Val di Susa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 26 Oct 2025 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Distruggi il male https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/distruggi-il-male/ Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87658 di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico. La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata [...]]]> di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico.
La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata ai tempi dell’occupazione nazista e della Resistenza. Ne nasce un’avventura fantastica in cui sono in gioco la vita, la morte, la salvezza della Terra e il desiderio di una società libera dallo sfruttamento e dalla tristezza.
Per gentile concessione dell’editore si riporta di seguito il primo capitolo di Distruggi il male, il nuovo romanzo di Luca Cangianti (DeriveApprodi, 2025, pp. 128, € 15,00).]

Oggi. Val di Susa

«Fanno troppo schifo! Niente primi piani, altrimenti la gente vomita e cambia canale». La giornalista si rivolgeva alla regia, ma aveva urlato nel microfono ed era andata in onda.
L’uomo si avvicinò allo schermo per distinguere meglio le immagini. Le creature uscivano dal tunnel e dilagavano nella valle tra i piloni dell’autostrada. Emettevano suoni gravi che increspavano l’acqua nelle vasche di raffreddamento. I bacini servivano a contenere le temperature prodotte dallo scavo.
Scosse la testa e rimase interdetto. Il pulviscolo scorreva nel raggio di sole che attraversava il salotto fino agli scaffali carichi di libri. Erano disposti senza cura. Sul divano dell’Ikea era appoggiato un portacenere, nell’angolo cottura le stoviglie sporche battevano sulle pareti del lavello. Il lampadario dondolava.
Il rombo degli elicotteri da combattimento attirò la sua attenzione. Guardò fuori dalla finestra e scorse l’ultimo velivolo della formazione. La regia trasmise le riprese dall’alto: le maestranze del cantiere uscivano dalle cabine degli escavatori lasciando le portiere aperte. Alcuni si mettevano alla guida di pulmini che risalivano la strada, altri si rifugiavano in un edificio dal tetto verde.
L’uomo uscì di casa, percorse una via lastricata di sampietrini, passò di fronte a una fontanella e raggiunse il centro del paese: alcune case avevano i tetti d’ardesia, altre balconi di legno. Svoltò per una via che scendeva a zig zag verso la Dora. Gruppi di giovani correvano nella stessa direzione. Sul muro del terrapieno qualcuno aveva scritto a caratteri cubitali: «LA VALLE NON VI VUOLE».
Attraversò il ponte e vide il vecchio murale sbiadito: figure umane a carponi si cibavano del denaro defecato da chi le precedeva. Il checkpoint della centrale idroelettrica era deserto. Al bivio prese la strada che saliva costeggiando le vigne. Le vibrazioni assordanti adesso si mescolavano al rumore metallico della battitura. Si coprì le orecchie con le mani. Al museo archeologico di Chiomonte centinaia di dimostranti percuotevano le recinzioni del cantiere. Una donna sventolava una bandiera bianca con un treno sbarrato da una croce rossa. Alcuni giovani indossavano il casco: agganciarono le grate con uncini fissati a corde robuste e iniziarono a tirare. Il camion idrante della polizia bersagliò i ragazzi. Quattro attivisti portarono una lastra di plexiglas per usarla come protezione. Le corde furono afferrate da altre decine di persone. Le recinzioni caddero al suolo accompagnate da un boato di urla. I militari spararono i candelotti, i dimostranti lanciarono pietre e bottiglie. Partì una carica, gli attivisti indietreggiarono. Alcuni rimasero al suolo.
L’uomo fuggì lungo un sentiero in salita. Si sostenne a un arbusto per riprendere fiato. Chiuse gli occhi per qualche secondo, poi guardò in basso oltre il terrapieno realizzato con i detriti dello scavo.
La vallata era colma di filamenti arancioni che galleggiavano a mezz’aria tra i fumi dei gas lacrimogeni.

[Luca Cangianti e Giovanni Acquarulo (giornalista Rai) dialogheranno su Distruggi il male il 23 aprile 2025 alle 19.00 presso la Libreria Caffé Giufà, via degli Aurunci 38, Roma]

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Dalla Garbatella alla Val di Susa https://www.carmillaonline.com/2022/07/13/dalla-garbatella-alla-val-di-susa/ Tue, 12 Jul 2022 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72923 di Luca Cangianti

«Ma è una meravigliosa comunità solidale, un’utopia realizzata!» Più o meno è questo il solito commento degli amici e delle amiche che porto a fare una passeggiata alla Garbatella. Attraversano i lotti, vedono le villette bifamiliari con i giardinetti, i panni stesi nei cortili, i bambini che giocano a nascondervisi dietro; scorgono il volto di Carlo Giuliani dipinto ai piedi di una scalinata, poi quello di Piero Bruno, un giovane militante di Lotta Continua ucciso dalla polizia nel 1975; ascoltano i miei racconti sulle guasconate dei partigiani di [...]]]> di Luca Cangianti

«Ma è una meravigliosa comunità solidale, un’utopia realizzata!» Più o meno è questo il solito commento degli amici e delle amiche che porto a fare una passeggiata alla Garbatella. Attraversano i lotti, vedono le villette bifamiliari con i giardinetti, i panni stesi nei cortili, i bambini che giocano a nascondervisi dietro; scorgono il volto di Carlo Giuliani dipinto ai piedi di una scalinata, poi quello di Piero Bruno, un giovane militante di Lotta Continua ucciso dalla polizia nel 1975; ascoltano i miei racconti sulle guasconate dei partigiani di Bandiera Rossa, mangiano in una trattoria accarezzati dal vento della sera, e il gioco è fatto.
Io sto zitto, ma dentro di me rimugino indispettito. Penso al costo delle case, alla gentrificazione strisciante, ai vecchi forni che chiudono e soprattutto alla mia vicina che per oltre trent’anni non mi ha consentito di fare in pace una cena con gli amici, perché secondo lei, parlando, facevamo rumore. E lei doveva dormire, anche alle otto e mezza di sera.
Adesso, in compenso, mi assorda con un condizionatore che sembra l’astronave atomica del dottor Quatermass e mi scaraventa secchiate d’acqua sporca sul terrazzo, con la scusa di annaffiare le piante. Una volta ho provato a spiegarle che esistono anche gli altri, e tra questi il sottoscritto. Risultato: zero. Ormai penso che sia il Male assoluto.
Dico questo perché a ogni racconto entusiastico sui rapporti solidali che si sarebbero creati in Val di Susa nella resistenza al Tav, mi tornano in mente gli ingenui commenti apologetici dei miei amici in visita alla Garbatella – quelli che non conoscono la mia vicina. Insomma, quando con Ludovica ho visitato la Val di Susa, sono partito con una patina di scetticismo.

Una montagna di libri, piazzetta del mulino, Bussoleno

Eymerich in Val di Susa

Usciamo dalla A32 a Chianocco e prendiamo una strada statale: su tutti i pali della luce sventola la bandiera No-Tav: bianca con il treno sanzionato da una croce rossa. Fa una certa impressione: dà l’idea di un territorio presidiato. Bussoleno è uno degli epicentri del movimento. Vediamo le case a ringhiera e alcuni tetti spioventi. Ogni tanto arriva odore di legna bruciata, di bestiame, di piante in fiore. Sono gli ultimi giorni di maggio.
“Una montagna di libri” è una manifestazione No-Tav che quest’anno festeggia il decimo compleanno. Nel 2015 si è trasferita a Bologna: siccome Valerio Evangelisti tardava ad andare in valle, gli attivisti della valle, in collaborazione con Carmilla, si sono dati appuntamento al Vag 61 per una tre giorni di dibattiti e di presentazioni.
In Eymerich risorge (Mondadori 2017), l’inquisitore attraversa queste terre accompagnato da un contadino:

«Marcel, la distanza è grande, eppure mi pare di vedere lassù dei fori e delle specie di canali.» Indicò i monti attorno, e soprattutto uno che aveva forma di piramide.
«Vedo bene?»
«Sì, padre. I rilievi che circondano Oulx sono attraversati da caverne e solcati da gallerie all’aperto, che serpeggiano tra le rocce. Sono, a volte, veri labirinti.»
«Si tratta di miniere?»
«Attualmente no. Forse in un passato che nessuno ricorda. Non vi sono materiali utili nelle montagne. Solo sostanze avvelenate, capaci di provocare malattie mortali. Uccidono non subito, ma nel tempo.»
«In che modo?»
«Non lo so. Qualcosa di malato esiste. In quelle cavità si trema di freddo anche in piena estate, sotto il sole d’agosto, senza bisogno di penetrare nelle caverne.» Il contadino indicò vagamente davanti a sé. «In tutta la valle, fino a Susa e oltre, i monti racchiudono materiali velenosi. C’è chi ha cercato di perforarli per aprire passaggi. Ha subito rinunciato, perché sollevava nuvole di polveri venefiche, che scendevano sugli abitati.»
«Ogni tentativo sarà abbandonato.»
«Sì. Se si presenta qualche idiota che cerca di scavare nella roccia, la popolazione insorge. Ci tiene alle sue valli, e alla sua vita.»

A leggere i brani è Renato Sibille. Nella piazzetta del mulino un pubblico di mezza età segue con attenzione. Si percepisce un grande affetto verso lo scrittore scomparso. Finalmente arrivano anche alcune adolescenti con le magliette No-Tav e dei gilet gialli. «Il loro approccio è completamente diverso rispetto alla vecchia generazione No-Tav» dice Maurizio. «Adesso la grande sfida è vedere che impulso daranno al movimento, quali metodi e quali tematiche vi porteranno.»
Nel corso della giornata Nicoletta Dosio presenta Fogli dal carcere (Redstar press, 2022): «Non avrei pensato di pubblicare questo libretto. L’ho scritto per dare un senso a un tempo che non ha tempo.» Alla mia destra un uomo massiccio si asciuga gli occhi con imbarazzo. Sandro Moiso e Jack Orlando della redazione di Carmilla analizzano la guerra in corso, Serge Quadruppani e Domenique Manotti mandano saluti e solidarietà dalla Francia.
A pranzo ci troviamo all’Osteria La Credenza: si raccontano le novità della valle a noi che veniamo da lontano. La narrazione delle imprese della lunga resistenza inizia con una voce, s’interrompe e viene ripresa da un’altra. I commensali passano da un tavolo all’altro, tutti conoscono tutti. Davanti a noi c’è un murale che riproduce in chiave No-Tav il famoso dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo. I dibattiti riprendono nel pomeriggio e si protraggono tra calici di vino in un crescendo mitologico che inevitabilmente porta a narrare degli anni settanta. Finiamo in un locale che qui tutti chiamano “dai romani”, anche se il vero nome è La Locanda dell’Orsiera e i proprietari sono reatini. A metà serata Ludovica mi fa un sorriso solare. Lo so cosa pensa, ma non demordo: «Aspetta» le dico quasi infastidito. «Non corriamo con i giudizi romantici. Cerchiamo di capire meglio.» In verità sono tornato l’adolescente che ascoltava le imprese rivoluzionarie svoltesi solo pochi anni prima. In quei giorni speravo che il mio tempo giungesse presto.

