valore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 06 May 2024 08:00:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Fare come in Francia? https://www.carmillaonline.com/2023/03/25/fare-come-in-francia/ Sat, 25 Mar 2023 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76612 di Sandro Moiso

La prima conseguenza del rinnovato accordo tra Italia e Francia, unico trofeo che la premier Meloni può vantare dopo i colloqui con Macron e la fine del vertice europeo conclusosi il 23 marzo, è stata quella di veder scaramanticamente cancellato dalle prime pagine dei quotidiani e dai telegiornali, di ogni tendenza politica e appartenenza, qualsiasi riferimento alle agitazioni che stanno scuotendo la Francia con milioni di manifestanti nelle strade. Eppure, anche all’occhio meno accorto o critico, non può non essere evidente il fatto che la carta geo-politica di ciò [...]]]> di Sandro Moiso

La prima conseguenza del rinnovato accordo tra Italia e Francia, unico trofeo che la premier Meloni può vantare dopo i colloqui con Macron e la fine del vertice europeo conclusosi il 23 marzo, è stata quella di veder scaramanticamente cancellato dalle prime pagine dei quotidiani e dai telegiornali, di ogni tendenza politica e appartenenza, qualsiasi riferimento alle agitazioni che stanno scuotendo la Francia con milioni di manifestanti nelle strade. Eppure, anche all’occhio meno accorto o critico, non può non essere evidente il fatto che la carta geo-politica di ciò che avrebbe dovuto essere l’Unione europea si caratterizza ormai per tre grandi aree di crisi che la percorrono tutta, da Est a Ovest.

Ai confini orientali la guerra in Ucraina, con i suoi possibili sbocchi mondiali che già spaventano alcune élite europee e le spingono a correre a Pechino a chiedere che il presidente Xi Jinping si affretti a impostare una reale proposta di tregua (in barba al diniego esibito nei confronti di tale ipotesi dal presidente Biden e dagli imperialisti pezzenti del Regno Unito).

Nel cuore del continente la crisi bancaria, che è sbarcata dagli Stati Uniti coinvolgendo due delle più importanti banche europee, Credit Suisse, morta in un battibaleno e sostanzialmente assorbita da UBS per un valore impensabile fino a qualche settimana fa, e Deutsche Bank che, ancora una volta, traballa sulla sua “pancia” piena di titoli spazzatura, subprime e derivati, ma “povera” di liquidità.

Nella parte occidentale e atlantica la rivolta sociale francese che si allarga sempre più, di cui la riforma autoritaria delle pensioni è stato soltanto il fattore scatenante di una crisi economica e sociale che covava sotto le ceneri, imposte dai due anni di provvedimenti liberticidi sventolati come necessari per la salvaguardia della salute pubblica, fin dai tempi dei gilets jaunes e, ancor prima, delle rivolte delle banlieue.

Un’autentica tempesta perfetta che testimonia come lo stato di salute del capitalismo occidentale e del suo modus vivendi sia tutt’altro che buono, così come quello dell’ambiente che ha colonizzato senza pietà e senza riguardo per il futuro della specie, proprio a partire del continente europeo.

Come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, la crisi economica, la guerra, la crisi ambientale e l’impoverimento di ampi settori sociali, un tempo magari rientranti nelle fila della classe media, indicano che il modo di produzione basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e del capitale sull’ambiente sta volgendo al termine nel più drammatico dei modi.

La Francia e i moti che sempre più la percorrono sembra indicare, contemporaneamente, tutte e due le strade che la società derivata dall’attuale distruttivo modo di produzione può imboccare nell’affrontare la drammaticità del momento storico dato.

Da un lato l’autoritarismo governativo che, come da anni si va ripetendo su questa pagine e in altri contesti1, nulla concede e nulla può più concedere sia alle richieste più elementari provenienti dal basso che a qualsiasi ipotesi riformistica destinata a migliorare le condizioni dei servizi sanitari, pensionistici2, scolastici, lavorative e salariali in un contesto in cui la concorrenza per la spartizione del plusvalore complessivamente prodotto si è fatta mondiale, con competitor giovani, scaltri e del tutto intenzionati a scalzare il primato “occidentale” nell’accaparramento delle ricchezze delle risorse.

Un autoritarismo che si maschera dietro le formulazioni generiche di difesa di improbabili transizioni green o di diritti liberali che poco incidono sulla concreta vita materiale di milioni di cittadini di ogni sesso, appartenenza etnica e sociale (purché medio-bassa), tutti destinati soltanto ad essere sempre più sfruttati in ogni ambito lavorativo (in cui ormai occorre inserire tutta l’economia falsamente definita illegale, collegata al mercato del sesso e degli stupefacenti) oppure come carne da cannone nella guerra che, proseguendo su questa strada, certamente verrà.

La scelta di Macron sull’imposizione dei due anni di aumento dell’età pensionabile dei lavoratori francesi, infatti, non è nemmeno una scelta. E’ una decisione imposta dal voler mantenere l’attuale assetto sociale e politico, di cui la democrazia parlamentare non è altro che un orpello. Un gioiello fatale con cui l’ideologia dominante è riuscita ad ammaliare lavoratori, giovani, donne e proletari di ogni tipo (sottoproletariato incluso) finché, almeno in Occidente, alcune riforme potevano essere finanziate con il plusvalore estorto ai lavoratori sottopagati di altri angoli del pianeta.

Ora il plusvalore colà estratto rimane in gran parte, o del tutto, nelle tasche di altri imprenditori, di altre borghesie che, oltre a rimpinguare i propri profitti e investimenti, preferiscono ridistribuirne una parte in casa soltanto per migliorare e ampliare anche il proprio mercato interno, oltre che per placare, almeno in parte, i segni di conflittualità di classe che si manifestano nelle fabbriche e nei settori produttivi dislocati a casa loro.

Paradossalmente l’accumulo di ricchezze in numero di mani sempre più ridotto, infatti, più che segnalare che la produzione mondiale sia in aumento (dato ancora tutto da verificare), indica che il valore prodotto è, rispetto agli investimenti necessari, sostanzialmente diminuito, soprattutto in Occidente e nelle aree ad esso direttamente collegate.

