considerato centrale su quello sociologico, semiologico e psicologico.» (p. 71)

L’immaginario collettivo pare ancora percepire la cultura digitale «come una dimensione intimamente legata all’abitare, a ciò che è spontaneo e gratuito nel senso etimologico del termine: gratuitus da gratia, la grazia, una forma di favore e di benevolenza senza ragione, pagamento o aspettazione di compenso.» (pp. 71-72) «Per quanto ingenuo possa sembrare […] lo spirito del Web e del suo corrispettivo negli scenari urbani è animato da una logica della comunicazione che privilegia le aree semantiche della comunità, della comunione e del comune. Ne consegue un investimento personale e societale ben più sostanzioso di quello agito tramite il denaro: esso ha a che vedere con la carne e con la fantasia, con i sentimenti e con le emozioni, con qualcosa al contempo più materiale e più immateriale degli scambi commerciali o finanziari. Per questo contempla un darsi completo, indiscriminato e irreversibile. Fatale, quindi, ma non secondo la visione univoca e soverchiante evocata da Black Mirror.» (p. 72).

Da parte sua Black Mirror, secondo i due studiosi, non mostra alcun piacere che non si riveli falso, distorto o perverso. I pochi barlumi di felicità che si riscontrano nelle puntate della serie assumono le sembianze di passioni fredde presto destinate alla disillusione: reificate dallo specchio dei media, nella logica semplificata di Black Mirror esse finiscono per divenire «cose tra le cose nel sistema degli oggetti, merci attorno ad altre merci. Frantumate in schegge disorganiche, finiscono per ferire la carne e demolire la psiche degli esseri umani.» (p. 75)

Per oltrepassare la parzialità della lettura proposta dalla serie, incentrata com’è sulla denuncia della perdita della soggettività, è necessario cogliere vie e pratiche di fuga in quella che troppo frettolosamente viene letta come mera passività dei soggetti. Nonostante la cupezza del discorso portato avanti da Black Mirror, almeno in alcune sue puntate – ad esempio in Hang the Dj (ep. 4, serie 4, 2017), San Junipero (ep. 4, serie 3, 2016) e Black Museum (pe. 6, serie 4, 2017) –, Attimonelli e Susca ritengono sia possibile intravedere qualche breccia nella serie e nel nostro quotidiano.

Su quelli che possono essere considerati i limiti dell’approccio critico veicolato dalla serie, si sofferma anche Federico Tarquini in un suo scritto intitolato Illusione (in Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni, 2018). Il regime visuale proposto da Black Mirror, sostiene lo studioso, da un lato tende a presentare il dispositivo digitale come superamento della visione biologica umana, dall’altro non manca di palesare come esso determini una particolare etica dello stare insieme in cui sono banditi i segreti. Se, come sostiene Georg Simmel, il segreto è un elemento costituente delle relazioni sociali, ne deriva che la sua esclusione imposta dalla tecnologia finisca per dare luogo ad una società in cui risulta estremamente difficile avere legami affettivi.

Nel regime visuale di Black Mirror, sostiene Tarquini, muta anche il rapporto tra visione e memoria. «Nell’era della rappresentazione questo legame si è espresso contemplando sia ciò che i propri occhi han visto, sia ciò che si presume di avere visto e che magari non si ricorda proprio per l’eccessivo tempo trascorso. Vista, visione, racconto, spazio e tempo si sommano in questo rapporto rendendo sofisticatissima l’azione della memoria nella cultura occidentale» (pp. 130-131). Il regime visuale della serie pare presupporre che a causa del dispositivo tecnologico, comportante l’espulsione dalla dimensione della memoria di tutto ciò che non appare certo e verificabile, si attui il superamento di tale complesso procedimento e tutto ciò viene presentato come un’amara illusione di progresso.

In The Entire History of You (Ricordi pericolosi, ep. 3, serie 1, 2011) ciò che sembra garantire un potenziamento della memoria e dell’esperienza quotidiana dell’individuo si rivela un dispositivo che lo condanna all’impossibilità di godere di relazioni affettive, dunque alla solitudine. «Insistendo così vigorosamente sul convincimento che le tecnologie infliggano un generale processo di falsificazione al piano del reale, Black Mirror sembra voler affermare l’illusione come ciò che caratterizza l’esperienza collettiva e personale dei media e delle tecnologie.» (p. 131). Nella serie l’illusione viene presenta come l’effetto principale del regime visuale imposto dalla tecnologia. Tale alterazione del rapporto tra percezione e conoscenza, suggerisce Black Mirror, conduce alla falsificazione del reale in ossequio alla volontà di un potere distopico talmente sofisticato da ottenere, attraverso la falsificazione, appunto, l’assoggettamento volontario degli individui ad una condizione alienata.

