religione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un’apocalisse contadina https://www.carmillaonline.com/2025/09/10/apocalisse-contadina/ Wed, 10 Sep 2025 18:11:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90187 di Sandro Moiso

Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia. Analisi e documenti di una rivoluzione tardo medievale (a cura di Daniele Pepino), edizioni Tabor, Valsusa 2025, pp. 295, 15 euro.

«Cari fratelli, con lo sguardo alla legge di Dio e al bene comune, che ogni uomo che sa maneggiare un bastone o scagliare una pietra si faccia avanti per lottare… Noi stiamo raccogliendo il popolo da ogni parte contro questi nemici di Dio e devastatori della terra di Boemia. Voi stessi proclamate sulle piazze dei mercati che tutti quelli cui l’età lo consente siano pronti a sollevarsi in qualsiasi momento. Con [...]]]> di Sandro Moiso

Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia. Analisi e documenti di una rivoluzione tardo medievale (a cura di Daniele Pepino), edizioni Tabor, Valsusa 2025, pp. 295, 15 euro.

«Cari fratelli, con lo sguardo alla legge di Dio e al bene comune, che ogni uomo che sa maneggiare un bastone o scagliare una pietra si faccia avanti per lottare… Noi stiamo raccogliendo il popolo da ogni parte contro questi nemici di Dio e devastatori della terra di Boemia. Voi stessi proclamate sulle piazze dei mercati che tutti quelli cui l’età lo consente siano pronti a sollevarsi in qualsiasi momento. Con l’aiuto di Dio, presto verremo a trovarvi; procuratevi del pane, della birra, del foraggio per i cavalli d ogni sorta di armi, perché è giunto il momento di combattere» (Jan Žiżka del Calice, capitano del popolo taborita, 1422)

Più di cento anni prima della guerra dei contadini tedeschi del 1525, in terra di Boemia, migliaia di contadini insorsero sia contro la rapacità della chiesa cattolica che contro le esose richieste dei proprietari, in gran parte tedeschi, delle terre lavorate col sudore e la fatica delle comunità agrarie dell’Europa centrale. E centrale lo era davvero la terra di Boemia per l’Europa di quel tempo, considerato che, come ci ricorda il curatore nell’introduzione:

La Boemia (la regione che insieme alla Moravia costituisce l’attuale Cechia o Repubblica Ceca), sembra oggi sonnecchiare ai margini della storia, ma la sua posizione e il suo ruolo sono stati per secoli letteralmente centrali. E’ sufficiente guardare una carta geografica di quella “penisola asiatica” che chiamiamo “Europa”, dall’Atlantico agli Urali per rendersi conto della sua centralità. Se tracciassimo due assi – uno tra Lisbona e Mosca, diciamo, e l’altro tra Edimburgo e Ankara – troveremmo il centro di questa Europa proprio lì, nei dintorni di Praga. Una centralità geografica che si interseca anche con una particolarità “etnica” o “linguistica” tutt’altro che irrilevante: i cechi rappresentano il primo avamposto slavo in terra germanica. Un confine linguistico, quindi, un crocevia tra popoli slavi e popoli “europei”, con tutto ciò che ne consegue1.

Ecco allora il motivo per cui, come già si è detto prima, l’insurrezione hussita-taborita portò con sé sia l’elemento della rabbia contro la «vecchia vaticana lupa cruenta»2 che quello politico “anti-tedesco” o, per meglio dire, “anti-imperiale” che racchiudeva in sé rivendicazioni di carattere economico, sociale e nazionale. Magari ancora espresse soltanto attraverso il linguaggio della fede, ma non per questo meno chiare ed efficaci per la mobilitazione dei rivoltosi.

Il testo delle edizioni Tabor, ancora una volta muovendosi in direzione «ostinata e contraria», riporta l’attenzione sui movimenti insurrezionali e di lotta che hanno accompagnato l’affermarsi di un modo di produzione che, dopo aver scardinato le antiche tradizioni comunitarie, ha progressivamente imposto il suo dominio proprietario e politico, rimuovendo la memoria della fiera opposizione che si manifestò sul continente “europeo” nel lungo passaggio dalla società feudale a quella mercantile, prima, e industriale, poi.

Un’autentica resistenza “anti-coloniale” che si manifestò sia nei confronti della chiesa di Roma e dei suoi avidi rappresentati che della formalizzazione politica, proprietaria e classista della società che sarebbe poi stata detta capitalistica. Una lunga opera di colonizzazione che precedette tutte le altre condotte in seguito negli altri continenti, ma che suscitò le stesse eroiche e, troppo spesso, disperate azioni di rivolta da parte di chi si trovò a subirla sulla propria pelle.

Per cui era gioco forza che, dopo L’incendio millenarista3, Settecento anni di rivolte occitane 4 e i “piccoli” testi della collana «Bundschuh» dedicati ai differenti aspetti delle resistenze e culture contadine e della loro repressione in età tardo medievale, le preziose edizioni valsusine giungessero alla pubblicazione di una raccolta di saggi storico-politici e di testi originari dell’epoca destinati a riportare alla luce un movimento che, pur sottovalutato dalla storiografia italiana ed europea-occidentale, ha visto negli ultimi decenni crescere l’attenzione nei suoi confronti nelle ricerche di lingua ceca e/o slava.

E’ un problema generale, di matrice coloniale, che attiene a come viene studiata la storia dalle nostre parti, concentrandosi quasi esclusivamente su quello che viene arbitrariamente trattato come il centro del mondo: l’Europa occidentale. Questo nostro sforzo editoriale vuole quindi essere ance un tentativo di abbattere queste barriere, gettando lo sguardo appena un po’ più in là5.

E qui, prima di procedere con il riassunto degli eventi di quella apocalisse contadina, occorre sottolineare che questa sorta di colonialismo culturale abbia fatto sì che anche la storiografia e le analisi politiche di sinistra, anche marxiste e pretese rivoluzionarie, abbiano finito con l’accettare una visione fin troppo riduttiva delle guerre e delle rivolte contadine di età pre-capitalistica e successive, contribuendo così a ridurle, come si è già affermato a proposito di un altro testo edito da Tabor (qui), a mero “rumore di fondo” delle trasformazioni avviate dall’avvento del capitalismo oppure a semplice anticipazione di quanto il movimento operaio avrebbe in seguito “più maturamente” avuto in modo di sviluppare, se non addirittura a movimenti reazionari e conservatori quando fossero avvenuti in epoche in cui il socialismo e il marxismo avessero già affermato la propria concezione del divenire della Storia.

Forse non a caso, nell’ambito del socialismo italiano degli inizi del XX secolo, sarebbe stato solo un ancor trentenne e socialista Benito Mussolini a cogliere la radicalità del movimento hussita in un libretto pubblicato in occasione di una previsto convegno della Società del libero pensiero che avrebbe dovuto tenersi a Praga per celebrare il quinto centenario del supplizio e della morte di Jan Hus (1371 ca. – 1415), ma che fu impedito dallo scoppio del primo macello imperialista6.

Una riflessione, quella sulla rimozione della radicalità anticapitalistica, antinobiliare e anticlericale dei movimenti contadini a cavallo tra Medio Evo ed età moderna, che si rivela assolutamente necessaria ai fini della rifondazione di una storiografia militante nemica del pensiero unico liberale e progressista, in cui l’elemento razionale e ragionevole è stato esaltato a discapito delle fede e della rabbia degli ultimi per narrare, ancora una volta, la storia dei vincitori. Anche quando si è ammantata da storia delle rivoluzioni, sottostimando il valore reale delle lotte senza quartiere condotte da anabattisti, hussiti e taboriti. Solo per citare alcuni esempi dell’eresia contadina rivoluzionaria.

Un percorso, quello delle eresie contadine, non privo di contraddizioni, ma la cui radicalità affondava le radici in una fede altrettanto radicale nel diritto all’uguaglianza in Terra, sia economica che sociale. Una fede ancora oggi troppo spesso irrisa da un laicismo borghese che vorrebbe apparentemente rimuovere qualsiasi “irrazionale spiegazione del mondo”, ma che in realtà si fonda sulla necessità di rimuovere qualsiasi “irrazionale tentazione di rovesciarlo”. Negando però, nei fatti una “fede”, che più che rivolgere lo sguardo verso l’alto e il regno dei cieli, affondava, e spesso ancora affonda, le sue radici nella concretissima materialità dei bisogni collettivi.

Fatte queste considerazioni, occorre ora riprendere il filo degli avvenimenti narrati e commentati nel testo delle edizioni Tabor. Ricordando come inizialmente il “teologo” Jan Hus, insegnante e poi rettore dell’Università di Praga, si fosse messo alla testa di un movimento riformatore che sosteneva la necessità di una profonda riforma della Chiesa e del ritorno alla semplicità evangelica,

Hus predicò contro le ricchezze della Chiesa, lo scandalo delle indulgenze e a favore della disubbidienza contro i «padroni ingiusti». Per questo motivo fu costretto a fuggire da Praga e, nel 1412, a rifugiarsi nei pressi di quella che sarebbe diventata in seguito la città di Tàbor, fondata nel 1420 da un gruppo di fuggitivi, provenienti da Praga, con l’intento di costruire una fortezza hussita nella Boemia Meridionale.

Questo a seguito del fatto che Jan Hus, convocato al Concilio di Costanza, malgrado fosse munito di salvacondotto imperiale, era stato imprigionato, condannato come eretico e bruciato sul rogo nel 1415, così come sarebbe poi capitato l’anno successivo al suo amico e seguace Girolamo da Praga.
I fondatori della città di Tábor, avrebbero sostenuto la causa hussita proclamando l’uguaglianza sociale, cosicché, seguendo un principio molto radicale, fu in essa bandita qualsiasi attività privata. In realtà, però, la storia della rivolta taborita prende avvio negli anni successivi alla morte di Jan Hus e trova in Jan Žiżka uno dei suoi “capitani”.

Jan Žiżka, il condottiero taborita più famoso, il cui soprannome (Žiżka: cieco) derivava dal fatto di aver perso un occhio in giovane età a seguito di una zuffa con i compagni di gioco, avrebbe poi perso anche l’altro in battaglia, ma nonostante la cecità “fisica” avrebbe avuto la capacità di vedere e anticipare il futuro delle lotte del movimento boemo, soprattutto dal punto di vista militare.

Come ci ricorda, però, ancora il curatore: «Žiżka non è solo una figura epica e gloriosa, per la sua genialità e il suo coraggio sui campi di battaglia, ma è anche una figura complessa, per certi versi tragica, in cui si incarnano le contraddizioni, gli errori, le lacerazioni e le lotte intestine che porteranno il movimento rivoluzionario boemo alla sua rotta finale. Una figura enorme, verrebbe da dire, guardando la sua statua che ancora oggi domina Praga dalla collina Viktov»7.

Jan non era un teologo come Hus, anzi sull’alba del XV secolo era a capo di una banda di briganti che conducevano una guerra di guerriglia contro i feudatari, durante la quale uno dei suoi fratelli venne catturato e decapitato nella città di Budweis. In seguito sarebbe diventato capitano di ventura, arrivando a combattere sul mar Baltico, nella battaglia di Grunwald (1410) durante la quale le forze polacco-lituane, appoggiate dalle milizie boeme, sconfissero i cavalieri teutonici, i monaci guerrieri destinati alla colonizzazione e sottomissione dei paesi di lingua slava.

Dopo la condanna a morte di Hus si erano levate in tutta la Boemia e a Praga forti proteste che spinsero il re Wenzel a chiudere tutte le chiese hussite, e fu in questo contesto che Žiżka strinse un forte legame di amicizia con il predicatore popolare Jan Želivsky, dando vita ad un sodalizio dalle conseguenze dirompenti.

Il 30 luglio 1419 infatti una moltitudine di persone, guidate dallo stesso Želivsky, abbattè il portone del palazzo comunale di Praga per esigere la liberazione dei prigionieri hussiti, scaraventando in strada una dozzina di consiglieri dalle finestre della torre e dando così vita alla prima defenestrazione di Praga (l’altra fu all’origine della Guerra dei trent’anni due secoli dopo). A seguito di ciò e del fatto che il popolo aveva preso il controllo della capitale, le istanze più radicali del movimento presero a rafforzarsi tra gli strati più poveri della popolazione e dei contadini.

