umma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Crash! Barcellona 17 agosto 2017 https://www.carmillaonline.com/2017/08/20/crash-barcellona-17-agosto-2017/ Sat, 19 Aug 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39971 di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria. E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che [...]]]> di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria.
E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che sembra avere realizzato molti dei presupposti dei suoi autori originari e più originali, sia una delle sue opere più celebri, osannata e criticatissima allo stesso tempo, portata sullo schermo da David Cronenberg nel 1996: “Crash”.

Lo stesso Ballard, a quell’epoca si dimostrò restio a parlare di un’opera, pubblicata per la prima volta nel 1973, che egli definì, insieme all’altrettanto celebre La mostra delle atrocità, frutto di un periodo particolare della sua vita. Soltanto in seguito, nella sua autobiografia comparsa un anno prima della sua morte avvenuta nel 2009, sarebbe tornato con più dettagli e motivi di orgoglio sulla stessa.1

In quel romanzo si rivelava come la differenza che separa la curiosità per gli incidenti d’auto o le tragedie della strada dallo sguardo voyeuristico suscitato dall’erotismo e dalla pornografia sia, a tratti, tanto sottile da risultare irrilevante. In fin dei conti sempre di corpi in pose inaspettate o sorprendenti si tratta, in cui i più intimi umori dei corpi si mescolano con l’asfalto e con l’acciaio, invece che con quelli di altri corpi fatti di carne, ossa e sangue.

Nel testo si incrociavano e rimescolavano tanto la volontà di affermazione di alcuni dei suoi protagonisti, attraverso la ricerca di una morte violenta che coinvolgesse altri individui ed altri corpi, quanto la curiosità di spettatori casuali oppure recatisi appositamente sul posto per assistere all’evento.
Vaughn sognava di berline di ambasciatori schiantatisi contro autobotti inarcate, di tassì pieni di bambini festosi scontratisi frontalmente sotto le vetrine sfolgoranti di supermercati deserti.[…] Immaginava tamponamenti immani di nemici giurati, morti di esseri odiosi celebrati tra le fiamme del carburante lingueggianti nelle cunette laterali, in un ribollire di vernice sullo sfondo dello smorto sole pomeridiano di città provinciali […] Su queste collisioni, Vaughn elaborava variazioni infinite2

Mentre tutto intorno le macchine vengono circondate “da una cerchia di spettatori, i volti silenziosi fissi […] Lungo la Western Avenue si formò un ingorgo imponente, e si udì un urlio di sirene mentre gli abbaglianti della polizia lampeggiavano contro i paraurti posteriori dei veicoli fermi in coda […] La moglie del morto, sempre sostenuta dalla cintura di sicurezza, stava riprendendo i sensi. Un gruppetto di persone – un autista di camion, un soldato fuori servizio in divisa e una venditrice di gelati – stava con le mani premute contro i finestrini della sua auto, e pareva toccarle parti del corpo […] Per un istante mi parve di essere con lei, il protagonista del momento culminante di un truce dramma di teatro tecnologico improvvisato3

Una sensazione che i servizi speciali dei media trasmessi a spron battuto in occasione dell’attacco di Barcellona, o di qualsiasi altro attacco terroristico messo in atto con mezzi di fortuna spesso a quattroruote, hanno contribuito progressivamente ad ampliare. Insieme alla paura dell’imprevisto, dell’altro, del terrorista giunto ormai ad essere incarnazione assoluta del male che minaccia questa società perfetta fatta di svaghi, turismo, relax e corpi da esporre, sia vivi che morti, allo sguardo famelico del pubblico e dei media.