In questo senso la crisi di SVB (Silicon Valley Bank), più che ricordare i rischi connessi allo scarso controllo esercitato sulle banche dallo Stato (quasi come se questo fosse davvero uno strumento neutro e imparziale nella gestione della ricchezza e della società), rappresenta un po’ la fine del sogno delle start up, degli investimenti spericolati legati più alle promesse che ai risultati effettivi, di cui Elon Musk è stato il gran maestro. Forse ancor più dei pionieri come Billa Gates, Steve Jobs, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg che, arrivati per primi sul mercato delle nuove tecnologie e delle promesse ad esse collegate, si vedono oggi comunque costretti a licenziare complessivamente centinaia di migliaia di dipendenti (fatto che potrebbe avere conseguenze deflagranti anche sul prossimo voto presidenziale americano).

Finanza, rete, piattaforme e computer insieme hanno contribuito a velocizzare lo spostamento delle ricchezze, a intorbidire le idee e le battaglie e a confondere i singoli individui trascinati nel vortice della velocità della comunicazione e della disinformazione organizzata (spesso ufficiale, ancor prima che “artigianale”). Ma non hanno contribuito a produrre autentico “valore”, semmai l’illusione del valore di qualcosa che non esiste. E in questo senso l’unico vero proletariato, al di là delle balzane teorizzazioni degli ultimi trenta o quarant’anni, collegato al settore è stato quello direttamente coinvolto nella produzione manuale di apparecchi elettronici e della componentistica ad essi collegata (programmi compresi) .

La crisi di SVB ci conferma tutto questo3, ma ci annuncia anche la fine di un sogno: produrre valore e ricchezza senza passare dal lavoro manuale, senza produrre alcunché di materiale, sostanzialmente, come è successo in molti casi e in particolare in quello di Musk, vendendo fuffa e muffa ideologica.
Infine riporta alla luce il “paradosso di Solow”, economista statunitense che aveva ricevuto il premio Nobel nel 1987 per i suoi contributi alla teoria della crescita economica, in cui si sosteneva che «i computer si vedono ovunque, tranne che nell’aumento di produttività»4.

Certo oggi l’industria del riarmo, verso cui tutti i maggiori stati si stanno orientando, sembra promettere, in una prospettiva neppur troppo lunga, maggiori e più solidi guadagni, insieme ai titoli di stato necessari per finanziarla, e così la “concretezza” della materia militare, in tutti i sensi, riprende il sopravvento sulla leggerezza della già invecchiata new economy caratterizzata dalla produzione “immateriale”. E questo no va separato da ciò che il presidente francese ha fatto a proposito di riforma delle pensioni.

Nel gioco degli equilibri economici dello Stato, la recente promessa macroniana di giungere ad un investimento di 200 miliardi di euro per il rinnovo degli equipaggiamenti delle forze armate e della loro riorganizzazione in chiave più moderna, accompagnata da un accenno alla possibile reintroduzione della leva obbligatoria, non può preveder un costo zero. Costo che, naturalmente, è destinato fin da oggi, e come sempre, a ricadere integralmente sulle spalle dei contribuenti, dei lavoratori, dei giovani, delle donne e di chi vive al margine tra disoccupazione e “lavoro illegale”. Rendendo impossibile al “Mario Antonietto” di turno anche la semplice offerta di brioches per placare l’ira dei cittadini.

Ecco, allora, che, sì, per l’opposizione di classe occorre fare come in Francia.
La lotta sociale diffusa, testarda, ad oltranza e senza sconti per gli avversari è l’unica forma di lotta che il capitalismo attuale ci obbliga ad esercitare. Sia per le rivendicazioni sociali che per l’opposizione ai sacrifici che già ci vengono imposti per la guerra. Approfittiamone, dimostrando così che lotta contro il capitale e i suoi funzionari e contro la guerra sono, nella sostanza, la stessa cosa5, poiché ogni lotta sociale di queste dimensioni mette per forza di cosa in discussione e in crisi l’iniziativa del capitale. Fosse anche, per l’appunto, la guerra.

Le condizioni materiali di esistenza e non le idee; i rapporti tra le classi e non i discorsi politically correct segnano il cammino della Storia e delle rivoluzioni. Oggi possiamo trovarci sull’orlo di un baratro (guerra mondiale generalizzata) oppure di un nuovo domani tutto da inventare. I compagni e le compagne francesi, ancorché inconsapevoli, sono già costretti a porsi il problema (qui) sotto l’urgenza del divenire e dell’azione collettiva. Facciamo sì che quella francese diventi la nuova epidemia destinata a sconvolgere l’ordine europeo del capitale.


  1. S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  2. Va qui ricordato che proprio intorno al discorso sul costo della spesa per le pensioni si realizzò nel 2011, qui nella democratica Italia, una sorta di autentico colpo di Stato tecnocratico per mezzo del governo Monti, all’epoca incensato dalla Sinistra in chiave anti-berlusconiana, e la cosiddetta riforma Fornero.  

  3. “Apple, Microsoft, Amazone Web Services (branca di Amazon legata allo sviluppo del Cloud, dei micro servizi software e dell’internet delle cose, che fornisce alla intera multinazionale percentuali di utile netto decisamente superiore di quello derivante dal colossale fatturato della parte logistica e dell’e-commerce), Google, Oracle, Salesforce, IBM, ed Intel – in sostanza quasi tutte le big corporate strategiche della new digital economy – sono agli inizi di una crisi profonda.
    Prima del fallimento della Silicon Valley Bank, tutte queste grosse multinazionali ad inizio 2023 hanno avviato una massiccia ristrutturazione fatta di licenziamenti di massa nei loro settori chiave della ricerca e sviluppo, come già avevano preannunciato nel corso del passato autunno. Una operazione che impatterà 120 mila posti di lavoro in California appunto nel settore informatico, dell’internet delle cose, nel Cloud computing e nella ricerca software e digitale. Amazon (nel settore AWS), Google, Microsoft, Salesforce, stanno eseguendo licenziamenti pari al 15% della forza lavoro, Apple al momento sta tagliando tutte le forniture di subappalto con software house terze parti e l’aria che tira che questo non basterà a salvare i lavoratori diretti. Twitter appena acquistata da Elon Musk subirà un ridimensionamento pari al 50% della forza lavoro impiegata. Intel si trova immediatamente costretta a tagliare rispettivamente le compensation dei manager ed i salari dei dipendenti rispettivamente del 15%, del 10% per i quadri e del 5% per gli altri tecnici informatici, mentre annuncia i primi esuberi al momento contenuti.
    Che probabilità di successo avranno le cosiddette Startup della new economy e della tecnologie che da questa catena dipendono? Che prospettive di valorizzazione potevano avere quei capitali depositati e per le operazioni di finanziamento nella fu Silicon Valley Bank?” qui  