A unire tutti gli scontenti e i diseredati fu il sogno millenarista di realizzare il Regno di Dio in terra. La profezia annunciava per il 1420 il ritorno di Cristo e il crollo di Babilonia (Praga) e del suo mondo di corruzione e iniquità. Le città dovevano essere abbandonate, i giusti dovevano salire sulle montagne per prepararsi al rinnovamento totale. E così fecero: smisero di lavorare, di pagare i tributi, abbandonarono le loro case e i loro campi […] perché sapevano che la pace non sarebbe durata a lungo. Misero tutti i loro beni in comune e si organizzarono in fratellanze armate per diffondere il verbo e combattere gli empi che si ostinavano a difendere il vecchi ordine. Ovviamente, anche Jan Žiżka era con loro8.

Il primo marzo 1420 il papa e l’imperatore promossero una prima crociata contro gli hussiti (ce ne sarebbero poi state altre quattro) e in risposta all’appello, che prometteva anche l’assoluzione da tutti i peccati per chi vi avesse preso parte, centomila soldati provenienti da tutta Europa invasero la Boemia. Nonostante, però, i rovesci iniziali e i massacri, le milizie taborite dell’est e dell’ovest condotte da Žiżka ebbero la meglio sulle armate crociate costringendole alla resa.

Questa iniziativa di guerra dal basso diede alla componente proletaria e radicale della rivoluzione hussita il ruolo di protagonista, compattando intorno a sé tutto il resto del movimento. Erano le armate dei poveri e dei contadini che avevano sconfitto l’esercito imperiale e salvato la Boemia dall’invasione straniera, e ciò diede una forza inedita anche ai poveri di Praga, relegando la componente più benestante e moderata a un ruolo subalterno9.

Ed è proprio l’aspetto militare della rivoluzione boema del XV secolo a costituire l’argomento di uno dei saggi scritti appositamente per l’occasione da Daniele Pepino: Aspetti tattici di una guerra di popolo.

Nel Quattrocento, in Europa, la guerra medievale stava cambiando volto, virando verso la modernità. La cavalleria, fino ad allora protagonista assoluta delle battaglie, stava gradualmente perdendo importanza, mentre cresceva il peso della fanteria, formata da schiere di “gente comune” in armi. I cavalieri erano una casta addestrata dalla nascita a un codice di comportamento e a un sistema di valori aristocratici, erano uomini che combattevano tra di loro, seguendo precise regole e rituali. L’affermazione della fanteria, ancor prima della comparsa delle armi da fuoco portatili, ribaltò tutto quanto. La guerra non fu più un gioco tra nobili, divenne una faccenda di popolo. Masse di poveri irruppero sulla scena, diventando protagoniste dei campi di battaglia.

È su questo spartiacque che si dispiegano le guerre hussite, quando il vecchio ordine feudale va disgregandosi e la modernità capitalista ancora fatica a cementare la sua egemonia. Prima che le classi dominanti riuscissero a inquadrare i loro eserciti, a mandare i loro sudditi al macello in ranghi disciplinati, il popolo si sollevò rivendicando il proprio ruolo autonomo nella storia. L’insurrezione taborita fu anche questo. La plebaglia che si rifiuta di andare al massacro per difendere privilegi altrui, si appropria delle tecniche (antiche, come i carri, e nuove, come le armi da fuoco) oltre che dell’immaginario (la Bibbia) e le fa proprie, rovesciandole contro i propri nemici di classe. Sono i poveri che combattono per sé stessi. Nelle guerre hussite, le fratellanze del popolo in armi fecero irruzione sui campi di battaglia del cuore d’Europa, dispiegando una possibilità storica incompiuta: se avessero vinto loro, molto probabilmente, il feudalesimo non sarebbe stato sostituito da un ordine ancora più iniquo e disumano10.

L’autore descrive in seguito con estrema precisione le innovative tattiche militari che permetteranno a quell’esercito di popolo di tener testa per anni alle armate imperiali e ci ricorda come:

Dalle campagne inglesi alle città italiane, le comunità locali erano organizzate in società armate, in cui tutti gli uomini abili prestavano servizio, e che garantivano la sicurezza del proprio rione o villaggio; milizie che molto spesso, in caso di rivolte, si schieravano con la popolazione insorta costituendone la forza in armi. […] L’affermazione degli Stati territoriali richiedeva la confisca del diritto all’autodifesa delle comunità locali; il monopolio della violenza andava accentrato nelle mani di nuovi apparati burocratici sempre più lontani e impersonali, disgregando e disarmando ogni forma di organizzazione e di contropotere popolare. Fu un conflitto che diede vita a una serie impressionante di rivolte contadine e urbane che bruciarono l’Europa per secoli, assumendo i contorni di una guerra civile carsica. Intrecciandosi con le correnti più radicali della Riforma protestante, le comunità lottarono per mantenere al loro interno il controllo non solo delle risorse (l’uso collettivo di terre, pascoli, boschi, acque, ecc.) e della fede (la predicazione nella propria lingua, l’elezione diretta dei pastori, ecc.) ma anche della propria sicurezza (il diritto a portare le armi e a organizzarsi militarmente per l’autodifesa). La guerra a tutto campo condotta dalle fratellanze taborite fu quindi, in questo senso, anche l’accanita e gloriosa lotta armata della società – e della sua facoltà di autodifendersi – contro lo Stato11.

Le conclusioni del saggio racchiudono, forse, l’aspetto di maggiore importanza di una rivoluzione che se si fosse affermata sarebbe stata davvero apocalittica, a differenza di tante altre poi millantate come tali. Lontana dal pacifismo imbelle come dal militarismo delle armate al servizio degli imperi e del capitale, la lezione taborita e di Jan il cieco giunge ancora a noi in tutta la sua forza, soprattutto a riguardo dell’uso e dell’organizzazione della violenza dal basso.

Ma anche le fratture interne al movimento, così come i rovesci politici e le dinamiche militari sono poi ancora raccontate in dettaglio nei saggi contemporanei e nei testi dell’epoca raccolti in un’antologia che chi scrive non esita a definire imprescindibile per chiunque voglia ancora accollarsi la riflessione sulla necessità di cambiamento dell’ordine sociale esistente, ma mai dato una volta per tutte come si vorrebbe far credere, e sulle rivoluzioni di ieri e, forse, di domani.


  1. D. Pepino, Introduzione a Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia, edizioni Tabor, Valsusa 2025, p. 8.  

  2. Come ebbe a definire la Chiesa Cattolica Giosuè Carducci nella sua Ode alla città di Ferrara (1895), v. 163.  

  3. Yves Delhoysie, Georges Lapierre, L’incendio millenarista tra apocalisse e rivoluzione, Malamente/Tabor, Urbino-Valsusa 2024.  

  4. Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, con una prefazione del Collettivo Mauvaise troupe occitana, Edizioni Tabor 2016  

  5. D. Pepino, op.cit., p. 7.  

  6. Sulle vicende del libello mussoliniano, Giovanni Huss il veridico, prima cancellato dal regime ai tempi dei Patti lateranensi poiché radicalmente anti-clericale e successivamente ignorato dalla cultura antifascista, si veda: F. Tasca, «Giovanni Huss il veridico» di Benito Mussolini. Riflessioni sul destino di un libro, «Bollettino della Società di studi valdesi» n° 218, giugno 2016, pp. 173182.  

  7. D. Pepino, op. cit., p. 9. 

  8. Ibidem, p. 11.  

  9. Ibid., p. 12.  

  10. D. Pepino, Aspetti tattici di una guerra di popolo in Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia, op. cit. pp. 59–76, p. 59.  

  11. Ivi, pp. 75-76.  

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Dare una forma al caos: una lettera di Howard P. Lovecraft https://www.carmillaonline.com/2025/08/27/ridare-una-forma-al-caos-una-lettera-di-howard-p-lovecraft/ Wed, 27 Aug 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89910 di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, [...]]]> di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, si vocifera, di 100.00 lettere scritte tra i venti e i quarantasette anni, più o meno dal 1910 al 1937, anno della sua morte. Lettere lunghe anche 20, 30 o, come quella scelta per l’attuale pubblicazione presso Adelphi, 70 pagine.

Lettere che, però, non trattavano soltanto degli incubi di uno scrittore che, fin da quando aveva sei anni, aveva cominciato a trascrivere il sogno di «un ragazzino che origliò un orribile conclave di esseri sotterranei in una spelonca», così come, ad esempio, quelle riportate nelle sue “Lettere dall’altrove” scritte tra il 1915 e il 19371 estratte dall’ampia selezione di lettere, raccolta in cinque volumi, da August Derleth e Donald Wandrei tra il 1965 e il 1968 e pubblicate dalla Arkham House nel 1976.
Autentiche testimonianze di una mente, allo stesso tempo, enciclopedica e disturbata, anche al di fuori dei riferimenti, ben noti a tutti i lettori, al Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred o all’immondo e folle universo retto da Yog-Sothoth, Subb-haqqua Nyarlathotep, Shubb-Niggurath, Azathoth, Dagon e Cthulhu.

Una lettera, quella pubblicata da Adelphi, indirizzata all’amico Harris il 9 novembre 1929 (tenga ben presente tale data il lettore di queste righe), nella quale sembra essere racchiusa l’autentica cosmogonia del solitario di Providence e in cui, tra pessimismo, razzismo, arianesimo, ateismo, fiducia nella scienza e letture che andavano da quelle di stampo classico fino a quelle svolte sul già allora popolare «Reader’s Digest», il padre dell’orrore cosmico rivela «una vena da eterno dilettante, da veemente autodidatta».

Le cui convinzioni ruotavano intorno al rifiuto di alcuni mostri sacri del sentire comune del tempo, e forse ancora di oggi: la religione, l’amore romantico, il macchinismo e la democrazia. Con un’interpretazione di quest’ultima non lontana dal «grigio diluvio», in cui tutte le responsabilità si confondono annullandosi, di pirandelliana memoria. In particolare Lovecraft, che si definì sempre come un conservatore, se la prende con il declino di una civiltà, quella anglo-sassone e soprattutto in America, che sembra ai suoi occhi essere stata travolta dalla modernità industriale e dai suoi, inevitabili, corollari.

Per come la vedo io, la civiltà americana è quasi estinta ma autentica laddove sopravvive: in certi gruppi sparsi per tutto il paese e in certe aree geografiche, nella Virginia occidentale in particolare e in alcuni punti del New England. Quella che i conservatori deplorano e combattono non è certo la nostra cultura ancestrale ma una nuova e oltraggiosa barbarie di villani rifatti fondata sulla quantità, il macchinismo, la velocità, il commercio, l’industria, l’opulenza e l’ostentazione del lusso, che è spuntata in mezzo a noi come una pianta infestante intorno al 1830 con l’ascesa della massa becera. Ha poco a che spartire con la nostra civiltà – la corrente principale di pensiero e sensibilità classica e inglese instaurata in queste colonie da oltre due secoli di presenza ininterrotta, 1607-1820 –, non più della barbarie polinesiana o degli indiani Sioux. Si tratta di una piaga da estirpare, qualora possibile, altrimenti da fuggire, tutto qui. Ma chiamarla « civiltà americana » sarebbe un affronto ai nostri antenati. È « americana » solo in senso geogra$co e tutto è meno che una « civiltà », se non secondo la definizione spengleriana del termine. È una barbarie totalmente avulsa e totalmente puerile, basata sul benessere fisico anziché sulla superiorità mentale, e non ha titoli per essere tenuta in considerazione dai discendenti dei coloni.2.

Da questa paura del dissolvimento della società americana così come poteva essere raffigurata dalla tradizione del New England e della Virginia occorre iniziare per entrare nelle riflessioni dello scrittore americano, a partire dalle originali considerazioni polemicamente svolte a proposito di William Shakespeare.

