Unione Europea – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 16 Sep 2025 20:30:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito del Manifesto di Ventotene https://www.carmillaonline.com/2025/03/20/lanno-degli-anniversari-1941-2021-manifesto-di-ventotene/ Thu, 20 Mar 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68587 di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento [...]]]> di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento ideale dell’attuale Unione Europea.
Peccato, però, che a leggerne anche soltanto alcune pagine, guarda caso poste proprio all’inizio dello stesso, la narrazione europeista autorizzata non regga.

Il Manifesto, il cui titolo completo è “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, fu infatti elaborato da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nell’agosto del 1941, in piena seconda guerra mondiale, mentre i due antifascisti si trovavano confinati, insieme ad un migliaio di altri oppositori del regime, sull’isola di Ventotene, al largo di Formia.

L’autore principale fu Altiero Spinelli (1907-1986), che aveva iniziato la sua attività politica nelle file dell’allora Partito Comunista d’Italia e proprio per il suo ruolo di segretario giovanile dello stesso per l’Italia centrale era stato condannato nel 1927 a dieci anni di carcere e successivamente al confino, da cui fu liberato soltanto nel 1943 dopo la caduta “istituzionale” di Mussolini. Nel 1937, però, a seguito dei processi di Mosca e di una lunga riflessione sull’esperienza dello stato sovietico stalinizzato, era uscito da quello che era diventato il PCI.

Ernesto Rossi (1897-1967), che pure diede un importante contributo alla stesura del Manifesto, fu tra i fondatori e i principali animatori di Giustizia e Libertà e poi del Partito d’Azione e proprio attraverso gli scambi di idee con Spinelli, durante il periodo di confinamento forzato, divenne un sostenitore del federalismo europeo.

Idea di federalismo che, non dimentichiamolo, era nata e si era sviluppata proprio a seguito di quel secondo conflitto imperialista che stava macellando la gioventù europea e mondiale sui campi di battaglia ed era conseguenza non solo delle brame imperialiste delle potenze coinvolte, ma anche di un feroce nazionalismo che, in varie forme, aveva precedentemente finito con l’ingabbiare le stesse masse dei lavoratori.

Forse prendendo a prestito, almeno in parte, quell’idea di Stati Uniti d’Europa che Leone Trockij era andato sviluppando fin dal 19231, con l’intento di dar vita ad una federazione europea degli operai e dei contadini che desse una risposta concreta alle questioni più scottanti della rivoluzione europea, anche se nel 1915 lo stesso Lenin si era dichiarato contrario a tale parola d’ordine2, con argomentazioni che sarebbero poi in seguito state usate da Stalin per giustificare la teoria del “socialismo in un paese solo”.

Trockij, al contrario, era invece convinto che soltanto dall’unione tra le due parole d’ordine «governo operaio e contadino» e «Stati Uniti d’Europa» fosse possibile ingabbiare e controllare in chiave socialista quelle forze produttive capitaliste che superavano, già allora, il quadro nazionale degli Stati europei ed avevano costituito la vera forza motrice del Primo macello imperialista.

Proprio come la guerra rifletteva il bisogno di un ampio campo di sviluppo per le forze produttive compresse dalle barriere doganali, così l’occupazione della Ruhr, funesta per l’Europa e per l’umanità, riflette il bisogno di unire il ferro della Ruhr con il carbone della Lorena. L’Europa non può sviluppare la sua economia nelle frontiere doganali e statali che le sono state imposte dal trattato di Versailles. Essa deve abbattere queste frontiere, altrimenti è minacciata da una completa decadenza economica. Ma i metodi impiegati dalla borghesia dirigente per sopprimere le barriere che essa ha creato non fanno che aumentare il caos e accelerare la disorganizzazione.
L’incapacità della borghesia di risolvere i problemi fondamentali della ricostruzione economica dell’Europa si manifesta sempre più chiaramente di fronte alle masse lavoratrici. La parola d’ordine «governo operaio e contadino» va incontro a questa crescente aspirazione dei lavoratori a trovare una via di uscita con le loro forze. Ora, è necessario indicare in maniera più concreta questa via d’uscita: è la cooperazione più stretta tra i popoli d’Europa, l’unico mezzo per salvare il nostro continente dalla disgregazione economica e dall’asservimento al potente capitale americano3.

Messe da parte alcune considerazioni forse oggi superate sul tema delle “foze produttive” e del loro inarrestabile sviluppo, va qui compreso come in quelle poche righe già il leader bolscevico prefigurasse quelle che sarebbero state le conseguenze del trattato di Versailles prima e del secondo conflitto mondiale in seguito.

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si trovarono invece a scrivere in un periodo in cui erano fallite le speranze di un governo operaio e contadino europeo oppure di una federazione di governi di tal fatta, mentre Stalin si accaniva nella costruzione forzosa di un nuovo e potente capitalismo di Stato, non troppo diverso da quello rimesso in piedi da alleati ed avversari nel corso di quel devastante conflitto. Forse, fu proprio a partire da questa constatazione che, nella terza parte del Manifesto, Compiti del dopoguerra – La riforma della società, i due poterono affermare:

La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia4.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica “routinière” per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;

b) le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio, ecc.;

c) i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

d) la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

e) la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali 5.

E’ evidente che numerose affermazioni qui contenute potrebbero, oggi, essere ampiamente riviste, ma ciò non toglie che la domanda da porsi sia: cosa c’entrano il contenuto del Manifesto e le idee dei suoi estensori con l’Europa di Draghi (e oggi di Ursula von der Leyen), della guerra, del capitale finanziario e della BCE oggi celebrata proprio attraverso le sue pagine? Visto che l’Europa unita sognata all’epoca dai due estensori e, prima, forse anche da Trockij andava in una ben diversa direzione.

La prima domanda, però, deve essere accompagnata anche da un’altra: cosa c’entrano gli attuali difensori dello Stato-nazione e dei suoi sacri confini, in un contesto di capitalismo avanzato, col socialismo, il comunismo e la rivoluzione?


  1. Si veda L.Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, ora in L. D. Trockij. Europa e America (a cura di David Bidussa), Celuc Libri, Milano 1980  

  2. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, «Sotsial-Demokrat» n. 44, 23 agosto 1915  

  3. L. Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, in op. cit., p. 100  

  4. Per i lettori che dovessero strabuzzare gli occhi davanti a tali affermazioni, occorre qui ricordare che tale principio era in linea con la Nep, la Nuova politica economica, con cui Lenin aveva cercato di rivitalizzare l’economia dell’U.R.S.S. al termine della devastante guerra civile del 1919- 1921, mentre la statalizzazione assoluta di ogni attività economica e proprietà fu alla base delle politiche staliniane di industrializzazione forzata e competizione economica sul mercato mondiale. – N. d. R. 

  5. Altiero Spinelli, Enesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Celid per conto del Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2001, Parte Terza: Compiti del dopoguerra- La riforma della società, pp. 24 – 26  

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Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è… demente https://www.carmillaonline.com/2025/02/27/grande-e-il-disordine-sotto-il-cielo-la-situazione-e-demente/ Thu, 27 Feb 2025 22:45:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87118 di Nico Maccentelli

Il cambio dei ceti dirigenti negli USA e l’avvento Trump, ha comportato un mutamento totale di strategia politica imperiale davanti al sopravanzare del multipolarismo, la crisi del dollaro e l’accelerazione di processi decolonizzazione come nel Sahel e la lunga guerra di logoramento tra imperialismo e bolivarismo i America Latina.

Se prima la Russia era stata considerata il demone da abbattere nella narrazione del giardino occidentale delle democrazie liberali di borelliana espressione, e gli USA e i suoi vassalli erano al totale assalto della Federazione Russa sin dal golpe nazista di Euromaidan per smembrarla e accedere alle ingenti [...]]]> di Nico Maccentelli

Il cambio dei ceti dirigenti negli USA e l’avvento Trump, ha comportato un mutamento totale di strategia politica imperiale davanti al sopravanzare del multipolarismo, la crisi del dollaro e l’accelerazione di processi decolonizzazione come nel Sahel e la lunga guerra di logoramento tra imperialismo e bolivarismo i America Latina.

Se prima la Russia era stata considerata il demone da abbattere nella narrazione del giardino occidentale delle democrazie liberali di borelliana espressione, e gli USA e i suoi vassalli erano al totale assalto della Federazione Russa sin dal golpe nazista di Euromaidan per smembrarla e accedere alle ingenti risorse interne, ora il trumpismo spera e pensa di contrastare il declino dell’impero americano e dell’egemonia della sua moneta tornando a una sorta di bipolarismo come ai tempi dell’URSS, nel tentativo di spezzare l’alleanza cino-russa, spegnendo il fronte est europeo per rivolgersi all’Indocina e all’Estremo Oriente, con la possibile escalation della crisi taiwanese.

Del resto il secondo nemico, i vassalli, su cui affermare l’egemonia è già stato sconfitto insieme all’Ucraina nella guerra con la Russia, che ha avuto un non meno importante risvolto interno: spezzare il legame con la Russia da parte della Germania, della locomotiva industriale europea. Cosa riuscita anche con mezzi terroristici e avvertimenti mafiosi come l’attentato al Nord Stream. Ma la sconfitta è a questo punto qualcosa di letale per la sopravvivenza dell’euroatlantismo e dell’Unione Europea stessa.

L’analisi sulla guerra in Europa, i rapporti di forza con la Russia, le contraddizioni interne al campo imperialista atlantista, il declino del progetto europeo in crisi irreversibile con questa guerra e con le accelerazioni di una crisi sociale e politica dovute all’economia di guerra: il viaggio neoliberista finale di un TINA che oggi risuona come campane a morto per l’UE stessa.
Quasi tutto questo è bene espresso dalle parole di Alessandro Orsini:

«Accusare Putin per aver invaso l’Ucraina? Nel 2023, lo stesso Stoltenberg si vantò aver respinto tutte le richieste di dialogo, da parte dei russi, che volevano evitare di ricorrere alla soluzione militare. Se oggi Trump maltratta Zelensky, lo fa per nascondere la catastrofica sconfitta dell’Occidente, che si illudeva di poter piegare la Russia. Molti poi pensano che risalga al 2008 il tentativo di associare l’Ucraina alla Nato, ma non è vero: fu Bill Clinton, addirittura nel lontano 1994, ad approvare il progetto. Oggi, poi, qualunque autorità morale dell’Occidente è stata completamente distrutta dal genocidio a Gaza».

«Viviamo in un tempo in cui, dopo quello che abbiamo fatto a Gaza, nessuno può più raccontare a se stesso la storia secondo cui la civiltà occidentale è giuridicamente superiore alla Russia, alla Cina, alla Corea del Nord. Questo è un lusso che nessuno di noi può più permettersi. Negli ultimi 30 anni le democrazie occidentali hanno violato il diritto internazionale e i diritti umani molto più di qualunque dittatura. E questo emerge in maniera nitida dalla documentazione storica: negli ultimi tre decenni, nessuno ha fatto tante guerre illegali come la Nato».

«Nel 1999 la Nato ha condotto una guerra in violazione del diritto internazionale contro la Serbia. Poi nel 2011 ha bombardato Gheddafi per il suo rovesciamento in combutta con i ribelli libici (altra guerra in violazione del diritto internazionale). Per non parlare, appunto, di quello che abbiamo fatto e che ancora stiamo facendo a Gaza, dove si parla addirittura di deportare la popolazione palestinese superstite. La guerra in Ucraina, inoltre, ha causato la morte politica dell’Unione Europea. Putin ha semplicemente ucciso, politicamente, l’Unione Europea».

In politica internazionale, le guerre svolgono la stessa funzione che la ricerca svolge nella scienza: servono a confermare le ipotesi. Durante le guerre, le classi dirigenti fanno delle ipotesi sulla forza dei nemici. Quando è scoppiata questa guerra, l’Unione Europea ipotizzava che la Russia fosse debolissima e che l’Europa fosse fortissima. Invece la guerra ha disvelato i rapporti di forza: la Russia è fortissima e l’Europa è debolissima. Se vuole, la Russia può schiacciare l’Europa con un pugno».

«Mark Rutte, il nuovo segretario generale della Nato, qualche settimana fa ha dichiarato che, dal punto di vista militare, quello che la Russia produce in tre mesi la Nato lo produce in un anno intero, da Los Angeles ad Ankara. Cioè: Rutte ci sta dicendo che 32 paesi della Nato, Stati Uniti inclusi, a livello di armamenti producono infinitamente meno della Russia. Gli Usa e l’Europa, insieme, riescono a produrre 1,2 milioni di proiettili per l’artiglieria pesante, mentre in un anno la Russia ne produce 3 milioni».

«Com’è possibile che l’Europa possa continuare la guerra da sola? E come potrebbe aiutare l’Ucraina a battere Putin? Quello era il vero obiettivo di Biden, deporre Putin, ed è fallito. L’Unione Europea ha investito esclusivamente nella guerra. La posizione ufficiale dei leader europei (Draghi, la stessa Meloni, Macron e Scholz, fin che c’è stato) era l’impegno per la sconfitta della Russia, il ritiro senza condizioni delle truppe russe. Quindi l’Unione Europea ha basato tutta la sua politica sulla forza, esecrando la diplomazia. E siccome la forza non ce l’ha, ha perso la politica».