Folletto della Val di Susa

Don Dinamite

Il giorno seguente visitiamo “Terra è Libertà. Critical Wine” che si svolge nella piazza del mercato. Compriamo due calici marchiati No-Tav e vaghiamo tra gli stand di piccoli produttori valsusini danneggiati dall’impatto della grande opera. Incontriamo il sindaco di Mompantero, Davide Gastaldo. Insieme a Mariano Tomatis e Filo Sottile ha pubblicato Roc Maol e Mompantero. Il codice Dell’Oro (Tabor, 2018), un originale dispositivo ludico-politico che prende spunto da un’indagine su una sorta di età dell’oro fiorita in Val di Susa tra culti esoterici e ufo ante litteram. Il sindaco ci racconta dell’utilizzo delle compensazioni come strumento per fiaccare la resistenza dei comuni che si oppongono al Tav. La Regione Piemonte infatti vorrebbe vincolare gli stanziamenti per contrastare il dissesto idrogeologico, per i danni di incendi e alluvioni, per i servizi essenziali, la sanità e la scuola, all’accettazione dell’infrastruttura contestata.
Maurizio mi presenta Luca. È un agricoltore, mi chiede di dove sono e che ne penso della valle. Gli offro un panorama decisamente positivo perché, malgrado tutto il mio scetticismo iniziale, ogni persona con la quale abbiamo parlato mi ha confermato quello che prima di partire avevo letto su un libro di Marco Aime, Fuori dal tunnel (Meltemi, 2016):

«Il movimento ha fatto nascere un senso di comunità forte. Si sono stretti nuovi legami. Siamo una grande famiglia, fatta di persone che non ti saresti mai sognato di frequentare e con cui invece organizzi marce, cene e altre cose». Queste parole di Eugenio riassumono in modo esemplare il parere della quasi totalità degli intervistati: la lotta contro il Tav ha fatto sì che nascessero nuovi legami tra le persone, un nuovo modo di rapportarsi, una capacità maggiore di riflessione, di condivisione e di concertazione.

Luca annuisce, ma poi aggiunge: «Il movimento è uscito dalla pandemia frammentato. Non ci dobbiamo nascondere la verità: c’è un certo disorientamento in giro; ci siamo ripiegati su noi stessi.»
Provo un piacere sottile e inconfessabile, una sorta di Schadenfreude. Me ne vergogno.

Matteo e Rita davanti alla libreria di Bussoleno

Vicino alla piazzetta del mulino c’è la libreria: La Città del Sole. È nata nel 2002, poi dal 2008 è stata affiancata da un bar molto frequentato. Rimango sorpreso dalla selezione dei titoli sugli scaffali. Anche tralasciando una nutrita sezione No-Tav, non sono quelli che mi aspetterei in un comune di circa seimila abitanti. Più in generale, non mi sembra di stare in un piccolo centro di montagna, connotato dai tipici stili di vita provinciali.
«È probabile che sia dovuto agli importanti insediamenti industriali di un tempo: principalmente ferrovie e cotonifici, senza dimenticare che molta gente lavorava nelle fabbriche di Torino.» Rita è stata la libraia del paese per undici anni e adesso ha passato il testimone a Matteo. «Inoltre – continua – non va trascurato l’impatto che ha avuto la Resistenza in queste valli: a Bussoleno non troverai né una via Roma, né una via Vittorio Emanuele. I nomi prevalenti sono quelli dei partigiani.»
Da un libro di Chiara Sasso e Massimo Molinero, Una storia nella Storia e altre storie (Morra, 2001) vengo a sapere dell’incredibile sabotaggio del viadotto ferroviario dell’Arnodera compiuto da Francesco Foglia (un sacerdote noto con il nome di don Dinamite) insieme all’ufficiale Vittorio Blandino e ai membri delle Brigate Garibaldi Sergio Bellone e Remo Bugnone. Verso l’una di notte del 29 dicembre 1943 la valle è scossa da un boato: sono ottocento chili di plastico che esplodono. Un ponte di ottanta metri, con cinque arcate e tre pilastri va giù. I nazisti impiegheranno tre mesi per ricostruirlo e definiranno l’attentato «una autentica opera d’arte». Dal libro emerge il profilo drammatico e straordinario di un cappellano militare che passò dal combattere i comunisti in Jugoslavia ad abbracciare la Resistenza in Val di Susa, cavalcando infaticabilmente la sua bicicletta e beffando i nazifascisti con travestimenti e azioni spericolate. Arrestato, finì nei campi di concentramento in Germania e al ritorno fu colpito da una tragedia familiare: due nipotini in vacanza furono dilaniati da un ordigno bellico abbandonato nei pressi della sua abitazione. L’origine dolosa del fatto non fu mai appurata.

Immaginari di montagna

Rita ci accompagna al presidio di San Didiero, di fronte al luogo dove dovrebbe sorgere il nuovo autoparco, una zona di sosta temporanea per i tir: «Ecco dove vanno a finire soldi che potrebbero servire a finanziare la scuola e la sanità». Si tratta di un cantiere di 68 mila metri quadrati per un’infrastruttura che dovrebbe sostituirne una già esistente a Susa. Consumerà nuovo suolo e costerà 47 milioni di euro. Per i No-Tav è una nuova opera inutile in quanto progettata senza alcuno studio sulle previsioni del traffico. In questo caso l’alta velocità Torino-Lione non c’entra. Anzi, finora si era venduto il Tav come un modo per trasferire il traffico dalla strada alla rotaia, mentre adesso, con la costruzione del nuovo autoporto a San Didero, la logica sembra cambiare di segno.
Scendiamo dall’automobile e ci troviamo di fronte una scena assurda: un camion idrante e una pattuglia di poliziotti sono circondati da filo spinato e transenne alte due metri; ma non si capisce cosa difendano, perché non c’è assolutamente nulla. Nel nostro spazio visivo le forze dell’ordine e il loro veicolo sono incorniciati da grandi barriere new jersey sulle quali sono stati disegnate due frecce rosse che partono da un insulto irripetibile scritto a caratteri cubitali indicando inequivocabilmente i “prigionieri”.

È martedì, Maurizio ci ha affidato ad Adele che ci accompagna a Cels, una borgata di case dai tetti di ardesia dove visitiamo Clapìe. Si tratta di un centro di documentazione dedicato alla storia e all’immaginario territoriale. Esiste da dieci anni, ospita dibattiti, cene sociali, trasmissioni radiofoniche No-Tav e una biblioteca. «Non consideriamo la montagna come meta di fuga» dice Daniele Pepino, «ma come luogo di resistenza alla società della merce e dell’autorità. Pensiamo che le tradizioni e gli immaginari legati ai territori non vadano lasciati nelle mani della reazione.» Un esempio di questo discorso è il libro «Escartoun». La federazione delle libertà (Tabor, 2014). Walter Ferrari e lo stesso Daniele Pepino vi raccontano la storia di un’entità politica autogestionaria, nata nel 1343 e sopravvissuta fino al 1713, erede di una tradizione millenaria che ha sempre opposto i montanari delle Alpi all’oppressione dei poteri centrali.

Vigneti vicino alla centrale idroelettrica di Chiomonte

L’Entità

È il nostro ultimo giorno in Valle. Maurizio ci aspetta davanti al municipio di Chiomonte. Saliamo in macchina e imbocchiamo via Roma che scende giù fino alla Dora. Passiamo davanti ad Alta voracità, il famoso murale di Blu in cui una fila di figure carponi si cibano degli escrementi valutari di chi le precede. Attraversiamo il check point militare della centrale idroelettrica ed entriamo in una zona di vigne. Il pranzo sociale si tiene davanti a un antico colombaio alto quattro metri. Potrebbe avere anche cinquecento anni; era una stazione che ospitava i piccioni viaggiatori. Ognuno ha portato qualcosa, noi niente. Ludovica me ne attribuisce la colpa. A tavola torna la discussione sulle compensazioni: sembra che il movimento non sia concorde su quale posizione prendere in merito. Ci sono quelli più radicali, quelli più dialoganti. Tuttavia mi sono accorto che qui il frequentatore della parrocchia riesce a stare accanto a quello dei centri sociali senza imbarazzi e difficoltà.
Alcuni commensali s’incuriosiscono quando sentono che siamo di Roma, perché sono di ritorno da Enotica, la fiera di vini naturali che si è svolta al Forte Prenestino. Hanno fondato una fattoria, la Granja Farm, valorizzando produzioni tipiche locali al fine di contrastare la costruzione del Tav e il suo immaginario mercificato. Producono miele biologico, succo di mela e vini naturali. «Gli anziani del posto sono felici di spiegarti come si fanno le cose» dice una giovane donna. «Noi impariamo e facciamo vivere saperi e prodotti genuini che altrimenti sarebbero destinati a scomparire.»

Dopo pranzo siamo presi in consegna da Gildo, uno dei proprietari di questi vigneti. Passiamo davanti a un B&B e arriviamo al Museo della Maddalena. Un tempo si poteva visitare. Vi erano esposte monete, frammenti di stoviglie e di tombe, dal neolitico alla seconda età del ferro. Oltre non si può andare. Ci sono altri militari, altre grate e filo spinato a volontà. Saliamo per un bosco tra castagni, frassini e qualche ciliegio selvatico. Da un ramo penzola una maschera a gas, chissà, un cimelio di qualche battaglia. Gildo indica in fondo al pendio, oltre il filo spinato: «Questo terrapieno squadrato è composto dai detriti degli scavi del tunnel geognostico. Vedete? La bocca sta lì.»
Sono scosso da un brivido. In Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, 2016) Wu Ming 1 aveva ragione a sostenere che lì sotto si annida una mostruosa Entità lovecraftiana. Vedo l’enorme cannula che la nutre, capisco che quelle immense vasche d’acqua servono a raffreddarne il metabolismo alieno.
«Tranquillo!» sorride Maurizio che deve aver percepito il mio turbamento. «Avremo pure i nostri problemi, ma il Tav non si farà mai!»

Tornando a Roma ripenso a quella affermazione. Forse si riferiva al disinteresse francese per la realizzazione dell’opera (la notizia è di qualche mese fa) e alla conseguente perdita dei finanziamenti europei. Oppure si trattava della fiducia caparbia di chi sa di essere nel giusto, di chi sente intorno a sé il calore di una comunità solidale. Non lo so. Abbiamo viaggiato tutto il giorno e siamo stanchi. Inserisco la chiave nella toppa del portone del condominio. Attraverso il vetro vedo la vicina.

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Che le parole diventino pietre https://www.carmillaonline.com/2022/06/30/che-le-parole-diventino-pietre/ Wed, 29 Jun 2022 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72623 di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in [...]]]> di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in cui ogni pagina investe fisicamente il lettore e la lettrice: a volte come una lancia trafigge lo stomaco, altre, come un balsamo, provoca sollievo.