Vorrei correggere la tua impressione radicalmente sbagliata che Shakespeare avesse un atteggiamento o un metodo da intellettuale. Santiddio! Non ti rendi conto che quel tipo era l’esatto opposto! un poeta incolto, imprevedibile, spontaneo, non accademico, non curante, che credeva di seguire le mode popolari e si serviva della lingua più comune e colloquiale del periodo. Shakespeare, come artista immortale, è stato un puro caso di genio. Era dotato di una naturale combinazione di senso della lingua e percezione dei moventi umani che pochi hanno mai posseduto, però non lo sapeva e visse tutta la vita come un teatrante da strapazzo e uno scribacchino, raccogliendo i racconti popolari che trovava in giro (ballate a buon mercato, cronache storiche da quattro soldi e traduzioni popolari di autori classici e stranieri) e rimaneggiandoli nel sapido vernacolo del giorno per il consumo di massa. Era un grande artista suo malgrado e senza volerlo. Tutte le sue aspirazioni erano sociali, non estetiche. Voleva semplicemente elevarsi al di sopra della classe borghese-contadina e fondare una famiglia con tanto di stemma. Mirava alla nobiltà e al rango, non all’arte e alla dottrina. Gli sarebbe dispiaciuto essere preso per uno studioso serio o per un esteta: ai suoi tempi i signori non andavano oltre il livello dilettantesco nel coltivare il sapere o l’arte. Analizza una qualunque delle sue opere e troverai più errori assurdi per centimetro quadrato che in qualunque altro autore riconosciuto nella nostra lingua. E paragona la sua dizione […] per vedere quanto fosse lontano dal letterario o dall’accademico in fatto di stile. Era spigliato e colloquiale quanto Sherwood Anderson o Ring W. Lardner: se lo troviamo assurdo oggigiorno è solo perché la lingua è cambiata. Ai suoi tempi si serviva degli accenti semplici che sentiva in giro, tenendo conto della differenza ben nota e comunemente accetta tra la prosa letterale e la poesia colorata dalle metafore. A dire il vero era ritenuto sciatto e incolto proprio dai contemporanei […] Che diavolo! Se c’è una cosa che il povero vecchio Bill non era è un intellettuale!3.

Una descrizione che rimanda alla cultura popolare da cui Lovecraft, che per tutta la vita pubblicò su riviste pulp o popolari, era contemporaneamente attratto e infastidito un po’ come il Philip K. Dick del Ritratto di un artista di merda. Una riflessione che sembra anticipare, però, anche quelle di Valerio Evangelisti sulla paraletteratura, la letteratura d’evasione e la cultura di massa che sottende il lavoro degli scrittori in essa coinvolti oppure ad essa confinati dalla critica4.

La parte più corposa della lettera, però, è rappresentata da una sorta di storia universale in pillole che non sarebbe forse dispiaciuta al Donald Trump dei muri, alle alleanze ariane ancora attive oggi negli Stati Uniti e ai membri del Ku Klux Klan. L’evoluzione della civiltà, greca prima e anglosassone poi, ma quest’ultima solo fino ad un certo punto, sembra infatti articolarsi intorno alla convinzione che:

le razze più isolate e più aristocratiche sono sempre quelle che salgono più in alto sulla scala che porta fuori dall’ottusità, dall’ignoranza e dall’insensibilità animale. Ricostruisci qualsiasi teoria antagonista e scoprirai che nasce da sofismi etici, religiosi o politici, non da un esame imparziale dei fatti. Tu citi l’attuale tendenza all’amalgamazione e all’appiattimento tra le razze esistenti e sostieni che futuri crolli culturali – frutto di noia estetico-mentale – coinvolgeranno un numero sempre più grande di persone finché da ultimo se ne presenterà uno in grado di coinvolgere tutte le specie umane. Il principio è senz’altro valido, anche se c’è da dubitare fino a che punto sia dato applicarlo. La repulsione tra certi estremi razziali è ancora molto forte e, in taluni casi, insormontabile. Una fusione bianco-mongola non è quasi concepibile, meno ancora lo è un’inclusione dei neri. Perfino un gruppo con una vena di mulatto eviterebbe la fusione con i neri puri, quindi la scomparsa di una razza nera separata è quanto mai improbabile se non per un massacro. In pratica è assai probabile che i filoni occidentale, mongolo, indù e negroide non s’incontreranno mai e che l’unica forma di contatto sarà il conflitto5.

Alle genti “ariane”, naturalmente, viene riservato uno sguardo di riguardo così come, paradossalmente ma non così tanto, alla Cina.

La condizione di semplicità animale non è certo una cosa così decisamente ignobile per un ariano bianco come il termine – o il paragone con il selvaggio non bianco – sembrerebbe insinuare. Il caucasico ha la sua bella riserva di trucchi radicati negli istinti e, finché conserva puro il sangue, non si avvicinerà mai molto al gorilla o, se è per questo, al negro o all’eschimese. Gli antichi galli e germani selvaggi non erano il porco o lo zerbino di nessuno; in realtà erano audaci, abbastanza disciplinati, razionali e amanti della bellezza […] sbagli di grosso a dire che una cultura non può prosperare in perfetto isolamento. Basta guardare alla Cina per avere un esempio calzante. La Cina, fino a tempi recenti, non ammetteva alcuna influenza esterna; eppure ha goduto di un periodo di esistenza lungo e pieno, con fasi di fioritura culturale pari a quelle mai conosciute da qualsiasi altra nazione. Bertrand Russell la ritiene la cultura più grande che questo pianeta abbia mai prodotto: nel suo periodo supremo superò perfino l’Atene di Pericle nella piena padronanza della vita e della bellezza, unico indice razionale del livello culturale raggiunto. Non c’erano contatti con il mondo esterno: tutti i forestieri erano « diavoli stranieri » […] La stessa Grecia era altrettanto eccezionalmente isolata. Sapeva del mondo esterno, ma solo per respingerlo e rifiutarlo. Il termine βάρβαρος (barbaro) serviva a indicare sia uno straniero sia un selvaggio6.

Torniamo ora a quanto sottolineato all’inizio, ovvero la data della lettera: 9 novembre 1929, esattamente quindici giorni dopo il “giovedì nero” di Wall Street che avrebbe trascinato con sé e fatto sprofondare in un autentico maelstrom l’economia e la società statunitense, i suoi lussi, i suoi risparmi e le speranze riposte in un progresso infinito del capitalismo industriale e finanziario.

Così c’è è traccia di quello che stava succedendo e di ciò che, all’epoca, sarebbe potuto avvenire in diverse parti della lettera, in cui si rimpiange la scomparsa di una vera aristocrazia a vantaggio di una nuova il cui prestigio si sarebbe basato sul denaro e l’industria.

Il futuro socio-politico degli Stati Uniti è quello di essere dominati da vasti interessi economici consacrati a ideali di guadagno materiale, attività priva di scopo e comodità fisica; interessi controllati da autorità astute, insensibili e di rado educate, reclutate in mezzo a un branco omologato mediante una competizione di acume affilato e furbizia pratica, una lotta per la posizione e il potere che eliminerà il vero e il bello come obiettivo, per sostituirli con il forte, l’enorme e il meccanicamente efficace. Detesterei avere discendenti che vivono in una simile barbarie, una barbarie così tragicamente diversa dalla vecchia civiltà del New England e della Virginia che appartiene di diritto a questa terra. Grazie a dio sono l’ultimo della mia famiglia: requiescamus in pace!7

Per contrapporsi a ciò, senza affidarsi a «tipi completamente irrazionali e ossessionati dall’etica quali i comunisti o sindacati come gli Industrial Workers of the World», sarebbe occorso:

scoraggiare i contadini e gli operai dal voler diventare borghesi e commercianti alzando quanto più possibile il salario e migliorando le condizioni di vita. Con maggiori benefici e agi per il plebeo e minori per il mercante e l’industriale si potrebbero gettare le basi per una struttura culturale più solida. E […] l’agricoltore andrebbe favorito per primo in quanto proprietà terriera e posizione economica lo vincolano più strettamente alla struttura storica tradizionale della nostra civiltà. Il cambiamento più grande dovrebbe essere un sottile cambiamento spirituale instillato dall’educazione e dalla propaganda, cioè l’insegnamento di una grande verità fondamentale: che volume e « prosperità » non significano niente in sé, e che il solo bene dal valore permanente nella vita è l’agio e la libertà di sviluppare una personalità intelligente e immaginativa. Cambiare lo scopo popolare dalla velocità, dal denaro facile e dalla ricchezza, alla parsimonia, alla sicurezza e al tempo libero riempito con gusto; sradicare l’invidia del plebeo per l’aristocratico agiato dimostrando il valore dell’esistenza di quell’aristocratico nello stabilire criteri che inducono a sopportare il lungo fardello della vita8.

Tralasciando ora, e soltanto per motivi di spazio, altre due lunghe trattazioni riguardanti i disastri e l’eventuale utilità della guerra e la separazione tra amore romantico, attività sessuale e erotismo femminile, diventa importante sottolineare come nel delirio onnicomprensivo e ordinativo dello scrittore sia ravvisabile una sorta di scrittura della crisi, così come poi, ma con ben altri risultati, sarebbe avvenuto con Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925), che in qualche modo anticipava la crisi morale prima ancora che economica degli Stati Uniti dei “ruggenti” anni Venti, oppure Le avventure di un giovane americano di John Dos Passos (1939) che, sulla scia del disastro economico e sociale che le riforme del New Deal non bastarono a colmare, giunse a denunciare con fermezza gli errori e le illusioni legate allo sviluppo dei partiti comunisti stalinizzati, sia negli Stati Uniti che nel corso della guerra civile spagnola.

Ma, ovviamente, la crisi di Lovecraft non è soltanto socio-economica e politica: è anche una crisi della ragione che si rifiuta di accettare l’ovvietà del presente e dei suoi disastri e cerca di correggerla con ricostruzioni, indicazioni e modelli, in questo caso quello aristocratico anglo-sassone d’antan oppure in altri quello bolscevico-proletario, che spesso conducono al delirio o a qualcosa di simile se presi troppo alla lettera.

Ecco allora che all’interno di quel caos primordiale, insondabile e orrendo, che fonda l’universo ideato da Lovecraft per dare spazio ai suoi miti e ai suoi incubi e «al cui centro balla un dio cieco, nudo e idiota al suono di una cacofonia di flauti e tamburi blasfemi», possiamo individuare la causa reale del malessere dell’autore che, ancora una volta, si ricollega ad un più generale malessere della società e della cultura americana degli anni Venti e Trenta.

Un disordine irrecuperabile che svela il vero volto di una società sorta dal sogno dell’eguaglianza e del progresso, della libertà e dell’affermazione del singolo individuo; di una Land of Freedom che per essere tale, aveva già fatto scontare col sangue e lo sfruttamento intensivo il proprio predominio ai nativi, agli schiavi e a tutti gli immigrati non WASP. Con una autentica ossessione per la purezza del sangue, di cui si è già parlato qui con la recensione di I Robinson d’America di David W. Belisle, in un disordine morale, economico, sociale il cui autentico dio Azathoth è rappresentato soltanto dall’espansione e dalla voracità del capitale.

Cosa che il conservatore, come amava definirsi, Lovecraft non avrebbe mai del tutto accettato consciamente, ma che sarebbe trapelata in altri scritti non fantastici successivi, come A Layman Looks at the Government (1933), dove guardando da profano al governo avrebbe affermato: «il sistema economico attuale dovrà perire, in primis la concezione attuale della proprietà privata su larga scala, non regolamentata, e del profitto individuale»9. Un’affermazione che costringe i lettori a considerare la possibilità che l’uomo della Maschera di Innsmouth non possa essere sempre e soltanto relegato al ruolo di scrittore razzista, ossessivo e “fallito”, come invece ebbe ancora a definirlo Ursula Le Guin10.


  1. H. P. Lovecraft, Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura Giuseppe Lippi, Oscar Mondadori, Milano 1993.  