  4. L’autore del presente articolo deve questa osservazione ad Alberto Airoldi e al suo romanzo Sugar Mountain. Il brusco risveglio, Casa Editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, p.29  

  5. Per questo motivo, alcuni commentatori della stampa italiana dovrebbero forse, e per vantaggio della loro stessa causa, esimersi dall’esprimere in prima pagina idee superficiali e riduttive come questa: “Proprio Macron, ieri, ha spiegato la differenza tra populismo e politica: la sovranità appartiene al popolo elettore, non al popolo in tumulto. Il populismo si mette dietro al popolo in tumulto, il politico si mette davanti al popolo elettore, là dove è stato messo dal popolo sovrano”, M. Feltri, Mario Antonietto, «La Stampa», 23 marzo 2023. Tra l’altro straordinariamente in linea con quanto espresso dall’ormai vieux, più che nouveau, philosophe Bernard Henri-Lévy in un suo articolo su «Repubblica», del 25 marzo, dall’allarmistico titolo: Una protesta giusta sfociata in violenza: la Francia rischia l’autodistruzione.  

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Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx https://www.carmillaonline.com/2020/09/26/genere-e-capitale-per-una-lettura-femminista-di-marx/ Sat, 26 Sep 2020 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62837 di Silvia Federici

«La rivoluzione comincia nella casa e parla il linguaggio della lotta delle donne» Silvia Federici

[A partire dalle rivendicazioni degli anni Settanta del secolo scorso per il “salario al lavoro domestico”, Silvia Federici, nel volume Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi, 2020), rapporta il pensiero di Marx con l’ottica femminista. Passando per la critica della concezione di un soggetto universale della storia e seguendo le tracce della produzione di valore, ricchezza e sfruttamento nella sfera della riproduzione, Federici intende individuare nel femminismo contemporaneo gli strumenti per [...]]]> di Silvia Federici

«La rivoluzione comincia nella casa e parla il linguaggio della lotta delle donne» Silvia Federici

[A partire dalle rivendicazioni degli anni Settanta del secolo scorso per il “salario al lavoro domestico”, Silvia Federici, nel volume Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi, 2020), rapporta il pensiero di Marx con l’ottica femminista. Passando per la critica della concezione di un soggetto universale della storia e seguendo le tracce della produzione di valore, ricchezza e sfruttamento nella sfera della riproduzione, Federici intende individuare nel femminismo contemporaneo gli strumenti per l’emancipazione dell’intera umanità. Pubblichiamo di seguito un assaggio del volume ringraziando l’editore per la gentile concessione – ght]

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente si è occupata dei processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo. Tra le pubblicazioni di Silvia Federici in lingua italiana si segnalano: Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (Ombre Corte, 2014) e Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis, 2015). Su Carmilla è possibile leggere la Prefazione a quest’ultimo volume.

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Che senso ha oggi interrogarsi sul rapporto tra femminismo e marxismo? La domanda è legittima considerando l’abbondante letteratura che già esiste su questo tema e che è destinata a crescere, dato il rinnovato interesse da parte di una nuova generazione di «femministe socialiste» per questo rapporto. Tuttavia, come ha osservato Shahrzad Mojab nell’introduzione a Marxism and Feminism (2015), il problema del rapporto tra questi due movimenti teorico-politici è tuttora irrisolto. Come ribadisco nei saggi raccolti in questo volume, persiste nel marxismo l’incapacità di distanziarsi da quegli aspetti dello schema teorico marxiano che si sono rivelati incompatibili con il progetto di liberazione dell’umanità dalla povertà e dallo sfruttamento: una tendenza allo statalismo, il culto della tecnologia e dell’industria, una concezione strumentale della natura, la sottovalutazione dell’importanza del lavoro di riproduzione e degli effetti disastrosi del sessismo e del razzismo.

D’altra parte, l’articolazione di una visione femminista anticapitalista fatica a imporsi, nonostante la crescita di tale esigenza tra i nuovi movimenti femministi che stanno emergendo in gran parte del pianeta. Per affrontare questa problematica, per riflettere sul rapporto tra femminismo e marxismo, ho raccolto in questo volume alcuni materiali scritti negli anni Settanta e altri che risalgono a tempi più recenti. Ciascuno rappresenta un momento nello sviluppo di un discorso femminista su Marx e al tempo stesso un tentativo di rispondere alla domanda implicitamente posta da Mojab. Assolvere a questo compito vuol dire innanzitutto interrogarsi su una serie di tematiche che sono state al centro della critica femminista a Marx. Prima tra queste la questione del lavoro come strumento per la produzione della ricchezza sociale e oggetto di contrattazione operaia e pianificazione istituzionale.

Che cosa ha permesso a Marx e ai suoi epigoni di pensare il lavoro solo o principalmente come produzione industriale e rapporto salariato? Perché Marx ha ignorato nella sua analisi del capitalismo le stesse attività che quotidianamente riproducono la vita umana e la nostra capacità lavorativa? Come discuto nei saggi che compongono il volume, è qui, intorno al nodo della definizione di lavoro, che una prospettiva femminista si dimostra imprescindibile poiché capace di rendere visibile un mondo di relazioni essenziali alla nostra vita e irriducibili alla meccanizzazione, che il marxismo non ha mai sfiorato.

Ripensare femminismo e marxismo significa anche porre al centro della «lotta di classe» la problematica delle divisioni costruite dal capitalismo all’interno della «classe» – soprattutto attraverso la discriminazione razziale e sessuale – un tema quasi completamente assente in Marx. Come sappiamo, Marx ha denunciato sia i rapporti patriarcali che il razzismo, non solo nei suoi scritti ma anche nei suoi interventi all’Internazionale. Tuttavia manca nell’opera di Marx un’attenzione alla funzione delle gerarchie del lavoro costruite in base al genere e alla razza, nella storia dello sviluppo capitalistico. Manca una riflessione sul ruolo del sessismo e del razzismo come elementi strutturali dell’organizzazione del lavoro e della produzione nella società del capitale.