«Io non credo che l’Unione Europea potrà mai rinascere, dal punto di vista politico, a causa di questa guerra: perché l’umiliazione, la mortificazione è stata talmente grande e talmente evidente che in Asia, in Medio Oriente, in Africa, l’Europa non conta più nulla. Facendo questa guerra contro la Russia, l’Unione Europea ha mostrato la sua nullità. Così adesso è costretta a vivere sotto la minaccia permanente della Russia, rispetto alla quale abbiamo scoperto di non avere deterrenza».

«Abbiamo anche scoperto che Trump non vuole investire in una guerra con la Russia, tantomeno in Ucraina. Infatti in questo momento Putin è fortissimo. Ed è la ragione per cui ritengo che stia solo facendo finta di trattare. A mio giudizio, Putin non vuole trattare: vuole in realtà una finta trattativa, per la resa incondizionata dell’Ucraina. Tant’è vero che 24 ore fa la Russia ha condotto un attacco-record, un bombardamento-record contro l’Ucraina: ha lanciato 237 droni in gran parte su Odessa, cioè l’ultimo sbocco al mare rimasto agli ucraini».

«Trump ha lanciato un tweet dicendo che “la pace scoppierà fra qualche giorno”. Molti ottimisti immaginano che ci sarà una trattativa di questo tipo: Putin ferma le armi e si discute. Io invece credo che Putin farà una trattativa infilando un coltello in gola a Zelensky. Cioè: tratterà senza interrompere i massacri. E vorrà tutto quello che chiedeva tre anni fa per non farla, la guerra. Ora, il grandissimo problema dell’Ucraina (e la grande tragedia dell’Europa) è che Trump non ha via d’uscita: se non vuole rientrare nella guerra, trasformandosi in un Biden-2, deve cedere a tutte le richieste di Putin» (1).

Si può dire che il deep state USA, oggi in agonia per regime change, abbia fatto nella strategia politica necom e dem il lavoro sporco e oggi Trump ne raccoglie i frutti, permettendosi persino di estromettere l’UE insieme a Kiev dal tavolo delle trattative con la Russia per la cessazione delle ostilità in Ucraina e mandando nel pallone tutte le cancellerie del vecchio continente.

Dopo fiumi di miliardi di dollari che attraverso USAID hanno ricevuto tutti i centri politici e mediatici atlantisti, sono nel pallone persino i nostri pennivendoli (termine vecchio, ma molto attuale, visto che scrivono secondo i padroni del momento e a fronte di moneta sonante). Da qui nasce una situazione di caos e i maggiori gruppi dirigenti europei, gli euroburocrati alla Von Der Leyen, ancora legati alla cordata dem e neocom statunitense, non sanno che ruolo ricoprire in questo mutamento radicale di politica. E siamo ancora nella fase in cui l’UE è di fatto una roccaforte del vecchio potere imperiale, con i suoi carrozzoni dem, lib, lab, socialdemocratici, infarciti di fabiani e malthusiani transumanisti vari, tutta la corrente davosiana che cerca di mantenere le posizioni proprio in Europa.

Romania: dopo le elezioni annullate con un pretesto, viene arrestato lo stesso candidato vincente, ancora favorito, mentre va a presentare la candidatura; ciò accade in un paese dell’UE e non c’è nemmeno una perplessità nei media liberal così tanto “democratici”…

Se facciamo un disamina sull’Unione Europea, ci rendiamo conto che assieme alla centralità ordoliberale dei mercati e alle conseguenti regole spacciate per intangibili tecnicismi del TINA (there is not alternative), questo carrozzone è decisamente in liquidazione e, davanti alle spinte sociali e all’emergere di forze politiche anti-europeiste, soprattutto le destre come la tedesca AFD, non trova di meglio che andare di censura e di atti autoritari nei suoi territori, come le elezioni rumene, invalidate con motivazioni al limite della demenza, fino alla notizia di ieri che il candidato favorito, “putiniano”, Georgescu è stato arrestato per cospirazione mentre andava a consegnare la documentazione per ricandidarsi. Se non è fascismo questo…

Al momento in Germania agli euro-atlantisti gli è pure andata bene, con l’ascesa nelle elezioni politiche del cristiano di Black Rock Merz, prossimo alla cancelleria ma con una maggioranza traballante con una SPD in caduta libera e una sinistra che di radicale ha solo la differenziata nei quartieri bene, la Die Linke, nonché i verdi, per una riedizione della Grosse Koalitionen, nonostante la campagna elettorale portata avanti da Musk e Vance, tutta orientata a portare al governo quei liberal-nazi che meglio rappresenterebbero gli interessi USA fingendo di fare quelli tedeschi. Gli è andata bene, ma solo perché non è emerso alcun soggetto politico realmente anti-sistema (che vuol dire essere anticapitalisti) e che le varie lotte dal basso sono puramente vertenziali un po’ in tutto il continente, ossia di scopo specifico e non mettono di certo in discussione il sistema di potere stesso.

E veniamo all’Italia. Il governo Meloni ha un solo grande problema, anzi due: restare ancorato al carrozzone europeista, al cerchio magico dei grandi riunitisi a Parigi, ma dare un colpo fideista anche alla botte del trumpismo, candidandosi come esecutivo più aderente alla nuova politica trumpiana. Roba da equilibristi. Arlecchino servitore di due padroni.

I problemi invece per chi a sinistra qui in Italia c’è e ci vuole stare con coerenza e con la chiarezza di capire quale sia il nemico principale, ossia quello da affrontare per primo, sono parecchi. A partire da un effetto Die Linke, che i vari gonzi giudicano positivo nel richiamo pavloviano al bellaciao, ma che in realtà va a dare forza nei fatti e checché ne pensino i vari illusi e obnubilati, al can che affoga europeo, ossia le classi dirigenti UE, i loro partiti che , ahimè vanno dalle socialdemocrazie e sinistre pseudo radicali ai centristi cristiani vari (PPE). Questi infatti sono i nemici principali. E ora che sono in crisi ogni colpo di maglio dato agli euro-atlantisti è ossigeno per l’antagonismo antiliberista e che punta a un modello socio-economico collettivista a un ruolo dello stato e del suo welfare in controtendenza con il liberismo di mercato che ha portato dentro i peggiori rischi di una guerra su vasta scala. E che se oggi il nuovo corso trumpiano negli USA va verso una trattativa con la Russia e se l’Unione Europea non può proseguire la guerra senza l’alleato dominante, ciò non significa che siamo alla fine corsa dell’atlantismo con tutto il suo carico di misure di macelleria sociale che peggiorano la vita dei cittadini europei e italiani. Comunque andrà lo scontro di potere non ne verrà nulla di buono per le classi popolari già colpite da un’economia di guerra che vede i contendenti interni al fronte atlantista tutti d’accordo per aumentare le spese militari, per la crescita di un warfare che toglierà ancora di più risorse per il welfare ai cittadini, per il reddito, le pensioni, i servizi. I costi verranno pagati come sempre dal popolo a partire dal proletariato e dai ceti medi che si vanno precarizzando.

Infatti, deve essere chiaro che in questo momento storico in Occidente, l’epicentro dello scontro interno purtroppo non è la lotta di classe del basso contro l’alto, ma un conflitto politico aspro tra frazioni di capitale. Per cui il motto que se vayan todos, la parola d’ordine che emerse spontaneamente durante le proteste argentine dei cacerolazos, e ripreso in Italia da settori dell’antagonismo di classe anni fa, è ancora piuttosto attuale. È ancora oggi l’unica carta che si può giocare per irrompere sulla scena politica, senza farsi strumentalizzare con carrozzoni variopinti e da un dirittumanitarismo falso, che ha completamente e volutamente dimenticato la questione dei diritti sociali e sul lavoro.

Due passaggi politici vanno evidenziati nel constatare che ancora una volta certa sinistra che dicesi comunista cascherà ancora nella tattica trita e ritrita della coalizione di centro-sinistra. Il PD, lo sanno ormai anche le pietre, è la forza principale in Italia dell’euro-atlantismo. Pertanto voler ancora riproporre la formuletta del cespuglio a sinistra che, con la scusa di influenzare il grande partito, si becca delle poltrone e delle prebende o direttamente o indirettamente con le amministrative, è da dementi politici (da qui il titolo del mio articolo, la situazione si riferisce alla sinistra di classe decotta…), se prendiamo la politica come una pratica a favore di tutti e non delle proprie cordate. La scelta, risicata per poco, e proposta dal segretario Acerbo al congresso di Rifondazione Comunista va nella direzione di stampella agli euro-atlantisti ed è il primo passaggio. Sembra fatto apposta per il secondo: la nuova pensata nel centro-sinistra, un Patto Repubblicano, che il Richelieu di certi ambienti dem Goffredo Bettini ha messo in campo per mettere insieme tutti, assemblando un nuovo frankenstein dove dentro c’è tutto e il contrario di tutto (2), renziani e centrosocialari disobbari vari. Il ragionamento si argomenta sulla constatazione che le destre così tanto diverse tra loro, per le elezioni si uniscono e marciano compatte. Le sinistre no. Qui siamo ormai oltre la politica, siamo nell’ambito dell’alchimia tecnica da piccolo chimico dove ciò che importa è battere il “fascismo” incarnato nel governo Meloni. I programmi? Ognuno metta quel che gli pare, tanto poi sono i tecnici eurocrati che decidono su proposte addomesticate di altri euro-atlantisti, provenienti dal centro euro-dem legato al carrozzone delcapitalismo ordoliberista ancora dominante. Anche la sinistra radocale a chiacchiere va bene. Per questo c’è bisogno del voto di tutte le parrocchie con il centro del campo largo dem in testa: associativismo, sindacalismo purchessia, sbandieratori della falce e martello, certo, vanno bene anche i duri e puri, che così tanto duri non sono. E anche sulla purezza ci sarebbe da ridire.

Ma in realtà la questione è molto semplice: volete parlare di fascismo? Bene, parliamone. Il fascismo, o per meglio dire il totalitarismo di oggi è lo strumento dell’imperialismo, esce già putrescente dalle braghe di una democrazia liberale che ha già perso da quel mo’ le ultime vestigia di una democrazia anche solo condizionata da bombe e rumori di sciabola, per proporsi in tutto il suo candore in un regime che reprime, censura, manda a monte regolari elezioni se non gradite, mette la guerra come opzione politica e come orizzonte per i suoi stessi cittadini.

Entrambi i campi destre falso-sovraniste o sinistre ztl si riconoscono in questo totalitarismo, accettano le sue regole economiche e i suoi dettami politici autoritari, facendo dei principi base costituzionali carne di porco. È così in tutta Europa, a partire dalle “democrazie” occidentali del continente. Vogliamo parlare di Macron in Francia e della coalizione vincente, il Fronte Popolare, che pure aveva calato le braghe accettando la manfrina sul “aiutiamo l’Ucraina”, eppure non l’hanno mai fatto andare al governo? Un presidente camerlengo dei fondi che contano non l’ha mai fatto governare, alla faccia della sovranità elettorlale. Gli esempi si sprecano ormai e se ne vedranno ancra man mano che sorgono e si affermano nella società opzioni politiche divegrenti dal TINA ordoliberale.

Per questo, non trovo utile anzi lo vedo controproducente in quanto servizio reso su un piatto d’argento agli euro-burocrati filo-davosiani, imperialisti di un dio minore, riproporre questa formuletta del carrozzone del centro-sinistra. Per questo ritengo che gran parte della sinistra radicale e persino di classe che opta per questa ipotesi nel nome di un antifascismo retrò, che non lo vede nel suo complesso contraddittorio, sia un cane morto. Morto se aderisce all’imminente inciucio con un’ala dei fascisti veri (l’altro volto del totalitarismo imperialista), quelli delle bandierine multicolori e dei comitati d’affari. Altrettanto morto se non s’avvede di questa situazione, anche volendo marciare per conto proprio con la propria bandierina rossa, come se i soviet sorgessero, torme di Cipputi ravveduti e convinti, non si sa bene a dove e da quale composizione di classe fortemente identitaria che oggi non esiste.

Ma il lavoro politico va fatto: l’importante è che sia nella giusta direzione. E per prima cosa il nemico principale va sempre individuato. Già se ce ne sono due fai come in quel detto giapponese: se insegui due cavalli li perdi entrambi. E oggi, se guardiamo all’Unione Europea, il nemico da affossare è proprio chi la dirige, la cordata guerrafondaia di euroburocrati con i quali l’area dem nostrana si è arroccata. Non chi la contesta e prova romperla, al di là del colore politico con cui si veste. Ciò non toglie che contro il governo Meloni, che sostiene il verminaio di Bruxelles da destra e ne è espressione pur meno apprezzata dagli euroburocrati, perché ha un occhio rivolto anche a uno zio Sam trumpiano, teocratico e tecnocratico, occorra mobilitarsi per farlo cadere. Ma entrambe le azioni politiche fanno parte di una sola strategia politica, che deve tradursi in risposta popolare autonoma, di protesta e contronarrazione: le contraddizioni della gabbia UE vanno sfruttate tutte. Il nemico principale presuppone l’autonomia politica della avanguardie.

Il que se vayan todos, ossia l’autonomia politica deve risuonare ben chiara, sia che si pensi di costruire un terzo polo elettorale, cosa direi impossibile al momento, in assenza di un’adeguata conflittualità sociale che ne faccia da base e di un’identità comune e trasversale in una società frammentata, sia che si riparta dalle piazze, dai luoghi di lavoro, dal territorio che è in condizioni ataviche di assenza di idee chiare e di un progetto politico unitario radicalmente alternativo.