  2. H. P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 13-14.  

  3. Ivi, pp. 27-28.  

  4. In proposito si vedano i saggi raccolti in V. Evangelisti, Le strade di Alphaville. Conflitto, immaginario e stile nella paraletteratura, a cura di A. Sebastiani, Odoya, Bologna 2022 e L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, a cura di S. Moiso e A. Sebastiani, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2023.  

  5. H. P. Lovecraft, op. cit., pp. 37-38.  

  6. Ibidem, pp. 36-37  

  7. Ivi, p. 99.  

  8. Ibid, pp. 117-118.  

  9. Cit. in O. Fatica, Senza soluzione di continuità, postfazione a H. P. Lovecraft, op. cit., p. 157.  

  10. Sulle contraddizioni in tal senso di H. P. Lovecraft, si veda H. P. Lovecraft, Cthulhu Rivoluzione. Il pensiero politico del solitario di Providence, a cura di M. Spiga, Heinserb3rg Studio, 2017.  

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Dominio, dissimulazione, resistenza e rivolta https://www.carmillaonline.com/2025/06/18/dominio-maschera-dissimulazione-e-resistenza/ Wed, 18 Jun 2025 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88921 di Sandro Moiso

James C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice, nuova edizione 2021, pp. 373, 20 euro

Arriverà quel giorno! Arriverà quel giorno!… Sento il rumore dei carri! Vedo le vampe dei cannoni! Il sangue dei bianchi scorre sul terreno a fiumi, e i morti sono un mucchio alto cosi! Oh Signore! Affretta il giorno quando i colpi e le ferite e i dolori verranno ai bianchi, e gli avvoltoi mangeranno i loro morti nelle strade. Oh Signore! Spingi avanti i carri e concedi alla gente nera pace e riposo. Oh Signore! Dammi il piacere di [...]]]> di Sandro Moiso

James C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice, nuova edizione 2021, pp. 373, 20 euro

Arriverà quel giorno! Arriverà quel giorno!… Sento il rumore dei carri! Vedo le vampe dei cannoni! Il sangue dei bianchi scorre sul terreno a fiumi, e i morti sono un mucchio alto cosi! Oh Signore! Affretta il giorno quando i colpi e le ferite e i dolori verranno ai bianchi, e gli avvoltoi mangeranno i loro morti nelle strade. Oh Signore! Spingi avanti i carri e concedi alla gente nera pace e riposo. Oh Signore! Dammi il piacere di vivere fino a quel giorno, quando vedrò i bianchi ammazzati come i lupi che escono affamati dai boschi.

Sono queste le parole, riportate da Mary Livermore una governante bianca del New England alla metà dell’Ottocento, uscite con impeto dalla bocca di Aggy, la cuoca nera della famiglia presso cui lavora la stessa Mary, dopo che il padrone aveva rimbrottato con veemenza, prima, e malmenato, in seguito, la figlia della stessa, accusata di un furtarello nella casa padronale.

E’ l’autentico incipit di un dramma che non va in scena a teatro, ma nella realtà della vita di tutti i giorni in cui, di solito il rapporto tra dominati e dominatori è regolato da regole di rappresentanza formale, quelle che l’autore del saggio definisce come verbale pubblico, a lato del quale però soggiace quasi sempre un verbale segreto ovvero ciò che si pensa ma non può essere detto, se non in momento particolari di tensione o rabbia. Come quello rappresentato dalle parole della schiava offesa dai maltrattamenti non tanto nei suoi confronti quanto piuttosto da quelli riservati alla giovane figlia.

Questo intreccio, stretto, tra rappresentazione formale dei rapporti di classe e sotterranea realtà degli stessi è stato da sempre al centro degli studi di James C. Scott, antropologo e storico statunitense delle società agrarie e senza stato, soprattutto collocate nell’area del Sudest asiatico. Una centralità che gli ha permesso di ricollegare sempre, tra di loro, le differenti narrazioni che derivano dall’ordine discorsivo dei due differenti verbali ed analizzare così le radici e le scaturigini delle rivolte e, talvolta, delle rivoluzioni avvenute a partire dalle società contadine. Per l’autore:

maggiore è la disparità di potere tra il dominante e il subordinato e l’arbitrio insito in essa, e maggiore è la tendenza dei subordinati ad assumere nel verbale pubblico un atteggiamento stereotipato, ritualistico. In altre parole, più il potere e minaccioso, piu la maschera e impenetrabile. Si può immaginare, in tale contesto, una gamma di situazioni che vanno dal dialogo tra amici di pari condizione e potere, da una parte, fino al campo di concentramento dall’altra, in cui il verbale pubblico della vittima porta il marchio di una paura mortale. Tra questi estremi sta la vasta maggioranza dei casi storici di subordinazione sistematica, che sono l’oggetto del nostro interesse. […] questa riflessione sul verbale pubblico ci avverte che esistono diversi aspetti nelle relazioni di potere, ciascuno dei quali verte sul fatto che il verbale pubblico non rappresenta la storia completa. Prima di tutto, il verbale pubblico è una guida incompleta per la comprensione dell’opinione dei subordinati1.

Dato per scontato, però, che esista un verbale pubblico apparentemente comune, occorre anche comprendere come esistano in ogni caso almeno due verbali segreti, quelli i cui non si confermano le cose dette in pubblico ma quelle realmente pensate e condivise da coloro che li producono: i dominatori e i dominati. Ed è proprio rivolta a quelli prodotti da questi ultimi l’attenzione maggiore di Scott. Proprio per provare ad individuare al loro interno i meccanismi narrativi che soggiacciono alle possibili rivolte dei servi, degli schiavi, dei contadini piccoli o senza terra e della vasta schiera di poveri e diseredati che costituiscono le fila dei dominati. Che spesso indossano maschere, verbali e formali, che:

producono un verbale pubblico strettamente conforme al modo in cui il gruppo dominante vorrebbe che le cose apparissero. Questo non controlla mai totalmente la scena, tuttavia i suoi desideri prevalgono. Nel breve termine, e nell’interesse del subordinato assumere un atteggiamento abbastanza credibile, pronunciando le frasi e compiendo i gesti che sa che ci si aspetta da lui. Il risultato è che il verbale pubblico (per evitare una crisi) è sistematicamente orientato nella direzione del copione messo in scena dal dominante. In termini ideologici, il verbale pubblico, attraverso il suo tono accomodante, fornirà tipicamente la prova dell’egemonia dei valori dominanti, dell’egemonia del discorso dominante2.

Ma che non condividono, dissimulando soltanto l’obbedienza al canone culturale e politico dominante, cosa che spinge spesso le autorità o i rappresentanti del potere a sottovalutare le braci che covano sotto le ceneri, pur sapendo che tale armonia non può essere possibile, ma illudendosi che col tempo queste si spengano.

In questo contesto sono proprio i verbali segreti a tenere invece accese le braci dell’odio, del disprezzo e della rivolta nei confronti di chi si sente comodamente assiso ai vertici del potere politico e proprietario. Come afferma George Eliot nel suo romanzo Daniel Deronda (1876), citato da Scott: «E l’odio piu intenso è quello radicato nella paura, che obbliga al silenzio e alimenta vendicatività costruttiva, un annullamento immaginario dell’oggetto detestato, qualcosa come i segreti riti di vendetta con cui i perseguitati danno sfogo oscuro alla propria rabbia». Quella che esplode, ad esempio, nelle parole di Aggy citate in apertura.

Ciò che colpisce è che il suo non è un semplice scoppio di rabbia improvvisa, e piuttosto un’immagine ben descritta e molto visiva di un’apocalisse, un giorno di vendetta e trionfo, un mondo rappresentato capovolto con l’uso della materia prima culturale tratta dalla religione dell’uomo bianco. Si può immaginare che una visione tanto elaborata sia uscita spontaneamente dalle sue labbra senza il contributo di fede e pratica del cristianesimo degli schiavi? Sotto questo aspetto la nostra percezione del verbale segreto di Aggy, se approfondita, ci porterebbe direttamente alla cultura segreta degli alloggi e della religione degli schiavi3.

E questo, almeno a parere di chi qui scrive, costituisce il motivo di reale interesse della ricerca di Scott: comprendere come, dove, con quali forme prende corpo il verbale segreto della rivolta e dell’insurrezione possibile. Un verbale segreto formatosi nei confronto tra pari in luoghi e nel contesto di eventi che sono ritenuti sicuri, lontani dalle orecchie e dallo sguardo del padrone e di chi è al potere. Momenti di confronto in cui un immaginario collettivo, individuale e sociale, formatosi nell’esperienza quotidiana dello sfruttamento e della sottomissione, prende forma e diventa strumento delle strategie di resistenza.

Tale discorso riporta la nostra attenzione sulla cultura fuori scena della classe nel cui ambito ha preso origine. Un singolo individuo che subisca un affronto può sviluppare una sua fantasia personale di vendetta e conflitto, ma quando l’insulto non è che una variante di quelli subiti sistematicamente da un’intera razza, classe o ceto, allora la fantasia puo diventare un prodotto culturale collettivo. Quale che sia la forma assunta (parodia fuori scena, sogni di vendetta violenta, visioni millenaristiche di un mondo capovolto), questo verbale segreto collettivo è essenziale per ogni considerazione dinamica delle relazioni di potere. [Perché] la necessità di «mettere la maschera» di fronte al potere produce, a causa della tensione provocata dalla finzione, una pressione contraria che non può essere trattenuta all’infinito4.

Una condizione di malessere, anche di carattere psichico, su cui indagò Frantz Fanon nella sua opera Pelle nera, maschere bianche (1952) in cui elaborò, anche a partire dall’esperienza personale, una critica storica degli effetti del razzismo e della disumanizzazione, insiti nelle situazioni di dominazione coloniale, sulla psiche umana. Mettendo in luce un doppio processo, quello di spossessamento economico e quello legato all’interiorizzazione del razzismo e del senso di inferiorità. Studio che, se ancor oggi è considerato un classico degli studi postcoloniale, continua condividere un’immagine passiva del soggetto oppresso negandogli l’autonomia di pensiero e azione compresi invece nelle considerazioni di James C. Scott.

Poiché il verbale segreto non è fatto soltanto di attività verbali e di immagini trasmesse dai discorsi, ma da «una intera gamma di attività. Per molti lavoratori agricoli azioni come fare bracconaggio, commettere piccoli furti, non pagare le tasse, lavorare male di proposito per il padrone, fanno parte del verbale segreto. […] Ognuna di queste pratiche contravviene al verbale pubblico di quel certo gruppo e quindi esse vengono il più possibile tenute fuori scena e non dichiarate»5. Forme di resistenza che nelle società preindustriali e successivamente industriali possono prendere le forme del luddismo e del sabotaggio, così come del rifiuto del lavoro. Dando vita a forme, tutt’altro che primitive, di autonomia di classe nei confronti di quella avversa, dei suoi obblighi e della sua ideologia, dati troppo spesso per scontati.

La frontiera tra il verbale pubblico e quello segreto è una zona di lotta incessante tra dominanti e subordinati, e non un muro invalicabile. La capacità dei gruppi dominanti di imporsi, sia pure non totalmente, nella definizione e costituzione del verbale pubblico e di quello fuori scena, è, come vedremo, una non piccola misura del loro potere. La lotta continua che viene condotta su questi confini è forse l’area più vitale del conflitto ordinario, della lotta di classe nelle sue manifestazioni
quotidiane6.