Si tratta del diario di Nicoletta Dosio, insegnante pensionata di greco e latino, militante No Tav, condannata per una manifestazione pacifica al casello autostradale di Avigliana nel 2012 e finita in prigione alla fine del 2019 per aver rifiutato di «fare atto di sudditanza con la firma quotidiana» ritenendo di non aver nulla di cui rispondere.
È un libro dal quale non si esce indenni. È costruito con frasi brevi, semplici, prive di enfasi, anche a fronte degli episodi più mortificanti. La prosa è una diga di dignità che trattiene una rabbia temibile, un sentimento cresciuto in trent’anni di lotte nella Val di Susa, non solo contro opere dannose e inutili, ma contro un intero sistema sociale basato sull’ingiustizia e sullo sfruttamento. Non è casuale che leggendo queste pagine mi siano tornate in mente quelle famose e asciuttissime di Banditi (Einaudi, 1975) di Pietro Chiodi: anche lui in un’epoca diversa, durante la Resistenza, insegnò e combatté in Piemonte.

Insieme alla rabbia troviamo la nostalgia per le vecchie vigne ormai sradicate, i boschi della Clarea, gli affetti, la casa e le sue creature domestiche. Poi c’è la speranza: «che le parole diventino pietre, materia vivente per la barricata della primavera che dovrà venire.» Sono le pagine più poetiche. Parlano della luna oltre le sbarre, di un ciliegio fiorito, del volo di una coccinella, di uno scarafaggio salvato dallo scarpone di una secondina, di un concerto No Tav vicino al carcere che rafforza il morale delle detenute, del grido di un gabbiano: «sa di avventura e di malinconia» e ricorda il mare, da qualche parte, al di là delle mura.

«Da quest’esperienza una cosa l’ho imparata» conclude Dosio: «che il fine esplicito e istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza cieca». Si tratta di «un’istituzione totale fondata su principi non certo di giustizia, ma di repressione e di vendetta, controproducente per qualsiasi volontà di riscatto.» E infatti vi troviamo rinchiusi immigrati, rom, sinti, italiani di origini umilissime e si fa di tutto per spedirci quanti più No Tav possibili, tra le migliaia di indagati. Di certo non vi soggiornano i potenti, nonostante le frequenti infrazioni delle norme da loro stessi concepite.

Infine, in un giorno di primavera, nel periodo più drammatico della pandemia, l’autrice esce: «Mentre percorro il corridoio, parte la battitura di saluto. Le trovo tutte, queste mie sorelle, affacciate ai blindi. Battono le sbarre, mi gridano saluti, mi chiedono di non dimenticarle, di raccontare di loro quando sarò fuori». Potrebbe accadere anche a voi, che, terminato il libro, vi sorprendiate a picchiare il pugno sul tavolo.

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L’Italia delle piccole “matrie” https://www.carmillaonline.com/2021/08/08/litalia-delle-piccole-matrie/ Sun, 08 Aug 2021 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67249 di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, successivamente, a garantire alla borghesia mercantile prima ed industriale poi un’area di mercato privilegiata, sufficientemente vasta per assicurarne lo sviluppo e l’arricchimento della stessa classe, non vi è più alcun dubbio dal punto di vista storico.

Dal punto di vista politico e dell’immaginario, spesso coincidenti, invece lo Stato Nazionale sembra essere diventato una sorta di realtà astratta, sempiterna e indiscutibile, che il sempre risorgente nazionalismo, sia a destra che a sinistra, continua a sbandierare come fattore indiscutibile di unità di interessi, sicurezza, uguaglianza dei diritti e libertà collettiva e che sfocia quasi sempre in una sorta di religione laica e di fede fanatica di cui il recente sventolio trionfalistico di tricolori in occasione del campionato europeo di calcio ha costituito un’inequivocabile testimonianza.

Stato nazionale e patria, nazionalismo e patriottismo che coincidono nel pensiero comune, ma anche nelle riflessioni filosofiche e politiche ancora dominanti, nascondendo il fatto, ancora una volta certo dal punto di vista storico, che ogni stato nazionale in realtà è sorto dalla distruzione e sopraffazione di innumerevoli identità diverse, non solo di classe, ma culturali, religiose, linguistiche, produttive, economiche e di genere.

Partendo dall’ultimo punto e in attesa di recensire il testo di Michela Zucca recentemente riedito da Tabor1, occorre dire che proprio la formazione degli Stati moderni, con tutto il loro apparato repressivo, inquisitoriale, giuridico e cognitivo, contribuì a posare definitivamente una pietra tombale sull’autonomia delle donne e il loro importantissimo ruolo all’interno delle comunità locali, affermando così, una volta per tutte, un potere, una cultura e una mentalità di stampo patriarcale che contraddistinguono ancora la cultura cristiana e occidentale contemporanea.

Non a caso Massimo Angelini, autore del testo e “coltivatore”, come si definisce egli stesso, delle iniziative editoriali di Pentàgora oltre che studioso delle mentalità, del ruralismo e delle culture orali, parla provocatoriamente di “matrie” invece che di patrie per definire le più di 500 realtà geografiche e sociali illustrate nel testo.

C’è un’Italia che la geografia politica e amministrativa ignora, un’Italia di piccole patrie, anzi màtrie (come la lingua-madre e la terra-madre), sub-regioni, terre identitarie, bioregioni, case comuni, nicchie linguistiche, luoghi omogenei per ambiente o per storia o per cultura, talvolta grandi come piccole regioni, talvolta piccole come lo spazio che lo sguardo può abbracciare da un campanile; c’è un’Italia dove prossimità e vicinato forse vogliono dire qualcosa e il locale è un portato di cultura quando, però, non degrada nel localismo, in uno spazio meschino di paura e chiusura, in uno spazio di autocompiacimento attraverso la costruzione dell’altro, il foresto, l’estraneo, lo straniero; c’è un’Italia fatta di molte terre, più grandi dei singoli comuni meno dei territori amministrativi, multicolore come l’abito di Arlecchino dove, però, nessun rombo è uguale agli altri; un’Italia che tutti conoscono e forse per la prima volta qui viene rappresentata. Un’Italia composta di terre, di màtrie [ne sono state contate, descritte e cartografate 581] definite nel tempo per ragioni di omogeneità ambientale, per questioni di storia politica laica o ecclesiastica (le diocesi), intorno alla diffusione di una lingua locale o di una sua declinazione, separate da fiumi o dislivelli, o da coste e crinali o da altri confini meno visibili, meno reali, eppure veri per l’incidenza che hanno avuto nella vita delle persone e nella costruzione degli immaginari locali2.

E’ un’Italia che non compare sugli atlanti tradizionali e che la carta allegata al testo ci rivela in tutta la sua varietà e complessità linguistica, culturale e geografica. La scelta dell’autore è stata quella di chiamare regioni i territori che hanno una estensione superiore ai 1.000 kmq e terre quando sono di minor estensione, mentre in altri casi si parla di circondario, conurbazione o più genericamente di territorio. In ogni caso, poi, si usa sempre il termine dialetto per indicare le lingue locali. Tutte senza eccezione e senza svalutazione. Per ognuna di queste “matrie” vengono inoltre forniti il numero dei comuni che vi sono dislocati, il capoluogo (inteso come centro di maggior rilevanza amministrativa e/o culturale), l’origine della definizione del territorio e una lettura consigliata per comprendere meglio il tutto (in genere un romanzo).

Questa prima edizione è inevitabilmente incompleta e approssimativa, con numerose informazioni da rivedere, imprecisioni da correggere; ma è anche un’occasione per iniziare una riflessione su quei territori che in qualche misura definiscono un’appartenenza locale per ambiente, immaginario, lingua, abitazione, desiderio (jus cordis, questo è ciò che dovrebbe bastare per essere o diventare nativi di un luogo: né jus sanguinisjus soli, solo jus cordis3), e permettono ai membri di una collettività di dire ‘io vengo da…’, ‘io vivo in…’.
[… Ma] ha senso parlare di màtrie e terre identitarie nell’era declinata alla globalizzazione? C’è il rischio che il loro riconoscimento possa essere usato per ravvivare retoriche di nostalgia e rinforzare voglie di separazione o campanilismi da strapaese?
Sono domande che mi sono posto più volte durante l’intera ricerca: alla prima non so rispondere con certezza; quanto al rischio evocato nella seconda… sì, lo vedo.
Comunque, al di là dei rischi di fraintendimento, credo che ripensare le geometrie del creato e della cultura sulla base dei saperi condivisi, delle conoscenze comunitarie, dell’immaginario popolare – penso, per esempio, ai sistemi di soprannominazione personale e familiare vs l’anagrafe pubblica o alle tassonomie popolari vs quella linneiana o a tutto quanto lasci trasparire un recupero di dignità dello sguardo sul mondo prevalentemente innervato sull’oralità rispetto a quello su cui pesa il monopolio della scrittura – sia necessario per la crescita di una sensibilità profondamente democratica e altrettanto utile per mantenere aperto il respiro della poesia4.

L’elenco è lungo, ampio e dettagliato e anche se contiene, come afferma lo stesso autore, qualche imprecisione, ad esempio Oulx come luogo principale della Valsusa, che potrà essere corretto in futuro, certamente potrà essere di stimolo per vedere la geografia “politica” dell’Italia sotto un altro punto di vista. Soprattutto il testo può contribuire anche a rimettere in discussione quei confini “naturali” dati per scontati e che, soltanto per citare un esempio, nel caso delle valli occitane non sono altro che un escamotage ideologico-politico per separare popolazioni molto più vicine di quanto gli Stati vorrebbero ammettere (e permettere).

Un ottimo libro, infine, per programmare nel corso dell’estate un viaggio di esplorazione di un paese che, dopo aver consultato le sue pagine, non vi sembrerà più lo stesso e così scontato.


  1. Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021  

  2. Massimo Angelini, Una prefazione necessaria in M. Angelini (a cura di), Un’altra Italia, Pentàgora 2021, pp. 9-10  

  3. cor, cordis: latino per animo, intelligenza, senno, cuore  

  4. M. Angelini, op.cit., pp. 10-16  

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Il nemico interno/6 https://www.carmillaonline.com/2020/12/21/il-nemico-interno-6/ Mon, 21 Dec 2020 03:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64015 di Alexik

Sin dall’inizio della lotta, e con particolare intensità negli ultimi dieci anni, l’opposizione popolare al TAV Torino/Lione si è dovuta confrontare con un livello altissimo di violenza istituzionale, di cui la  criminalizzazione penale è un aspetto rilevante. La creazione di una corsia preferenziale per i procedimenti contro il movimento, con il coinvolgimento di  centinaia di imputati, l’esercizio dell’azione penale anche per reati “bagatellari”, l’abuso delle misure cautelari, l’utilizzo a piene mani del concorso e delle aggravanti, la particolare velocità dei processi,  la sproporzione delle [...]]]> di Alexik

Sin dall’inizio della lotta, e con particolare intensità negli ultimi dieci anni, l’opposizione popolare al TAV Torino/Lione si è dovuta confrontare con un livello altissimo di violenza istituzionale, di cui la  criminalizzazione penale è un aspetto rilevante.
La creazione di una corsia preferenziale per i procedimenti contro il movimento, con il coinvolgimento di  centinaia di imputati, l’esercizio dell’azione penale anche per reati “bagatellari”, l’abuso delle misure cautelari, l’utilizzo a piene mani del concorso e delle aggravanti, la particolare velocità dei processi,  la sproporzione delle condanne e delle sanzioni economiche, sono da anni parte dell’esperienza concreta dei militanti, ed evidenti a chiunque soffermi lo sguardo sul fenomeno repressivo in Valsusa.