Un voyeurismo mediatico che, nella sua totale inconsistenza, si incrocia con il delirio autodistruttivo di una generazione cresciuta nelle periferie delle metropoli europee, che del nichilismo ha fatto la propria bandiera e che nell’atto finale, spesso annunciato, spera di trovare il significato di un’intera esistenza segnata dall’alienazione individuale, sociale ed economica.
Lo sguardo delle telecamere sui corpi stesi a terra e sulle vetture della polizia oppure sull’eliminazione e sui cadaveri degli “assalitori” eguaglia la ricerca della perfezione formale della propria morte e di quella delle anonime vittime messa in atto da ragazzi la cui età è quasi sempre compresa tra i venti e i trent’anni, se non meno come nel caso del gruppo che ha agito a Barcellona.

Un’autentica pornografia della morte che fotografa il disfacimento di unna società e di una civiltà che si vorrebbero eterne. E che tali non possono e non hanno mai potuto essere.
Un voyeurismo che dimentica la vita oppure che si accontenta di un simulacro della stessa, sia quando difende la società dello spettacolo e del consumo sia quando sceglie la via del martirio per negarla in nome di un altro ideale. Altrettanto alienante.

Un’esposizione mediatica che in entrambi i casi cerca e crea l’evento: sia che si tratti delle fasulle manifestazioni di riaffermazione della vita sulle piazze delle stragi, sia che si tratti della celebrazione on-line dei propri “martiri” e delle operazioni militari messe in atto dai giovani aspiranti suicidi. Mentre in entrambi i casi il discorso nazionalista o religioso trionfa sulla vita degli individui, ridotti a burattini disarticolati e impauriti oppure assetati di vendetta.

Fin dai suoi inizi come scrittore James Ballard aveva sempre rifiutato la fantascienza dell’outer space per concentrarsi principalmente sull’inner space, lo spazio interiore, e le autentiche catastrofi psichiche e sociali che derivano dall’incontro tra il malessere individuale e le trasformazioni fuori controllo operanti nella società e nell’ambiente che lo circondano. Narrazioni in cui nessuna verità e spiegazione può essere definitiva e il cui destino è quello di continuare ad essere modificata dai processi messi in atto dalla crisi che esplode nel momento in cui individui alienati decidono di affrontare situazioni che si riveleranno ingestibili, non sottomettendosi o ribellandosi alle stesse.

Certamente, se l’autore inglese ne avesse avuto il tempo, avrebbe arricchito il suo viaggio nello spazio interno di altre variabili. La sua non-fantascienza dopo aver parlato di un pianeta affogato, di incubi di cemento armato, di bambini che diventano terroristi sterminando le proprie famiglie benestanti, di movimenti fascisti che nascono nelle cattedrali della merce che sorgono nelle periferie londinesi, di piccoli borghesi che scelgono l’omicidio come via di fuga dalla banalità dell’esistente e di rivolte armate che scoppiano nei quartieri residenziali si sarebbe arricchita di paesaggi urbani in stato di assedio contro un nemico anonimo, imprevedibile e soprattutto interno.

Così mentre i media si accontentano di definire il nemico come islamico-radicale o fascio-islamista e di cantare la prevedibile fine dell’ISIS sul fronte militare siriano, dimenticano, o forse non immaginano neppure, che il male sia più profondo. Un male sociale che fa blindare le città e che militarizza i comportamenti quotidiani, ma che non può essere affrontato e risolto rimanendo all’interno delle stesse logiche di sfruttamento e di consumismo che l’hanno causato.

Al contrario le istituzioni internazionali si crogiolano invece nell’idea di far dimenticare tutte le proprie malefatte sventolando il vessillo dell’unità contro il terrorismo e il corrotto Rajoy può affermare che “il terrorismo è il problema più grande per l’Europa”, sviluppando narrazioni dei fatti in cui è impossibile rintracciare anche solo un filo di verità o di ricostruzione logica. Gli attentatori erano quattro, cinque, nove, dodici? Sono stati tutti eliminati oppure qualcuno è ancora in fuga? L’uomo assediato che aveva preso con sé degli ostaggi in un ristorante turco della Boqueria subito dopo l’attentato sulla Rambla è davvero esistito? E allora che fine ha fatto? Non chiedetelo, non lo sanno nemmeno gli inquirenti e gli autori delle veline mediatiche. Il cui unico interesse è quello di ridurre l’attenzione degli spettatori ad uno sguardo morboso sui fatti, visti attraverso lo spioncino del body count e del dolore dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti piuttosto che aprire una finestra sulla storia e la società per cambiare, finalmente, aria.