All’interno del verbale segreto e delle sue manifestazioni epifenomeniche possono coesistere aspirazioni millenaristiche, sogni di vendetta e di riscatto individuale e sociale che spesso, ancor prima che dalle difficoltà economiche e o dalla differente distribuzione della ricchezza all’interno di una società, prendono spunto dal senso di ingiustizia, immoralità, offesa e ingiuria contro i singoli o interi gruppi sociali. Un’economia morale che dà vita a forme pre-politiche di reclamo che nella religione, spesso condivisa con gruppi dominanti, ma ribaltata nei suoi scopi e fini, possono trovare ispirazione così come nella speranza nella figura di un sovrano, di un capo, che sia quello autentico e giusto, tenuto nascosto troppo a lungo, come successe nella rivolta russa del XVIII secolo guidate da Emel’jan Ivanovič Pugačëv, un cosacco del Don disertore e fuggiasco che spinse a insorgere, dagli Urali al Volga, russi, cosacchi, baškiri e tatari, proclamandosi pretendente al trono dello zar Pietro III dopo che questo era stato spodestato dalla moglie e futura imperatrice Caterina II nel 17627. Oppure come in quella birmana del ‘900, di cui parla Scott:

Appena pochi anni dopo il servizio prestato da Orwell a Moulmein, gli inglesi sono stati colti di sorpresa da una grande insurrezione anticoloniale. Questa era guidata da un monaco buddista che si dichiarava pretendente al trono e prometteva un’utopia che consisteva essenzialmente nel cacciare gli inglesi e abolire le tasse. La ribellione è stata soffocata con una buona dose di brutalità gratuita e i «cospiratori» sopravvissuti mandati alla forca. Ma una porzione, almeno, del verbale segreto della popolazione birmana ha fatto la sua apparizione sulla scena, manifestandosi apertamente. Sono stati rappresentati sogni millenaristici di vendetta, visioni di regalità giusta, di saggezza buddista e pareggiamento dei conti razziali, della cui esistenza i britannici avevano scarsissimi indizi8.

Scott è chiaro: le possibili similitudini tra verbali segreti e forme di resistenza in società e tempi diversi è possibile soltanto dal punto di vista dell’analisi formale e non si può pensare di trarre insegnamento per la comprensione delle contraddizioni sociali e delle loro possibili e conseguenti eruzioni da uno solo degli esempi riportati nella casistica del libro, valido per ogni caso e in ogni luogo. Ma:

Le rassomiglianze tra contadini francesi, schiavi, intoccabili, servi russi, e anche tra i cargo cults [riti propiziatori diffusi tra le popolazioni della Melanesia – N.d.T.] dei popoli sottomessi alla conquista occidentale, sono troppo evidenti per essere ignorate. La tendenza a credere che la fine del dominio sia vicina, che Dio o le autorità intendano garantire la realizzazione dei desideri, ma che forze maligne impediscono di ottenere la libertà, è un elemento comune, e in genere tragico, delle popolazioni subordinate. Esprimendo in questi termini la propria liberazione, i gruppi vulnerabili esprimono in pubblico le loro aspirazioni segrete, e lo fanno evitando la responsabilità individuale e al contempo alleandosi a qualche potere superiore di cui si limiterebbero a eseguire i comandi. Tali presagi hanno al tempo stesso alimentato innumerevoli ribellioni, quasi tutte abortite. I sociologi che danno per scontato che l’egemonia ideologica faccia apparire naturale la dominazione, perché non esistono alternative possibili, dovrebbero avere qualche difficoltà a dar conto di queste occasioni in cui i gruppi subordinati sembrano cavarsela da soli, con l’aiuto dei propri desideri collettivi. Se i gruppi oppressi spesso fraintendono il mondo, non è solo perché reificano la dominazione, ma perché altrettanto spesso immaginano che l’agognata liberazione stia per arrivare9.

Quello che conviene comunque valorizzare in chiusura è che diventa fondamentale l’attenzione all’immaginario degli oppressi, talvolta condiviso con quello degli oppressori, ma quasi sempre rovesciato di significato. Vale per la religione nel passato, ma anche per la nostra epoca in cui i media e i prodotti del comunicare possono essere reinterpretati sia per quanto riguarda il cinema, i fumetti, la letteratura cosiddetta d’evasione e la musica.

Così come diventa importante prestare attenzione ai luoghi dove un ricco immaginario collettivo poteva esprimersi: osterie, boschi, alloggiamenti comuni, radure ove dar vita a rituali segreti, località aspre e isolate da cui fosse possible osservare in sicurezza il territorio circostante. Motivo per cui converrebbe individuare anche i luoghi di produzione dell’immaginario antagonista attuale, ammesso che esista, e del susseguente verbale segreto che ne deriva, poiché le semplici sedi di partito, sindacato o momenti di ritrovo fortemente canonizzati dal punto di vista politico come le assemblee potrebbero rivelarsi più prossimi alla produzione di verbali pubblici più che segreti nel senso suggerito dall’antropologo statunitense, poiché accolgono al loro interno forme discorsive e narrative fortemente inficiate da quelle pubbliche ufficiali, finendo col far riferimento a canoni e principi generali (diritti individuali, democrazia parlamentare, oggettività scientifica, etc.) quasi sempre vaghi e limitanti per le forme dell’espressione individuale e collettiva. Molto più ricca di quella esprimibile in un contesto delimitato dall’uso di terminologie e ipotesi di lavoro date per scontate, ma ancora lontane dalla vita quotidiana degli oppressi.

Concludendo, possono essere soltanto la lotta e la resistenza degli sfruttati e dei diseredati a produrre una comunità altra nella società moderna, soprattutto in presenza di un soggetto politico ancora estremamente disperso e sempre più sradicato come nel caso rappresentato dall’attuale proletariato migrante internazionale. Cosa che vale altrettanto per i suoi verbali segreti, ben lontani oggi dall’essere accomunati da una precisa codificazione, anche quando si pensa che possano essere espressione di un partito che voglia rappresentarsi come coscienza introdotta dall’esterno in quella stessa classe.


  1. J. C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice, nuova edizione 2021, p. 18.  

  2. J. C. Scott, op. cit., p.19.  

  3. Ivi, pp. 21-22.  

  4. Ivi, pp. 25-27.  

  5. Ibidem, p. 33.  

  6. Ivi.  

  7. In proposito si veda: M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011.  

  8. J. C. Scott, op. cit., p. 35.  

  9. Ivi, p. 234.  

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Il nuovo disordine mondiale / 29: morto un papa, se ne fa un altro? https://www.carmillaonline.com/2025/05/22/il-nuovo-disordine-mondiale-29-morto-un-papa-se-ne-fa-un-altro/ Thu, 22 May 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88591 di Sandro Moiso

Forse no, verrebbe da dire. Proprio per evitare quell’indifferentismo politico che, spacciandosi per radicalismo, non fa altro che impoverire il pensiero critico e le sue riflessioni. Oltre che la potenziale azione di classe. Proprio come Karl Marx si era già preoccupato di denunciare nel 1873, con il suo articolo Contro l’indifferenza in materia politica, scagliandosi contro Proudhon e i suoi seguaci che ritenevano possibile stabilire quali fossero, una volta per tutte, le forme organizzative e le modalità della lotta di classe. Legali e illegali.

Classe considerata in sé, ma che per sé deve poter trarre insegnamenti e [...]]]> di Sandro Moiso

Forse no, verrebbe da dire. Proprio per evitare quell’indifferentismo politico che, spacciandosi per radicalismo, non fa altro che impoverire il pensiero critico e le sue riflessioni. Oltre che la potenziale azione di classe. Proprio come Karl Marx si era già preoccupato di denunciare nel 1873, con il suo articolo Contro l’indifferenza in materia politica, scagliandosi contro Proudhon e i suoi seguaci che ritenevano possibile stabilire quali fossero, una volta per tutte, le forme organizzative e le modalità della lotta di classe. Legali e illegali.

Classe considerata in sé, ma che per sé deve poter trarre insegnamenti e lezioni, sia dalle proprie sconfitte che da quelle dell’avversario e delineare linee di tendenza e successivamente di condotta, sia dallo sviluppo delle contraddizioni nel campo avverso come all’interno del proprio. Perché è una partita solo e sempre a 360 gradi quella che si gioca con il conflitto di classe, in cui non si possono lasciare spazi esclusivi all’avversario.

In questo senso l’occuparsi da antagonisti di scienza, geopolitica, arte militare, cultura e tecnologia e della loro evoluzione non riduce l’opposizione di classe a culturalismo o a dibattito salottiero, ma piuttosto, se non si perde di vista il fine della lotta, ne rafforza e solidifica immagine e compiti. Così vale anche per campi apparentemente avulsi, come quello religioso o dell’elezione di un nuovo pontefice, ma di cui occorre tener conto per comprendere la fase con cui occorre fare politicamente i conti.

Questo, naturalmente, non per rincorrere gli individui e l’Io fetentissimo con cui l’ideologia borghese vorrebbe continuare a determinare l’immaginario e l’azione sociale proponendoli come idoli oppure al pubblico ludibrio. No, non è l’individuo in sé che deve interessare, o peggio ancora affascinare, i futuri affossatori del modo di produzione dominante, ma ciò che l’ha prodotto e le cause materiali delle sue, quasi sempre, prevedibili e inevitabili azioni. Papa o re, primo ministro o rivoluzionario, generale o dittatore oppure presidente degli Stati Uniti che questo sia. Poiché, in fin dei conti, non potrà mai essere una morale dettata dalla classe avversa a determinare il giudizio e la valutazione politica di chi dovrà, comunque, sbarazzarsene.

Ecco allora perché vale la pena di spendere qualche parola sul cambio ai vertici della chiesa cattolica con il passaggio dal pontificato di Francesco I a quello di Leone XIV. Tenendo sempre a mente sia l’insegnamento di Lenin sull’attenzione per la religione (qui) che, a sua volta, traeva spunto dalle riflessioni di Marx sul medesimo argomento.

La miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La soppressione della religione quale felicità illusoria del popolo è il presupposto della vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni circa la propria condizione è la necessità di rinunciare ad una condizione che ha bisogno dell’illusione. La critica della religione è, quindi, in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione).

Quello, però, che l’individuo borghese non potrà mai comprendere è la dialettica inerente alle due definizioni che Marx dà della religione nel testo appena citato, l’essere “oppio dei popoli” e, allo steso tempo, il “sospiro”, oppure come si dice in altre parti il “gemito”, della creatura oppressa. Dialettica in cui resta sotteso che la scomparsa della religione dall’orizzonte degli oppressi non può appartenere soltanto ad un atto volontaristico o ad un editto di un governo borghese, ma al rovesciamento dell’oppressione materiale che diventerà anche stravolgimento dell’oppressione intellettuale. Senza il primo non può avvenire il secondo, pena la rivolta degli ultimi contro chi pretenderebbe di liberarne la coscienza senza liberarli dalle condizioni materiali di sfruttamento e miseria, sia economica che culturale.

Anche se ad un lettore poco attento questo potrebbe sembrare lontano dal “sentire” attuale di ciò che si vuole definire antagonismo, in realtà ha molto a che fare con il cambio della guardia che è avvenuto ai vertici della chiesa con la morte di Bergoglio. Papa di cui già in passato ci si era occupati su Carmilla (qui), proprio per le perplessità suscitate sia in ambito ecclesiastico che politico dalla sua ferma opposizione alla guerra, o alle guerre, del capitale, senza aggettivi e senza distinzioni di lana caprina tra pace o guerra giusta oppure tra guerre di difesa o di aggressione.

Un tema di cui si è occupato anche, in tempi più recenti, uno scritto apparso dopo la sua morte (qui), largamente condivisibile soprattutto per quanto riguarda la valutazione “politica” dell’opposizione espressa da una parte importate della base cattolica nei confronti della guerra. Ma tutto questo, naturalmente, non prelude ad una celebrazione del papa appena scomparso o ad una sua agiografica rivalutazione ideale. Tutt’altro, poiché l’analisi, come si diceva in apertura, dell’azione di un singolo individuo, per quanto significativo sul piano politico e/o culturale, non può mai prescindere dalle forze che l’hanno prodotto e di cui è manifestazione.

A differenza di tanta sinistra “smarrita” che, ad ogni piè sospinto, cerca di individuare un nuovo punto di riferimento, un nuovo modello se non un nuovo ipotetico leader che sappia dire o fare ciò che altrimenti non sarebbe più in grado di fare essa stessa, l’interesse per la figura di Francesco I si limita, almeno per chi qui scrive e anche se non è certamente cosa da poco, alla sua valutazione come strumento per l’opposizione alla guerra imperialista in tempi in cui si rende necessario marcare un’obbligatoria separazione tra coloro che credono che quest’ultima costituisca una questione dirimente per la lotta di classe e coloro che, con distinguo e peana per la libertà basata sugli ideali dell’Occidente liberale, altro non fanno che travestire da pacifismo ciò che altro non è che schieramento con uno dei fronti imperialisti in guerra.