Per questo tre  anni fa un gruppo di compagni e compagne ha ritenuto importante iniziare un’opera di archiviazione storica dei materiali processuali che rendesse possibile un’analisi più dettagliata della criminalizzazione giudiziaria nei confronti del movimento, la misurazione del fenomeno e la sua comparazione con altri campi di esercizio dell’azione penale.
Parallelamente si è provveduto alla creazione di un software per la gestione delle informazioni e dei documenti, con la costruzione (ancora in corso) di un data base ad uso degli studi legali di riferimento del movimento No TAV.

Il progetto ha tratto origine e ispirazione da un lavoro  già avviato da un militante storico della Valle. Si è sviluppato nutrendosi dei saperi di compagne e compagni provenienti dalla preziosa esperienza, maturata anche in SupportoLegale, nell’ambito del sostegno tecnico e politico agli imputati e ai legali di movimento dopo il G8 di Genova del 2001. Ha coinvolto informatici e giovani ricercatori e ricercatrici in campo giuridico,  con il sostegno della Associazione Bianca Guidetti Serra.
Si è trattato di un impegno importante,  con una grossa mole di lavoro, che ha permesso la catalogazione degli atti processuali  (nella loro parte accessibile: datazioni delle fasi, dibattimento e decisioni) per i processi aventi come imputati e imputate militanti del movimento No Tav, chiusi almeno in primo grado al 31 dicembre 2017.

Sui materiali archiviati si è appena conclusa una prima esperienza di ricerca a cura di Alessandro Senaldi,  incentrata in particolare su 151 procedimenti iscritti al Registro Generale Notizie di Reato (RGNR)  dal 2005 al 2016,  fra  i quali di 86 è stato possibile ricostruire in maniera completa la storia processuale.
La ricerca, pubblicata sulle pagine online della rivista Studi sulla questione criminale, comprende una parte quantitativa e relative valutazioni su cui è interessante soffermarsi.
Dati che confermano, in buona parte, la conoscenza maturata dal movimento attraverso l’esperienza diretta, ma che al contempo permettono una quantificazione più precisa di vari aspetti rilevanti dell’offensiva giudiziaria contro l’opposizione al TAV.

Lo sviluppo temporale della criminalizzazione giudiziaria

Il debutto della Procura e del Tribunale di Torino sul palcoscenico della vicenda TAV ha inizio nel 1998, con gli arresti di Silvano Pelissero, Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, e  l’iscrizione del primo procedimento penale riconducibile al progetto dell’Alta Velocità Torino Lione.
Presto la morte di Sole e Baleno irrompe come un segno anticipatorio della violenza che lo Stato sarà disposto a mettere in campo a tutela della Grande Opera, così come il processo che segue contro l’unico sopravvissuto anticipa caratteristiche della criminalizzazione giudiziaria del movimento del decennio successivo, come l’utilizzo di imputazioni per terrorismo destinate a sgretolarsi in Cassazione.

A questo episodio premonitore faranno seguito diversi anni di quiete dell’azione penale, che riprenderà lentamente fra il 2005 e il 2006, per subire poi un’impennata dal 2010.
Senaldi traccia la curva di questa evoluzione, che mostra come si passi dall’assenza di procedimenti iscritti al RGNR  nel 2009 ai 40 del 2011, 34 nel 2012, 37 nel 2013. Procedimenti che comportano il coinvolgimento di centinaia di imputati.

“Tale impennata – commenta l’autore –  se per alcuni versi appare naturale conseguenza della radicalità espressa dal movimento a fronte dei primi passi concreti mossi dalla compagine promotrice, può anche essere letta come l’effetto della nascita del “Gruppo Tav”, ovvero il pool di magistrati istituito, contestualmente alle prime operazioni di implementazione dell’opera, dal procuratore capo Caselli (il 13/1/10)”.

Va detto che, se è vero che i primi passi concreti per l’apertura dei cantieri determinano l’intensificarsi delle azioni di contrasto e le relative denunce, ciò che alimenta il rapido sviluppo e i contenuti dell’azione penale è la militarizzazione della Valle.
È lo Stato che provoca lo scontro, che ne moltiplica le occasioni con il massiccio dispiegamento di truppe sul territorio, e che ne traduce l’esito in una miriade di notizie di reato, grazie anche ad una particolare ‘produttività’ a riguardo da parte della digos di Torino.

Il “Gruppo TAV” della Procura è l’ingranaggio successivo, che ha cura di adoperarsi affinché ogni denuncia contro i militanti – anche quelle relative a infrazioni minimali – si trasformi prontamente in richiesta di rinvio a giudizio, generalmente accolta dal Giudice per le Indagini Preliminari.
C’è da tener conto inoltre del fatto che gran parte dei reati contestati ai militanti No TAV – proprio quelli generati dalle frizioni con le FF.OO. (violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale – articoli 336 e 337cp) – prevedono l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero attraverso la citazione diretta a giudizio, senza passare al vaglio del GIP.

Scrive Senaldi che su 80 procedimenti da cui è stato possibile ricavare il dato, sono ben il 62,5%  quelli in cui la fase delle indagini preliminari si conclude con la citazione diretta in giudizio da parte del PM.
Vi è quindi anche un meccanismo in presa diretta che collega l’efficientismo della Procura di Torino all’impennata delle iscrizioni nel Registro Generale Notizie di Reato.

Una Procura, peraltro, talmente efficiente da aver costituito il 13/01/2010 il ‘Gruppo TAV’ – con una nutrita assegnazione di personale (2 procuratori e 5 sostituti procuratore, su un organico complessivo della Procura di una cinquantina di PM) – ben prima che vi fossero reati rilevanti contro la Grande Opera su cui investigare1.
Molto meno solerte, invero, quando è il momento di procedere per le denunce sporte dai manifestanti No TAV per le violenze degli agenti delle FF.OO., il cui esito si conclude sistematicamente con l’archiviazione2.

Procedimenti “ad alta velocità”

La ricerca di Senaldi fornisce una quantificazione di quanto già chiaramente riscontrato dal movimento e dai suoi legali in termini di velocità dei procedimenti nelle loro varie fasi.
Partiamo dalle indagini preliminari.

Sugli 83 procedimenti in cui è possibile ricavare questo dato risulta una durata media delle indagini preliminari di 279 giorni, a confronto con il tempo medio sul territorio nazionale  (quando si tratta di reati con autore noto) di 404 giorni.
Sicuramente tale velocità trova spiegazione nella costruzione di un gruppo di PM specificamente dedicato,  o nell’ampio ricorso alla citazione diretta in giudizio da parte del PM, che salta il passaggio dal GIP.
Ma una interpretazione convincente emerge anche dall’analisi dei documenti del maxiprocesso ai No TAV ad opera della ricercatrice Xenia Chiaramonte:

Cronologicamente… vengono prima le annotazioni di polizia, poi il vaglio del PM … e poi il vaglio di un secondo magistrato, stavolta con funzioni giudicanti che è il giudice per le indagini preliminari.
Chi legge questi atti però si trova davanti dei testi che si citano l’un l’altro e che si avvalorano di passaggio in passaggio senza profondamente criticarsi al fine di quel profondo e sostanziale vaglio che il codice prevede. Il PM ripercorre in modo pressoché pedissequo le annotazioni della polizia giudiziaria, poi le trasferisce su un diverso documento che approda nelle mani del GIP, il quale al posto di valutarlo nel dettaglio lo conferma, e così, come analizzeremo, nel peggiore dei casi si arriva a una decisione dal tenore nuovamente troppo simile“.3

E ancora, nelle parole di una militante intervistata: “La procura è partita dalle informazioni Digos e ha finito la requisitoria con le stesse informazioni Digos, anzi si vede proprio negli atti, si vede che ci sono dei copia-incolla con gli stessi errori di ortografia presenti nelle annotazioni di servizio della polizia“.4
Vale a dire: le indagini le costruisce la Digos prima dell’inizio del procedimento, e poi attraversano tal quali le varie fasi del procedimento stesso senza che i PM e che i GIP si attardino in eventuali approfondimenti, confronti con altre fonti testimoniali, confutazioni, emendamenti vari, inutili correzioni ortografiche. Un modus operandi che con tutta probabilità accorcia i tempi notevolmente.

Ma, tornando ai dati elaborati da Senaldi, se nei procedimento contro i No TAV la velocità delle indagini preliminari è notevole, quella dei processi è addirittura stupefacente.
Uno dei parametri considerati dall’autore per valutarne la misura è il tempo che mediamente passa tra un’udienza e l’altra, ovvero la media in giorni che trascorrono per ogni rinvio.
È stato possibile calcolare questo dato su 63 processi contro il movimento, con un tempo medio di rinvio di 57 giorni.
Come emerge dal  “Rapporto sul Processo Penale 2008” dell’Unione delle camere penali italiane, presso il tribunale di Torino il rinvio ad altra udienza presenta tempi medi di 102 giorni per i processi monocratici e 82 giorni per quelli collegiali, mentre, la media nazionale è di 139 giorni per i primi e 117 per i secondi.
Al di là delle medie, vi sono casi (come al maxiprocesso), dove la frequenza delle udienze è risultata talmente alta  da suscitare le vibranti proteste degli avvocati difensori del movimento, che valutavano il calendario definito dal Tribunale di Torino come lesivo del diritto alla difesa, visto che gli impediva di prepararsi adeguatamente.

Per quanto poi riguarda la durata del primo grado di giudizio dei processi ai No TAV, calcolata come tempo trascorso dalla prima all’ultima udienza, “dalla comparazione con le statistiche fornite da fonti ministeriali in tema di velocità dei processi, emerge come quelli contro il movimento siano ad “alta velocità”, ovvero, 2,5 volte più veloci della media nazionale“.

Un’ “alta  velocità” che stride con la lentezza con cui, nella stessa città, è stato condotto il giudizio per lo stupro di una bambina, finito in prescrizione dopo 20 anni nel febbraio del 2017. (Continua)

Nota: i tre grafici qui riprodotti sono tratti da Senaldi, A. (2020) I dati dei processi contro i/le No Tav: un contributo al dibattito, in Studi sulla questione criminale online.