Per queste ragioni, oggi più che mai occorre ripartire dalle basi politiche e organizzative che sono deficitarie anzi assenti, ossia costruendo ciò che manca: un soggetto politico ben cosciente di questa situazione, più attento ad alleanze sociali su ciò che di concreto si muove nella società che ad inciuci da politicanti. In assenza di movimenti occorre puntare all’organizzazione, alla formazione di quadri politici nei contesti di lotta dati. Chi sarà in grado di farlo?

 

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Note:
1. Orsini su RaiTre con Michele Santoro: https://www.youtube.com/watch?v=V5uMzyA-YEc

2. Ben illuminante l’intervento di Maurizio Sandri, menzionato da Bettini sul suo fb: https://www.facebook.com/story.php?story_fbid=1789134154961194&id=100015938790649&rdid=nyJEnogSsAfd8OUU# . Come si vede i pezzi del puzzle dal campo largo si vanno ad incastrare perfettamente da Renzi ad Acerbo con la nuova formuletta, quella del Patto Repubblicano.

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Sparse riflessione ferragostane https://www.carmillaonline.com/2024/10/10/sparse-riflessione-ferragostane/ Thu, 10 Oct 2024 20:40:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84730 di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della [...]]]> di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente  provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.

Il pessimismo della ragione

“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante,  tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore,  ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.

Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli  (la Cina di Mao carica  delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.

Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito  comunista al potere,  sia sinonimo di socialismo.

En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?

Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato  lungimirante il genio di Vladimir Lenin.

Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione  vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.

Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale  che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.

Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”),   verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione  di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.

La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito  dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione  e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.

Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo  imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare,  a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina  non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.

La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi  a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario,  modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante  economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione,  se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.

Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.

L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.

Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo:  è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.

L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.

Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato  e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze  che non si era storicamente mai verificato.

In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa  redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale:  essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del  “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”,  ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La  contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.

Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.

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Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Il salario minimo non vi salverà https://www.carmillaonline.com/2024/03/29/il-salario-minimo-non-vi-salvera/ Fri, 29 Mar 2024 22:57:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81958 di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo. In sintesi, ciò che [...]]]> di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo.
In sintesi, ciò che il libro evidenzia è l’inutilità se non la controproducenza di un salario minimo legale finché le politiche attuate nel nostro paese sono quelle neoliberiste, che mettono al centro la massimizzazione dei profitti, subordinando retribuzioni e qualità della vita a questo desiderata che di fatto è un imperativo indiscutibile per la classe padronale.

Il salario minimo ha a che vedere con il potere d’acquisto? È una prima sostanziale domanda da porsi.
Il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia, con il nostro paese che è diventato il fanalino di coda per livelli salariali in Europa e quindi con una misura come il salario minimo c’entra come la panna nella carbonara. Così ironizza Savino Balzano(1), sostenendo a giusta ragione che la contrazione salariale in questi ultimi trent’anni ha riguardato categorie le cui retribuzioni sono ben oltre la soglia di salario minimo che si vorrebbe introdurre, come i meccanici, i chimici, i bancari, i farmaceutici, il pubblico impiego, solo per fare alcuni esempi. Ciò pertanto non produrrebbe alcun effetto. Il salario minimo legale, nel contesto italiano e per come pensato da chi per decenni ha remato contro gli interessi dei lavoratori, non comporterebbe effetti significativi per la stragrande maggioranza della popolazione salariata. La correlazione tra salario minimo per legge e crescita delle retribuzioni è del tutto fittizia, in quanto non si ragiona (volutamente) sulle ragioni che hanno comportato la contrazione salariale nel nostro paese.

Ma di più, il salario minimo, a fronte di una precarietà dilagante e in rapporto al reale costo della vita, non farebbe altro che sancire ed estendere proprio questo stato di cose, che va così tanto bene al padronato piccolo o grande che sia. Si finirebbe, inoltre, con il parificare al ribasso, in un surrogato della contrattazione collettiva, i livelli salariali, come salario preso a parametro.

Salario, lavoro e mercato

Il lavoro è un mercato che segue le logiche di qualsiasi mercato. Per questo i datori di lavoro, o capitalisti, coloro che mettono capitale per trarre profitto dal processo lavorativo non desiderano un mercato del lavoro con una piena e o bassa disoccupazione, ma al contrario operano attraverso i governi per gestire l’eccedenza produttiva a proprio vantaggio, aumentarla fin quanto sia possibile in relazione alla tenuta sociale. Il padronato, la borghesia capitalistica, è una classe, che a differenza del proletariato agisce secondo calcolo, seguendo i propri interessi di classe. Uno degli obiettivi del neoliberismo, per altro raggiunto, è quello di portare attraverso la frammentazione sociale (scomposizione di classe, precarietà) e la produzione di consenso (falsa coscienza nell’uso dei media, manipolazione sulla percezione della realtà sociale e soggettiva), a una classe in sé che ha perso il senso della classe per sé, ossia la propria identità collettiva, dunque la sua forza materiale nella società e la sua capacità vertenziale di contrattazione. In definitiva ciò che era il movimento operaio in Italia e non solo, uscito dalla guerra e negli anni del boom economico.

Il mercato del lavoro, con la svolta neoliberale dei primi anni ’80, ha potuto godere di tre fattori pensati e voluti dalla reaganomics o tatcherismo, che hanno fatto il paio con la libera circolazione dei capitali: lo sviluppo dell’automazione nei processi produttivi (plusvalore relativo e riduzione del capitale variabile), la globalizzazione dei medesimi con le delocalizzazioni e il passaggio a un’economia terziaria, a una progressiva deindustrializzazione e l’outsourcing, ossia il contoterzismo e il subappalto con un distruzione di tutta l’architettura del lavoro stabile, garantito a date condizioni contrattuali, e l’avvio del lavoro precario generalizzato. A questo si aggiunge la appena menzionata terziarizzazione dove il precariato, l’eccedenza produttiva con un potere contrattuale inesistente, ha trovato collocazione non garantita e ricattata in settori come il trasporto e la logistica (2), la grande distribuzione organizzata come gli ipermercati e i discount alimentari e tessili, la sorveglianza, l’assistenza alla persona, la ristorazione, il turismo con la ricezione alberghiera e affini, l’agroalimentare del caporalato, tutti con salari da fame. Questa massa di lavoro precario, attraverso un salario minimo per legge preso a parametro, mettendoci anche i demansionamenti nei cambi di contratto per le stesse mansioni e posizioni, come prima accennato, andrà a impattare nelle contrattazioni di categoria per settori che hanno tutt’oggi dei livelli salariali più alti. Un cavallo di troia che allontana la necessaria unità dei lavoratori pur in queste differenziazioni, e quindi la ripresa del conflitto di classe da parte proletaria.

 

La disoccupazione…

La disoccupazione è un’eccesso di offerta di lavoro ed è per questo che le politiche neoliberali puntano a mantenere la disoccupazione a livelli adeguati a tenere bassi i salari. Oggi tutto questo è stato reso possibile in decenni di attacco al lavoro su più fronti: governi, sindacati concertativi, modifiche sovrastrutturali dei territori, ideologia del consumo, critica sociale basata tutt’al più sull’adattamento, ossia la resilienza. Il plusvalore e la valorizzazione capitalistici si basano anche su elementi sociologici e sulla gestione di una psicologia sociale che è espressione dell’egemonia di classe capitalistica sul resto della società.

Il salario minimo risponde a questa logica della resilienza in tempi di disoccupazione e precarietà, come lo era stato il reddito di cittadinanza (che hanno avuto la spudoratezza di togliere, togliendo quel poco che poteva dare qualcosa a chi vive una vita di privazioni), ossia un adattamento del lavoro e della vita delle persone alle dinamiche della produzione capitalistica e dei suoi profitti secondo le misure del TINA (there is not alternative), ossia del neo e ordoliberismo imperanti.

 

Salario e democrazia

Un altro punto su cui Balzano pone la questione del salario minimo è la democrazia, ossia il rapporto che intercorre tra condizioni di lavoro, reddituali inadeguate a una soglia di vita apprezzabile e la democrazia in una data società. È evidente che chi non ha il potere di contrattare sul proprio lavoro e la sua vita è incentrata, ossia limitata a sopravvivere di fronte a un rapporto iniquo tra salario e potere d’acquisto, tra bollette, mutuo, aumento dei prezzi e via dicendo, non ha neppure la possibilità di incidere con la sua partecipazione di cittadino sulla vita politica del paese, in preda a consorterie, politici corrotti e asserviti e infiltrazioni criminali nelle pubbliche amministrazioni, che su questo potere del capitale, delle sue oligarchie locali e internazionali sul lavoro ci prospera, aumentando il proprio potere decisionale e inquinando le istituzioni, corrompendone i meccanismi decisionali, modificando le leggi e la Costituzione stessa, stravolgendola a favore di una sottrazione sempre più arrogante di democrazia.
Il consenso più o meno passivo all’ideologia dominante (passivizzazione delle masse), di emergenza in emerganza, meriterebbe un intervento a parte e non svilupperò in questa sede questo argomento. Mi basti solo sostenere che il legame tra questione sociale, culturale e questione del lavoro nella società capitalistica della disidentificazione della classe per sé, ha portato alla distruzione di valori, progetti, visioni, che fino agli anni ’70 erano stati il sale di una sinistra che riformista o rivoluzionaria che fosse, si basava su una vasta partecipazione popolare e sui partiti di massa.

Fatte queste osservazioni fuori opera, ma del tutto assonanti alle analisi sul salario minimo poste da Balzano, riguardo la democrazia economica e sociale, possiamo addentrarci su alcuni aspetti e potenzialità di questa opera.

Fissare un salario minimo può sembrare un toccasana per chi vive di salario basso e ha condizioni di lavoro precarie. In realtà, il livello salariale fissato per legge è di fatto totalmente inadeguato a rispondere a quel passaggio della Costituzione che recita:

«Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quntità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”

Sappiamo benissimo che ciò non sarà così, e che partiti post-socialdemocratici come il PD e sinistreria varia, in inciucio con altre forze che concorderanno al ribasso tale provvedimento, potranno dire: abbiamo ottenuto migliori condizioni di lavoro e di vita per gli strati di lavoro meno abbienti. Potranno così spacciare per vittoria la fissazione per legge dei livelli salariali bassi che il lavoro salariato ha di fatto nel nostro paese, rispetto a tutta l’Europa, lavandosi poi le mani pilatescamente delle reali condizioni di lavoro e conseguentemente del tenore di vita di milioni di lavoratori.

Dunque, il salario minimo che potrebbe passare diverrà un parametro nei contratti nazionali di quelle categorie che andranno a contrattare adeguamenti salariali, che potranno essere così al ribassso. Stanti i rapporti di forza tra capitale e lavoro e lo svilimento del ruolo del sindacato in Italia, una siffatta legge sul salario minimo seguirà i desiderata di un padronato che non ha fatto altro che togliere ai lavoratori con governi complici e sindacati concertativi che hanno concertato la svendita di diritti sul lavoro e salari conquistati nell’onda lunga del movimento operaio del dopogerra fino agli anni Settanta.

Da ciò possiamo trarre due preziosi insegnamenti:

1. lasciare alla volpe l’indagine nel pollaio, ossia a un centrosinistra che da Treu in poi ha fatto politiche di distruzione dei diritti e dei salari andando incontro ai diktat del capitale e dell’UE in materia di lavoro, significa lasciare il campo definitivamente alle forze del capitale dentro la classe lavoratrice e stabilizzare uno stato di cose che nega il conflitto capitale/lavoro.

2. Che senza lotta di classe, senza riprendere un conflitto con il capitale e i suoi governi, contro la sinistra liberale e post-socialdemocratica dentro le fabbriche e nelle istituzioni rappresentative, ogni conquista è falsa e vana. E infatti non è un caso che sulla questione del salario minimo non vi è stata alcuna vertenza, alcuno sciopero e la partitocrazia di sinistra abbia avocato a sé l’iniziativa, esautorando le lotte e le vertenze  che potevano essere un collegamento concreto e in progress per una battaglia sul salario, sia a livello generale che nei contratti di categoria.

Ma sappiamo bene che ciò è possibile solo se riprende un protagonismo operaio, salariato nei luoghi di lavoro e si rende possibile attraverso l’unità dei lavoratori da parte di forze sindacali di base, un’autonomia di classe che rompa ogni tavolo concertativo, iniziando una lotta dura contro la precarietà, per la reintroduzione della scala mobile e per il salario. E a questo punto la battaglia per il minimo salariale va concentrata sui settori del lavoro maggiormente sottoposti a discriminazioni salariali. E non è solo sul minimo salariale, ma per i diritti molto spesso negati sui vari fronti: dalla previdenza (salario differito) agli straordinari, alle ferie, ai servizi (salario indiretto) che lo stato deve garantire ai lavoratori e che invece oggi sono oggetto di acquisizione e saccheggio nelle privatizzaizoni di pezzi di welfare pubblico. Per non parlare della sicurezza nei luoghi di lavoro, dei lavori usuranti. L’introduzione di una legge sugli infortuni sul lavoro, spesso veri e propri omicidi bianchi, è un altro aspetto vertenziale. Ma tutto ciò significa vincere poiché si incide sui rapporti di forza dati tra capitale e lavoro e qualsiasi legge sarebbe semplicemente la ratifica di tale mutamento favorevole alla forza operaia in campo e non dato da una sorta di bontà giustizialista (falsa) di un centrosinistra a guida PD che non sa più nemmeno dove stia di casa il lavoro con le sue problematiche.