Ossessionati dall’idea del nemico esterno, di altra razza, religione e cultura (magari nord-africano, magrebino, arabo oppure semplicemente di origine marsigliese) i soliti commentatori, i soliti esperti, i soliti docenti universitari si stupiscono che i giovani attentatori, così determinati e quindi pericolosi, ascoltino la musica rap, bevano e possano frequentare gli stessi locali frequentati da altri giovano che poi diverranno le loro potenziali vittime. L’ossessione securitaria e di controllo imperialista nasconde alla vista ciò che è così semplice vedere: vittime e carnefici appartengono allo stesso mondo, sono sinonimi dello stesso paradigma basato sullo sviluppo ineguale. In cui periferie e metropoli non sono più distanti migliaia di chilometri, ma sorgono sullo stesso territorio. Mentre uno dei territori di origine di una parte degli attentatori, il Marocco, non è davvero così pacificato dalla monarchia ed è, allo stesso tempo, fortemente dipendente dal neo-colonialismo della Spagna e dalla sua economia.

E’ l’alienazione sociale e identitaria prodotta dalla società dei consumi e dell’estrazione del plusvalore da ogni attività umana ad essere alla base tanto della ricerca di comunità che si esprime nell’attentatore jihadista attratto dalla umma quanto dei comportamenti svagati e inconsapevoli indotti dalle pubblicità della Coca Cola e di tutti gli altri prodotti assolutamente inutili rivolte ai giovani, e meno giovani, consumatori.

Non si tratta dunque di scegliere una delle due immagini riflesse dallo stesso specchio, ma di rompere lo specchio. La difesa della civiltà occidentale e dei suoi sacri valori sembra invece prevalere nei commenti e finisce con l’esaltare comportamenti antagonisti destinati a prolungare nei decenni a venire l’autentica guerra civile in cui abbiamo iniziato da tempo a vivere. Con buona pace di chi pensa che una tale guerra possa essere vinta da qualcuno.

Posso solo ricordare che gli operai della Renault di Flins negli anni sessanta e settanta non si riconoscevano su basi etniche o religiose, ma soltanto sulle basi dell’autonomia di classe che durante le lotte dell’epoca accomunava lavoratori europei e nord-africani. La perdita di quell’identità di classe, di quella comunità di lotta, che ha marcato la vittoria del turbo-capitalismo finanziario degli ultimi decenni, ha anche segnato il divenire di una società in cui la guerra civile tra differenti gruppi, che pur le appartengono, sarà la norma. Come, purtroppo, il successivo attacco in Finlandia ha contribuito a confermare.

A meno che, come nel magnifico finale de La terra dei morti viventi del grande George Romero recentemente scomparso, gli esclusi e gli oppressi sappiano riconoscersi in quanto tali e, anche senza dover obbligatoriamente collaborare, convivere in contrasto con il loro vero ed unico nemico.

(Si rammenta a tutti i lettori che la responsabilità per le opinioni contenute nel testo è da attribuire esclusivamente all’autore e non alla redazione di Carmilla nel suo insieme – S.M. )


  1. James G. Ballard, I miracoli della vita, Feltrinelli 2009  

  2. James G. Ballard, Crash, Rizzoli 1990, pp. 10-11  

  3. Ballard, op.cit., pp. 19-20  

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Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale https://www.carmillaonline.com/2017/07/11/isis-gran-ballo-maschera-della-modernita-globale/ Mon, 10 Jul 2017 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39287 di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.

Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.

Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.

Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.