  1. I contorni di quest’ultima anomalia sono stati così delineati, tempo fa, dal Comitato Spinta dal Bass: “In effetti, solo nel gennaio 2010 iniziano i presidi e le manifestazioni di opposizione ai sondaggi, realizzati da LTF sui terreni della Consepi. La cosa curiosa è però che le prime due comunicazioni di reato per tali vicende arrivano sul tavolo della Procura rispettivamente il 10 gennaio e il 15 gennaio, per i primi due presidi effettuati in località Traduerivi il 9.1.2010 e il 12.1.2010. E invece, già il 13 gennaio dello stesso anno, dimostrando così una straordinaria capacità predittiva e divinatoria, i vertici della Procura decidono di costituire un’apposita sezione di magistrati, che, caso più unico che raro nella storia giudiziaria, viene istituita prima che i reati vengano commessi.
    Alla data della sua istituzione, infatti, la sezione Tav dispone di una sola notizia di reato, relativa, tra l’altro, ad un’invasione  terreni… vale a dire un reato che più modesto e inoffensivo non si può…
    E, invece, di fronte a tale fatto di evidente straordinaria tenuità … che fanno i vertici della Procura?
    Decidono di dirottare imponenti risorse umane ed economiche su questo fronte repressivo, distogliendo alcuni PM dai loro normali compiti d’ufficio per destinarli ad una sezione che non aveva però, in allora, materiale su cui investigare.
    La relativa sezione specializzata non nasce come risposta organizzativa alla necessità di affrontare una moltitudine di procedimenti per fatti simili (come ad esempio è avvenuto per le altre sezioni …) ma anticipa la verifica dell’esistenza di tali reati”. 

  2. Si consiglia, a riguardo, la visione del documentario Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa“. 

  3. Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019, p. 109. 

  4. Ibidem, p. 198. 

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I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/06/24/i-dont-live-today-scene-dalla-guerra-di-classe-in-america-e-non-solo/ Wed, 24 Jun 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60919 di Sandro Moiso

Will I live tomorrow? Well I just can’t say But I know for sure I don’t live today (I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria [...]]]> di Sandro Moiso

Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.

La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.

La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica. Defund the police è diventato uno slogan politico che potrebbe avere, anche qui da noi, una funzione niente affatto secondaria per rilanciare il dibattito pubblico sul ruolo attivo delle forze dell’ordine nella repressione sociale e nella creazione di autentici casi giudiziari, come ad esempio in Val di Susa nei confronti del movimento NoTav.

La sorpresa con cui è stata accolta la richiesta da diverse amministrazioni locali statunitensi, la confusione in cui sono rimasti intrappolati i vertici militari e politici manifestano non soltanto un vacuo ‘pentimento’ per le violenze subite da secoli dalla comunità afro-americana, ma anche la crisi sociale, politica ed economica in cui si dibatte ormai da tempo la maggior potenza imperialista dell’Occidente. Una crisi di cui abbiamo parlato già più volte su Carmilla, destinata inevitabilmente a sfociare in un nuovo conflitto globale per il contollo dell’economia planetaria oppure in una nuova guerra civile di cui da tempo si parla negli ambienti politici e culturali statunitensi. Guerra civile che già da anni ispira, anche soltanto metaforicamente, molte trame della produzione letteraria, cinematografica e fumettistica statunitense.

Guerra civile a venire (o forse già in atto) che ha prodotto un immaginario che già la “comprende” e che, a sua volta, spinge, nemmeno più troppo inconsciamente, verso una sua concreta deflagrazione.
Guerra civile che, proprio in quanto tale, non può essere animata e agita da due soli attori, come la concezione tradizionale dello scontro di classe vorrebbe. Le guerre civili infatti decidono di come le società e le economie dovranno essere ristrutturate una volta concluse e una volta emerso il vincitore.

Così fu per la guerra civile americana, durante la quale il presidente repubblicano Abramo Lincoln guidò la costruzione di un’America industriale sulle ceneri di un’altra America agricola, schiavista e dipendente dalle esportazioni verso l’impero britannico. In cui la questione della schiavitù e dell’oppressione divenne dirimente soltanto a partire dal 1863, con il proclama con cui il presidente del Nord abolì la stessa nella speranza che la rivolta degli schiavi mettesse in crisi il Sud, fino ad allora vincente nello scontro militare. Vittoria finale del Nord cui la classe operaia dello stesso, anche sotto l’invito dei socialisti ispirati da Karl Marx e Friedrich Engels, aveva dato un significativo contributo in termini di arruolamento e partecipazione, non tanto per la liberazione degli schiavi afro-americani, quanto piuttosto a favore di uno sviluppo industriale nazionale che permettesse e favorisse lo sviluppo della stessa classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita e di partecipazione democratica alla vita politica nazionale.

Ecco, proprio quella guerra civile ci permette di cogliere l’essenza di tutte le guerre civili: più attori in lotta sullo stesso campo, divisi oppure uniti da interessi che talvolta coincidono e ancor più spesso divergono.
Capitalisti industriali del Nord, banchieri, grandi proprietari terrieri del Sud, piccoli proprietari terrieri degli Stati confederati, schiavisti, abolizionisti, afro-americani schiavi oppure liberi nelle principali città del Nord, operai industriali, socialisti, repubblicani, democratici (questi ultimi all’epoca rappresentanti della proprietà terriera del Sud) furono infatti gli attori principali di quel dramma.

La vittoria dei primi dell’elenco delineò il destino di grande potenza degli Stati Uniti, gli schieramenti politici successivi, gli allineamenti di classe rispetto agli interessi nazionali, odii e conflitti mai rimarginati ma, soprattutto, non risolse il problema della sottomissione degli afro-americani al potere bianco che, comunque, da quella guerra non fu minimamente scalfito o indebolito, ma piuttosto rafforzato da alleanze (ad esempio quello tra gli interessi economici del gran capitale e quelli dell’aristocrazia operaia del Nord) semplicemente impensabili prima di allora.

No sun comin’ through my windows
Feel like I’m livin’ at the bottom of a grave

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

Anche la Grande Crisi degli anni Trenta non contribuì ad un ravvicinamento tra gli interessi dei lavoratori, dei piccoli contadini bianchi impoveriti e quelli della comunità afro-americana. Troppo vicine risultavano, soprattutto al Sud, le ferite lasciate ancora aperte dalla guerra civile; troppo nazionalista risultava ancora la politica di una sinistra americana che incoraggiava gli operai bianchi a partecipare allo sforzo collettivo in vista dello scontro militare con le potenze del male, rappresentate all’epoca da Germania, Italia e Giappone (anche se ai vertici dell’establishment economico e politico statunitense non poche erano le simpatie per quei regimi politici) mentre lo stalinismo spingeva i ‘neri’ alla creazione di un proprio stato autonomo nel Sud degli Stati Uniti, basato unicamente sul presupposto della maggior presenza di discendenti degli schiavi, in stati come l’Alabama, la Georgia e il Mississippi, rispetto alla popolazione ‘bianca’.

In realtà la crisi della segregazione razziale ebbe inizio soltanto un secolo dopo, negli anni Sessanta del ‘900, a seguito di una crisi di coscienza politica sviluppatasi tra gli anni della Nuova Frontiera di kennedyana memoria e la critica del macello imperialista in Vietnam, che vide comunque protagonisti, oltre agli afro-americani, gli studenti, gli intellettuali e una parte dei reduci di quella guerra più che i lavoratori della classe operaia o della classe media bianca. Ancor aggrappati, questi ultimi, ad un sogno americano che per gli altri andava rapidamente disfacendosi nella repressione poliziesca dei movimenti giovanili, nei ghetti delle metropoli e nelle paludi del Sud-est asiatico. Soltanto là dove la componente afro-americana era predominante, come nel caso di Detroit, la classe operaia bianca si unì ai neri nella lotta, che ebbe comunque sempre al suo centro rivendicazioni inerenti l’autonomia di classe, il lavoro e le sue condizioni salariali ancor più che i diritti civili1.

La vera novità di queste ultime settimane, invece, è data dal fatto che le proteste hanno coinvolto soggetti diversi, sia dal punto di vista etnico-culturale che di classe, vedendo uniti nelle protesta la comunità afroamericana (che rappresenta circa il 12% della popolazione statunitense) insieme a quella ispanica, nativa americana, asiatica e almeno ad una parte di quella bianca. Un fatto sicuramente inedito per le proporzioni che ha raggiunto nella partecipazione alle proteste.

D’altra parte l’omicidio del quarantaseienne George Floyd, seguito a distanza di pochi giorni da quello del ventisettenne Rayshard Brooks da parte della polizia di Atlanta sono stati non soltanto gli ultimi casi di una catena di violenze e prevaricazioni di cui la comunità afroamericana e vittima da sempre, ma anche le classiche gocce che hanno fatto traboccare un vaso già colmo.

La crescita abnorme delle disuguaglianze sociali nel corso dell’ultimo decennio ha cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. La precarizzazione delle vite dei lavoratori e l’impoverimento della middle class sono state ulteriormente aggravate dall’epidemia di Covid-19 che ha colpito in maniera sproporzionata la popolazione nera e, in genere tutte le fasce più deboli della popolazione. Creando le condizioni per una tempesta perfetta.

Al 21 giugno gli Stati Uniti risultano essere infatti il paese maggiormente colpito dall’epidemia con con 2.255.119 casi e 119.719 decessi. In un contesto in cui il settore dell’assistenza sanitaria costituisce:

il più grosso fallimento del sistema economico americano. Un disastro che, oltre a provocare un numero infinito di drammi individuali, lacera pericolosamente il tessuto sociale mettendo con le spalle al muro un ex ceto medio già molto impoverito e accentua ulteriormente le disuguaglianze estreme dell’America del Ventunesimo secolo. E quando le disuguaglianze si misurano non con gli squilibri di reddito ma con la differenza tra vivere e morire, le cose, evidentemente, cambiano.[…] I racconti commoventi o che suscitano rabbia sono infiniti: Pazienti in lotta con il cancro che si sono visti negare la chemioterapia per via di una polizza sanitaria che copriva solo il primo ciclo; malati terminali costretti, tra mille sofferenze, a combatter con i call center della propria assicurazione per negoziare qualche rimborso; migliaia di famiglie andate in bancarotta perché non in grado di pagare il prezzo esorbitante dei trattamenti medici erogati dal pronto soccorso. Il motivo è che in America, oltre alle aziende, possono dichiarare fallimeto anche i singoli individui: l’impossibilità di far fronte alle spese mediche è la prima causa di bancarotta2

Immaginiamo come tutto questo si sia incrociato con la pandemia e aggiungiamo il video di nove minuti girato da una ragazza di 17 anni che in poche ore ha fatto il giro del mondo con un effetto dirompente e, circa 48 ore dopo, il fuoco che ha distrutto il terzo distretto di polizia a Minneapolis, che ha invece prodotto l’immaginario della protesta contro le ingiustizie e il razzismo.