Eppure non possiamo ignorare che è proprio a causa di queste divisioni, e per la capacità da parte dei governi e del capitale di mobilitare settori del proletariato come strumenti di una politica razzista e per la repressione delle lotte sociali, che il capitalismo ha potuto riprodursi fino a nostri giorni, e questo nonostante, per Marx, l’estensione globale dei rapporti capitalisti sia l’elemento unificante del proletariato mondiale.

È stato affermato che la discriminazione in base al genere e alla razza è da considerarsi un fattore contingente nella storia del capitalismo e non una sua necessità logica (Harvey 2015). Ma ciò significherebbe considerare il capitalismo in termini astratti, come un sistema che cresce su se stesso senza confrontarsi con la resistenza delle forze sociali che, pur nella subordinazione, conservano una propria autonomia. Invece, tutta la storia dello sviluppo capitalistico fino ai nostri giorni, testimonia il suo carattere strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Da qui la denuncia, sempre più articolata, da parte di movimenti antirazzisti e anticoloniali, del marxismo come teoria e politica Eurocentrica, incapace di esprimere i bisogni che sorgono dalle lotte di quanti si riproducono con lavori informali, non rimunerati, a basso livello tecnologico, in condizioni di totale precarizzazione, e tuttavia costituiscono la maggioranza della popolazione del pianeta.

Non ultimo, ripensare Marx in un’ottica femminista e antirazzista significa contestare l’assunto tipico del movimento socialista circa il ruolo emancipatorio dell’industrializzazione, a cui spesso Marx affida il compito di rivoluzionare i rapporti sociali e costruire le basi materiali del comunismo. Come ho diffusamente scritto, Marx sembra dimenticare che la maggior parte del lavoro che si compie anche nei paesi più tecnologicamente avanzati è irriducibile alla meccanizzazione. Nonostante i tentativi di produrre robots capaci di sopperire alla cura di anziani, bambini e infermi, l’industrializzazione del lavoro di riproduzione domestico appare sempre più un obbiettivo irraggiungibile e indesiderabile.

Si deve aggiungere che privilegiando lo sviluppo della produzione industriale come condizione essenziale, a livello planetario, di un’economia basata sulla giustizia sociale e l’abbondanza, inevitabilmente Marx, e con lui il marxismo in tutte le sue forme, ha sottovalutato la distruzione ambientale prodotta dall’industria, specialmente con l’espansione della chimica e della produzione digitale. Si dirà che Marx non poteva prevedere i mari soffocati dalla plastica, la morte delle barriere coralline o la contaminazione dei fiumi frutto dell’industrializzazione dell’agricoltura e degli scarichi industriali. Non poteva immaginare incendi tanto estesi da mettere in pericolo le città, come si stanno verificando in Australia e in California mentre scrivo queste pagine. Eppure, la certezza con cui egli guarda a un futuro in cui l’umanità potrà dominare la natura grazie all’industria su larga scala, e plasmarla per il bene comune, oggi non può che apparire cieca e arrogante.

Tuttavia, muovere queste critiche a Marx non significa disconoscere l’importanza storica del metodo marxiano e dell’analisi dell’organizzazione capitalistico del lavoro che ci ha consegnato. Significa piuttosto riconoscere che ha sottovalutato la capacità distruttiva dello sviluppo capitalistico, tanto da identificare la stessa produzione industriale che oggi distrugge il nostro pianeta e divora gli organismi viventi che lo popolano, come un fattore fondamentale della liberazione dell’umanità. Qui si pone l’importanza del femminismo. Mettere in crisi il capitalismo non è sufficiente. È essenziale non riprodurre le ingiustizie e le diseguaglianze contro cui abbiamo lottato. In questo senso, un femminismo anticapitalista determinato a «mettere la vita al centro» della politica sociale – come vuole il femminismo popolare che sta sorgendo in varie parti d’Europa e soprattutto in America Latina – ci sembra il modo più idoneo per realizzare il «seme rivoluzionario» del marxismo.

 

 

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Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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Ragazzi selvaggi affacciati alle finestre di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2018/08/01/ragazzi-selvaggi-affacciati-alle-finestre-di-un-altro-mondo/ Wed, 01 Aug 2018 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47670 di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce Il ventunesimo secolo inizia qui. Fuori dall’Occidente alla velocità della luce Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che [...]]]> di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra
Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce
Il ventunesimo secolo inizia qui.
Fuori dall’Occidente alla velocità della luce
Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio
Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che ho da dire
Questa è la fine di tutto ciò che è usuale
E questi saranno tempi in cui i mondi entreranno in collisione

Realizzate tutto ciò di fronte al Caos
In un universo indifferente e selvaggio».

Credo che siano davvero le parole più adatte per celebrare le decine di migliaia di persone che si sono raccolte, forse sarebbe meglio dire si sono polarizzate, intorno alla lotta No Tav della Val di Susa, ai suoi militanti, alle sue ragioni, al suo saper guardare al futuro.
Se il più ostile Tg regionale del Piemonte ha parlato di almeno 50.000 partecipanti, credo, senza timore di esagerare, che anche gli organizzatori possano confermare una simile cifra nell’enumerare tutti coloro che sono stati attratti magneticamente dall’area del Festival durante le quattro, meravigliose giornate.

Cinquantamila persone costituite al 90% da giovani compresi tra i sedici e i trent’anni. Ragazzi selvaggi non per i modi, ma per essersi lasciati trasportare dall’istinto, dall’amore per la libertà individuale e collettiva e dalla passione per un mondo diverso e altro. Per aver saputo costituire, massicciamente e senza alcun problema, una nuova comunità umana fatta di gentilezza, riso, felicità, lotta e rifiuto del modello esistenziale dominante.

Mentre i media e tutti i giornali mainstream, compreso il sempre più soporifero e inutile Manifesto, hanno dedicato all’evento poche righe, senza mai saperne cogliere la rilevanza oppure negandola per paura che di questa si accorgano altri milioni di giovani, italiani e stranieri esattamente come quelli che hanno popolato l’iniziativa e il suo disordinato, coloratissimo e vastissimo campeggio, i partecipanti, con la sola loro presenza, hanno saputo dire di NO al mondo dei grandi progetti, del capitale finanziario, delle mafie e camarille politiche, soprattutto di quelle che ancora si fingono di “sinistra”.