La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.

Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.

L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.

La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.

Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…

La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.

Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.

L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.

Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.

Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.

E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.

Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.

In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.

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Agonia di una civiltà https://www.carmillaonline.com/2015/02/28/plaidoyer-pour-la-france/ Fri, 27 Feb 2015 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20898 di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista. Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per [...]]]> di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto1 in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.

Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80)

Mentre scriveva queste righe, Cioran si trovava a Parigi, che aveva raggiunto nel 1937 ufficialmente con una borsa di studio per approfondire gli studi su Bergson, e nella primavera del 1941 aveva fatto parte della Legazione romena di Vichy. Tra il 1940 e il 1941 era anche ritornato tempestivamente in patria per onorare alla radio di Bucarest la memoria del “Capitano” Codreanu, ucciso dal governo di re Carlo II di Romania nel 1938.2

Da un anno le truppe tedesche avevano invaso e sottomesso la Francia, marciando per i viali di Parigi nel giugno del 1940. E’ chiaro il raffronto che passa nella testa del trentenne Cioran: le nazioni giovani e forti sono quelle che invadono e sanno soffrire, che sanno donarsi ad una causa. Come affermerà nella sua “esaltazione di uno scettico” in memoria di Codreanu: “Dinanzi al Capitano nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido […] La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia”.3

Sacrificio, morte e rigenerazione stanno alla base del pensiero di Cioran e dove questi elementi non convivono allora, sembra dire, non vi è che il non senso e la decadenza. Non ci sono alternative: conquista e morte oppure decadenza e mancanza di vitalità. Ipotesi che avvicina il pensatore rumeno non soltanto ai fanatici del sacrificio e del massacro operanti nell’ISIS, ma un po’ a tutti coloro che nel sacrificio per la nazione, sia essa borghese o socialista o nazionalsocialista, vedono l’unica possibilità di rigenerazione della società.

Ma, anche, a coloro che, come Michel Houellebecq, guardano con timore alla perdita di identità della Francia o dell’Europa a favore dei nuovi venuti, di religioni diverse e culture altre che non tengono conto dei valori affermatisi nel vecchio continente fin dalla Grande Rivoluzione e dalle conquiste (guarda caso) napoleoniche. “Due volte – nella sua storia- la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone” (pag.31)

Le basi della Grandeur per Cioran stanno tutte lì: nel cristianesimo e nelle conquiste territoriali. Religione ed espansione. D’altra parte anche Codreanu, prima di dare vita alla sua Legione, aveva contribuito a fondare, nel 1923, la Lega per la Difesa Nazionale Cristiana. Il sogno nazionalista è già tutto racchiuso in quei due fattori.

La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione” (pag.87) Così che gli avversari di oggi o di ieri assomigliano sempre di più ad immagini specularmente rovesciate e riflettentisi l’una nell’altra. Ed è proprio questo che si tarda a capire, da troppo tempo. Anche se un’attenta lettura del breve testo di Cioran ci può aiutare a comprenderlo un po’ di più.

Il compianto del filosofo rumeno, ancora fresco di ferree emozioni, per una Francia che successivamente gli permise di riciclarsi negli ambienti esistenzialisti ed intellettuali, sta quasi tutto all’interno del pensiero borghese, perbenista e nazionalista, che rimpiange le proprie origini “eroiche”. Così, prima di procedere oltre, almeno questo occorre rilevare: Céline fu odioso per il suo antisemitismo, ma mai smise di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre Cioran, nel compiangere il tramonto di una civiltà e di una cultura ne esalta sia le forme accademiche e distaccate che il ben più rozzo sogno militarista di conquista .