Di tutt’altro avviso sembra essere invece, anche se mascherato dai media e dallo stesso nuovo pontefice come continuatore del pontificato precedente, l’inizio di Leone XIV la cui intronizzazione è stata immediatamente accompagnata da un entusiasmo mediatico ed europeista che non può far altro che far arricciare il naso ad un osservatore attento. A partire da quell’esaltazione di una sua presunta presa di posizione anti-trumpiana, utile sicuramente ai volenterosi di questi giorni e della sua preparazione di carattere teologico dovuta alla sua provenienza dalle fila degli agostiniani.

Certamente non tocca all’autore di queste righe disquisire sulla preparazione o meno del suddetto papa dal punto di vista della dottrina, ma ciò che occorre sottolineare è che le stesse caratteristiche sono state in precedenza attribuite a Benedetto XVI, papa sicuramente di tendenze e posizioni molto distanti da quelle del suo successore Francesco I, che provenendo dalle fila dei gesuiti non poteva comunque essere certamente meno edotto in materia di dottrina e cultura cattolica.

Basti qui osservare che il contenuto dell’omelia dell’intronizzazione non ha riguardato la fine della guerra tout court, ma il raggiungimento di una pace giusta in Ucraina. Formula che, come ha già in precedenza spiegato bene Domenico Quirico sulle pagine della «Stampa», non può preludere ad altro che a una continuazione della guerra considerato che la pace raggiunta per porre fine ad un conflitto non può essere giusta o sbagliata, ma soltanto avere inizio da un cessate il fuoco sulle linee raggiunte dai contendenti nel corso di un conflitto.

Conflitti in cui, di solito, c’è un vincitore e un vinto, indipendentemente dalle simpatie che possano ispirare i due a chi ne studia le mosse. Se non si tiene conto di questa “regola aurea” della diplomazia bellica non vi può essere alcuna trattativa possibile, perché se da un lato testimonia la volontà, in questo caso cieca, di continuare il conflitto da parte del vinto, dall’altra non può che acutizzare la tendenza dall’avversario a continuare la guerra “di conquista”.

Mai abbiamo sentito, tra le parole del papa precedente, la definizione di pace giusta, ma soltanto inviti alla pace ad ogni costo. Lezione già appresa e sviluppata da un uomo ben distante dalla fede religiosa come Lenin che, nel 1918, a Brest-Litovsk, accettò condizioni di pace che lasciavano alle truppe degli imperi centrali un’ampia porzione di territorio russo, pur di raggiungere l’obiettivo che, sostanzialmente, aveva costituito l’elemento cardine della rivoluzione di ottobre: quello della cessazione immediata della guerra, dei suoi massacri e delle sue distruzioni.

Eppure, eppure…una figura tutt’altro che equidistante, a differenza di Francesco I, dalle parti coinvolte nella guerra1 viene oggi entusiasticamente indicata dai media italiani come possibile “mediatore” per il conflitto in corso ai confini orientali d’Europa

Dovrebbero bastare questi pochi riferimenti per comprendere come l’attuale coro di lodi per la figura del nuovo papa sia per lo meno sospetta e, anzi, come sia in corso, a pochi giorni dalla sua scomparsa, una sorta di rimozione dell’opera del predecessore, travestita da elogio al suo pontificato, confuso però con le premesse di quello attuale. Mentre è stata proprio quella posizione, sostanzialmente la più radicale, di Francesco a decretarne fondamentalmente la solitudine degli ultimi anni, destinata a metterlo a tacere e costringerlo a fare “il gran rifiuto”, cui si è testardamente sottratto fino alla fine, ancor prima della morte.

Certo, né l’uno né l’altro dovrebbero influenzare la pratica militante dell’anti-militarismo di classe, ma è certo che l’attuale differenza di governance della Chiesa potrebbe influire in maniera sostanziale su quell’immaginario diffuso, spesso cattolico, che fa sì che un parte significativa e maggioritaria di cittadini italiani ed europei si opponga ancora sia al conflitto che a un coinvolgimento diretto nello stesso.

Diventa, in questo caso, l’azione papale uno strumento di pressione che, pur ammantandosi di equità chiedendo anche una pace giusta per Gaza e i palestinesi, ma senza avere effetto alcuno sulla strage di gazawi portata avanti da Netanyahu e dal suo governo criminale, è sostanzialmente orientato a convincere una parte del fedeli, oggi in gran parte ancora contrari alla partecipazione al conflitto in Ucraina, della necessità di volgersi in direzione di una pace diversa da quella possibile e, quindi nella sostanza, ad una continuazione della stessa attraverso una partnership più marcata, di quanto già non sia, e attiva sul piano militare come quella su cui puntano i guerrafondai Macron, Starmer e Merz. Che, dopo aver assistito al diniego di Trump nei loro confronti e delle proposte di maggior impegno della NATO, oggi cercano una giustificazione al loro bellicismo nascondendosi sotto le bianche sottane pontificali.

Questo e nient’altro deve spingere gli antagonisti a guardare con sospetto sia al nuovo pontefice che al tentativo di presentarlo come un continuatore delle politiche di quello precedente che pur ebbe almeno sempre il coraggio di parlare di Terza guerra mondiale a pezzi, quasi fin dall’inizio del suo pontificato. In un momento in cui, come qui chi scrive ha ripetutamente affermato, la questione della guerra imperialista, della sua estensione e del rifiuto della stessa diventa dirimente, indipendentemente dalle simpatie per le differenti parti, governi e nazioni coinvolte.


  1. In una una intervista del 2022, rilasciata a un canale tv locale peruviano, il nuovo Papa Leone XIV parlava tra le varie cose della guerra tra Ucraina e Russia. Affermando: “Vengono fatte tante analisi, ma dal mio punto di vista – diceva Prevost – si tratta di un’autentica invasione imperialista in cui la Russia vuole conquistare un territorio per motivi di potere e per ottenere vantaggi per sé”. E proseguiva sostenendo che “si stanno commettendo crimini contro l’umanità”. Prevost predicava anche la necessità di essere “molto chiari”, perché “alcuni politici, anche del nostro paese, non vogliono riconoscere gli orrori di questa guerra e il male che la Russia sta commettendo in Ucraina”. Fonte: https://www.virgilio.it/notizie/cosa-diceva-papa-leone-xiv-della-guerra-tra-ucraina-e-russia-quando-era-vescovo-le-parole-di-prevost-1677934  

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Rifiuto dello stato, religione e rivolte contadine: dalla comunità alla coscienza di classe https://www.carmillaonline.com/2025/04/29/stato-religione-e-rivolte-contadine-dalla-comunita-alla-coscienza-di-classe/ Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88163 di Sandro Moiso

James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 332, 20 euro

L’ultimo testo di James C. Scott pubblicato da elèuthera è particolarmente importante poiché, a cinquecento anni dalla guerra dei contadini tedeschi (1524-1526) contro le insopportabili condizioni di sfruttamento e oppressione, cui contrapposero la rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba, la libertà di caccia e di pesca e la diminuzione delle tasse insieme a quella dell’istituzione di una sorta di repubblica contadina, la ricerca di Scott si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi comuni non soltanto della resilienza, parola oggi fin troppo abusata, ma [...]]]> di Sandro Moiso

James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 332, 20 euro

L’ultimo testo di James C. Scott pubblicato da elèuthera è particolarmente importante poiché, a cinquecento anni dalla guerra dei contadini tedeschi (1524-1526) contro le insopportabili condizioni di sfruttamento e oppressione, cui contrapposero la rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba, la libertà di caccia e di pesca e la diminuzione delle tasse insieme a quella dell’istituzione di una sorta di repubblica contadina, la ricerca di Scott si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi comuni non soltanto della resilienza, parola oggi fin troppo abusata, ma anche della resistenza e della rivolta delle società contadine tra precapitalismo e avvento del capitalismo stesso e della sua forma Stato.

James C. Scott (Mount Holly 1936 – Durham 2024) è stato docente di Scienze politiche e di Antropologia nell’Università di Yale e ha fatto ricerca sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico. In questa veste ha contribuito a riportare, in ambito accademico, un riequilibrio nelle Scienze politiche tra gli studi di tipo quantitativo, preponderanti, e quelli di tipo qualitativo. Ha pubblicato numerosi libri dei quali in italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e.), Lo sguardo dello Stato (2019 qui), Elogio dell’anarchismo (2014 e n.e. 2022 qui) e L’infrapolitica dei senza potere (2024 qui) per elèuthera, oltre che I contadini tra sopravvivenza e rivolta (1980) per Liguori. Nel 2020 ha ricevuto l’Albert O. Hirschman Prize per il suo importante contributo interdisciplinare in antropologia, economia e storia, mentre, tra una lezione e l’altra, allevava pecore nella sua casa in Connecticut.

L’infrapolitica di cui si tratta fin dal titolo del libro riguarda una politica considerata piccola, minore, quella appunto dei senza potere e dei diseredati dello stesso che, troppo spesso, nelle analisi puramente quantitative rischia di essere relegato sullo sfondo oppure di sparire del tutto. Sì, perché infrapolitica non significa affatto assenza di politica o sua mancanza, ma piuttosto definisce una necessaria capacità di gestione delle società a livello locale, là dove queste devono ancora essere sottomesse del tutto al potere di controllo dello Stato oppure che ancora gli si oppongono in forme estremamente varie, dall’inganno al mascheramento delle proprie convinzioni religiose o politiche fino alla lotta aperta e dichiarata. Comunque sempre lontane dalle istituzioni politiche e religiose e dallo Stato. Una sorta di autentica e diffusa resistenza naturale alle imposizioni esterne che Scott spiega così:

I missionari delle “grandi tradizioni” religiose o politiche si trovano tipicamente alle prese con uno spinoso dilemma quando tentano di diffondere il loro messaggio tra i contadini. Ammesso che il messaggio e il suo emissario vengano accettati, questi saranno sussunti in uno schema già esistente di significati, simboli e pratiche che spesso stravolgono il messaggio così com’è inteso dai suoi sommi sacerdoti nella capitale. Questo abisso cognitivo può essere irrilevante se la “conta” dei convertiti ha più importanza dell’ortodossia ideologica. Dopotutto, il potere sociale di una Chiesa o di un partito politico può dipendere tanto dal numero dei suoi seguaci quanto dall’effettivo livello di assimilazione del suo catechismo. Ma quando si tratta di qualità delle convinzioni – cioè a dire la loro ortodossia misurata sul metro della dottrina formale – i contadini hanno messo a dura prova la pazienza tanto degli arcivescovi quanto dei commissari politici.
Buona parte della storia del cattolicesimo, per esempio, si potrebbe scrivere nei termini di una tensione tra l’ortodossia ecclesiastica e l’eterodossia popolare, per non dire eresia conclamata, cui la sua espansione diede luogo. In questa storia rientrerebbero le grida di disperazione per quanto e accaduto alla fede nel corso della sua diffusione. Il tono tipico e esemplificato da questo lamento sull’uso delle preghiere e dei santi cattolici da parte dei vuduisti haitiani: «Non siamo stati noi a cristianizzare il popolo, ma il popolo a tramutare il cristianesimo in superstizione». Per non rischiare di liquidare questo esempio come esotico, faremmo bene a ricordare che nella stessa Europa occidentale un’intera congerie di credenze e pratiche precristiane non soltanto sopravvisse ma permeò la cristianità popolare fino a evo moderno inoltrato2. La resistenza della popolazione rurale all’ortodossia cristiana era una tale spina nel fianco del primo clero che l’origine stessa della parola “pagano” (da paganus, cioe abitante delle campagne) è associata ai contadini1.