Senza l’apertura di una fase di lotta generalizzata ogni avanzamento nei diritti e nei salari è impossibile. E lasciare l’iniziativa a forze che vogliono solo raccimolare voti e seppellire il conflitto in un’ “autonomia del politico” avulsa dalla situazione reale del mondo del lavoro e dal punto di vista dei lavoratori, è solo una coazione a ripetere di una debacle della lotta di classe e sindacale che dura da almeno 40 anni e passa.

Oggi, con queste premesse scarsamente conflittuali e una legge che sarà vestita sulle esigenze padronali, non si andrà tanto in là. Due esempi concreti provengono da due dichiarazioni di due esponenti di Confindustria e della Banca d’Italia.
Carlo Bonomi, presidente di Confindustria ha affermato che l’introduzione del salario minimo lascerebbe indifferenti gli imprenditori italiani, mentre Ignazio Visco, già governatore della Banca d’Italia fino all’ottobre dello scorso anno, si è dichirato favorevole all’idea, considerando quanto sia stato sempre attento al contenimento del costo del lavoro nel rapporto salari/prezzi.

La questione vera è pensare a un minimo salariale che non disturbi il manovratore, ossia restare nella gabbia di misure neoliberiste, significa mettere una pietra tombale a qualsiasi ipotesi di un cambiamento della politica economica nazionale, che invece che puntare alla macelleria sociale della redistribuzione iniqua della ricchezza sociale verso una classe sempre più ristretta di speculatori della finanza, pensi a una politica che punti alla piena occupazione e a una inversione di tendenza nella redistribuzione, verso il rilancio del welfare pubblico e a un adeguamento salariale costante e reflattivo (rapporto equilibrato e controllato tra salario nominale e salario reale).

 

Banche e Unione Europea

La questione del salario minimo suona addirittura ancora più vergognosa, se pensiamo che le banche ottengono sovraprofitti dall’innalzamento dei tassi da parte della BCE, mantenendo pressoché a zero gli interessi sui depositi. E chi ci rimette sono sempre i cittadini: nel 2023, nei primi nove mesi gli utili sono stati di 16 miliardi di euro per le prime cinque banche italiane, un aumento del 70% dei profitti rispetto al 2022; un trasferimento verso l’alto di gran parte della ricchezza sociale prodotta attraverso l’innalzamento degli interessi sui mutui. Altro che art. 41 della Costituzione “L’iniziativa economica privata è libera…”! Non c’è alcuna iniziativa economica, solo predazione pura con il sostegno incondizionato della Banca Europea a coloro che non rischiano nulla, neppure un centesimo (vedi pgg. 24 e 25). Ma per le classi dirigenti, anche solo la minima tassazione dei sovraprofitti ottenuti dalle banche viene vista come anti-costituzionale. Questo accumulo di ricchezza non può che produrre ulteriore potere nella società. Alla faccia della democrazia. E la costante e progressiva difficoltà a finanziare i servizi ci fa capire come diventi praticamente automatico il trasferimento dei medesimi verso i privati, aziende che sono per lo più controllate dalla stessa finanza che qui come all’estero, beneficia di una tale regalia da parte dell’istituzione bancaria centrale europea.

A livello europeo, il salario minimo disattende i presupposti sociali ed etici per i quali doveva nascere: garantire una soglia retributiva adeguata a un’esistenza decorosa e a un rapporto giusto tra lavoro e compenso. E lo disattende per tre ragioni: la prima è di carattere strutturale e riguarda le politiche neoliberali stesse che l’UE promuove in materia di lavoro, soprattutto il lassez faire sulla precarietà dilagante. In secondo e terzo luogo il dispositivo di Bruxelles prevede due indicazioni: le differenze salariali da categoria a categoria del lavoro e, in caso di emergenza economica, la possibilità di attingere dal salario minimo una quota salariale.
Pertanto qual è la reale ragione del salario minimo per legge, se poi si erode il salario e quindi la garanzia stessa di una soglia adeguata a una vita decorosa e fuori dalla povertà?
 Visto così, il salario minimo costituisce un’arma per contenere una crescita salariale per quelle categorie del lavoro che sono oltre la soglia minima durante le contrattazioni collettive. Ossia la maggior parte dei lavoratori europei.

È per questo che un approccio al salario che non sia legato a una politica di redistribuzione delle risorse e che si limiti a parametri salariali minimali fissati per legge non fa altro che allargare la forbice tra ricchezza per pochi, speculazione sui servizi del welfare pubblico da una parte e salario diretto, indiretto e differito della popolazione dall’altra.

Il salario minimo non può salvare, ma solo reiterare ed aumentare nel tempo e nei modi una condizione di miseria sociale, nell’era in cui ciò che guadagna chi lavora non è più sufficiente per avere una casa, una qualità della vita adeguata e dignitosa. Un ritorno al passato, dove non solo gran parte dei salariati, ma di lavoratori a vario titolo subordinati rappresentano dai ceti medi in giù un nuovo proletariato differenziato, frammentato, ma con un denominatore comune che è quello di un ascensore sociale bloccato ai piani bassi e da un immiserimento progressivo che solo la ripresa di un forte conflitto sociale può sbloccare.

In definitiva, se il salario minimo non è concepito per garantire realmente la soglia di vita dignitosa sotto la quale non è lecito andare, se altresì non incide (di conseguenza) nei rapporti vertenziali tra capitale e lavoro, anzi diviene una pietra di paragone per contrattare al ribasso, se infine non viene introdotto mentre si vanno ad attaccare le politiche neoliberiste, allora questo rappresenta un altro dispositivo normativo di quella che possiamo definire a piena ragione una lotta di classe dell’alto contro il basso.

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NOTE

1. Vedi l’intervista fattagli su Ottolina Tv

2. … e non è un caso che dalla logistica una classe operaia soggetta alla massimizzazione dei profitti nel supersfruttamento in un contesto in cui la circolazione delle merci deve essere sempre più veloce per la valorizzazione del capitale, è da anni che conduce lotte dure e duramente represse: quanto avvenuto a Piacenza, con una magistratura che ha criminalizzato SiCobas e USB per associazione a delinquere associando le lotte operaie e il compito dei sindacati a una sorta di esercizio criminoso finalizzato a un guadagno personale mediante tessere sindacali e ricatto ai datori di lavoro… a questo siamo arrivati…

 

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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

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Fare come in Francia? https://www.carmillaonline.com/2023/03/25/fare-come-in-francia/ Sat, 25 Mar 2023 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76612 di Sandro Moiso

La prima conseguenza del rinnovato accordo tra Italia e Francia, unico trofeo che la premier Meloni può vantare dopo i colloqui con Macron e la fine del vertice europeo conclusosi il 23 marzo, è stata quella di veder scaramanticamente cancellato dalle prime pagine dei quotidiani e dai telegiornali, di ogni tendenza politica e appartenenza, qualsiasi riferimento alle agitazioni che stanno scuotendo la Francia con milioni di manifestanti nelle strade. Eppure, anche all’occhio meno accorto o critico, non può non essere evidente il fatto che la carta geo-politica di ciò [...]]]> di Sandro Moiso

La prima conseguenza del rinnovato accordo tra Italia e Francia, unico trofeo che la premier Meloni può vantare dopo i colloqui con Macron e la fine del vertice europeo conclusosi il 23 marzo, è stata quella di veder scaramanticamente cancellato dalle prime pagine dei quotidiani e dai telegiornali, di ogni tendenza politica e appartenenza, qualsiasi riferimento alle agitazioni che stanno scuotendo la Francia con milioni di manifestanti nelle strade. Eppure, anche all’occhio meno accorto o critico, non può non essere evidente il fatto che la carta geo-politica di ciò che avrebbe dovuto essere l’Unione europea si caratterizza ormai per tre grandi aree di crisi che la percorrono tutta, da Est a Ovest.

Ai confini orientali la guerra in Ucraina, con i suoi possibili sbocchi mondiali che già spaventano alcune élite europee e le spingono a correre a Pechino a chiedere che il presidente Xi Jinping si affretti a impostare una reale proposta di tregua (in barba al diniego esibito nei confronti di tale ipotesi dal presidente Biden e dagli imperialisti pezzenti del Regno Unito).

Nel cuore del continente la crisi bancaria, che è sbarcata dagli Stati Uniti coinvolgendo due delle più importanti banche europee, Credit Suisse, morta in un battibaleno e sostanzialmente assorbita da UBS per un valore impensabile fino a qualche settimana fa, e Deutsche Bank che, ancora una volta, traballa sulla sua “pancia” piena di titoli spazzatura, subprime e derivati, ma “povera” di liquidità.

Nella parte occidentale e atlantica la rivolta sociale francese che si allarga sempre più, di cui la riforma autoritaria delle pensioni è stato soltanto il fattore scatenante di una crisi economica e sociale che covava sotto le ceneri, imposte dai due anni di provvedimenti liberticidi sventolati come necessari per la salvaguardia della salute pubblica, fin dai tempi dei gilets jaunes e, ancor prima, delle rivolte delle banlieue.

Un’autentica tempesta perfetta che testimonia come lo stato di salute del capitalismo occidentale e del suo modus vivendi sia tutt’altro che buono, così come quello dell’ambiente che ha colonizzato senza pietà e senza riguardo per il futuro della specie, proprio a partire del continente europeo.

Come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, la crisi economica, la guerra, la crisi ambientale e l’impoverimento di ampi settori sociali, un tempo magari rientranti nelle fila della classe media, indicano che il modo di produzione basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e del capitale sull’ambiente sta volgendo al termine nel più drammatico dei modi.

La Francia e i moti che sempre più la percorrono sembra indicare, contemporaneamente, tutte e due le strade che la società derivata dall’attuale distruttivo modo di produzione può imboccare nell’affrontare la drammaticità del momento storico dato.

Da un lato l’autoritarismo governativo che, come da anni si va ripetendo su questa pagine e in altri contesti1, nulla concede e nulla può più concedere sia alle richieste più elementari provenienti dal basso che a qualsiasi ipotesi riformistica destinata a migliorare le condizioni dei servizi sanitari, pensionistici2, scolastici, lavorative e salariali in un contesto in cui la concorrenza per la spartizione del plusvalore complessivamente prodotto si è fatta mondiale, con competitor giovani, scaltri e del tutto intenzionati a scalzare il primato “occidentale” nell’accaparramento delle ricchezze delle risorse.

Un autoritarismo che si maschera dietro le formulazioni generiche di difesa di improbabili transizioni green o di diritti liberali che poco incidono sulla concreta vita materiale di milioni di cittadini di ogni sesso, appartenenza etnica e sociale (purché medio-bassa), tutti destinati soltanto ad essere sempre più sfruttati in ogni ambito lavorativo (in cui ormai occorre inserire tutta l’economia falsamente definita illegale, collegata al mercato del sesso e degli stupefacenti) oppure come carne da cannone nella guerra che, proseguendo su questa strada, certamente verrà.

La scelta di Macron sull’imposizione dei due anni di aumento dell’età pensionabile dei lavoratori francesi, infatti, non è nemmeno una scelta. E’ una decisione imposta dal voler mantenere l’attuale assetto sociale e politico, di cui la democrazia parlamentare non è altro che un orpello. Un gioiello fatale con cui l’ideologia dominante è riuscita ad ammaliare lavoratori, giovani, donne e proletari di ogni tipo (sottoproletariato incluso) finché, almeno in Occidente, alcune riforme potevano essere finanziate con il plusvalore estorto ai lavoratori sottopagati di altri angoli del pianeta.

Ora il plusvalore colà estratto rimane in gran parte, o del tutto, nelle tasche di altri imprenditori, di altre borghesie che, oltre a rimpinguare i propri profitti e investimenti, preferiscono ridistribuirne una parte in casa soltanto per migliorare e ampliare anche il proprio mercato interno, oltre che per placare, almeno in parte, i segni di conflittualità di classe che si manifestano nelle fabbriche e nei settori produttivi dislocati a casa loro.

Paradossalmente l’accumulo di ricchezze in numero di mani sempre più ridotto, infatti, più che segnalare che la produzione mondiale sia in aumento (dato ancora tutto da verificare), indica che il valore prodotto è, rispetto agli investimenti necessari, sostanzialmente diminuito, soprattutto in Occidente e nelle aree ad esso direttamente collegate.

In questo senso la crisi di SVB (Silicon Valley Bank), più che ricordare i rischi connessi allo scarso controllo esercitato sulle banche dallo Stato (quasi come se questo fosse davvero uno strumento neutro e imparziale nella gestione della ricchezza e della società), rappresenta un po’ la fine del sogno delle start up, degli investimenti spericolati legati più alle promesse che ai risultati effettivi, di cui Elon Musk è stato il gran maestro. Forse ancor più dei pionieri come Billa Gates, Steve Jobs, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg che, arrivati per primi sul mercato delle nuove tecnologie e delle promesse ad esse collegate, si vedono oggi comunque costretti a licenziare complessivamente centinaia di migliaia di dipendenti (fatto che potrebbe avere conseguenze deflagranti anche sul prossimo voto presidenziale americano).

Finanza, rete, piattaforme e computer insieme hanno contribuito a velocizzare lo spostamento delle ricchezze, a intorbidire le idee e le battaglie e a confondere i singoli individui trascinati nel vortice della velocità della comunicazione e della disinformazione organizzata (spesso ufficiale, ancor prima che “artigianale”). Ma non hanno contribuito a produrre autentico “valore”, semmai l’illusione del valore di qualcosa che non esiste. E in questo senso l’unico vero proletariato, al di là delle balzane teorizzazioni degli ultimi trenta o quarant’anni, collegato al settore è stato quello direttamente coinvolto nella produzione manuale di apparecchi elettronici e della componentistica ad essi collegata (programmi compresi) .