«La raffinata e coinvolgente linea narrativa che lega tutti gli episodi della serie sembra […] patire un limite teorico tipico del pensiero critico, ovvero sottostimare l’azione del soggetto quando entra in contatto con un qualsiasi medium» (p. 133). Da questo punto di vista la serie diverge da quelle letture critiche che vedono nel rapporto tra individuo e media un livello di complessità molto maggiore rispetto a quella proposto dalla serie di Charlie Brooker, una complessità colta, ad esempio, già da Walter Benjamin e dallo stesso Herbert Marshall McLuhan. Se il compito di Black Mirror è quello di metterci di fronte all’imbarbarimento in cui siamo precipitati, questo compito è svolto egregiamente. Prendere atto di ciò è certo indispensabile ma è giunto il momento di smettere di piangersi addosso volgendo mestamente lo sguardo al passato e imparare a leggere le linee di fuga e il conflitto nelle forme in cui si dispiegano qua e ora e, soprattutto, che possono darsi, più fragorosamente, in futuro.


Nemico (e) immaginario – serie completa

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Nemico (e) immaginario. Happycrazia e barlumi di rabbiosa umanità https://www.carmillaonline.com/2020/03/19/nemico-e-immaginario-happycrazia-e-barlumi-di-rabbiosa-umanita/ Thu, 19 Mar 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58608 di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare [...]]]> di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare se stesso senza preoccuparsi dell’apprezzamento altrui. Al contrario, la vita collettiva, plasmata com’è da una solida alleanza di leggi neoliberali, reti sociali e tecniche di sorveglianza, appare come un sistema carcerario a cielo aperto da cui urge affrancarsi.» (pp. 54-55)

Così scrivono Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizzando la celebre serie televisiva ideata da Charlie Brooker nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis, 2020). Circa il come affrancarsi da una deriva paradossale in cui una minima traccia di umanità residua la si riscontra in qualche impeto rabbioso di chi vive la reclusione estrema del penitenziario, residuo moderno resistente ai cambiamenti, Black Mirror (dal 2011), sostengono gli studiosi, sembra invitare ad un rigetto della felicità illusoria ed effimera da cui si è quotidianamente bombardati da quell’happycrazia neoliberista in cui ogni «barbaglio di benessere dissimula in realtà uno specchio nero frantumato, la nostra vita ridotta a pezzi indistinguibili, disorganici e impotenti.» (p. 56)

Episodi come Playtest (Giochi Pericolosi, ep. 2, serie 3, 2016), 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), White Bear (Orso Bianco, ep. 2, serie 2, 2013), insieme ad altri, sostengono Attimonelli e Susca, sottolineano come l’impressione di disporre del mondo intero attraverso un clic, celi di fatto la resa, più o meno cosciente, dell’essere umano alla subordinazione, al controllo e alla manipolazione operata da big data, social profiling, algoritmi ed intelligenza artificiale.

Questa costante sollecitazione all’attenzione a cui è sottoposto l’individuo ridotto a “carne elettronica” dai ritmi digitali, ha finito per negarlo in quanto soggetto dotato di un punto di vista. Dentro e fuori dal web, sostengono i due studiosi, si palesa una situazione di “orgia permanente” in cui l’individuo gode dell’altrui presenza solo nel concedersi, «come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort. […] Ecco perché possiamo suggerire che la “prostituzione generale” dell’esistenza segnalata e paventata da Marx nella sua analisi del modo di produzione capitalista sia oggi in corso di realizzazione, in modo integrale, ben oltre l’ambito della produzione e della sfera sessuale.» (pp. 51-52)

Episodi come White Christmas (Bianco Natale, 2014), Arkangel (ep. 2, serie 4, 2017) e Black Museum (ep. 6, serie 4, 2017), illustrano perfettamente come «in sintonia con il ritmo e con la morfologia delle nostre esistenze digitali, delle reti sociali e di ogni forma di interconnessione che scandisce il nostro vissuto, la condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei. Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.» (pp. 52-53)