Ma il Re è nudo, e sarà inutile chiedersi ancora a “sinistra” dove sono i giovani: sono da un’altra parte, sulla frontiera delle lotte e dei cambiamenti magmatici che già si delineano all’orizzonte.
Sono ragazze e ragazzi bellissimi, detentori e portatori di un nuovo canone estetico e di nuovi desideri che, allo stesso tempo, sono coraggiosi, ingenui e maturi come tutti gli altri che li hanno preceduti nel tempo sullo stesso campo di battagli.

Sono giovani ragazzi selvaggi come quelli descritti decenni or sono da William Burroughs, il cui fantasma, in un ambiente off limits per le forze del disordine, vegliava sul tutto al bivio per Venaus sulla strada del Moncenisio, seduto come sempre con il suo fucile messo di traverso sulle ginocchia. Da lì la polizia e i carabinieri non potevano passare.

Nemmeno dopo la manifestazione, formata da migliaia di persone, che aveva raggiunto il cantiere fasullo e truffaldino come tutta l’opera, in Val Clarea, nonostante la pioggia e i soliti blocchi posti lungo il suo percorso.
Stop ai lavori! Si sente già nell’aria odore di vittoria mentre allo stesso tempo i fantasmi e gli schiavi del Capitale, come servitori traditi ed abbandonati, cercano di portare ancora le loro ragioni meschine e mefitiche sugli schermi delle tv e su pagine di giornali ormai destinate ad essere stracciate dal vento della rivolta e della gioia di vivere.

Non saranno infatti i tweet del ministro Toninelli a chiudere l’opera: lo hanno già fatto una lotta più che ventennale e una mobilitazione che cresce ogni anno di più, mentre in maniera inversamente proporzionale scendono le ragioni e le possibilità di realizzazione di una linea ad alta velocità nata morta. Come il congelamento da parte della società TELT di un bando internazionale per l’appalto di lavori per un valore di 2,3 miliardi di euro ha dimostrato proprio nei giorni seguenti la manifestazione.

Manifestazione in cui la parte musicale serale ha costituito soltanto uno degli aspetti, durante la quale, sia dal palco che nelle interviste rilasciate nel backstage, molti artisti si sono apertamente schierati sia a fianco della lotta NoTav che di quella NoTap. Mentre durante il giorno presentazioni di libri ed autori si affiancavano a dibattiti, con militanti italiani e stranieri, sulle trasformazioni del lavoro, sulla questione dei migranti, sulla fine del Novecento “politico” e sulla fine di un paradigma partitico di rappresentanza di cui soltanto da qualche tempo si è iniziata comprendere l’importanza e l’impatto sulle lotte reali e sulle loro forme organizzative.

Dibattiti in cui si è parlato di repressione, autodifesa e trasformazione del Diritto. Di continuità tra Fascismo e Repubblica, smantellando il paradigma istituzionale falsamente democratico e antifascista.
Della Palestina e dell’indipendentismo catalano e, ancora, della magnifica e vittoriosa esperienza della ZAD di Notre Dame des Landes così come delle lotte francesi contro la loi travail e dei cortei di testa a cui hanno dato vita migliaia di manifestanti di ogni età e appartenenza sociale.

Si è parlato del Rojava e dello straordinario esperimento comunitario delle sue genti e si è parlato di ambiente, di natura e dei costi di realizzazione di uno dei tanti mostri tecnologico-speculativi proposti da un modo di produzione fatiscente e giunto ormai al proprio promontorio tra i secoli. Dibattiti e presentazioni, gite e passeggiate in cui la presenza è sempre stata alta e motivata.

Anche se, per ora, ci si è solo affacciati alle finestre di un altro mondo, già si sente nell’aria l’annuncio:
Genti della Terra
Una nuova stagione è iniziata
La creatività e l’immaginazione trionferanno sul lavoro morto
e sul valore feticcio estorto con la forza dalla fatica di milioni di individui.
Così da dare vita ad un mondo senza barriere etniche, di classe, genere e senza confini tracciati da nazioni ed imperi ormai condannati alla polvere dei secoli, come tutti i loro predecessori.
In cui la Vita possa finalmente trionfare sulla Morte, i suoi servi e i loro miserabili feticci.

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IT, cioè il Capitale https://www.carmillaonline.com/2017/10/24/it-cioe-il-capitale/ Mon, 23 Oct 2017 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41296 di Luca Cangianti

È il giugno del 1989, i muri di Derry si riempiono di manifestini che denunciano la scomparsa di molte persone, spesso bambini. Alcuni di questi (un balbuziente, un obeso, un ebreo, un afroamericano, una ragazza molestata dal padre, un ragazzo ossessionato dalle malattie e uno che porta dei pesanti occhiali da vista) sono gli unici a capire quanto d’orribile stia per accadere. La nuova trasposizione cinematografica del romanzo di Stephen King, diretta da Andrés Muschietti, riesce ad affrontare con successo il compito titanico di condensare in poco più di un [...]]]> di Luca Cangianti

È il giugno del 1989, i muri di Derry si riempiono di manifestini che denunciano la scomparsa di molte persone, spesso bambini. Alcuni di questi (un balbuziente, un obeso, un ebreo, un afroamericano, una ragazza molestata dal padre, un ragazzo ossessionato dalle malattie e uno che porta dei pesanti occhiali da vista) sono gli unici a capire quanto d’orribile stia per accadere.
La nuova trasposizione cinematografica del romanzo di Stephen King, diretta da Andrés Muschietti, riesce ad affrontare con successo il compito titanico di condensare in poco più di un paio d’ore la complessità narrativa del libro, rispettandone l’atmosfera e il focus teorico anche grazie ad alcuni intelligenti “tradimenti” del testo letterario.1 La stessa scelta di articolare la storia in due parti non lascia alcuna sensazione d’incompiutezza quando compaiono i titoli di coda della prima puntata attualmente in sala.