Considerazioni che ci proiettano efficacemente in un mondo, quello contadino di epoca preindustriale e/o coloniale, che si fonda su convinzioni destinate probabilmente a sopravvivere per lungo tempo a quelle emanate da un potere religioso, culturale e politico che si rivela destinato ad essere transeunte, nonostante la forza dei suoi mezzi di regolamentazione, oppressione e convizione. Come affermava sir James Frazer, citato da Scott, nel suo Ramo d’oro2.

[…] è possibile che tutte le tecnologie elaborate, i riti solenni, i templi imponenti che oggi suscitano la reverenza o la meraviglia dell’umanità, siano a loro volta destinati a scomparire come “la svanita gerarchia dell’Olimpo” citata da John Keats nella sua Ode a Psyche e che la gente semplice continuerà a osservare le semplici fedi dei propri antenati senza nome e senza storia, a credere nelle streghe e le fate, nei fantasmi e i folletti, a mormorare i vecchi incantesimi e compiere antichi gesti scaramantici quando i muezzin avranno cessato di chiamare i fedeli alla preghiera dai minareti di Santa Sofia, e quando i devoti avranno smesso di radunarsi nelle lunghe navate di Notre Dame e sotto la cupola di San Pietro3.

Questa affermazione, che potrebbe apparire poco scientifica o materialistica agli occhi di una modernità sempre piuttosto evanescente e ambigua, è quella che accompagna, però, le ricerche di Scott che, anche se quasi sempre si sono svolte tra le popolazioni e i villaggi degli altipiani del Sudest asiatico, dalla Birmania alla Malesia fino al Vietnam, sono riuscite a rifondare gli studi delle resistenze delle moltitudini contadine che, certo, non sono passate come vorrebbe la grande Storia oppure le grandi ideologie senza lasciar traccia di sé.

Proprio come è successo con la guerra dei contadini tedeschi, guidati da Thomas Müntzer, che pur sconfitti riuscirono comunque ad imprimere un corso diverso alla Storia contro cui si erano ribellati, visto che la loro sconfitta sarebbe comunque servita da lezione e guida per le rivoluzioni successive, a partire da quella inglese del 1644-1648 fino alla “Grande paura” dell’estate del 1789 durante la Rivoluzione francese e ancora oltre. Dopo aver rovesciato il senso della dottrina luterana che già aveva incrinato il potere e l’ortodossia della Chiesa di Roma.

In una società complessa, la religione popolare e la cultura contadina non sono solo una variante sincretica, addomesticata e localizzata di un sistema di pensiero più vasto. Quasi invariabilmente, contengono i semi di un universo simbolico alternativo – un universo che a sua volta rende meno ineluttabile il mondo sociale in cui di fatto vivono i contadini. Gran parte di questo simbolismo radicale è spiegabile solo come reazione culturale alla situazione dei contadini come classe. Di fatto, questa opposizione simbolica rappresenta la cosa più prossima a una coscienza di classe nelle società agrarie preindustriali. E come se quanti si trovano sul fondo della scala sociale sviluppino forme culturali che promettono la dignità, il rispetto e il benessere economico di cui sono privi nel mondo così com’è. Un modello reale di sfruttamento produce dialetticamente la propria immagine simbolica speculare all’interno della cultura popolare.
[…] A volte, in Vietnam e altrove, questa possibilità latente all’interno della tradizione popolare ha trovato espressione esplicita in iniziative religiose millenariste, di forma quietistica o violenta. In genere i profeti di queste sette, al pari del loro seguito contadino, aspiravano a un nuovo ordine secolare con implicazioni rivoluzionarie. Religione e politica si univano in una visione utopica. L’elemento piu notevole era che, diversamente dal buddismo, dall’islam o dal cristianesimo, le cui dottrine si concentrano sul premio nella prossima vita, queste sette nutrivano ambizioni del tutto mondane di salvezza in terra. Cosi, come all’interno della piccola tradizione il buddismo veniva spesso piegato a scopi animisti secolari, allo stesso modo il messaggio di salvezza della religione di grande tradizione veniva spesso trasformato dai suoi seguaci popolari in un messaggio di liberazione nel qui-e-ora.
Il che non significa che questo tipo di visioni religiose radicali sia stata la forza motrice di tutti o della maggior parte dei movimenti contadini. Al contrario, molte lotte contadine per la riduzione dei canoni d’affitto, per un minor numero di tasse e per l’autonomia locale si possono considerare tentativi piuttosto chiari di difendere o istituire diritti entro il contesto di un ordine sociale o di una gerarchia incontestati – una versione contadina di “sindacalismo”, se vogliamo. Sostengo però che esista spesso un’intesa o una base religiosa con obiettivi rivoluzionari di ben fondamento ideativo dei movimenti contadini.
La visione radicale cui faccio riferimento é notevolmente uniforme, a dispetto dell’enorme varietà delle culture contadine e delle diverse grandi tradizioni cui partecipano. In sostanza, invoca una profanazione dell’ordine secolare esistente – un capovolgimento delle cose cosi come stanno. In questo senso, la visione radicale è riflessiva: il suo punto di partenza e il modello di sfruttamento sperimentato. Sarebbe persino possibile, lavorando a ritroso, dedurre la struttura reale dei rapporti sociali in una società dalla visione utopica creata per fungere da sua immagine speculare4.

A questo punto l’autore si ricollega a titolo di esempio alla “tradizione” europea delle lotte contadine, dalla Russia al resto del continente, cosa che spiega quanto sostenuto poc’anzi a proposito ancora dei contadini tedeschi e degli sviluppi successivi della loro rivoluzione “fallita”.

Gli elementi di classe della tradizione millenarista appaiono perfettamente evidenti nella configurazione utopica condivisa da contadini, artigiani e parte del basso clero. Per prima cosa, le schiere dell’Anticristo andavano distrutte. Per i Taboriti del xv secolo, queste includevano «tutti i signori, i nobili e i cavalieri», che andavano «abbattuti e sterminati nelle foreste come fuorilegge», ma anche gli abitanti delle città, i mercanti e i padroni assenteisti. In altri tempi e luoghi l’elenco poteva includere gli esattori fiscali, l’alto clero e gli usurai. Dalle ceneri del vecchio ordine sarebbe sorto un regno religioso senza tasse, canoni d’affitto o tributi feudali e, soprattutto, senza proprietà privata. I Taboriti profetizzavano «il ritorno di un ordine anarco-comunista perduto», senza ranghi: «Vivremo insieme come fratelli, e nessuno sarà sottoposto a un altro».
Spesso questo universo simbolico comprendeva un prototipo della teoria del valore-lavoro e della ridistribuzione delle ricchezze: «I principi, sia della Chiesa sia secolari, e i conti e i cavalieri dovrebbero possedere solo alla pari con la gente comune, e in questo modo tutti avranno abbastanza. Verrà un tempo in cui i principi e i signori lavoreranno per guadagnarsi il pane». Altrove, il millennio di felicità prometteva il libero utilizzo di pascoli e boschi. In breve, la sua immagine poteva variare in funzione delle esigenze e aspirazioni dei contadini e dei ceti inferiori, ma era sempre in un rapporto simbolico diretto con le circostanze del loro sfruttamento come classe.
[…] La proprietà in comune e forse il principale tema economico della tradizione millenarista. Affonda le sue radici nel pensiero utopico cristiano, come osservato da Bloch: «Le forme, quasi sempre analoghe, di queste ribellioni erano tradizionali: sogni mistici, vigoroso sentimento originario di un’eguaglianza evangelica, che non attese certo la Riforma per imporsi alle anime degli umili». Il concetto di proprietà comunitaria non era solo parte della tradizione religiosa, ma era da sempre incorporato nelle prassi dei poveri rurali5.

Ecco allora che le credenze religiose, più che il «gemito degli oppressi» di marxiana memoria, finiscono col costituire la base di un programma politico minore ma tutt’altro che minimo, come avverrà, ad esempio, anche per una parte dei movimenti più radicali espressi dalla Rivoluzione inglese della metà del XVII secolo.

Durante la guerra civile inglese, gran parte dei movimenti agrari popolari sottoscrisse questa o quella forma di collettivismo. […] La questione della proprietà era tra «le principali preoccupazioni delle classi più povere», che furono entusiastiche sostenitrici degli appelli a una «eguaglianza dei beni e delle terre» e a una ridistribuzione delle proprietà almeno una volta l’anno a tal fine. In Inghilterra e altrove queste convinzioni dovevano tanto alla storia popolare e alla religione popolare. Così, Winstanley, il popolare leader dei Diggers, vedeva la proprietà in comune sia come il ripristino della «legge pura o della giustizia prima della Caduta», sia come un ritorno all’eguaglianza che aveva prevalso prima della Conquista normanna, quando ogni famiglia aveva il necessario per la sussistenza.
[…] Nella piccola tradizione, il tema della proprietà in comune è indissolubilmente legato alla contrapposizione tra consuetudini locali e legge. Una fitta schiera di cambiamenti minacciosi – che spaziavano dall’imposizione di nuove tasse, all’estendersi delle proprietà fondiarie, alle restrizioni su accesso e utilizzo delle foreste, all’espandersi del debito – si presentava ai contadini sotto forma di nuove leggi e di nuovi funzionari, che affermavano il primato degli statuti scritti sulle prassi tradizionali. Quando ha inciso sulla vita contadina, la legge è stata quasi sempre lo strumento dei pochi privilegiati e alfabetizzati che operava per spogliare delle sue terre, dei suoi beni e dei suoi diritti consuetudinari la moltitudine analfabeta6.

Ma la guerra civile o rivoluzione inglese avveniva in un momento in cui l’affermarsi del capitalismo mercantile, che la stessa rivoluzione avrebbe contribuito a liberare nella sua successiva potenza commerciale ed economica, aveva iniziato a sviluppare ancora di più tecniche di compravendita delle terre e di scambio e circolazione monetaria, potenzialmente “immateriale”, che indebolivano ancora di più la “concreta” materialità dei contadini poveri.

I Diggers, alla pari di altre sette radicali, vedevano la legge come uno strumento di oppressione: «La legge è la volpe, i poveri le oche; essa strappa loro le penne e di loro si ciba». Nell’utopia elaborata da Winstanley, la pena di morte sarebbe rimasta valida solo per chi avesse «scelto il mestiere di avvocato o di parroco». L’odio per la legge scritta appare in modo eclatante nella frequenza con cui i contadini ribelli distrussero i registi fiscali e gli elenchi di oneri feudali, nel tentativo di cancellare il contrassegno formale della loro oppressione. Posto che dalla prospettiva contadina la legge aveva imposto il dominio dei privilegiati in luogo di consuetudini stabilite per libero consenso, la nuova società non avrebbe avuto alcun bisogno di questa mistificazione o tirannide.
A mano a mano che la crescita del commercio e dei mercati aprì la strada a nuove insicurezze, frantumando la tenuta delle consuetudini locali, la visione utopica dei contadini prefigurò sempre più una società in cui, come nel tempo passato, la “compravendita” sarebbe scomparsa. “Comprare e vendere” erano ovviamente associati a tutti gli effetti classici dell’espansione di un’economia di mercato: l’aumento nella disparità di ricchezze, la concentrazione della proprietà fondiaria, il prestito, il lavoro salariato e l’eliminazione dei diritti economici consuetudinari.
[…] L’annullamento di questa minacciosa e crescente economia di mercato è parte integrante delle utopie radicali adottate dai contadini inglesi nel XVII secolo. Secondo il commonwealth comunistico di Winstanley, «la vera dignità umana sarà possibile solo qualora venga istituito il possesso comune, e cessi la compravendita di terre e lavoro», equiparata all’omicidio e alla violenza carnale, tutti delitti da punire con la pena capitale. Il mercato, insieme alla proprietà, era visto come parte della Caduta che aveva reso possibile lo sfruttamento. Posto che la preservazione dei diritti tradizionali alla terra, al lavoro e alla sussistenza era l’obiettivo centrale di molti grandi movimenti contadini nell’Europa del primo evo moderno, non sorprende che anche la più restrittiva economia precapitalistica costituisse un obiettivo utopico attraente7.