Tutto ciò, continuano Attimonelli e Susca, è ben esemplificato dall’episodio Nosedive (Caduta Libera, ep. 2 serie 3, 2014), in cui gratificazione personale, successo e felicità degli individui dipendono dall’approvazione sociale ottenuta dai “contatti” in base al grado di soddisfacimento delle attese. Svuotata di ogni possibilità decisionale autonoma, la protagonista cade in uno stato di alienazione e angoscia che ne inibisce ogni libertà d’azione finendo paradossalmente per ritrovarne qualche residuo soltanto nello stato di prigionia, quando si lascia andare ad un’incontrollata reazione rabbiosa, nei confronti del vicino di cella, accumulata nel corso di un’esperienza esistenziale frustrante. Il suo è un sussulto disperato e rabbioso che incarna la violenza strutturale di un sistema rivelatosi spietato, un sussulto però capace di palesare un barlume, per quanto brutale, di istinto umano sopravvissuto.

Denunciare l’imbarbarimento in cui ci si accorge, quasi improvvisamente, di essere precipitati potrebbe non bastare. «Stiamo tutti morendo», sembra suggerirci la celebre serie televisiva, «o forse siamo già morti nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie.» (p. 47)

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa?» Così si esprimeva un operaio brianzolo pochi giorni dopo l’esplosione delle disperate e rabbiose insurrezioni nelle carceri, in pieno dilagare del contagio e dell’inasprirsi di quello stato d’emergenza che, passo dopo passo, sembra essere divenuto elemento strutturale della contemporaneità.

Ci si spaventa facilmente di fronte a qualche barlume di una rabbia che, per quanto possa tragicamente assumere indirizzi irrazionali, pare comunque derivare da un disperato tentativo, del tutto umano, di riappropriarsi di se stessi in risposta a un sistema alienante strutturato sui principi della mercificazione, dello sfruttamento, del controllo e della valutazione, sistema che di umano pare davvero avere sempre meno.

What if? E se… a spaventare cominciassero ad essere i riflettori dell’happycrazia ed il luccichio dei suoi testimonial sorridenti, cosa potrebbe succedere?

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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale https://www.carmillaonline.com/2019/06/18/nemico-e-immaginario-la-morte-loblio-e-lo-spettro-digitale/ Tue, 18 Jun 2019 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53162 di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare [...]]]> di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.

Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).

Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).

La difficoltà di accettare la morte è al centro, ad esempio, di Be Right Back (Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione). Viene qua mostrata la possibilità per chi resta di mantenrsi in contatto con il defunto attraverso un software in grado di rielaborare il materiale condiviso online durante la vita dallo scomparso. Si viene a creare così un “simulacro” dell’individuo vissuto in grado di comunicare con i vivi.

Facendo riferimento alla realtà extra-schermo, Santoro racconta dell’esistenza di servizi web che si occupano di garantire l’immortalità digitale. È prevista un’iscrizione “preventiva” finalizzata alla memorizzazione continuativa di dati dei principali social media al fine di creare un individuo artificiale potenzialmente eterno. Dopo la morte dell’iscritto, costui viene “tenuto in vita” virtualmente attraverso la rielaborazione dei dati da lui stesso registrati per poi essere collegato con tutte le persone precedentemente indicate. È previsto persino una avatar 3D affinché tale entità appaia ed interagisca con gli altri utenti; una sorta di “spettro digitale”.

Scrive Santoro che «tali sistemi sottovalutano però l’importanza simbolica dell’interruzione del divenire temporale: la sopravvivenza dei nostri avatar virtuali non coincide con le regole evolutive della crescita e dell’invecchiamento, ma si limita alla ripetizione meccanica di ciò che ha fatto parte di una storia vissuta ne passato di chi non c’è più e che è impossibilitata a determinarsi in modo innovativo nel futuro. Un’identità che allo stesso modo di quella “reale” rimane incompiuta, statica, ferma all’istante in cui la morte ha interrotto il corso della sua possibile evoluzione» (p. 163).

In San Junipero (Episodio 4, Terza stagione), «il carattere distopico e l’ineludibilità della morte apparentemente sembrano perdersi con la costruzione di un upload in grado di racchiudere la coscienza delle persone in un corpo metallico da proiettare in una paradisiaca eternità virtuale che sembra vincere la morte e la malattia. Una sorta di cookie (estratti delle persone che riproducono, impressi in una memoria artificiale, ricordi, gusti e abitudini del possessore), come lo rappresenta Brooker in White Christmas (Bianco Natale, speciale 2014), o più comunemente inteso come un mind uploading, ossia un procedimento che consente di creare una copia perfetta del cervello [dell’essere umano] per poi trasferirla su un supporto non biologico di modo che, da un lato, esso possa sfuggire al deperimento naturale e, dall’altro, possa crescere, alimentarsi di nuova coscienza e interagire con il mondo reale» (pp. 163-164).