Il primo non fu mai perdonato, pur essendo uno dei più grandi scrittori francesi del ‘900, mentre il secondo, insieme ai suoi compari, poté facilmente riciclarsi, nella cultura della Francia dei decenni successivi, in qualità di “filosofo del tragico”. Una questione, insomma, non solo di di forma, ma anche, come spesso accade, di sostanza.4

Si confronti “Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice elaborata della raffinatezza” (pag.24) con “Napoleone […] ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria” (pag.33). Ecco il rimpianto vero per la Francia: quando sapeva e poteva essere imperialista.

E l’impressione è che, ancora oggi, nelle pagine del libro ultimo di Houellebecq come nelle piazze d’oltralpe del dopo Charlie, la questione vera sia quella, così come per l’identità vera di cui buona parte dei francesi che votano per Marine Le Pen sente l’assenza. “La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono” (pag.33) I valori borghesi su cui la Francia ha costruito la sua identità nazionale e perciò formale non trovano più riscontro nella realtà. Si finge che siano altri a negarli, quando in realtà si sono negati da sé…ammesso che siano mai stati davvero universali.

L’eguaglianza formale sul piano del diritto, la generica libertà individuale…già i cartisti inglesi del primo ottocento, preceduti da Rousseau, avevano capito che tali diritti non sarebbero mai stati di sostanza finché fosse sussistita la diversità sostanziale tra chi ha e chi non ha. Discorso saltato a piè pari oggi sia da chi afferma l’unità della umma5 come da chi dà per scontato che i diritti siano già uguali per tutti (di parola, di stampa, di espressione, di lavoro, di scelta, etc.), là dove manca l’uguaglianza reale: quella economica.

Inoltre “La Francia – come l’antica Grecia – […] sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita di aprirsi al nuovo” (pag.34) Qui Cioran, probabilmente, vuole sentirsi barbaro, così come lo dovevano sentirsi orgogliosamente i conquistatori dell’antica Roma o di Parigi nel giugno del 1940. Ma ciò non toglie che quel sentimento faccia parte, in questo caso per i francesi e dei loro ammiratori e sostenitori, della nostalgia per l’identità perduta. Quella che permetteva di distinguersi dai barbari appunto.

Decadenza significa […] non avere più anima. E’ il caso della Francia” (pag.48) Qui è ancora il barbaro Cioran, fascista tutt’altro che pentito, che guarda alla patria di Cartesio e si compiace della sua decadenza, a favore della novella barbarie nazista. ”Dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? […] La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito […] Potrebbe ancora servire alla patria? ” (pag. 46)

Una rivoluzione che non serva alla patria è inutile. Ecco il punto. Per questo i senza patria non hanno nulla a che spartire con le rivoluzioni che esaltano gli stati, le religioni e i partiti nazionalisti; anche con quelle che volevano costruire il socialismo in un solo paese, trasformando così anche il sogno proletario in una nuova e categorica religione nazionale. Forse è giunta l’ora di abbandonare l’ideale rivoluzionario statalista e giacobino, che ha erroneamente fondato tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900, trasformandole, tutte indistintamente, in null’altro che ripetizioni, spesso mal riuscite, della rivoluzione nazionale borghese.

Cosa che ci costringe a riflettere su un’altra questione: se saltano i valori borghesi e della rivoluzione che li ha fondati esiste davvero solo la decadenza? Oppure la specie umana dovrà promuovere valori altri, rispetto a quelli fondati dalle religioni, dai nazionalismo, dagli imperialismi, dal capitale e dalla sua classe dirigente? Non dovrà forse il comunismo o l’organizzazione sociale futura distruggere anche i valori del pensiero e della società borghese, promuoverne e curarne la decadenza, per liberare davvero l’umanità intera?

Per un reazionario nichilista ed ultra-conservatore come Cioran la fine dei valori della società borghese per una nazione come la Francia, una volta finita l’epoca “eroica” delle conquiste, poteva significare soltanto due cose: l’ergersi all’orizzonte di una nuova potenza (la Germania di Hitler) oppure la decadenza e la fine della civiltà, in una visione totalitaria e tutt’altro che dialettica del divenire storico.