I temi archetipici di It sono sostanzialmente due: il Male invisibile che si nutre della nostra carne e la comunità dei deprivati capace di sconfiggerlo. Per questo motivo è possibile rintracciare delle profonde analogie con un altro libro di oltre mille pagine: il Capitale di Karl Marx.2
Derry è funestata da creature che violano le leggi di natura: si tratta di allucinazioni, ma capaci di uccidere. Nel Capitale la realtà mostruosa dello sfruttamento economico è invisibile, nascosta sotto una superficie popolata da entità quali prezzi, merci, scambio tra equivalenti, uguaglianza e democrazia. Tale mondo che dovrebbe funzionare fluidamente, tuttavia, s’inceppa ciclicamente generando crisi, guerre e nuove povertà, le cui cause sono di volta in volta spiegate in maniera accidentale dalle teorie mainstream. L’anomalia della crisi è oscurata dallo spontaneo e feticistico presentarsi delle cose nel modo di produzione capitalistico, così come il padre di Beverly (la ragazza del gruppo) non vede i fiotti di sangue che hanno completamente imbrattato le mura del bagno fuoriuscendo inspiegabilmente dal lavandino. Il residuo inesplicato lascia in vita il problema, la crisi ritorna nel capitalismo con sempre maggior violenza a distruggere ricchezza e vite umane, mentre a Derry It ricompare ogni ventisette anni, senza che questa dinamica emerga con chiarezza sulla stampa locale o nella coscienza degli abitanti. L’ecatombe ogni volta è nascosta e dimenticata: “Qui succede qualcosa”, scrive King, “ma solo in privato”; “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori” recita un cartello posto sulla soglia della porta dalla quale Marx immagina si possa accedere al “segreto laboratorio della produzione”.
Per studiare la realtà economica del capitalismo Marx disattende questa ingiunzione e scende nei sotterranei di questo modo di produzione arrivando a concettualizzare realtà invisibili come valore e plusvalore con le quali spiegare quelle visibili dei prezzi e dei profitti. Il mondo della produzione descritto nel primo libro del Capitale serve quindi a dar conto della circolazione nel terzo libro. I sei ragazzi e la ragazza del Club dei Perdenti, come si autodefiniscono, fanno qualcosa di simile: in un garage cercano di sovrapporre la mappa della città (visibile e di superficie) e quella del sistema fognario (invisibile e sotterraneo), cioè terzo e primo libro nella logica del Capitale. A Derry c’è perfino un edificio abbandonato che potrebbe avere la funzione della trasformazione dei valori in prezzi: “Quella casa era un luogo speciale, una specie di stazione, uno dei forse numerosi posti disseminati in tutta Derry che It utilizzava per i suoi trasferimenti tra mondi.”

It è poi una meravigliosa storia d’amicizia, di come essa nasca alle soglie dell’adolescenza e si sviluppi attraverso esperienze che fanno sanguinare le nostre più profonde ferite esistenziali: sentirsi colpevoli per la morte di nostro fratello, dei nostri genitori, oppure temere che nostro padre ci userà violenza. Se il Club dei Perdenti rimane unito, Pennywise, il clown3 perturbante nel quale si materializza It, può esser sconfitto. I Perdenti sono deprivati come i proletari di Marx. Solo loro possono vedere il mostro e hanno motivo di combatterlo. Le ferite che li connotano sono il punto di forza che permette loro di assumere un punto di vista privilegiato dal quale scorgere il mostro oltre l’apparenza. Si tratta di un tema sociopsicologico, dunque non trova posto sul livello altamente astratto e filosofico del Capitale. Qui dell’agency si pone in essere solo la base di mera possibilità.
L’emergere dell’eroe, cioè della soggettività antagonista capace di scorgere il mostro, di sentire una comunanza di destino e d’intraprendere un viaggio verso l’antro del Male, è qualcosa d’empirico che può (quando può) prender corpo in condizioni di vita determinate.4 Le scene che nel film accompagnano la costituzione del gruppo, la fuoriuscita dalla solitudine dei singoli individui sofferenti, l’emergere di nuova speranza nella comunità di lotta, sono toccanti e costruite con grande maestria. Dopo averle viste, provate a pensare in grande e mettete al posto di quei sei bambini e di quella ragazza appena adolescente i volti del migrante, della combattente curda, del rider, del metalmeccanico, della lavoratrice domestica, dell’indigena mapuche e dell’operatore di call center. Non è un’immagine di una bellezza lancinante?


  1. Non si può dire la stessa cosa della miniserie televisiva diretta da Tommy Lee Wallace andata in onda nel 1990. 

  2. Sulla struttura epistemologica fantahorror del Capitale cfr. qui

  3. Sulla figura del clown cfr. qui

  4. Sul rapporto tra viaggio dell’eroe in teoria della narrazione e coscienza di classe cfr. qui; la figura dell’eroe è stata affrontata su Carmilla in un ciclo di interventi di Fabio Ciabatti (quiqui), Mazzino MontinariMaurizio Marrone e Gabriele Guerra

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Nemico (e) immaginario. I living dead come prodotto di scarto del capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/nemico-immaginario-living-dead-prodotto-scarto-del-capitalismo/ Tue, 13 Sep 2016 21:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33093 di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. [...]]]> di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. 49-51).

La figura dello zombi è particolarmente efficace nel dare immagine ad uno scenario apocalittico e nonostante i morti viventi della prima generazione siano lenti nei movimenti (poi si faranno ben più dinamici), la velocità di dissoluzione del mondo da essi portata è rapidissima tanto che si può affermare che la comparsa del primo morto vivente segna la fine di tutto.

Il saggio di Ronchi offre diversi spunti di analisi interessanti a proposito dei morti viventi di cui abbiamo già esaminato altri aspetti nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“. In apertura di Down of the Dead (2004) di Zack Snyder, remake del celebre film di George Romero del 1978, viene mostrato il repentino passaggio dalla tranquillità borghese ad uno scenario catastrofico che, durante i titoli di testa, si palesa attraverso un serrato montaggio di immagini di reali rivolte urbane (comprese le immagini del G8 di Genova del 2001) intervallate da alcuni fotogrammi di fiction. Gli inserti tratti dalla realtà contribuiscono a creare nello spettatore la percezione di trovarsi davvero in un mondo sull’orlo del collasso ed è per tale motivo che diversi film zombi «si aprono ricordando allo spettatore che quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’apocalisse è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito» (p. 18).