Santoro si sofferma sul finale di San Junipero, quando le immagini mostrano un braccio meccanico che, nella sede della TCKR System, impianta un chip in una distesa di capsule rimandante ad una sorta di cimitero riproducente il mondo virtuale di San Junipero. Il messaggio lanciato, sostiene la studiosa, diretto e inquietante, sembra chiedere se «è realmente la coscienza delle persone a essere racchiusa in quel corpo metallico» o se non sia piuttosto «un riflesso computerizzato di quella coscienza, una sua copia sbiadita» (p. 165).

Il cervello, però, non può che essere pensato come “esteso”, “incarnato”; ogni attività neurobiologica del cervello umano dipende dai segnali provenienti dal corpo e dall’ambiente. «Il corpo, inoltre, è sempre «immerso e situato in un ambiente che lo influenza e da ca cui è influenzato» (p. 166). Il cervello ha una storia sia biologica che sociale; pertanto non è possibile pensare di poter prolungare la sopravvivenza attraverso il suo isolamento dal resto del corpo trapiantandolo in un supporto vitale artificiale.

Sulle medesime questioni che la serie audiovisiva ha il merito di trattare, ragionano anche Fausto Lammoglia e Selena Pastorino3 a partire da due concetti chiave: “post-umano” e “transumanesimo”.

Con il primo termine, sostengono i due studiosi, «si intende una visione dell’essere umano come una macchina di carne che può essere integrata, riparata e finanche migliorata con parti meccaniche o digitali, che caratterizzerebbe la nostra epoca contemporanea». (p. 29). Con post-umano ci si riferisce non solo le protesi di miglioramento/potenziamento sensoriale o psicomotorio, ma anche alla relazione di dipendenza degli esseri umani con la tecnologia.

Con termine transumanesimo, invece, sempre secondo Lammoglia e Pastorino, si fa riferimento ad «un movimento filosofico, sociale ed economico, figlio del tecnocapitalismo, che ha un unico obiettivo: superare il limite fisico della morte (in particolare della vecchiaia)» (p. 30). Che si tratti di sospensione crionica, di upload delle coscienze o di integrazione cibernetica del corpo umano, il transumanesimo pare ossessionato dal superamento dei limiti della mortalità umana, e tale possibilità, sostengono i due autori, «è, prima di tutto, ricerca religiosa di un senso che possa superare i limiti della nostra mortalità che, per i transumanisti, sono fisici e strettamente dipendenti dalla struttura corporale dell’essere umano. In quanto tale essa ha bisogno di profeti, i ricercatori della Silicon Valley, strenui difensori di tale possibilità che, però, è quasi completamente infondata poiché, ad oggi, non si ha ancora nemmeno una briciola di indizio su come funzioni la nostra mente (sappiamo qualcosa in più dell’hardware cervello, ma pochissimo del software mente)» (p. 48).

Il confronto con il fine vita e la speranza di procrastinare il sopraggiungere della morte, compare anche in alcuni episodi di Black Mirror ma, a differenza dei transumanisti, la serie invita a riflettere circa la disponibilità ad affrontare i “costi” che le “soluzioni tecnologiche” pongono all’individuo ed alla società.

Partendo da presupposti che vogliono per certe tanto l’esistenza della coscienza, quanto la possibilità che questa possa essere “caricata” su un supporto diverso da quello del corpo dell’individuo, Black Mirror si preoccupa di contraddire l’entusiasmo dei ricercatori ponendo questioni inerenti il campo delle relazioni, della psicologia e dell’identità che toccano problemi esistenziali, etici e legislativi.