La crisi di SVB ci conferma tutto questo3, ma ci annuncia anche la fine di un sogno: produrre valore e ricchezza senza passare dal lavoro manuale, senza produrre alcunché di materiale, sostanzialmente, come è successo in molti casi e in particolare in quello di Musk, vendendo fuffa e muffa ideologica.
Infine riporta alla luce il “paradosso di Solow”, economista statunitense che aveva ricevuto il premio Nobel nel 1987 per i suoi contributi alla teoria della crescita economica, in cui si sosteneva che «i computer si vedono ovunque, tranne che nell’aumento di produttività»4.

Certo oggi l’industria del riarmo, verso cui tutti i maggiori stati si stanno orientando, sembra promettere, in una prospettiva neppur troppo lunga, maggiori e più solidi guadagni, insieme ai titoli di stato necessari per finanziarla, e così la “concretezza” della materia militare, in tutti i sensi, riprende il sopravvento sulla leggerezza della già invecchiata new economy caratterizzata dalla produzione “immateriale”. E questo no va separato da ciò che il presidente francese ha fatto a proposito di riforma delle pensioni.

Nel gioco degli equilibri economici dello Stato, la recente promessa macroniana di giungere ad un investimento di 200 miliardi di euro per il rinnovo degli equipaggiamenti delle forze armate e della loro riorganizzazione in chiave più moderna, accompagnata da un accenno alla possibile reintroduzione della leva obbligatoria, non può preveder un costo zero. Costo che, naturalmente, è destinato fin da oggi, e come sempre, a ricadere integralmente sulle spalle dei contribuenti, dei lavoratori, dei giovani, delle donne e di chi vive al margine tra disoccupazione e “lavoro illegale”. Rendendo impossibile al “Mario Antonietto” di turno anche la semplice offerta di brioches per placare l’ira dei cittadini.

Ecco, allora, che, sì, per l’opposizione di classe occorre fare come in Francia.
La lotta sociale diffusa, testarda, ad oltranza e senza sconti per gli avversari è l’unica forma di lotta che il capitalismo attuale ci obbliga ad esercitare. Sia per le rivendicazioni sociali che per l’opposizione ai sacrifici che già ci vengono imposti per la guerra. Approfittiamone, dimostrando così che lotta contro il capitale e i suoi funzionari e contro la guerra sono, nella sostanza, la stessa cosa5, poiché ogni lotta sociale di queste dimensioni mette per forza di cosa in discussione e in crisi l’iniziativa del capitale. Fosse anche, per l’appunto, la guerra.

Le condizioni materiali di esistenza e non le idee; i rapporti tra le classi e non i discorsi politically correct segnano il cammino della Storia e delle rivoluzioni. Oggi possiamo trovarci sull’orlo di un baratro (guerra mondiale generalizzata) oppure di un nuovo domani tutto da inventare. I compagni e le compagne francesi, ancorché inconsapevoli, sono già costretti a porsi il problema (qui) sotto l’urgenza del divenire e dell’azione collettiva. Facciamo sì che quella francese diventi la nuova epidemia destinata a sconvolgere l’ordine europeo del capitale.


  1. S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  2. Va qui ricordato che proprio intorno al discorso sul costo della spesa per le pensioni si realizzò nel 2011, qui nella democratica Italia, una sorta di autentico colpo di Stato tecnocratico per mezzo del governo Monti, all’epoca incensato dalla Sinistra in chiave anti-berlusconiana, e la cosiddetta riforma Fornero.  

  3. “Apple, Microsoft, Amazone Web Services (branca di Amazon legata allo sviluppo del Cloud, dei micro servizi software e dell’internet delle cose, che fornisce alla intera multinazionale percentuali di utile netto decisamente superiore di quello derivante dal colossale fatturato della parte logistica e dell’e-commerce), Google, Oracle, Salesforce, IBM, ed Intel – in sostanza quasi tutte le big corporate strategiche della new digital economy – sono agli inizi di una crisi profonda.
    Prima del fallimento della Silicon Valley Bank, tutte queste grosse multinazionali ad inizio 2023 hanno avviato una massiccia ristrutturazione fatta di licenziamenti di massa nei loro settori chiave della ricerca e sviluppo, come già avevano preannunciato nel corso del passato autunno. Una operazione che impatterà 120 mila posti di lavoro in California appunto nel settore informatico, dell’internet delle cose, nel Cloud computing e nella ricerca software e digitale. Amazon (nel settore AWS), Google, Microsoft, Salesforce, stanno eseguendo licenziamenti pari al 15% della forza lavoro, Apple al momento sta tagliando tutte le forniture di subappalto con software house terze parti e l’aria che tira che questo non basterà a salvare i lavoratori diretti. Twitter appena acquistata da Elon Musk subirà un ridimensionamento pari al 50% della forza lavoro impiegata. Intel si trova immediatamente costretta a tagliare rispettivamente le compensation dei manager ed i salari dei dipendenti rispettivamente del 15%, del 10% per i quadri e del 5% per gli altri tecnici informatici, mentre annuncia i primi esuberi al momento contenuti.
    Che probabilità di successo avranno le cosiddette Startup della new economy e della tecnologie che da questa catena dipendono? Che prospettive di valorizzazione potevano avere quei capitali depositati e per le operazioni di finanziamento nella fu Silicon Valley Bank?” qui  

  4. L’autore del presente articolo deve questa osservazione ad Alberto Airoldi e al suo romanzo Sugar Mountain. Il brusco risveglio, Casa Editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, p.29  

  5. Per questo motivo, alcuni commentatori della stampa italiana dovrebbero forse, e per vantaggio della loro stessa causa, esimersi dall’esprimere in prima pagina idee superficiali e riduttive come questa: “Proprio Macron, ieri, ha spiegato la differenza tra populismo e politica: la sovranità appartiene al popolo elettore, non al popolo in tumulto. Il populismo si mette dietro al popolo in tumulto, il politico si mette davanti al popolo elettore, là dove è stato messo dal popolo sovrano”, M. Feltri, Mario Antonietto, «La Stampa», 23 marzo 2023. Tra l’altro straordinariamente in linea con quanto espresso dall’ormai vieux, più che nouveau, philosophe Bernard Henri-Lévy in un suo articolo su «Repubblica», del 25 marzo, dall’allarmistico titolo: Una protesta giusta sfociata in violenza: la Francia rischia l’autodistruzione.  

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Il nuovo disordine mondiale / 20: Guerra santa (subito?) https://www.carmillaonline.com/2023/01/11/il-nuovo-disordine-mondiale-20-guerra-santa-subito/ Wed, 11 Jan 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75603 di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili [...]]]> di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili uccisi e brutalizzati, cercano di convincere un’opinione pubblica sempre più stanca e distratta della necessità di “partecipare” alla guerra con l’invio di armi all’esercito di Zelensky ormai “avviato alla vittoria”, l’analisi dei fatti a livello internazionale suggerisce che la vittoria ucraino-occidentale sia ben lontana e che, anzi, questa sia fortemente inficiata da un ampliamento delle aree di conflitto che non fa altro che giustificare il titolo di questa serie di articoli, iniziata su «Carmilla online» esattamente il 25 febbraio 2022.

Da Taiwan alle isole Curili, dall’Artide all’Antartide passando per parti significative dell’Africa Sub-sahariana, il Mar Cinese meridionale e il quadrante dell’Indo-Pacifico, sono tantissimi i punti di frizione in cui le maggiori potenze e i loro alleati locali potrebbero accendere la scintilla di un conflitto devastante che più che in una terza guerra mondiale “a pezzi”1, probabilmente già in atto, potrebbe rapidamente trasformarsi in una guerra totale su larghissima scala. A conferma di ciò occorre sottolineare che in ogni area di frizione e possibile confronto militare si addensano tutti i fattori possibili di competizione: dalla concorrenza economica al controllo delle risorse (sia naturale che tecnologiche, come nel caso della produzione di microchip a Taiwan) fino a quelli riconducibili alle esigenze di carattere strettamente militare e geo-politico. Tutte situazioni in cui i possibili antagonisti sono numerosi e talvolta alleati o nemici sul luogo mentre invece possono avere posizioni rovesciate in altre situazioni di disequilibrio.

A tutto ciò vanno ad aggiungersi le mai sopite contraddizioni intereuropee intorno al ruolo di chi deve comandare in Europa (Francia? Germania? Gran Bretagna? Stati Uniti?)2, quelle interne agli Stati Uniti3 e, last but not least, le differenti posizioni in sede di Alleanza atlantica e Unione Europea rispetto all’invio di armamenti e aiuti all’Ucraina di Zelensky e le posizioni da tenere nei confronti delle sanzioni riguardanti gas, petrolio e commercio con la Russia.

Le folle di cui parla DeLillo nel suo Rumore bianco sono quelle che si riunivano nelle adunate del Terzo Reich, soprattutto in quelle in cui a parlare fosse il Fürher: «Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa […] Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tener lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla»4.

In piazza San Pietro il Papa emerito non poteva più parlare, ma altri lo hanno fatto per lui e lo faranno ancora. Annunciando una nuova stagione di guerra. Non più solo al di fuori della Chiesa, ma anche al suo interno. Non solo per motivi teologici o di forma (la messa in latino), ma ben più sostanziali, concreti e terreni. In un momento in cui, nonostante la strombazzata unità di intenti e di stili di vita, l’Occidente non trova un attrattore degno di questo nome, tanto meno fatale, per riunire nuovamente insieme grandi folle inneggianti alla Patria e alla Nazione, come sarebbe in realtà necessario per proseguire con successo nella guerra dei mondi che è già iniziata.

«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.

Ammesso che tale idea di società, formulata prima da Henri Bergson nel 1932 e successivamente sviluppata da Karl Popper, sia realmente esistita in qualche momento della storia compresa tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tempo attuale, certo ha fatto sì che nel definire le politiche sociali e globali degli ultimi settant’anni, al di là di ciò che è stato ed è ancora dettato dalle esigenze immediate del capitale, all’interno delle società occidentali e del loro modo di produzione dominante a regnare sia stata più la termodinamica del non equilibrio che i principi della meccanica classica. Che necessita di forze, poli e campi tali da poter definire con certezza esperimenti sia nell’ambito delle discipline naturali che sociali (e politiche).

La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).

Per dirla in altro modo: la progressiva vittoria del capitale sulle barriere opposte prima dalle comunità e dalle classi poi degli stati nazionali e dei nazionalismi ha permesso che la sfera di valori in cui milioni, o meglio miliardi di persone nel mondo globalizzato, fin dagli albori dello sviluppo del capitalismo industriale, si muovono sia di fatto andata riducendosi a sole due triadi. Quella dell'”investi, produci/vendi e ricava profitto” (magistralmente riassunta dalla formula marxiana D – M – D1) valida per i funzionari del capitale e quella rappresentata da “lavora-produci, consuma e crepa” sussunta in pieno da ciò che rimane della classe lavoratrice o aspirante ad esser tale.

Al di fuori di ciò, potenzialmente, non dovrebbero sussistere altri valori morali, politici, di classe, nazionali od altri che possano mettere i bastoni tra le ruote alla progressiva espansione del capitale e delle sue regole elementari. Fatto che, soprattutto in Occidente, con il trionfo della società dei consumi dalla fine del secondo conflitto imperialistico in poi e con l’avvento del “secolo americano” a seguito di quello, ha avuto come conseguenza il progressivo superamento mercantile dei confini e delle istituzioni parlamentari nazionali a vantaggio del predominio del capitale finanziario. Dando di fatto vita a comunità d fatto reggentisi unicamente sulle leggi dello sviluppo e dell’interesse capitalistico.

Come chi scrive ha già avuto modo di sottolineare nella prefazione al testo, di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, (Il Galeone Editore, Roma 2022), citando Jacques Camatte6:

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica. Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità7.

Non solo:

(Il capitale) si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere (Macht) di una classe dal momento che non ne ha nemmeno più bisogno per assicurare il proprio dominio (Herrschaft); anche la classe dominante viene dominata. Ormai il capitale ha bisogno solo di schiavi8.

Ecco allora che la classe al potere inizia a saggiare sulla propria pelle il fatto che, secondo Marx (nel III libro del Capitale), «il vero limite al capitale è il capitale stesso». Limite non soltanto più produttivo, come si intendeva principalmente nelle pagine incompiute del Moro di Treviri, ma anche politico ovvero di gestione dello Stato e della società divisa in classi.

Una società frammentata ma, allo steso tempo, organizzata intorno alla fascinazione delle merci e suddivisa in infiniti rivoli “identitari” che vanno dall’appartenenza alle tifoserie sportive alle identità di sesso e genere dei singoli come di quelle etniche e razziali, talvolta sovraniste (ma basterebbero i risultati elettorali ottenuti in Italia da Italexit o dalle parallele liste “di sinistra” o di estrema destra a far comprendere l’inessenzialità delle stesse per un discorso socialmente più coesivo) fino a quelle definite da singole sette religiose, politiche o mercantili (leggi follower di pubblicità di merci e “artisti” o presunti tali di ogni settore dell’intrattenimento commerciale). Un enorme supermercato di merci scintillanti e idee opache in cui, come si diceva all’inizio, a predominare è ancora la necessità di riproduzione del capitale e di estrazione di plusvalore estorto dal lavoro coatto, ma travestita da scelte e gusti “personali”.