Secondo l’autore se in molti film appartenenti al genere apocalittico epidemiologico persiste una speranza di risoluzione, nel cinema zombi appare tutto deciso sin dalla prima sequenza in cui compaiono i morto viventi: la loro comparsa palesa che la fine è già in corso. Ma attenzione, avverte lo studioso, gli zombi non sono una malattia ma il rovescio del mondo, sono la sua contraddizione in atto.

Nel film Day of the Dead (1985) di Romero viene chiaramente esplicitato come per eliminare il morto vivente sia necessario distruggergli la testa; qualsiasi altra amputazione non è sufficiente a toglierlo di mezzo. «Lo zombi non è un organismo, perché non è uno. È un simulacro di unità […] qualcosa che solo da lontano è, appunto, qualcosa, è una sostanza» (p. 24).

Nella sua versione americana, il living dead è l’altro, il nostro prossimo, che, da Romero in avanti, raggiunto da un morso di uno zombi diviene esso stesso uno zombi. «Lo zombi è l’altro che non partecipa più dell’unità, che ha perso, a causa di quel morso, ogni ‘comunità’ con me, un altro che non ha più nulla di comune pur essendo apparentemente simile a quello di prima» (p. 25).

In realtà, sostiene Ronchi, non esiste “lo zombi”, così come, invece, esiste “il vampiro”. Esistono “gli zombi”, al plurale «ma a un plurale che non ha più l’uno come unità di misura. Gli zombi sono ‘molteplicità senza uno’, massa oncologica» (pp. 25-26). Il vampiro, invece, compare al singolare, è un eroe romantico nato dal crollo del mondo feudale, si tratta dell’avanzo di uno splendore tolto di mezzo dall’età della macchina a vapore e dal trionfo della borghesia. Il vampiro non sopporta la luce perché è alla luce che ha luogo l’attività produttiva del mondo borghese. È un romantico, dicevamo, dunque un loser, un perdente. Al contrario lo zombi non è mai solo, è parte di una molteplicità informe in decomposizione. I morti viventi, inoltre, sostiene lo studioso, seppure spesso lenti nei movimenti, almeno originariamente, sono sempre in movimento, e questo dinamismo esprime il loro “non poter stare”. Non abitano il mondo né hanno luogo in esso.

Dunque, la differenza principale tra vampiro e zombi pare proprio essere di classe; il vampiro sarebbe un signore decaduto, mentre gli zombi sono degli schiavi. Una figura catapultata nella modernità borghese la prima, una figura costretta alla servitù la seconda. Gli zombi, sottolinea l’autore, nascono lavoratori, «sono schiavi neri probabilmente drogati per sopportare il lavoro disumano a cui vengono sottoposti per assicurare il godimento al loro padrone» (p. 33).

zombie_outbreak_coverRonchi recupera la distinzione hegeliana (Fenomenologia dello spirito) tra Signore e Servo, tra godimento e lavoro. «Lavorare è sostanzialmente trasformare per un certo tempo la propria vita in una funzione, lavorare è mettere il proprio corpo (e la propria intelligenza) all’opera. L’opera è la produzione di valore. Quando si lavora il fondamento del proprio essere è fuori di sé, è per-altro. Dove? Nel godimento del padrone, appunto. Cosa significa, allora, godere? Vuol dire emancipare il presente dalla spada di Damocle che il futuro, il futuro dell’opera, fa gravare su di esso. Si gode ‘qui e ora’. Si gode nel consumo. Si gode quando la vita assume se stessa come scopo. Si gode quando la vita vive, quando non è subordinata ad altro, ma solo a se stessa in quanto vita vivente: quando, per dirla ancora con Hegel, è per-sé» (pp. 33-34).

Abbiamo già visto in altri interventi [su Carmilla] il ruolo del libro The Magic Island (1929) di William Seabrook nella diffusione occidentale della figura dello zombie, è interessante notare come in questo libro la leggenda degli zombi si leghi allo sfruttamento dalla Haitian American Sugar Company nei confronti dei lavoratori della canna da zucchero. «È veramente curioso che la fabbrica, il lavoro salariato, lo sfruttamento, la proletarizzazione dei contadini, i problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica, siano la cornice nella quale nasce ufficialmente la ‘leggenda’ zombi» (p. 36).

Dunque, sostiene lo studioso, gli zombi «sono l’incarnazione della nozione marxiana di forza lavoro. Ne sono l’incarnazione in senso letterale. Sono forza lavoro allo stato puro. Non sono definiti da nessuna altra caratteristica se non dalla capacità astratta di lavorare per produrre valore. Non pensano, non parlano, non socializzano, non hanno una vita privata, neppure quella residuale che era concessa al proletariato inglese della prima rivoluzione industriale, il quale, una volta rientrato a casa, cessava di essere forza lavoro per diventare un vivente (sebbene un vivente al di sotto della soglia dell’umano modo d’essere e […] dall’aspetto molto linving dead per il borghese beneducato» (p. 37). Gli zombi di Haiti sono “macchine viventi” che simulano la vita al fine di lavorare.

Un essere vivente, sostiene Ronchi, possiede la forza lavoro, non è forza lavoro. «Egli può non disporne liberamente e allora è uno schiavo, oppure disporne in modo formalmente libero e scambiarla con altre merci che gli garantiscono la sopravvivenza, e allora è un proletario. In ogni caso, schiavo o proletario che sia, finché è vivente mantiene comunque una distanza da quella forza lavoro che possiede e che è costretto a cedere in modo coatto o in modo formalmente libero». (p. 38). Lo schiavo obbligato a lavorare può godere della sua vita sfigurata soltanto nei pochi momenti in cui non è al lavoro oppure, si ricorda nel saggio, quando canta sul lavoro. Se da un lato il canto fornisce il ritmo all’attività produttiva, dall’altro però mette in luce come lo schiavo non sia soltanto lavoro, ma anche “vita che vive”. La forza lavoro è «indissolubilmente connessa a un corpo vivente (essa, scrive Marx nel primo libro del Capitale, “esiste soltanto nella sua corporeità vivente”) ma un corpo, se è vivente, non è solo lavoro, non è lavoro astratto, dunque bisogna produrre un corpo attivo come un corpo vivente ma che non sia un corpo vivente» (p. 39). Occorre decontestualizzare un corpo dalla vita senza però renderlo “cosa inerte”, occorre “astrarlo” dalla vita senza ucciderlo. Ecco allora che il morto vivente rappresenta la soluzione perfetta: morto al godimento e vivente per il lavoro.