“Col passare dei giorni e delle settimane, la narrazione della vera natura della rivolta continuerà a essere discussa” scrive un cronista che ha seguito da vicino la prima settimana a Minneapolis. “[…] Non puoi fare un censimento durante una rivolta, ma il mio resoconto personale è che i giovani in prima linea sono stati sproporzionatamente neri e marroni, per lo più non affiliati a un’organizzazione ufficiale.“
Ma la vera importante novità sono le seconde linee: li’ trovi anche ispanici, latinos, bianchi, asiatici, nativi americani, donne e persone anche anziane3.

A tutto ciò va poi ancora aggiunto che:

Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1000 dipendenti si è quasi dimezzato
(da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 20183.
La seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.
[…] Tra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti è passato da quasi 5500 miliardi a poco più di 17.000 miliardi e la produttività è cresciuta di circa il 60%, ma i salari orari reali di gran parte dei lavoratori sono rimasti invariati o si sono addirittura abbassati. In altre parole, «per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica». Il che testimonia, tra l’altro, che i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi decenni – «la politica», con poche eccezioni individuali – hanno avuto la non volontà di legiferare a protezione degli strati mediobassi, cioè della maggioranza della popolazione, e hanno mostrato subalternità agli interessi della piccola minoranza dei potentati economici e finanziari.

L’impressionante aumento di ricchezza dei ricchi[…](ha) cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione. I suicidi sono aumentati del 24% tra il 1999 e il 2014; nello stesso arco di tempo, il tasso di suicidi è cresciuto del 63% per le donne tra i 45 e i 64 anni e del 43% per gli uomini della stessa età. Il loro numero è passato da 29.199 del 1999, a 42.773 del 2014, a 47.173 nel 2017 (quando le morti per alcol e droghe sono state più di 100.000). Infine, il fatto che l’arricchimento dei ricchi sia continuato durante la cosiddetta Grande recessione iniziata nel 2008, ha generato nuove frustrazioni, suscitato risentimenti e minato i pilastri della stessa tradizionale fiducia degli statunitensi nella loro democrazia in quanto prassi sociale informale e condivisa, prima ancora che impalcatura istituzionale.4

A questo punto è facile comprendere come le proteste e i riot che sono seguiti al brutale omicidio di George Floyd in quasi tutti gli stati della federazione, vanno ben oltre la pur fondamentale lotta contro la discriminazione razziale e pongono, invece e in maniera lampante, una questione socio-politica che, forse per la prima volta nella storia americana, potrebbe unificare le differenti componenti etniche in unico, autentico melting pot di classe.

Naturalmente, si è cercato fin da subito di vedere nelle rivolte un complotto dei suprematisti bianchi (tornando all’inveterata tradizione degli opposti estremismi che serve sempre a dipingere come fascista o populista qualsiasi forma di lotta non immediatamente inquadrabile nelle maglie istituzionali)5, ma è indubbio che la pressione sociale negli USA è salita a livelli critici a causa della crisi economica da Covid-19, che ha prodotto nel giro di poche settimane un aumento vertiginoso di richieste di nuovi sussidi di disoccupazione, aumentate di circa 40 milioni.

Anche se la maggioranza dei nuovi disoccupati è probabilmente da ricercare nei settori lavorativi contraddistinti dal precariato e vedono coinvolti soprattutto lavoratori e lavoratrici appartenenti alle minoranze etniche e ai millennial bianchi (i quali ultimi hanno visto ridursi del 16% le loro possibilità occupazionali soltanto tra marzo e aprile6), è altrettanto indubbio che tale situazione ha aperto un ulteriore baratro di fronte agli occhi di quella classe media bianca, operaia e non, che già dal 2008 ha imparato cosa significhi perdere rapidamente non solo il posto di lavoro, ma anche la casa e qualsiasi altro tipo di garanzia sociale ed economica (risparmi e investimenti nei fondi pensionistici privati in primis).

Ecco allora che se nel Michigan lavoratori e miliziani bianchi armati avevano occupato il parlamento dello Stato armi alla mano, nei giorni successivi alcuni gruppi di boogaloo boys (militanti di formazioni armate di varia natura e non sempre apparteneti soltanto alla destra bianca) hanno manifestato solidarietà con la morte di George Floyd, in nome di una comune lotta (boogaloo è, né più né meno, che un sinonimo gergale per guerra civile) contro lo Stato federale, le sue leggi, i suoi apparati di sicurezza e la sua volontà di controllare la diffusione delle armi a discapito del secondo emendamento della Costituzione americana7.

Certo in tale manifestazione di “solidarietà” sono rintracciabili elementi di opportunismo e di provocazione, forse solo un autentico bluff, ma non dimentichiamo mai che, soprattutto tra le frange impoverite dei piccoli farmers tali posizioni estreme, di destra e armate, hanno preso piede da decenni8 proprio a partire dal venir meno di qualsiasi speranza in un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni economiche a seguito di un sempre maggior indebitamento nei confronti delle banche, oggi accompagnato spesso dai danni causati in molti territori, ancora utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento, dalla pratica del fracking, ovvero della fratturazione idraulica del sottosuolo per la ricerca e l’estrazione del petrolio e dello shale gas.

E’ una geografia politica, mentale e spaziale estremamente frantumata quella degli Stati Uniti attuali.
Un mosaico impressionista di emozioni, rivendicazioni, miseria e rabbia che spesso assume i contorni della dichiarazione di zone liberate. Dalla attuale Zona Autonoma di Capitol Hill a Seattle alla ciclica dichiarazione di indipendenza di zone rurali, caratterizzate dalla rivolta contro il prelievo fiscale e l’austerity di stampo governativo, che hanno contraddistinto la storia della federazione americana dalla Shay’s Rebellion del 3 febbraio 1787 fino ai giorni nostri9.

Stiamo attenti, molto attenti, la creazione di un fronte comune tra bianchi impoveriti, armati e arrabbiati e movimenti afro-americani, ispanici o altri ancora è altamente improbabile, ma come scriveva l’ultimo maestro dello haiku: Eppure, eppure10.
La situazione negli USA è altamente esplosiva e sicuramente i vertici politici, finanziari e militari del paese non possono escludere alcuna possibilità di sollevamento e rivolta sociale. Non a caso gli stessi vertici sembrano aver formalmente “abbandonato “ Trump per concedere ai movimenti ben più di quanto il presidente avrebbe voluto (ovvero nulla o quasi), mentre continua ad abbaiare il suo slogan di Law and Order e le sue minacce di dieci anni di galere per chi imbratta o abbatte le statue del passato colonialista e schiavista.

Lo stesso presidente, però, è ben conscio della situazione altamente instabile con cui ha a che fare e, dal chiuso del suo bunker assediato non solo metaforicamente, non smette di soffiare sull’unica risorsa che gli rimane, almeno apparentemente, per vincere le prossime elezioni: ovvero quello del razzismo e dell’odio viscerale che molti lavoratori, piccoli proprietari agricoli e membri impoveriti di una classe media un tempo fiorente, nutrono nei confronti delle banche, dello Stato federale e di una upper class di cui lo stesso Trump è, in fin dei conti, il più agguerrito rappresentante.

L’elastico delle contraddizioni sociali è ormai teso allo spasmo e qualsiasi errore tattico da parte della classe al potere e dei suoi apparati militari e repressivi potrebbe tracimare in uno scontro il cui finale sarebbe ancora tutto da scrivere. Non a caso Obama, sotto la cui presidenza gli omicidi di afro-americani non sono certo diminuiti, e tutto l’apparato del Partito Democratico spingono per cercare di racchiudere la protesta in un ambito puramente elettorale, in cui la questione dei diritti civili sia l’unica componente unificante.

Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, a proposito dei lavoratori irlandesi sfruttati dai padroni e maltrattati dagli operai inglesi, Marx aveva ammonito i secondi, affermando che chi non è in grado di difendere i diritti altrui non è neppure in grado di difendere poi i propri. E tale monito deve continuare a splendere come una stella polare per chiunque abbia a cuore la trasformazione e il superamento del modo di produzione vigente, ma allo stesso tempo occorre che chi vuole lottare efficacemente contro lo stesso tenga presenti tutte le contraddizioni e i bisogni che lo stesso suscita tra segmenti diversi di classe e/o di classi sociali differenti.

Per fare uno scomodo esempio, riferibile all’attuale situazione italiana, sia durante l’epidemia da Covid, con l’obbligo di lavorare per i dipendenti di migliaia di imprese che non si sono mai fermate, che dopo, è qui utile ricordare quanto affermato Sergio Bologna in una recente intervista:

Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.11

Ecco: il conflitto, industriale e/o sociale, può essere il terreno di coltura di una nuova e allargata strategia di classe che veda finalmente riuniti i differenti temi che agitano le rivolte di ogni tipo in nome di un superamento dell’esistente e non del suo mantenimento in vita in chiave green o pseudo-democratica e liberal. A costo di riprendere l’unico illuminista in grado di proiettarsi oltre l’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, occorre ancora ricordare che l’unica vera disuguaglianza tra gli uomini è quella economica, tra chi ha e chi non ha12. E che da questa, fondamentale a partire dall’invenzione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, derivano tutte le altre.

Superare la prima significherà travolgere le altre, anche se secoli di abitudini sedimentate e di incrostazioni ideologiche e religiose avranno bisogno di un certo tempo per essere cancellate del tutto. Cercare di farlo significa però, in maniera tutt’altro che utopistica, cercare di riunificare ciò che il capitale e lo Stato tendono continuamente a dividere per distogliere la rabbia dal conflitto reale e volgerla ad uno più utilmente sfruttabile ai fini del mantenimento dei rapporti di forza attuali tra le classi.

Come ha recentemente affermato Angela Davis:

“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.[…] Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco13.

Sia Trump che i democratici stanno soffiando su un fuoco che, però, non è soltanto elettorale, visto che chiunque dei due vinca alle prossime elezioni, avrà grosse difficoltà nel mantenere le promesse fatte e in ogni caso dovrà fare i conti con una rabbia sempre meno celata e sempre meno rimovibile dalle coscienze.

Abbiamo, come già affermato, qui su Carmilla nella serie di articoli sull’Epidemia delle emergenze14, una grande possibilità da cogliere oggi, in America e non solo, a patto di non ridurre il tutto ad una serie di sardineschi inchini e saper invece affrontare la catastrofe che già è in corso, di qua e di là dell’Atlantico.
Perché l’impossiblità di vivere oggi, per la maggior parte della specie umana, è anche la vera ragione della nostra insopprimibile forza.