«Ammesso che sia possibile caricare le coscienze su un cloud, esse hanno sempre bisogno di un supporto fisico (sia questo un pc, un robot, un altro essere umano o un peluche). […] Se accettiamo una definizione che indichi l’essere come tutto ciò che possa agire o subire un’azione, comprendiamo immediatamente come una coscienza senza supporto non possa effettivamente “essere”. È necessario che sia in qualche modo incarnata, che abbia delle propaggini che le permettano di relazionarsi con il reale. […] Possiamo dunque sintetizzare che, a livello pratico, serve un corpo che possa rendere le coscienze esistenti (capaci di interagire con il mondo); che tale corpo dovrebbe essere il più possibile autonomo (non dipendente da altri individui, pena il rischio di perdere la propria esistenza […]); e che, cognitivamente, potremmo avere difficoltà ad accettare l’esistenza di un altro Io virtuale se prima non abbiamo fatto esperienza della sua realtà corporale. La nostalgia, però, sembra un problema identitario ancor più radicale, scalfito in parte dal problema cognitivo appena accennato. Tutti, ma proprio tutti i casi citati negli episodi di Black Mirror, hanno bisogno di vedersi come corpi, poiché il corpo è legato alla concezione di esistenza […] Il corpo non è solo il mezzo per agire, ma è componente essenziale (alla nostra mente) per pensarsi esistenti. Risulta difficile, se non impossibile, ad ognuno provare ad immaginarsi senza corpo. Non riusciamo in alcun modo a pensarci come semplici voci nel nulla. Sembra impossibile quindi giungere alla completa trascendenza dal corpo senza perdere con essa l’identità (se non anche l’esistenza): non c’è una liberazione dal corpo prigione (come sosteneva Platone) che possa configurarsi come esistenza migliore. Non per ciò che abbiamo esperito. Esiste però una differenza tra il bisogno di un corpo e la dinamica identitaria ad esso connessa» (pp. 49-52) .

Continuare a parlare di mente e corpo, come di due entità separate, è quantomeno fuorviante, se non scorretto, sostengono Lammoglia e Pastorino, «meglio sarebbe parlare di persona, la cui identità, radicata nella sua essenza, è costruita (e dipendente) sia dall’aspetto razionale che da quello fisico e materiale. Mente e corpo non sono quindi due parti scisse ma due dimensioni correlate, assolutamente reciproche, e continuamente influenzate l’una dall’altra di ogni persona. Sembra che Black Mirror voglia essere sì profeta, ma di tipo apocalittico, del transumanesimo. Nella notte di questa fede cieca del terzo millennio, la profezia mette le macchine davanti allo specchio chiedendo che si riconoscano, mette i progettisti a sedere chiedendo loro quale bioetica per il futuro e, non ottenendo risposta, prova a mostrare conseguenze non preventivate» (p. 53).

Insomma, a questa partita che l’essere umano si ostina a giocare, la morte vince sempre. Forget about it!


Fausto Lammoglia – Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, Milano-Udine, 2019, € pp. 170, € 18,00

Mario Tirino – Antonio Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, Roma, 2018, pp. 280, € 19,70

Serie completa di “Nemico (e) immaginario


  1. A. C. Scalamonti, La camera verde. Il cinema e la morte, Ipermedium 2003 

  2. M. Tirino – A. Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, 2018 

  3. F. Lammoglia – S. Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, 2019, p. 29 

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Nemico (e) immaginario. Il senso dell’esistenza davanti allo specchio nero https://www.carmillaonline.com/2019/04/12/nemico-e-immaginario-il-senso-dellesistenza-davanti-allo-specchio-nero/ Thu, 11 Apr 2019 22:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51942 di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo al fine di comprendere, ricostruire, interpretare e prendere posizione, magari condividendo con altri spettatori ipotesi, anticipazioni, riscritture ed ampliamenti del testo originario. Con “complex TV” si fa riferimento proprio a questo tipo di produzioni televisive che incorporano al proprio interno la complessità, tanto a livello di narrazione che di fruizione. Black Mirror appartiene sicuramente a questo genere di programmi ma lo fa con alcune sue peculiarità che, secondo il recente volume di Fausto Lammoglia e Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche (Mimesis, 2019), rendono la serie una narrazione filosofica che si impone agli spettatori come una domanda di senso.

Lo schema narrativo di molte serie televisive si articola su più livelli: l’episodio, che tende a concentrarsi sugli aspetti di uno specifico evento o di un personaggio; la stagione, che conclude un determinato aspetto affrontato; la serie nella sua interezza, a cui spetta il compito di trasmettere il significato profondo dell’intera produzione. In Black Mirror, invece, il susseguirsi degli episodi non è finalizzato alla costruzione di una storia ma alla creazione di un mondo. Le diverse e, salvo rare occasioni, slegate puntate della serie contribuiscono a creare un’atmosfera generale, un continuum di esperienze accomunate da una visione del mondo, da universo tecnologico simile e da alcuni fatti che si legano tra loro soltanto attraverso piccoli dettagli, richiamanti altri episodi, disseminati discretamente dagli autori.