In cui anche i rappresentanti politici e di governo son finiti col rassegnarsi ad essere null’altro che prodotti commerciali, possibilmente ben confezionati, da vendere agli elettori. Promoter e spin doctor son diventati così, insieme agli algoritmi che interagiscono nei e con i social, i veri “comitati elettorali” delle competizioni politiche travestite farsescamente da elezioni. Tendenza che ha almeno una data e un luogo di origine: il 1960 e naturalmente gli Stati Uniti, quando ebbe inizio la campagna elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy e la consorte Jacqueline (poi Onassis). Giocata in gran parte sulla giovane età del candidato e la bellezza della coppia. Oltre che su uno slogan da cui Trump ha poi ancora rubato l’ispirazione per il suo Make America Great Again: A time for greatness.

In quel contesto e a quell’epoca, la logica dello star system hollywoodiano sostituiva la logica politica con la promozione di un desiderio dal sapore vagamente erotico, ancor più che liberal. Cui, in fin dei conti, hanno dovuto pur qualcosa l’elezione di Bill Clinton, Barak Obama e anche il successo di certi “giovani” politici italiani o altri/e ancora.
Ma tale, oscena, macchina del controllo, che ha funzionato nel cancellare ogni reale identità di classe tra la maggior parte dei lavoratori dipendenti, ed per esaltare il consumo di ogni genere di merce, materiale o immateriale che sia, in realtà diventa anche un ostacolo nell’ambito delle mobilitazioni nazionali e nazionaliste necessarie in caso di guerra. Nessun partito o idea, sia di Destra che della Sinistra liberal-democratica, ha attualmente la forza per mobilitare, in Occidente, grandi masse in funzione bellica: sia dal punto di vista ideologico che militare.

Ce lo ricorda, ad esempio, lo storico Niall Ferguson in un saggio pubblicato su “Bloomberg”:

La guerra è tornata. Anche la guerra mondiale potrebbe tornare? Se è così, influenzerà tutte le nostre vite. Nella seconda era tra le due guerre (1991-2019), abbiamo perso di vista il ruolo della guerra nell’economia globale. Poiché le guerre di quel tempo erano piccole (Bosnia, Afghanistan, Iraq), abbiamo dimenticato che la guerra è il motore preferito della storia dell’inflazione, dei default del debito – persino delle carestie. Questo perché la guerra su larga scala è simultaneamente distruttiva della capacità produttiva, perturbante del commercio e destabilizzante delle politiche fiscali e monetarie. […] Il problema con le guerre prolungate è che gli Stati Uniti e gli europei tendono a stancarsi di loro ben prima che lo faccia il nemico9.

Non si elencheranno qui nuovamente tutti gli elementi di difficoltà nel “vincere” questa guerra che l’Occidente sta incontrando sul piano economico ancor prima che militare, ma certo la scarsa partecipazione emotiva dell’opinione pubblica occidentale ai fatti ucraini costituisce pur sempre motivo di interesse (o di relativo imbarazzo), nonostante la propaganda continua e costante dedicata al tentativo di catturarne l’attenzione (e la passione). Ma è a questo punto che è tornata in gioco la pedina ”Chiesa cattolica”.

Proprio a partire dalla morte del ex-Panzerkardinal Ratzinger si è sviluppata una battaglia, per ora, senza esclusione di colpi, che sembra vertere, più che sulle questioni dottrinarie, su come la dirigenza della più importante componente della cristianità occidentale, ovvero la Chiesa cattolica facente capo a Roma, dovrebbe comportarsi nei confronti di una guerra e dei futuri confronti militari e politici destinati a mettere in crisi, secondo la vulgata mediatica corrente, quelli che sono considerati i sacri valori della libertà e della democrazia occidentale (oltre che il predominio economico dell’ultima qui citata).

Indipendentemente dai risultati dell’incontro “privato” tra la premier italiana e papa Francesco, l’equidistanza ”pacifista” di Bergoglio non sembra più sufficiente ai fautori della “guerra per la libertà”, motivo per cui viene richiesto e suggerito al soglio pontificio di cambiare registro e trasformare l’attuale programma pastorale in un più marcato accompagnamento del gregge al macello. Che tale intento si sia maggiormente manifestato su organi di stampa di destra non colpisce, ma certo gli omaggi tributati al Papa emerito nei giorni delle sue esequie anche dai media considerati liberal o di sinistra potrebbe far pensare ad un riposizionamento degli stessi in chiave sempre più bellicista (se mai ce ne fosse ancora bisogno).

Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ha cercato in ogni modo di mediare e ammorbidire le differenze tra la visione di papa Ratzinger e di papa Bergoglio su varie questioni, non soltanto inerenti alla guerra senza abbandonare il percorso fin qui seguito da papa Francesco:

Nella guerra d’Europa, e per il nuovo (dis)ordine mondiale, che si combatte da più di dieci mesi in terra d’Ucraina il giorno che per gli ortodossi è la vigilia di Natale e per il resto della cristianità l’Epifania è stato un giorno pessimo, triste e feroce persino più di altri di questa carneficina – parola di papa Francesco – folle e sacrilega. Perché quando si trasforma una pur fragile occasione di tregua, comunque sia balenata, da chiunque sia stata offerta, in un nuovo terreno di battaglia – a suon di dichiarazioni sferzanti, di atti ostili e di ordigni letali scaraventati contro le vite degli altri – il giudizio deve essere netto. Così come dev’essere netto il rifiuto della logica politica e bellica e la morale distorta che impediscono di frenare il massacro10.

Appena il giorno prima, però, un quotidiano ritenuto “laico” e liberal-democratico come «Domani» aveva pubblicato una lettera di aperto sostegno all’arcivescovo di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, del 7 marzo 2022, scritta da Ratzinger: «Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino che di sicuro mostra una certa distanza dalle posizioni di Francesco che, dall’inizio del conflitto, ha sempre invocato la pace ma cercando sempre di mantenersi equidistante rispetto alle parti in causa»11.

Nulla da stupirsi, quindi, se un giornale di destra, nello stesso giorno, scrive nel suo editoriale:

…poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non […] ti viene il dubbio che l’Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in Piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale no è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare una storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l’Europa12.

Al di là del triplo salto mortale messo in atto dal direttore del quotidiano per giustificare un ritorno all’Europa da parte di forze di Destra, soprattutto Lega salviniana e Fratelli d’Italia, che sulla critica della stessa e delle sue istituzioni hanno fondato le proprie ipotesi politiche e le proprie campagne elettorali, e trasformare l’identitarismo razzista e populista in una forma di identitarismo cristiano-medievale, quello che è possibile qui individuare è il disperato bisogno di ridurre qualsiasi tendenza pacifista, fosse anche del papa, a qualcosa che non è più utilizzabile ai fini della salvaguardia degli interessi dell’Occidente e soprattutto della parti più frammentate di quest’ultimo: l’Europa e l’Italia.

Tutte le linee di demarcazione (nazionali, politiche, sociali) sono saltate, così, senza disturbare l’inconsistente raccolta di pettegolezzi e gossip rappresentata dal libro, di 336 pagine, di Georg Gänswein, il segretario personale di Benedetto XVI, falco dichiarato e arcinemico di papa Bergoglio13, varrebbe la pena di sottolineare che ciò che non vale per certa destra italiana ed europea vale, però, per quella americana.

Si è detto all’inizio che l’elezione alla quindicesima votazione di McCarthy a portavoce del congresso degli Stati Uniti è stat una dimostrazione dell’influenza che Trump e la parte più “conservatrice “ del Partito Repubblicano avrebbe ancora sullo stesso e sulla vita politica e sociale americana, ma occorre qui sottolineare che uno dei punti di attrito più forte tra i trumpiani e il governo di Biden e l’”altro” partito repubblicano è stato quello rappresentato dall’invio degli armamenti a Kiev e della spesa necessaria per tale programma.

Infatti, tra le richieste di Trump e della sua fazione che Mc Carthy avrebbe dovuto accettare per giunere ad un accordo che ne permettesse l’elezione vi è stata quella della promessa di un «taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina»14.

Pochi media mainstream hanno, poi, ricordato che la visita al Senato degli Stati Uniti di Zelensky, avvenuta a fine dicembre 2022, sia stata una delle meno acclamate e proficue poiché, immediatamente dopo il suo discorso, la votazione sull’appoggio degli USA al governo ucraino ha visto 29 senatori repubblicani (più della metà di quelli in carica per il GOP) votare contro. Rivelando così che il vero argomento del contendere tra democratici e repubblicani oltranzisti è su ben altro che non i diritti riguardanti donne e minoranze di ogni genere.

In fine, occorre ricordare che anche sul fronte ucraino le forze in campo, da una parte e dall’altra, dopo aver inutilmente sbandierato su entrambi i fronti la frusta parola d’ordine dell’”antinazismo”, son dovute ricorrere alla religione come ultima ratio dello scontro con risultati che, soprattutto in Ucraina dove la secessione dalla chiesa ortodossa di Mosca si è avuta a seguito della repressione dei preti e dei monasteri non ancora apertamente schierati con il governo Zelensky, sembrano essere ulteriormente divisivi sul piano politico e sociale.

Nell’epoca della mediatizzazione e dematerializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello”stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che c elo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinnza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono i soldati ch ecadranno al fronte15.

Sarà così anche da noi? Tornerà la Chiesa cattolica e romana alla sua antica funzione, ben prima del Jihad islamista, di promozione della “guerra santa” contro eretici e infedeli? Riuscirà il brand del Cristo crocifisso a sostituire quelli dei “gruppi” di ogni risma che popolano i social e delle fashion influencer che si esprimono su ogni aspetto del viver (o non viver in caso di guerra) quotidiano? O rimarrà soltanto un’ipotesi da proporre in alternativa allo scarso fascino esercitato dal binomio Patria e Nazione di cui si è parlato più sopra? E la sinistra antagonista continuerà ancora a rincorrere in rete obiettivi più dettati dagli algoritmi che da effettive lotte reali?

Oppure, nell’ipotesi peggiore, siamo solamente tornati indietro, ad un medioevo mercantile in cui tutti i nodi saranno sciolti soltanto dopo lunghe guerre “di religione” come quelle che anticiparono di trecento anni la Rivoluzione francese16? Tre secoli di interminabili guerre civili e non, destinate a determinare il nuovo assetto politico, sociale ed economico europeo e, successivamente, planetario? Questi sono alcuni dei temi su cui sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro, per non rischiare di predicare nel deserto usando formule dottrinarie che nessuno può più comprendere. In nome di pratiche identitarie e politiche morte da tempo immemore, proprio come il dio crocifisso dei cristiani.


  1. Come l’ha definita Luca Sebastiani sul numero 37 di «Scenari» del 30 dicembre 2022: L. Sebastiani, E’ l’Africa la culla della “guerra mondiale a pezzi”, pp. 12-13  

  2. Cfr. qui

  3. Dove l’elezione soltanto alla quindicesima votazione dello speaker repubblicano al Congresso ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la persistente influenza di Donald Trump sul partito repubblicano e il suo elettorato.  

  4. D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi 2022, pp. 90-91  

  5. Ivi  

  6. S. Moiso, Un capitalismo totale? Prefazione a G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone Editore, Roma 2022, pp. 18-19  

  7. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

  8. J. Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, op.cit., pp. 213-214, ora in S. Moiso, op. cit., p. 24  

  9. N. Ferguson, All Is Not Quiet on the Eastern Front, «Bloomberg» 1 gennaio 2023, qui  

  10. M. Tarquinio, Più ragioni per resistere, «Avvenire» 7 gennaio 2023  

  11. Ratzinger e la lettera di sostegno all’Ucraina, «Domani» 6 gennaio 2023  

  12. A. Sallusti, La nostra Europa è in San Pietro, «Libero» 6gennaio 2023  

  13. Cfr. F. Capozza, Padre Georg rivela gli scontri nella Chiesa, «Libero» 9 gennaio 2023  

  14. Cfr. qui  

  15. M. Giannini, L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger, «La Stampa» 8 gennaio 2023  

  16. Cfr. qui  

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L’internazionalismo e la guerra in Ucraina https://www.carmillaonline.com/2022/11/22/linternazionalismo-e-la-guerra-in-ucraina/ Tue, 22 Nov 2022 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74715 di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti [...]]]> di Sandro Moiso

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, pp. 210, euro 10,00

Dal 24 febbraio ad oggi intorno al conflitto sviluppatosi in Ucraina non solo è cresciuto il numero delle vittime e dei caduti su entrambi i fronti, aumentata a dismisura la cifra dei danni e delle distruzioni e il prezzo delle materie prime (soprattutto grano e gas) toccate dall’andamento della guerra (oltre che dall’intramontabile speculazione commerciale e finanziaria), ma anche la quantità di menzogne narrate dalla propaganda delle parti coinvolte, dai governi, dai presunti esperti e dai vertici militari e diplomatici europei e statunitensi.

La “nebbia” di guerra, diffusa da bufale evidenti e narrazioni ben altrimenti architettate, però, non ha solo cercato di confondere l’opinione pubblica, che a dir del vero non sempre si è prestata così facilmente al discorso della guerra giusta oppure difensiva, ma è anche servita a creare spaccature non lievi all’interno di un pensiero e di una pratica antagonista che, dopo aver ignorato per decenni il discorso sulla guerra, non ha mancato di scoprire l’esigenza di schierarsi, troppo spesso, con l’uno o l’altro degli schieramenti in lotta.