Mentre per chi crede nel superamento della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’accumulazione di profitti, anche il superamento del diritto formale borghese e delle sue illusioni, comprese quelle religiose, è inevitabile e necessario. Cosicché spiarne l’agonia significa anche individuare i fattori del suo tramonto.

Poiché, per la maggior parte dell’umanità e sempre più per i lavoratori, oggi non esiste ancora libertà d’espressione. Non esiste uguaglianza davanti alla legge (basta confrontare i procedimenti giudiziari contro chi lotta con quelli a carico di coloro che hanno contribuito ad uccidere, come nel recentissimo caso della Eternit, migliaia di lavoratori). Non esiste sicurezza del lavoro, della proprietà e del futuro per i propri figli. Non dobbiamo scegliere tra uno e l’altro o l’altro ancora dei contendenti attuali. Dobbiamo scegliere un mondo altro e forme altre di espressione e di lotta, perché, come Rosa Luxemburg ci ha insegnato ormai da più di un secolo, la scelta futura non sarà tra civiltà (borghese) e barbarie, ma tra barbarie e socialismo. Hic Rhodus, hic salta.

C’è però da dire che , almeno, l’ambiguo o sincero Cioran del 1941 sapeva ancora riconoscere due cose: “La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure […] Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo” (pag.54) e “La vita esiste solo in banlieue. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile” (pag.79). Con buona pace di chi oggi volesse ancora soltanto demonizzare tout court i casseur o i loro sottoprodotti politici e militari.

In realtà Cioran non dava troppo credito a tale ipotesi. Anzi, la utilizzava proprio come paradosso per dimostrare l’irreparabile decadenza della società borghese francese, ma almeno aveva ancora la capacità di porla sul piatto, mentre oggi nel dibattito intellettuale e, anche se non lo vorrei dire, soprattutto a sinistra la lotta di classe e le sue conseguenze sono ormai totalmente rimosse a favore di discorsi che tengono conto dell’etica e delle idee, ma non della effettiva realtà sociale e di tutte le sue esplosive e spesso terribili contraddizioni.

In questo senso, leggere e riflettere sul piccolo testo di Cioran può essere utile. Non solo perché contiene al suo interno ancora numerosi altri spunti,6 ma anche perché, a volte, ci “insegna” di più un nemico sicuro che un alleato incerto e, proprio per questo, potenzialmente infido. Cosa che il testo rivela, mostrando la sottile o quasi invisibile linea di demarcazione che separa il pensiero conservatore, se non reazionario, da quello genericamente progressista, là dove l’autonomia politica di classe viene a mancare per appiattirsi invece sulle formule più scontate del pensiero dominante.


  1. Come ha già sottolineato Mario Andrea Rigoni, anche se con finalità diverse da chi scrive, in una recensione comparsa sul Corriere della sera: Cioran anticipò Houellebecq, 16 gennaio 2015  

  2. Sul “passato” fascista di Cioran, Eliade e sul più che contraddittorio Ionesco si consulti Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008  

  3. cit. da Giovanni Rotiroti nella sua introduzione a Cioran, Sulla Francia, pp.9-10  

  4. Anche se l’antisemitismo di Cioran, pur non manifestandosi in maniera violenta negli scritti francesi come in quelli rumeni prima del suo arrivo a Parigi, si manifesta sporadicamente ed incontenibilmente anche nel corso del testo qui trattato. Un esempio per tutti: “Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza” (pag.71) Là dove, per l’appunto, l’essere ebrei coincide con l’essere individui o popoli incompiuti, non completi, mancanti di qualcosa, sostanzialmente inferiori.  

  5. Nell’Islam è la comunità dei fedeli, al di sopra delle barriere sociali e nazionali  

  6. Basti per tutti, in un’epoca di cuochi televisivi e ricette gastronomiche presenti in ogni dove, la seguente riflessione: “Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia [… ]l’atto di mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento”(pag.67)  

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