La serie è caratterizzata, oltre che da un evidente apparato allegorico (diversi significati sono veicolati attraverso le colonne sonore ed i nomi), anche dal ripetuto suggerire allo spettatore di non fidarsi delle apparenze ed a differenza di quanto accade con i colpi di scena cinematografici classici, le trasformazioni nella serie riguardano il modo di guardare le cose: ad essere rivoluzionato è il punto di vista.

Gli episodi della serie sembrano ambientati in un “domani tecnologico” di cui, sostengono Lammoglia e Pastorino, non viene tanto criticata la tecnologia, quanto piuttosto l’uso che di essa viene fatto, inoltre si tratta di un domani caratterizzato da una sorta di contrapposizione tra “futuristico” e “vintage”. «Tutta la tecnologia o le parti di realtà che non costituiscono una novità vera e propria sono rappresentate nella serie come strumenti superati, stracci vecchi che andrebbero buttati o cambiati ma, al contempo, rimangono sempre attuali, poiché la ricerca si spinge verso la novità assoluta lasciando da parte l’innovazione e miglioramenti» (p. 18).

L’analisi di Black Mirror proposta dal libro è votata a riconoscere il potenziale filosofico della sua narrazione privilegiando quattro direttive a cui sono dedicati altrettanti capitoli: il primo, Commemorare, affronta la questione della “memoria aumentata” grazie alla tecnologia e quella che potrebbe sconfiggere la morte; il secondo, Giudicare, è dedicato all’impatto che ogni parola può avere una volta raggiunta la dimensione pubblica del social(e); il terzo, Esprimere, si occupa delle modalità di comunicazione interpersonale mediatizzata; il quarto, Controllare, affronta la pervasività dello Stato tecnologico e l’ossessione del comando sul “reale”.

Secondo gli autori è possibile leggere l’intera serie come grido di dolore contro la mancanza di significato della vita in un mondo post-umano, immerso nei social. Diversi protagonisti sembrano «dei moderni Amleto costretti a confrontarsi con il dubbio ontologico tra essere e non essere, tra l’esistenza faticosa, dolorosa ma finalizzata alla pienezza di significato e la non esistenza, la resa che sembra possa portare alla tranquillità attraverso l’inazione […] Questo bisogno di senso si cala nella realtà attraverso due riflessioni ulteriori inerenti l’autenticità del significato. Da un lato il significato profondo dipende dall’immersione della vita nel tempo; dall’altro, il rischio è perseguire uno scopo strumentale perdendo di vista il vero fine della propria azione» (pp. 191-192)

Lasciare, alla fine di ogni episodio, chi lo ha seguito davanti allo schermo che si spegne, lo specchio nero, pone lo spettatore davanti alla sua immagine invitandolo ad interrogarsi circa il significato profondo della sua esistenza. Ma la serie, suggeriscono gli autori del saggio, «come ogni altra narrazione filosofica, non è fatta per restare nel campo dell’astratto ma trova la sua ragion d’essere nel mondo. Non basta capire, perché lo scopo è sempre e comunque l’azione, la praxis. Contemplare la realtà, conoscere se stessi, individuare le falle del sistema sono i passi propedeutici ad una ricaduta concreta nel reale che avvenga tramite l’azione diretta del soggetto il quale dovrà impegnarsi in ogni modo perché la realtà che lo circonda sia adatta, sia vivibile, diventando il campo in cui realizzare il significato profondo del suo Sé. Al contrario, se il soggetto resterà spettatore, seduto sul divano e volto all’inedia, ogni significato che assumerà la sua vita dipenderà da altro o da altri fuori di lui. La potenza della narrazione di Black Mirror è questa, in fondo. Chiede al soggetto di tramutare la sua essenza di spettatore per trasformarlo in attore» (p. 196).

Attraversare lo specchio, sottolineano Lammoglia e Pastorino, «significa allora abbandonare l’esteriorità di una teoresi sterile e ordinata per abbracciare la realtà dell’esperienza vissuta di fronte allo svolgersi degli eventi, darle una forma e agirla in una pratica in cui sia possibile riconoscere noi stessi. Perché se anche lo specchio nero può funzionare come una mirror box in cui le nostre convinzioni falsate vengono corrette da una visione attiva, è solo la prassi del pensiero, in ogni sua dimensione, a permetterci di nuotare nell’abisso che siamo. Ogni volta di nuovo» (p. 203).


Serie completa di “Nemico (e) immaginario”

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