Se, come abbiamo visto, gli zombi vengono dal mondo del lavoro, nei film di Romero essi non sono più schiavi ma cannibali aggressivi ed insaziabili. Nella leggenda caraibica agli zombi era preclusa la carne (ed il sale), pena la fine dell’incantesimo zombificante, nei film di Romero, invece, i living dead sono pura compulsione a quel godimento interdetto agli antenati haitiani. Tale trasformazione, suggerisce Ronchi, ha una spiegazione materialistica: è dovuta alla trasformazione del capitalismo che è slittato verso il consumo coatto.

I living dead fanno la loro comparsa quando il principio di individuazione entra in crisi. “Individuo”, ricorda lo studioso, significa “ente determinato”, ente diverso dagli altri individui della medesima specie. Secondo la teoria politica liberale gli uomini sono individui ed è in quanto tali che hanno diritti inalienabili.

La filosofia classica spiega il fenomeno di individuazione ricorrendo alla composizione di forma e materia e la tecnica, il creare cose non già presenti in natura, è stata intesa nell’orizzonte del lavoro provocando però il paradosso che per spiegare il processo di individuazione caratterizzante la natura, si è finiti col far riferimento alla categoria della “produzione” così da finire col “retrodatare” alla natura il lavoro umano.

Tutto il pensiero politico moderno è ossessionato dall’idea di costruire attraverso mezzi umani un corpo politico dotato della medesima saldezza e sostanzialità del corpo mistico della Chiesa. Si è parlato a tal proposito di “teologia politica” che trova il suo limite nell’apparizione dei “resti” inincorporabili. Ciò che resta fuori dal corpo sociale, della nazione, della comunità ecc., vi resta come qualcosa di orrendo, di disgustoso: così viene descritto, ad esempio, il proletariato urbano inglese all’epoca della prima rivoluzione industriale. Se nella sua presenza in fabbrica il proletariato riceve un ordine ed una forma dai meccanismi produttivi, fuori dalla fabbrica diviene un’entità mostruosa, non umana. Anche i proletari, ricorda Ronchi, sono solo al plurale, una moltitudine illimitata che minaccia il buon ordine urbano. Fabbrica, prigione e caserma da questo punto di vista sono meccanismi disciplinari.

«Lavorare soggetivizza. Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletariato è l’onkos che minaccia i corpo sociale borghese» (p. 49). La generazione haitiana di zombi incarnava la pura forza lavoro. Non più schiavo ma nemmeno proletario. Si tratta del prodotto del colonialismo occidentale ridotto a pura macchina che produce valore. «I ‘negri’, dopotutto, per il razzista bianco, non sono veri ‘uomini’. Il proletario (bianco) è invece complementare al modo di produzione borghese, è generato dall’incorporazione capitalistica. La fabbrica è il luogo della sua individuazione e soggettivizzazione. Il suo aspetto zombi non sarà quindi più legato alla servitù del lavoro […] ma alla sua pretesa di godimento. A rimanere in eccesso rispetto al corpo sociale (come resto mostruoso e minaccioso) non è la sua umanità di operaio, umanità che si è guadagnato lavorando virtuosamente al servizio del capitale, differenziando cioè la soddisfazione del desiderio, ma questo stesso desiderio sganciato dal lavoro: è la sua fame» (p. 49).

wd-zombies55Ronchi ricorda come lo stesso socialismo nello scegliere nel proletariato organizzato e disciplinato dal partito il soggetto antagonista al capitale, finisce con l’indicare nel sottoproletariato quella massa tumorale di manovra a cui può ricorrere la reazione. Se l’individuazione è pensata sulla produzione, inevitabilmente essa genera dei residui (minacciosi) non assimilabili. «Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (p. 51). Dunque, secondo Ronchi, si ricorre ai “tecnici” perché tali compiti i “politici” non possono né sanno fare e da qui la loro delegittimazione internazionale.

A nostro avviso si potrebbe sostenere che, con l’egemonia totale dell’economico, il politico è stato totalmente esautorato da qualsiasi funzione che si possa dire politica, appunto. Se il politico è uno dei territori dell’immaginario (come sostiene da tempo Sandro Moiso) allora, in assenza di un immaginario realmente alternativo, il politico è inevitabilmente succube dell’economico. Il politico contemporaneo si è fatto tecnico. Un approccio politico alternativo non può che derivare da un immaginario alternativo, in assenza di quest’ultimo il politico è, inevitabilmente, tecnico.
Tornando ai morti viventi sugli schermi, Ronchi sottolinea come a livello cinematografico il ruolo dei tecnici spetti di diritto ai militari e quando anche questi falliscono nello smaltimento dei living dead, vuole dire che tutto è perduto e non resta che un’ultima illusione: la fuga.

Sappiamo che nella tradizione haitiana il cibarsi di carne o sale pone fine all’incantesimo che ha prodotto lo zombi. Ronchi, nel chiedersi cosa mostri allo zombi quella sorta di “autocoscienza” che acquisisce grazie all’assunzione di questi cibi, giunge a concludere che il morto vivente percepisce soltanto che è uno zombi qualsiasi, un essere-moltitudine. Nessuna emancipazione dalla massa, dunque. Nessuna interiorità. «Dal mondo dei morti lo zombi si è infatti portato dietro l’anonimato che caratterizza per sempre tutti i morti, i quali, in quanto morti, non sono più nessuno. È un uno qualsiasi, ma è uno qualsiasi che è già morto. […] L’autocoscienza pone lo zombi di fronte al suo essere una contraddizione in atto, una contraddizione assoluta che cammina. Lo pone di fronte alla sua atopia, alla sua eccedenza, al suo essere di troppo» (pp. 82-83). È per questo che secondo la legenda haitiana una volta “risvegliati” dal sale (o dalla carne), gli zombi intendono tornare alle proprie tombe, desiderano abbandonare il mondo dei vivi e far ritorno alla terra, a quella terra che però li ha espulsi obbligandoli all’erranza illimitata.

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