Ben venga dunque il testo appena pubblicato dai compagni facenti riferimento alla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria che, senza mancare di fornire abbondanza di dati sulle cause politiche, militari, economiche ricollegabili allo sfruttamento dei territori compresi nei grandi spazi che si estendono tra i confini orientali dell’Unione Europea e la Federazione degli Stati russi e alla loro importanza geopolitica, si sforzano nel tentativo di fornire una lettura internazionalista non soltanto degli avvenimenti inerenti al conflitto, ma anche ai compiti che l’antagonismo di classe dovrebbe darsi in un simile, drammatico e dirimente frangente.

Così, cominciando proprio là dove il libro si conclude con le sue appendici, appare utile ancora oggi la ripubblicazione dei due manifesti delle conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kiental (1° maggio 1916) che posero le basi per l’opposizione internazionalista al primo grande macello imperialista. Il primo

originariamente redatto da Lev Trotsky e successivamente emendato, che venne adottato dalla Conferenza Socialista Internazionale svoltasi a Zimmerwald, in Svizzera, a conclusione dei suoi lavori, l’8 settembre 1915. La sua approvazione fu preceduta da lunghe e vivaci discussioni, dovute soprattutto alle posizioni rivoluzionarie delle tendenze di estrema sinistra – capeggiate da V.I. Lenin e dai bolscevichi russi – che si opponevano all’atteggiamento pacifista della maggioranza dei delegati1.

Il secondo redatto da Giuseppe Modigliani, Ernst Meyer e Karl Radek in rappresentanza, rispettivamente, delle correnti di destra, di centro e di sinistra della conferenza, fu adottato il 30 aprile 1916. Entrambi importanti perché, come scrivono ancora i curatori del testo:

Siamo nel 1915- 1916, quando la guerra ha già mostrato il suo vero volto, la sua vera funzione di scannatoio di sfruttati a tutto e solo vantaggio delle classi sfruttatrici, e la Seconda Internazionale si è già schierata in maggioranza in senso opportunista e sciovinista “per la difesa della propria patria”. In questa terribile congiuntura – anticipando quella che sarà, a partire dal febbraio 1917, la potente risposta e riscossa del proletariato russo ed europeo martirizzato dal massacro mondiale – un pugno di militanti rivoluzionari internazionalisti traccia la prospettiva da seguire per mettere fine alla guerra proclamando che “il nemico principale è nel proprio paese” e rompendo la pace sociale sul fronte interno, la pestifera solidarietà nazionale. Un primo passo, secondo Lenin, per andare oltre verso la trasformazione della guerra tra stati, della guerra imperialista, in guerra civile rivoluzionaria contro gli stati capitalistici e imperialisti. Come poi avverrà con il grande assalto internazionale al cielo del decennio 1917-1927 che, seppur sconfitto, è rimasto eternamente presente ai borghesi dotati di coscienza di classe come un incubo2.

Cento anni non sono poi così tanti, soprattutto se il modo di produzione dominante è rimasto lo stesso di quello che aveva gia causato il conflitto di allora, quello mondiale successivo e ancora tutte le devastazioni belliche, sociali, economiche e ambientali che ne hanno accompagnato l’espansione fino ad ora. Espansione basato non soltanto sul sopruso sociale, politico e repressivo, ma anche sul tentativo continuo e reiterato di imporlo come unico punto di vista “condiviso”.

Mentre i due mammasantissima del militarismo atlantista Mattarella e Draghi martellano sull’assoluta necessità e bontà della guerra alla Russia, per la libertà dell’Italia e la difesa dei suoi “valori”, e da autocrati del capitale quali sono, ci invitano a fare tutti i sacrifici necessari per portare alla sua rovina la “nemica” Russia di Putin. Mentre lo stuolo dei loro pappagalletti in parlamento e nei media ci assorda con le sue invettive contro il “nemico esterno”. Mentre la feroce (e alquanto grottesca) discendente degli Junker prussiani von der Leyen, portavoce dell’industria bellica renana, gareggia con la sanguinaria premier britannica Truss nell’oltranzismo anti-russo rispolverando ogni giorno di più temi e toni della propaganda nazista. Mentre anche presunti personaggi “anti-sistema” vanno girando la penisola per chiedere il voto in nome di una Italia o più europea, o più sovrana, o più neutrale e “pacifista”, purché al di sopra di tutto ci sia sempre lei, la patria, l’Italia capitalista e imperialista (che fu la patria del fascismo e si prepara ad incoronare una lontana discendente del fascismo repubblichino)3.

Posizioni che non possono assolutamente essere condivise, invece, da chi schiera con l’internazionalismo di classe e la lotta contro il militarismo imperialista, come nei 21 punti fermi elencati già nell’introduzione al testo si sottolinea (come nei testi posti in appendice si rimarca). Sottolineatura dovuta questa, poiché, come ancora si ricorda nell’Introduzione, «essendo la guerra l’orgia delle menzogne» diventa necessario smontare anche l’immaginario che l’accompagna.
Per esempio la menzogna

secondo cui sarebbe in corso una romantica, se non rivoluzionaria, lotta di autodeterminazione condotta da tutte le classi della società ucraina strettamente unite tra loro come un sol uomo (Zelensky), di indipendenza nazionale della libera Ucraina contro il vecchio, incorreggibile orco russo. L’Ucraina di oggi tutto è salvo che una nazione libera, essendo stata progressivamente occupata, prima che dalle armate russe, dagli insediamenti economici, finanziari, diplomatici, militari, massmediatici dell’intero Occidente, e con speciale aggressività da un giro di interessi che fa capo alla banda Biden-Obama e Co. – un’occupazione resa possibile dal prevalere, in seno alla borghesia ucraina, della frazione legata all’Occidente. Ancora meno libera lo è, ovviamente, dal 24 febbraio, a seguito dell’invasione russa, che è stata l’occasione buona per moltiplicare l’invasione dei potentati occidentali, e le loro pretese sulle sue membra martoriate. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, l’Italia, la Romania, etc. etc., ogni paese “amico” pretende la sua quota di carne ucraina. E per effetto dell’“aiuto” di questi amorevoli Shylock l’Ucraina è più che mai un paese rovinato per i futuri decenni, alla bancarotta, in verticale perdita di popolazione, colonizzato dai suoi “amici” liberatori, oltre che straziato dai bombardamenti e dai carri russi4.

Ma se va disvelata la menzogna occidentale sulle motivazioni della guerra per garantire la giusta pace all’Ucraina, altrettanto va smontata la “verità” sbandierata da Putin nei suoi discorsi che sembrano spesso voler riabilitare l’antico sogno imperiale zarista.

Nel suo impegnativo discorso del 30 settembre per legittimare l’annessione delle province del Donbass, Putin si è presentato come un novello Che Guevara che sventola la bandiera dell’anticolonialismo tricontinentale contro l’imperialismo occidentale. La sua ben costruita invettiva non manca di efficacia e di richiami incontestabili alla “legge del pugno”, all’illimitata avidità di ricchezze e di profitti, alla pretesa di dominio totale sul mondo, all’inarrivabile ipocrisia dell’“Occidente collettivo” saccheggiatore dei popoli di tutto il mondo (per questo, qui, è stato completamente censurato). Senonché quella invettiva è tutta costruita sul richiamo alla “grande Russia”, alla “grande Russia storica” con la sua “storia millenaria”, al “posto che le spetta nel mondo” in quanto “grande potenza millenaria, una civiltà-paese”. Il che comporta la completa rivendicazione della Russia imperiale, zarista, una “prigione di popoli” secondo Lenin. Una rivendicazione che Putin fece senza mezzi termini, attaccando i bolscevichi, nel discorso del 21 febbraio in cui descrisse l’Ucraina come una costruzione artificiale da cancellare. Non una sola parola, fosse anche di mero distanziamento formale, sul fatto che la “grande potenza millenaria” prima feudale e poi feudalcapitalistica ha oppresso una molteplicità di popoli tra i quali tutt’oggi l’“Occidente collettivo” ha gioco facile nel seminare la russofobia5.

In entrambi i casi però si tace soprattutto sul fatto che

l’Ucraina è un paese dalle strepitose ricchezze naturali, non ancora del tutto esplorate. Può sfamare 600 milioni di abitanti nel mondo (avendone appena 40). Possiede il 5% delle risorse minerarie del mondo, pur avendo appena lo 0,4 della superficie terrestre globale. È tra le prime dieci nazioni produttrici ed esportatrici di metalli al mondo – 20.000 depositi per 194 minerali6.

A tale argomento il libro dedica un intero capitolo, dettagliato e ricco di dati, Dall’uranio al mais a tutte le altre strabilianti ricchezze dell’Ucraina, così come non si manca mai di sottolineare l’importanza della posizione geo-politica di quel paese, soprattutto dal punto di vista militare visto che chi lo occupa può spingere le proprie forze verso il cuore dell’Europa, il Nord della stessa oppure verso la Russia, la Turchia e gli stretti che separano il Mar Nero dal Mediterraneo e il Vicino Oriente.

E’ un testo ricco e propositivo quello che viene qui recensito, che ogni lettore farebbe bene a procurarsi per poter formulare giudizi più approfonditi e meno avventati sul conflitto in corso, le sue possibile conseguenze su scala planetaria e le forme della sua risoluzione che, a giudizio di chi scrive, possono esse riassunte nelle parole che già chiudevano il Manifeso di Zimmerwald, riportato, come si è già detto nel testo:

Proletari! Dopo lo scatenarsi della guerra avete messo tutte le vostre energie, tutto il vostro coraggio, tutta la vostra sopportazione al servizio delle classi possidenti. Oggi, restando sul terreno di un’irriducibile lotta di classe, occorre agire per la vostra causa, per il sacro obiettivo del socialismo, per l’emancipazione dei popoli oppressi e delle classi asservite. È dovere e compito dei socialisti dei paesi belligeranti intraprendere questa lotta con tutta la loro energia. È dovere e compito dei socialisti dei paesi neutrali aiutare con ogni mezzo i propri fratelli in questa lotta contro la barbarie sanguinaria. Mai nella storia mondiale c’è stato compito più urgente, più elevato, più nobile; la sua realizzazione deve essere nostra opera comune. Nessun sacrificio è troppo grande, nessun fardello troppo pesante per raggiungere questo obiettivo: il ripristino della pace tra i popoli. Operai e operaie, madri e padri, vedove e orfani, feriti e mutilati, a tutti voi che soffrite per la guerra e a causa della guerra, noi gridiamo: Al di sopra di tutte le frontiere, al di sopra dei campi di battaglia, al di là delle campagne e delle città devastate: Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Non per una pace “giusta”, non per la pace “dei padroni”, ma per la fine dell’obbrobrioso sistema di sfruttamento, della specie e della Natura con cui dovrebbe convivere armoniosamente, che chiama pace ciò che per la stragrande maggioranza dell’umanità è ancora sempre e soltanto guerra.


  1. Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario, Milano 2022, p. 197  

  2. La guerra in Ucraina, op. cit., p. 184 

  3. ivi, p. 186  

  4. ivi, pp. 6-7  

  5. ivi, pp. 8-9  

  6. ivi, p. 7  

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Il nuovo disordine mondiale / 18: It’s the end of the world as we know it (and I feel fine) https://www.carmillaonline.com/2022/10/05/il-nuovo-disordine-mondiale-18-its-the-end-of-the-world-as-we-know-it-and-i-feel-fine/ Wed, 05 Oct 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74286 di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene. Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e [...]]]> di Sandro Moiso

E’ la fine del mondo che conosciamo e mi sento bene.
Quando esattamente 35 anni fa, era il 1° settembre 1987, i R.E.M. fecero uscire sul mercato discografico il loro singolo, certo non potevano nemmeno lontanamente immaginare che la loro canzone fosse destinata ad essere ancora così attuale all’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Dimostrando come, quasi sempre, l’immaginario delle culture ritenute “basse”, in questo caso quello legato alla musica rock, ha saputo anticipare il futuro e lo ha letteralmente “cantato” più e meglio degli esperti economico-politici e degli esponenti ufficiali della cultura mainstream .

That’s great, It starts with an earthquake

E’ fantastico, inizia con un terremoto.
E’ il primo verso della canzone e serve benissimo per confermare ciò che abbiamo anticipato negli interventi precedenti sul tema della guerra e le sue conseguenze e che oggi si verifica in dimensioni ancor maggiori di quelle che si potevano immaginare fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina.

Così, mentre l’ostinazione imperialista delle parti coinvolte sta avvicinando sempre più la possibilità di una guerra non solo allargata su scala europea ma anche di carattere nucleare, il sistema di alleanze su cui si son basate le politiche economiche e militari occidentali degli ultimi settanta anni sembra destinato a subire scossoni che, fin dall’esplosione (pilotata malamente) della pandemia da Covid-19, se non lo distruggeranno ancora del tutto, sembrano destinati a ridimensionarlo in maniera ritenuta impensabile fino ad oggi.

Infatti, mentre i media mainstream hanno potuto fino ad ora sottolineare soltanto le indiscutibili difficoltà militari e politiche in cui il regime del nuovo zar è venuto a trovarsi, la crisi economica legata alla carenza di gas, alle speculazioni della borsa di Amsterdam sulla stessa materia prima e al disaccordo tra i paesi europei su come reagire alle stesse sta distruggendo nel breve periodo ciò che aveva richiesto anni per affermarsi, ovvero la stabilità e l’utilità degli accordi inerenti al funzionamento dell’Unione Europea.