I don’t, live today
Maybe tomorrow, I just can say
But a, I don’t live today
It’s such a shame to waste
your time away like this
Existing


  1. Sull’eperienza del DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement) si veda qui  

  2. M. Gaggi, Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti, RCS Media Group, Milano 2020, pp. 57-59  

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dollari-e-no-gli-stati-uniti-dopo-la-fine-del-secolo-americano-intervista-a-bruno-cartosio  

  4. B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del «secolo americano», DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 6 – 23  

  5. Come ha affermato il governatore del Minnesota in un articolo di R.J. Armstrong, Minneapolis senza pace: dietro la rivolta, la mano dei suprematisti, la Repubblica, 30 maggio 2020  

  6. F. Rampini, “Generazione sfortunata”. E i Millenial bianchi si saldano alla rivolta, la Repubblica, 9 giugno 2020  

  7. Si veda R. Menichini, Camicie hawaiane e mitra: la destra dei “Boogaloo Bois” in piazza per Floyd (e per la seconda guerra civile), la Repubblica, 16 giugno 2020 oppure anche https://www.bellingcat.com/news/2020/05/27/the-boogaloo-movement-is-not-what-you-think/  

  8. Si pensi soltanto al bellissimo film Betrayed (Tradita), diretto da Costa-Gavras, autore tutt’altro che di destra, nel 1988. Si consultino, inoltre: J. Dyer, Raccolti di rabbia. La minaccia neonazista nell’America rurale, Fazi Editore, Roma 2002 e J. Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Bruno Mondadori, Milano 2010. Infine, per un autentico ed importante case study sulla trasformazione dal punto di vista sociale e politico di un territorio un tempo caratterizzato da una grande tradizione di lotta di classe, si veda A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011  

  9. Di cui uno dei casi più drammatici è rappresentato dalla violenta repressione della comunità “indipendente” di Waco nel Texas avvenuta nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton. In tale occasione 76 persone, tra cui molte donne e bambini, bruciarono vive nel rogo che seguì all’assalto delle forze federali alla comunità, dopo un assedio durato 51 giorni. Si veda in proposito C. Stagnaro, Waco, una strage di stato americana, Stampa Alternativa, 2001  

  10. «è di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure» scriveva Kobayashi Issa (1763-1827), dopo aver perso il figlio  

  11. S. Bologna, «E’ giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza», il Manifesto, 25 maggio 2020  

  12. J.J. Rousseau, Origine della disuguaglianza (1754), Feltrinelli, Milano 1997  

  13. https://www.infoaut.org/approfondimenti/angela-davis-it-s-about-revolution  

  14. Oggi raccolti in Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020  

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Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

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Cronaca di una settimana intergalattica alla Zad di Notre-Dame-des-Landes https://www.carmillaonline.com/2018/09/08/cronaca-di-una-settimana-intergalattica-alla-zad-di-notre-dame-des-landes/ Sat, 08 Sep 2018 21:07:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48683 [Traduciamo e pubblichiamo qui di seguito un interessante contributo inviatoci dai compagni della Zad sul significato e i temi della grande assemblea intergalattica dei movimenti tenutasi, dal 27 agosto al 2 settembre, sui territori ancora occupati di Notre-Dame-des-Landes. S.M.]

Dietro un tavolo, in disparte dal pubblico, cinque persone bisbigliano in lingue differenti. Gli sguardi sono un po’ vaghi, ma i tratti del volto indicano in tutti una grande concentrazione, mentre sembrano salmodiare in spagnolo, italiano, inglese, basco e francese. A volte, in un intrico di cavi aggrovigliati, si scambiano i microfoni: l’oratore è cambiato. Durante tutta la “settimana intergalattica” alla [...]]]> [Traduciamo e pubblichiamo qui di seguito un interessante contributo inviatoci dai compagni della Zad sul significato e i temi della grande assemblea intergalattica dei movimenti tenutasi, dal 27 agosto al 2 settembre, sui territori ancora occupati di Notre-Dame-des-Landes. S.M.]

Dietro un tavolo, in disparte dal pubblico, cinque persone bisbigliano in lingue differenti. Gli sguardi sono un po’ vaghi, ma i tratti del volto indicano in tutti una grande concentrazione, mentre sembrano salmodiare in spagnolo, italiano, inglese, basco e francese. A volte, in un intrico di cavi aggrovigliati, si scambiano i microfoni: l’oratore è cambiato.
Durante tutta la “settimana intergalattica” alla Zad, la tavola non si svuoterà mai di questi interpreti improvvisati, tratti dallo stesso pubblico, ma nondimeno capaci di assicurare sempre la traduzione simultanea delle discussioni. Lo fanno senza chiedere niente in cambio, semplicemente orgogliosi di aiutare l’organizzazione, di condividere le loro conoscenze linguistiche con tutti coloro che, sotto il grande tendone, ascoltano le loro voci attraverso gli auricolari.

Una delle interpreti ha le mani così sporche di terra che sembra esitare nel maneggiare gli strumenti messi a disposizione da un collettivo internazionale: nella stessa mattinata ha partecipato alla raccolta delle patate. Un altro soffre ancora dei postumi di una sbornia colossale seguita alla festa intorno ai fuochi della notte precedente. Poco importa, sono là al loro posto, per tradurre le voci degli invitati provenienti dal Wentland (Germania), da Christiania (Danimarca), dalla Val di Susa, dal quartiere basco di Errekaleor, dalle zone dai terreni abbandonati e occupati di Lentillères a Dijon (Francia), dall’Europa, ma anche quelle degli invitati provenienti dal Giappone, dal Messico e dal Rojava. Occorre ammetterlo, anche se talvolta ne dubitiamo, che è ormai evidente che una forza organizzativa è ancora ben presente alla Zad. I cinquecento pasti serviti ogni sera sono serviti da mense autogestite, una delle quali è fatta da migranti che vivono a Nantes, la città vicina. E anche lì, una volta terminato il lavoro delle cucine, approfitteranno delle traduzioni.

Noi vogliamo parlare di un internazionalismo del presente durante questa settimana intergalattica, ma è sufficiente attraversare l’accampamento e gli edifici appena ricostruiti per percepire che lo stiamo già creando, qui e ora. Noi siamo all’Ambazada la cui costruzione è iniziata un anno fa, su iniziativa dei Baschi appoggiati da una equipe di zadisti. Di cantiere collettivo in cantiere collettivo, questa ambasciata dei popoli che non si lasciano sottomettere del mondo intero, è sorta dal suolo. Aperta a tutti coloro che lottano e hanno bisogno oppure desiderano un luogo in cui potersi riunire. Essa ha resistito alle operazioni militari di questa primavera, con gli stessi Baschi, che l’avevano immaginata, arroccati sul suo tetto per difenderla di fronte ai 2500 agenti che hanno attaccato la Zad. Poiché di cantiere collettivo in cantiere collettivo si finisce con l’amare talmente un luogo da giungere a lasciare tutto per correre a difenderlo quando questo è minacciato.

E’ stata proprio la forza di questo attaccamento a donare un tale vigore alla resistenza di questa primavera. Molte persone sono venute dai quattro angoli del mondo per sostenere la Zad, ciò che rappresenta, a causa dei mille legami che le ricollegano. Può proprio essere questa la bozza di questo internazionalismo che si richiama alle nostre voci, che si nutre di una solidarietà attiva tra i territori in lotta, che rafforza le comuni emergenze, che crea attraverso ciò che si condivide una forza materiale e ideale che va al di là delle frontiere. A partire da queste situazioni radicate questo internazionalismo non potrà rivestire che un carattere di “senza terra” che è stato sottolineato durante molti interventi. Questa costituisce senza dubbio la sua novità.

Durante questa settimana si è trattato e discusso di lingue, culture, tradizioni e popoli, temi quasi sempre assenti dai grandi raduni militanti. Prenderà infine atto degli spazi dove emergono le resistenze al capitalismo e alla sua omogeneizzazione su scala mondiale? L’anno prossimo questa settimana avrà luogo a Biarritz, nei Paesi Baschi, città prescelta per organizzare il prossimo summit del G7. La solidarietà non può essere che reciproca.

L’idea di radicamento non è soltanto legata allo spazio, ma è egualmente temporale. Anzi, uno dei fili rossi della settimana è stata la storia, la nostra storia. Quattro serate sono state dedicate ai temi dell’autonomia italiana degli anni Sessanta e Settanta, agli squatter e agli autonomi tedeschi degli anni Ottanta, ai movimenti ecologisti radicali della Gran Bretagna degli anni Novanta e ai movimenti sociali francesi del decennio 2005 – 2016. Illuminati soltanto da piccole lampade, hanno dato voce, davanti a una sala piena, a queste rivolte da cui traiamo larga ispirazione ancora oggi.

Queste narrazioni, in perpetua elaborazione, fanno parte di un apprendistato dell’arte di raccontare che noi non siamo ancora stati capaci di raggiungere fino ad ora. Si intrecciano così le grandi cronologie con gli aneddoti che paiono insignificanti davanti alla “grande Storia”, ma che costituiscono la carne e il sangue di uno storia abitata. I rivoluzionari del XIX secolo percepivano il susseguirsi delle loro sconfitte passate il cammino inesorabile verso la loro vittoria finale. Il nostro rapporto con l’esperienza è più complesso, più frammentato e il nostro avvenire più incerto. Questo non è ancora scritto e, alla scala della Zad, resta ancora largamente da conquistare e inventare. René Char, un grande poeta francese, nel 1944 diceva: “Noi siamo nell’inconcepibile, ma con dei punti di riferimento abbaglianti”. Nella nostra piccola guerra, l’Ambassada è uno di questi punti di riferimento, un embrione del futuro per il quale ci battiamo, in tutte le lingue. Per quel che rimane in piedi, dovremo dimostrare allo Stato che i rapporti di forza non sono svaniti, senza di ciò questo territorio, guadagnato attraverso grandi lotte, rischia di essere definitivamente perduto. Per questo motivo vi invitiamo il prossimo 29 e 30 settembre a partecipare tutti a manifestare con noi alla Zad per continuare la battaglia per queste “terre comuni”. (qui)

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Ragazzi selvaggi affacciati alle finestre di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2018/08/01/ragazzi-selvaggi-affacciati-alle-finestre-di-un-altro-mondo/ Wed, 01 Aug 2018 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47670 di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce Il ventunesimo secolo inizia qui. Fuori dall’Occidente alla velocità della luce Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che [...]]]> di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra
Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce
Il ventunesimo secolo inizia qui.
Fuori dall’Occidente alla velocità della luce
Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio
Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che ho da dire
Questa è la fine di tutto ciò che è usuale
E questi saranno tempi in cui i mondi entreranno in collisione

Realizzate tutto ciò di fronte al Caos
In un universo indifferente e selvaggio».

Credo che siano davvero le parole più adatte per celebrare le decine di migliaia di persone che si sono raccolte, forse sarebbe meglio dire si sono polarizzate, intorno alla lotta No Tav della Val di Susa, ai suoi militanti, alle sue ragioni, al suo saper guardare al futuro.
Se il più ostile Tg regionale del Piemonte ha parlato di almeno 50.000 partecipanti, credo, senza timore di esagerare, che anche gli organizzatori possano confermare una simile cifra nell’enumerare tutti coloro che sono stati attratti magneticamente dall’area del Festival durante le quattro, meravigliose giornate.