Ognuno per sé sembra essere diventato il motto dell’azione dei paesi europei nei confronti di questa crisi, con la Germania, über alles, in testa nel perseguire una propria e costosissima politica energetica che risulta speculare alla decisione, presa fin dall’inizio del conflitto, di riarmare pesantemente le proprie forze armate per poter diventare a breve la terza potenza al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare.

Posizione avvallata in generale dal fatto che, in forme diverse, tutti i presunti alleati europei ed occidentali stanno già operando scelte che molto spesso danneggiano gli altri componenti delle alleanze europee ed atlantiche. Una corsa al si salvi chi può che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli parossistici.

World serves its own needs, don’t misserve your own needs.

Il mondo segue i propri bisogni, non sottovalutare i tuoi propri bisogni.
Continua così la canzone del 1987, involontaria conferma del fatto che, al di là dei discorsi ufficiali, dietro all’europeismo e all’atlantismo si nascondono le stesse spinte sovraniste che i più fessi pensano ancora essere espressione di possibili rivendicazioni popolari o, peggio ancora di classe.

Il nazionalismo non è mai morto, si era solo truccato per meglio colpire le classi meno abbienti all’interno di ogni singolo stato, scaricando le responsabilità delle scelte più dolorose per i lavoratori, il proletariato e le classi medie impoverite sulle imprescindibili regole europee di gestione finanziaria dell’esistente.

Classi imprenditoriali e dirigenti assolutamente vili e pavide, soprattutto qui in Italia ma anche nel resto d’Europa, hanno finto collaborazione e unità di intenti soltanto per non accollarsi scelte assolutamente impopolari, ma ora il travestimento è caduto e il Re è nudo. Come nella paradossale opera teatrale di Alfred Jarry, i diversi protagonisti della vicenda sono condannati a prendersi gioco l’un dell’altro in una spirale che non potrà far altro che peggiorare sempre più la situazione generale.

La Francia ha annunciato che non venderà più la propria energia elettrica all’Italia e, contemporaneamente, che si opporrà alla realizzazione di un metanodotto che porti dalla Spagna alla Germania, attraversando il suo territorio nazionale, il gas alla seconda. L’Austria, per alcuni giorni e per motivi inerenti al pagamento in rubli, ha fatto sì che l’Italia non ricevesse più il gas russo attraverso il valico di Tarvisio. Paesi dell’Est europeo si oppongono, come l’Ungheria, alle sanzioni alla Russia oppure chiedono un maggiore sforzo militare, come la Polonia, nei confronti della stessa, mentre i paesi fondatori dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica iniziano a tentennare davanti alla richiesta, ribadita da Zelensky, di un ingresso dell’Ucraina nella Nato per timore di un aggravarsi e di una conseguente svolta in senso nucleare del conflitto.

La narrazione ufficiale dei media, fino a pochi giorni or sono, continuava ad insistere sul progressivo allontanamento della Cina di Xi dalla Russia di Putin, travisando le parole del primo a proposito del “rispetto” dell’integrità territoriale degli stati e della loro autonomia politica che, più che all’Ucraina e ai referendum russi sui territori del Donbasss e del Lugansk, erano rivolte agli Stati Uniti affinché interrompano la loro azione di sostegno politico e militare a Taiwan, epicentro del conflitto futuro tra le due potenze rivali. Che più che libertà e diritti riguarderà lo scontro tra il dollaro e il renminbi yuan come monete di riferimento per gli scambi internazionali.

Nella sguaiata narrazione mediatica occidentale, i problemi sembravano essere sempre e soltanto quelli degli avversari, ignorando quelli altrettanto gravi e forse ancor più reali dello schieramento euro-occidentale, in cui il divide et impera statunitense ha giocato e continua a giocare un ruolo niente affatto secondario. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire e il tam tam della guerra avrebbe dovuto ancora una volta servire a distogliere l’attenzione di massa dai problemi immediati che dalla prima derivano e che potrebbero rimettere in discussione la stessa: caro bollette, crisi azionarie, chiusura di aziende, perdita di posti di lavoro e inflazione.

Alcuni di questi fattori, sovranismo rivelato dietro alle politiche nazionali degli stati più “convintamente europeisti” e divisione tra i membri europei della Nato, potrebbero far buon gioco al nuovo governo di centro destra. L’avvicinamento di Giorgia Meloni a Mario Draghi potrebbe essere più che il frutto di un inciucio europeista, quello della necessità del capitalismo italiano di riprendersi uno spazio di manovra nelle questioni energetiche e lo stesso iper-atlantismo della prima potrebbero ben accordarsi con una protezione accordata dagli Stati Uniti a un nascente governo non troppo allineato con la Germania. La cui riduzione della potenza economica e politica, ma domani anche militare, rimane uno dei principali obiettivi statunitensi in Europa, sia per i governi democratici che per quelli repubblicani. Del quale anche l’ambiguo e disastroso attentato alle condotte di North Strem 1 e 2 potrebbe essere una conseguenza e/o un’espressione.

Ad indebolire la futura azione di governo, però, più che le lotte che iniziano a svilupparsi contro le “bollette di guerra”, potrebbero essere le differenti promesse elettorali degli alleati contro cui la stessa Confindustria, nelle parole di Bonomi (niente flat tax e niente prepensionamenti!), ha levato una differente e contrarissima voce. Rischiando di far nascere un governo già morto allo stato fetale.

The ladder starts to clatter with fear fight.

La scala inizia a traballare con la paura della lotta, continuava ancora la canzone di Bill Berry, Peter Buck, Mike Mills e Michael Stipe.
Lo dimostra il fallimento del governo di Liz Truss alla sua prima uscita con la proposta dell’abbassamento, se non l’abolizione, delle tasse per i più ricchi. Ancora una volta non tanto, per ora, per la mobilitazione del movimento “Don’t Pay” che in qualità di primo ministro aveva cercato di esorcizzare con l’istituzione di un fondo plurimiliardario per la riduzione delle bollette, ma proprio per un attacco implacabile da parte degli organismi finanziari internazionali e del loro principale organo di informazione sul territorio britannico, il «Financial Times».

Dopo l’opposizione dei mercati, di buona parte del partito conservatore e dei maggiori quotidiani britannici, che hanno definito il piano, per l’abolizione delle tasse più alte per i più ricchi e del tetto alla remunerazione dei dirigenti bancari, della Truss e del suo ministro delle finanze Kwarteng, in alcuni casi, come folle e cattivo (mad and bad), il quotidiano della finanza inglese non ha potuto far altro che sottolineare come:

Resta da vedere se la disputa sulla rottamazione del tasso di 45p tempererà le ambiziose riforme dal lato dell’offerta di Truss volte a stimolare la crescita. Quando è diventata primo ministro il mese scorso, si è impegnata ad affrontare questioni di lunga durata relative alla pianificazione per aumentare la costruzione di case e l’accessibilità economica dell’assistenza all’infanzia, ma il suo fallimento con la riforma fiscale potrebbe farla riflettere. Un deputato conservatore che sostiene Truss ha dichiarato: “Se non riesce a ottenere un taglio delle tasse di 2 miliardi di sterline, non riesco a vedere come abbia una speranza nell’inferno di pianificare la riforma o qualsiasi altra cosa. Liz voleva essere radicale, ma ha fallito al primo ostacolo”1.

Nessuna altra Tatcher sembra dunque delinearsi all’orizzonte, sia sul piano internazionale che italiano, e questa potrebbe già essere una buona notizia per chi si oppone al modo di produzione dominante. Le cui difficoltà stanno esplodendo ben più rapidamente di quanto si potesse immaginare e senza nemmeno una sconfitta militare intercorsa davvero sul campo.

Semmai se c’è una cosa che, sul campo di battaglia, può essere anch’essa sintomo della fine di un certo mondo che conosciamo può essere individuata nel fatto che uno dei fattori delle difficoltà militari russe deriva proprio dal rifiuto di combattere e arruolarsi di molti giovani, e meno giovani, russi richiamati o chiamati alle armi in questo periodo.
Confermando quanto sostenuto da tempo, oltre che da chi scrive queste note, da Domenico Quirico in un coraggioso articolo su «La Stampa» del 30 luglio di quest’anno.

L’unica speranza che questo macello finisca dunque non è nelle abilità e nelle qualità dei leader dell’Est e dell’Ovest, regrediti a termini rozzi e primitivi, stupefacenti in un tempo e in un mondo reputati civili. Risiede semmai nella volontà rivoluzionaria di porvi fine di coloro che combattono, che vengono ogni ora, ogni giorno uccisi, da una parte e dall’altra, ucraini e russi. Abbiamo bisogno tutti, e soprattutto noi europei che questa guerra subiamo a un passo, di uno sciopero, eversivo, rivoluzionario, dei combattenti che riproponga con successo quanto accaduto nel 1917, durante la Prima guerra mondiale.
Dalle trincee in cui milioni di uomini ogni giorno sopportavano il contatto con la morte e ogni istinto di vita sotto i bombardamenti, la sporcizia, il furore omicida sembrava dover inaridire fino alla radice, esplose, dilagò improvviso irresistibile universale il grande sciopero della pace. In Russia fu, subito, Rivoluzione. Negli altri Paesi belligeranti (in Italia fu Caporetto) ci vollero i plotoni di esecuzione per domare la rivolta. Ma non fu che una breve tregua prima che il moto dilagasse un anno dopo come un fuoco in una pianura riarsa.
Ucraini e russi sono entrati in guerra ammalati dei loro particolarismi, di nazionalismo orgoglioso gli uni, di imperialismo brutale gli altri. Per due, tre mesi questi particolarismi e l’odio che la sofferenza fa crescere nei confronti del nemico, di chi ha aggredito e specularmente di chi, ostinato, non si arrende, resiste, uccide, sono stati sufficienti per motivare i combattenti, per sorreggere la propaganda.
Ma a contatto delle verità eterne e immutabili che la sofferenza sociale della guerra rimette ferocemente in luce giorno dopo giorno, gli uomini nelle trincee del Donbass e di Cherson sentiranno che il cerchio del loro orizzonte impedisce loro di pensare e di agire, li soffoca in una atmosfera assassina di morte e di inutili volontà.
[…] La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro.
[…] Non sono Putin e Zelensky, o Biden, che possono spezzare il cappio della guerra. Gli uomini di buona volontà a cui deve rivolgersi, scavalcando, ignorando i capi, sono gli uomini disperati, sporchi, esausti, straziati delle trincee. Il popolo della guerra.
Dopo mesi di sofferenza, di avversione alimentata tra loro, ora ucraini e russi hanno una cosa in comune: la sofferenza. Ora non credono più a quello che è accaduto, sanno che ancora una volta tutto è avvenuto per un errore di calcolo criminale2.

Ipotesi rafforzata ancora dagli scontri avvenuti in una base di arruolamento in prossimità di Mosca.

Nel 223esimo giorno di guerra in Ucraina, una maxi rissa tra nuove reclute e soldati è scoppiata in una base dell’esercito russo vicino Mosca. Secondo quanto riferito da Baza, «i nuovi arrivati» non hanno ricevuto un caldo benvenuto, ma al contrario «i soldati che prestavano servizio» nella base gli «hanno ordinato di consegnargli i vestiti ed i telefoni cellulari». Le nuove reclute – chiamate alle armi nel quadro della mobilitazione parziale annunciata da Puti – hanno respinto le richieste e ne sarebbe scaturita una rissa nella quale avrebbero avuto la meglio, tanto che circa 20 soldati si sarebbero rinchiusi in un edificio e avrebbero chiamato la polizia per chiedere aiuto3.

And a government for hire and a combat site
But it’ll do, save yourself, serve yourself.
World serves its own needs, listen to your heart bleed
It’s the end of the world as we know and I feel fine

E un governo a noleggio e un sito di combattimento/ma lo faranno e allora salvati, servi te stesso/Il mondo serve i propri bisogni, ascolta il tuo battito cardiaco/È la fine del mondo come lo conosciamo e mi sento bene.

Sì, a vederla in positivo e nonostante tutto, il vecchio mondo sta finendo. Con i suoi conflitti imperialistici e il suo scellerato dominio di classe. Con le sue tragiche diseguaglianze e le sue menzogne. E’ un mondo solo, come Draghi mentre parlava davanti ad un’aula delle Nazioni Unite deserta. Un mondo vecchio e moribondo che vorrebbe pace sociale e stabilità soltanto per continuare con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, dell’ambiente e di ogni risorsa vitale fino al loro esaurimento. Un treno che sta lentamente rotolando sui binari della propria distruzione.

Per tutto questo, dunque, è giunto il momento per chi si batte nei movimenti di carattere sindacale, territoriale e ambientale di unire le forze in direzione di un unico obiettivo comune: accelerare la tendenza all’inevitabile superamento dell’attuale modo di produzione. Whatever it takes!

(18 – continua)


  1. Sebastian Payne, George Parker e Jim Pickard, Truss finally admits defeat on tax benefit for the wealthy, «Financial Times», 3 ottobre 2022  

  2. Domenico Quirico, Uno sciopero dei soldati come nel 1917, l’unica speranza per arrivare alla pace, «La Stampa», 30 luglio 2022  

  3. Guerra Russia-Ucraina, maxi rissa tra reclute e soldati in una base vicino a Mosca, «La Stampa», 4 ottobre 2022  

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