Cinquantamila persone costituite al 90% da giovani compresi tra i sedici e i trent’anni. Ragazzi selvaggi non per i modi, ma per essersi lasciati trasportare dall’istinto, dall’amore per la libertà individuale e collettiva e dalla passione per un mondo diverso e altro. Per aver saputo costituire, massicciamente e senza alcun problema, una nuova comunità umana fatta di gentilezza, riso, felicità, lotta e rifiuto del modello esistenziale dominante.

Mentre i media e tutti i giornali mainstream, compreso il sempre più soporifero e inutile Manifesto, hanno dedicato all’evento poche righe, senza mai saperne cogliere la rilevanza oppure negandola per paura che di questa si accorgano altri milioni di giovani, italiani e stranieri esattamente come quelli che hanno popolato l’iniziativa e il suo disordinato, coloratissimo e vastissimo campeggio, i partecipanti, con la sola loro presenza, hanno saputo dire di NO al mondo dei grandi progetti, del capitale finanziario, delle mafie e camarille politiche, soprattutto di quelle che ancora si fingono di “sinistra”.

Ma il Re è nudo, e sarà inutile chiedersi ancora a “sinistra” dove sono i giovani: sono da un’altra parte, sulla frontiera delle lotte e dei cambiamenti magmatici che già si delineano all’orizzonte.
Sono ragazze e ragazzi bellissimi, detentori e portatori di un nuovo canone estetico e di nuovi desideri che, allo stesso tempo, sono coraggiosi, ingenui e maturi come tutti gli altri che li hanno preceduti nel tempo sullo stesso campo di battagli.

Sono giovani ragazzi selvaggi come quelli descritti decenni or sono da William Burroughs, il cui fantasma, in un ambiente off limits per le forze del disordine, vegliava sul tutto al bivio per Venaus sulla strada del Moncenisio, seduto come sempre con il suo fucile messo di traverso sulle ginocchia. Da lì la polizia e i carabinieri non potevano passare.

Nemmeno dopo la manifestazione, formata da migliaia di persone, che aveva raggiunto il cantiere fasullo e truffaldino come tutta l’opera, in Val Clarea, nonostante la pioggia e i soliti blocchi posti lungo il suo percorso.
Stop ai lavori! Si sente già nell’aria odore di vittoria mentre allo stesso tempo i fantasmi e gli schiavi del Capitale, come servitori traditi ed abbandonati, cercano di portare ancora le loro ragioni meschine e mefitiche sugli schermi delle tv e su pagine di giornali ormai destinate ad essere stracciate dal vento della rivolta e della gioia di vivere.

Non saranno infatti i tweet del ministro Toninelli a chiudere l’opera: lo hanno già fatto una lotta più che ventennale e una mobilitazione che cresce ogni anno di più, mentre in maniera inversamente proporzionale scendono le ragioni e le possibilità di realizzazione di una linea ad alta velocità nata morta. Come il congelamento da parte della società TELT di un bando internazionale per l’appalto di lavori per un valore di 2,3 miliardi di euro ha dimostrato proprio nei giorni seguenti la manifestazione.

Manifestazione in cui la parte musicale serale ha costituito soltanto uno degli aspetti, durante la quale, sia dal palco che nelle interviste rilasciate nel backstage, molti artisti si sono apertamente schierati sia a fianco della lotta NoTav che di quella NoTap. Mentre durante il giorno presentazioni di libri ed autori si affiancavano a dibattiti, con militanti italiani e stranieri, sulle trasformazioni del lavoro, sulla questione dei migranti, sulla fine del Novecento “politico” e sulla fine di un paradigma partitico di rappresentanza di cui soltanto da qualche tempo si è iniziata comprendere l’importanza e l’impatto sulle lotte reali e sulle loro forme organizzative.

Dibattiti in cui si è parlato di repressione, autodifesa e trasformazione del Diritto. Di continuità tra Fascismo e Repubblica, smantellando il paradigma istituzionale falsamente democratico e antifascista.
Della Palestina e dell’indipendentismo catalano e, ancora, della magnifica e vittoriosa esperienza della ZAD di Notre Dame des Landes così come delle lotte francesi contro la loi travail e dei cortei di testa a cui hanno dato vita migliaia di manifestanti di ogni età e appartenenza sociale.

Si è parlato del Rojava e dello straordinario esperimento comunitario delle sue genti e si è parlato di ambiente, di natura e dei costi di realizzazione di uno dei tanti mostri tecnologico-speculativi proposti da un modo di produzione fatiscente e giunto ormai al proprio promontorio tra i secoli. Dibattiti e presentazioni, gite e passeggiate in cui la presenza è sempre stata alta e motivata.

Anche se, per ora, ci si è solo affacciati alle finestre di un altro mondo, già si sente nell’aria l’annuncio:
Genti della Terra
Una nuova stagione è iniziata
La creatività e l’immaginazione trionferanno sul lavoro morto
e sul valore feticcio estorto con la forza dalla fatica di milioni di individui.
Così da dare vita ad un mondo senza barriere etniche, di classe, genere e senza confini tracciati da nazioni ed imperi ormai condannati alla polvere dei secoli, come tutti i loro predecessori.
In cui la Vita possa finalmente trionfare sulla Morte, i suoi servi e i loro miserabili feticci.

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Io sono la Comune https://www.carmillaonline.com/2018/06/13/io-sono-la-comune/ Wed, 13 Jun 2018 19:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45951 di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al [...]]]> di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al servizio di una causa straordinaria.

Straordinaria sia per l’esemplarità della vita e delle lotte dell’anarchica francese, sia per l’esperimento, oggi sottostimato e ricordato quasi sempre in maniera un po’ troppo superficiale e retorica, che , almeno per l’Europa occidentale, rese chiaro ai lavoratori, ai proletari e ai rivoluzionari in lotta contro l’esistente, l’impossibilità della collaborazione in senso nazionale tra classi sociali, quali la borghesia e il proletariato, i cui interessi politici, economici e storici erano (e rimangono) radicalmente divergenti.

Un tema sul quale, in tempi di generici appelli anti-fascisti, anti-berlusconiani e troppo spesso sostanzialmente perbenistici di una sinistra che si rivela cazzara anche quando non è di stretta osservanza renziana, si tende a glissare poiché destinato a portare alla ribalta problemi concreti quali quello dell’azione realmente antagonista e rivoluzionaria contro l’attuale modo di produzione e dell’uso della violenza e della sua organizzazione da parte dei movimenti di resistenza contro le condizioni di vita e di lavoro condizionate dal capitalismo, non solo finanziario.

Un tema che si riflette in ogni lotta attuale: dal Rojava alla Val di Susa, dalla ZAD di Notre Dame des Landes al Salento. Lotte ed esperienze i cui protagonisti non potranno mai dichiarare altro ancora che: Noi siamo la Comune! Così come l’avrebbero potuto urlare gli studenti del Maggio parigino, gli operai di Mirafiori delle grandi lotte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli operai di Berlino Est nel 1953 e i rivoluzionari ungheresi del 1956 insieme a tutti coloro che sono insorti, insorgono e ancora insorgeranno contro lo stato di cose presente e che, finché esisteranno i confini giuridici della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato, non avranno mai governi amici.
Come i protagonisti delle vicende narrate nelle pagine, vivaci e attente alla ricostruzione storica, che riportiamo qui di seguito.

“Io sono la Comune. La moltitudine interminata dei senza nome. Il fuoco che sprigiona un tempo nuovo. La festa di ciò che diviene. La felicità di ciascuno e di tutti, di tutti e di ciascuno, l’una condizione dell’altra. Io sono la Comune, il tempo che rinasce e divampa, il tempo che si riproduce per scissione, a due a due come le ciliegie, in una catena infinita e senza centro. Io sono la Comune, e dunque non sono Io, ma la disseminazione dei corpi e delle anime confuse in un grappolo di suoni senza fine, che si eleva al cielo estendendone il limite, perché nostra è la forza, nostro è il coraggio, nostra è la gioia. Io sono la Comune, che non può morire, e danza.

Fu quando Thomas e Lecomte vennero per riprendersi i nostri cannoni che insorgemmo. Era il 18 marzo. Il giorno prima Thiers aveva dato l’ultimatum. I prussiani sono andati via, dunque ridateci i cannoni e obbedite all’ordine costituito. Ma chi credeva ormai ai generali a cui ci si chiedeva di sottometterci? A Parigi non ci credeva più nessuno. E comunque sì, Thiers aveva ragione quando diceva che c’erano dei malintenzionati che col pretesto dei prussiani volevano prendere il controllo della città. Si trattava di cambiare davvero, stavolta salvare la Francia era tutt’uno con il cambiarla. Bisognava farla finita con quella vecchia Francia borghese, che ci aveva esposto alla rovina e che adesso, esaurito l’Impero, pretendeva di riciclarsi in Repubblica.

[…] Le truppe del generale stavano arrivando; avevano occupato la riva destra della Senna e alcuni distaccamenti salivano la collina. Suonarono le campane, i tamburi chiamarono a raccolta: Louise, con un fucile nascosto sotto il cappotto, corse giù dalla collina, gridando «tradimento!». Al comitato di vigilanza si stava già formando una colonna , sotto il comando di Ferré.[…] La folla sciamava verso l’alto, le donne si imposero, erano loro a precedere gli uomini, c’erano anche tanti bambini. I soldati no si aspettavano di vederle arrivare con quella irruenza, con quella decisione, fu una sorpresa, e non reagirono. «Giù le armi!» gridavano le donne. «Siamo donne e bambini!», Louise era in prima fila a gridare ai soldati di non sparare, e intanto faceva mostra di proteggere le donne che si erano gettate a corpo morto sui cannoni. «Sono nostri!».
Il generale Lecomte, allora, ordinò ai suoi soldati di sparare sulla folla che avanzava. Ma i suoi soldati avevano deciso che non erano più suoi. Nessuno sparò.[…] I soldati non più suoi gli si avvicinarono, lo presero in custodia: «Venga con noi generale, adesso tocca a lei obbedirci!».[…] Erano le undici del mattino del 18 marzo 1871. Eravamo raggianti. Louise abbracciava tutti. Il popolo aveva manifestato, e aveva vinto. Era appena l’inizio.
Nel pomeriggio, dopo la decisione del Comitato centrale della Guardia nazionale, occupammo municipi, caserme, palazzi di governo, e cominciammo a costruire barricate. La bella tradizione di Parigi ribelle riprendeva, finalmente, nonostante i boulevard di Haussmann. Thiers e i suoi ministri scapparono come topi, rifugiandosi a Versailles, il luogo degli autocrati e della capitolazione.
Alla sera Lecomte venne fucilato, insieme all’altro generale, Thomas, di cui tutti ricordavano il massacro che aveva compiuto nel giugno del ‘48”.1


  1. pp. 40-43  

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