Ma anche se il testo di Scott cela tra le sue pagine infiniti esempi e riflessioni sulla forza intrinseca delle strutture morali, economiche e politiche delle società contadine, si avvicina il momento di chiudere una recensione sicuramente insufficiente nel riassumere la ricerca nella sua interezza. Per questo occorre ritornare a quel Sudest asiatico da cui erano partite le principali indagini sul campo dell’antropologo americano.

Il Sudest asiatico è ricco di movimenti millenaristi almeno quanto l’Europa. I fattori di innesco sono grosso modo gli stessi, posto che i contadini di questa regione hanno vissuto molti degli stessi eventi traumatici determinati dalla creazione di uno Stato intrusivo e dallo sviluppo di un’economia agraria commercializzata. In questo ambito, possiamo considerare la storia coloniale del Sudest asiatico come una variante provinciale della storia economica mondiale, sebbene lo sconvolgimento sociale sia stato più traumatico, perché compresso in un periodo più breve e presieduto, fino a tempi recenti, da stranieri. I temi millenaristi hanno avuto un maggior impatto nei paesi piu direttamente governati e penetrati dalle forze di mercato: Birmania, Filippine, Indonesia e Vietnam. […]
La colonizzazione e la cristianizzazione delle Filippine hanno cospirato per produrre una storia di settarismo millenarista quasi senza confronti nel Terzo Mondo. […]
La prima sollevazione su vasta scala scoppiò nel 1841 e, come tanti movimenti successivi con sfumature millenariste, cominciò con la formazione di un’organizzazione cattolica laica. Il suo leader, Apolinario de la Cruz, che si era visto negare una carriera ecclesiastica dalle politiche restrittive della Chiesa, fondò la Cofradia de San Jose, che reclutò molti dei suoi seguaci dalle province meridionali dell’isola di Luzon: Tabayas, Batangas e Laguna. Quando, temendone il potenziale eretico tanto in religione quanto in politica, le autorità ecclesiastiche intervennero per abolirla, la confraternita assunse un atteggiamento più minaccioso. Riuniti quattromila seguaci armati, Apolinario e il suo vice, che si era dato il nome di “Purgatorio”, fondarono una teocrazia locale. Giro voce che Apolinario si fosse proclamato “re dei Tagalog” e “sommo pontefice” e avesse promesso ai credenti che la terra si sarebbe aperta e avrebbe inghiottito i nemici del nuovo credo. Dopo la vittoria in un tafferuglio, i suoi seguaci furono sconfitti in un bagno di sangue che fece mille vittime. I superstiti ripararono sulle montagne vicine, dove istituirono il villaggio Terrasanta che divenne meta di pellegrinaggi annuali da parte di migliaia di abitanti delle pianure. Con il nuovo nome di Colorum (da saeculorum), i sopravvissuti contribuirono alla diffusione in tutta Luzon di culti popolari forse implicati in molte ribellioni successive8.

Al di là di un’altra similitudine con le conseguenze della guerra dei contadini tedeschi, con la città-stato anabattista di Munster retta da Giovanni di Leida che dopo l’esperienza di autogoverno teocratico tra il 1534 e il 1535 fu riconquistata nel sangue dalle truppe imperiali, anche le ultime osservazioni di Scott obbligano chiunque si occupi di lotta contro la tirannia del capitale e della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione ad interrogarsi su alcuni aspetti dati talvolta troppo per scontati dai teorici della lotta di classe di impianto rigidamente marxista.

Una volta individuati, infatti, nelle tradizioni comunitarie il motore della resistenza e delle lotte contadine contro l’avvento del Capitale e dello Stato c’è da chiedersi se la cosiddetta “coscienza di classe” più che a fattori esterni non sia piuttosto da individuare nelle credenze e forme di organizzazione collettiva tipiche di quelle tradizioni, ricordando come, nel caso dell’Europa, quelle aspirazioni giunsero fino alla prima Lega dei Comunisti di Weitling, in diretta discendenza, o quasi, dal movimento degli anabattisti tedeschi.

Aggiungendo che, se così fosse, molto ci sarebbe da ripensare a proposito della coscienza di una classe operaia che, una volta allontanatasi storicamente e geograficamente dalle proprie origini comunitarie e contadine, non ha avuto a disposizione altra comunità che quella suggerita dal Capitale e dal suo ideale di sviluppo e che è giunto ad essa anche per il tramite del marxismo. Un argomento, quest’ultimo, su cui si può disquisire sicuramente a lungo e che rende estremamente affascinante e interessante la lettura del saggio di James Scott.


  1. J. C. Scott, I «modi» della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione religiosa, in J. C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 25-26.  

  2. J. Frazer, The Golden Bough, vol. 2, Spirits of the Corn and of the Wild, London 1912, p. 335 [trad. it. parziale Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012]  

  3. J. Frazer, cit. in J.C. Scott, op. cit., p. 27. 

  4. J. C. Scott, I temi della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione politica, in J. C. Scott, op. cit., pp. 116-118.  

  5. Ibidem, pp. 123-124.  

  6. Ivi, pp. 125-126. 

  7. Ibid., pp.127-128.  

  8. Ivi, pp. 132 -134.  

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Hard working men /4 – Hillbilly highway https://www.carmillaonline.com/2024/09/04/unepica-proletaria-senza-rivoluzione-e-con-poco-dio/ Wed, 04 Sep 2024 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84158 di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari [...]]]> di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari del Kentucky, piuttosto significativi.

Per questo vale la pena di parlare dell’epopea famigliare narrata da J.D. Vance, a metà strada tra Mark Twain e l’etnografia, cui il film diretto da Ron Howard, Hillbilly Elegy, nel 2020 non ha reso del tutto giustizia. Una narrazione in cui il Mississippi di Huckleberry Finn è sostituito dalla hillbilly highway lungo la quale una parte consistente del proletariato bianco di origine scoto-irlandese della regione dei monti Appalachi (ancora oggi una delle zone più depresse dal punto di vista economico degli interi Stati Uniti) si è trasferita verso l’Ohio, il Nord industrializzato e le sue acciaierie, tra gli anni di Roosevelt e quelli successivi alla seconda guerra mondiale.

Un fiume di asfalto che ha portato lontano dal Kentucky e dal West Virginia anche i nonni dell’autore e, in seguito, il resto della famiglia. Destinazione Middletown, Ohio, e le acciaierie della Armco, in seguito Armco-Kawasaki, che proprio recentemente ha dovuto essere rifinanziata dal governo degli Stati Uniti con un maxi prestito da cinquecento milioni di dollari per poter rimanere in piedi1. Luoghi definiti solo dal lavoro nell’industria, in cui anche i nomi delle località sono meno significativi degli impianti produttivi che li caratterizzano ancora oggi.

Luoghi sospesi tra South Belt e Rust Belt, in cui le “fortune operaie” sono state e restano sospese a un filo sottile che, comunque, negli anni ha alimentato speranze di riscatto economico e sociale, ma che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha cominciato a mostrare di potersi spezzare in qualsiasi momento, ponendo fine al sogno americano e alimentando un paralizzante pessimismo molto diffuso sia tra i giovani che tra gli adulti.

Una storia di ordinaria violenza, problemi famigliari, affetti traditi, pregiudizi, armi diffuse, onore arcaico, dipendenze da droghe e alcol, religiosità primitiva, illusioni e delusioni, ideologia del “lavorar duro” (anche quando il lavoro manca), aspirazione alla redenzione sociale e rari successi individuali che ha fatto pensare a chi scrive ad una delle canzoni contenute nell’ultimo disco del cantautore australiano Nick Cave, Frogs, in cui gli esseri umani, paragonati a piccole rane, vivono tutto il tempo nelle acque torbide e fangose di uno stagno per poi riuscire, per brevissimi momenti, a saltarne fuori e illuminarsi di sole e aria pulita, prima di precipitare nuovamente nella melma dell’esistenza quotidiana.

Una storia che, però, travalica i limiti della soggettività, che caratterizza tante delle narrazioni dell’attuale working class literature (tale più per le dichiarazioni di intenti che da sempre l’accompagnano che per i contenuti reali), per trasformarsi, quasi obbligatoriamente, in narrazione epica, in cui il “noi” conta più dell’”io”. In cui le condizioni di partenza dei singoli, nella gara di sopravvivenza, sono simili, sia dal punto di vista famigliare che economico e culturale e il fatto che qualcuno riesca a rimanere sospeso nell’aria fuori dallo stagno mentre molti altri no, in fin dei conti, non modifica sostanzialmente le condizioni esistenziali della maggioranza, spesso rinunciataria nei confronti di qualsiasi possibilità di cambiamento.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità2.

Chi volesse vedere nelle osservazioni dell’autore sul senso di sconfitta e rassegnazione che accompagna gran parte dei componenti della classe sociale da cui proviene soltanto come una semplice esaltazione della capacità dell’individuo di realizzarsi attraverso il sogno americano pur che lo voglia, tema sicuramente presente nella conduzione della narrazione, coglierebbe soltanto un aspetto, forse il più marginale, tra i tanti contenuti nel libro. In cui, più che di rifiuto del lavoro in senso politico, si parla invece di perdita di fiducia nella capacità del lavoro di offrire una reale via di uscita dalla condizione di miseria, ancor prima morale e culturale che economica, del proletariato bianco del Midwest e degli Appalachi.

Per i miei nonni, Armco era sinonimo di benessere: il motore economico che li aveva portati dalle colline del Kentucky alla classe media americana. Mio nonno amava quell’azienda e conosceva tutte le marche e tutti i modelli di automobili costruite con il suo acciaio. Anche dopo l’abbandono delle scocche in acciaio da parte di quasi tutte le case automobilistiche americane, il nonno si fermava di fronte a una rivendita di auto usate tutte le volte che ci vedeva una Ford o una Chevy. «Questo acciaio l’ha prodotto l’Armco», mi diceva, lasciando trasparire un sincero orgoglio. Al di là di quell’orgoglio, però, non ci teneva proprio che andassi a lavorare lì3.

Una situazione che ha contribuito a cancellare e rimuovere anni di battagliere tradizioni di lotta e resistenza per sostituirli con dipendenze e traffici di sostanze medicinali prossime agli stupefacenti, come nel caso della contea di Harlan, cui l’autore accenna per la memoria delle lotte dei minatori4, che Alessandro Portelli ha reso di importanza centrale per comprendere l’evoluzione o l’involuzione dello scontro di classe in America con il suo saggio America profonda5.

Quello di Vance è un proletariato più vicino a quello descritto da Marx ed Engels nella Sacra famiglia, che a quello sempre combattivo e cosciente immaginato dai teorici dell’autonomia operaia; prossimo anche a quello descritto in altri romanzi semi-autobiografici come, ad esempio, quello di James Still, Fiume di terra, sempre ambientato tra i lavoratori poveri e i minatori degli Appalachi6. Ed è anche un proletariato lontano dalle note trionfalistiche dell’ideologia liberale dell’ormai beatificata Kamala Harris, motivo per cui le autentiche stronzate guerrafondaie e politically correct espresse da quest’ultima non possono nemmeno lontanamente sfiorarne gli interessi materiali.

Sono nato alla fine dell’estate del 1984, pochi mesi prima che il nonno desse il suo primo e unico voto a un repubblicano, Ronald Reagan. Portando dalla sua parte tanti democratici della Rust Belt come il nonno, Reagan ottenne la più grande vittoria elettorale della storia americana contemporanea. «Reagan non mi è mai piaciuto molto» mi disse tempo dopo il nonno. «Ma odiavo quel Mondale.» L’oppositore di Reagan, un democratico colto e raffinato del Nord, era l’antitesi culturale di mio nonno7.

Una distanza culturale che si mostra anche nelle aule giudiziarie, dove talvolta transita il narratore insieme ai suoi famigliari.

Sedevo in quell’affollata aula giudiziaria, circondato da una mezza dozzina di altre famiglie, identiche alla nostra. Le mamme, i papà e i nonni non indossavano completi come gli avvocati e il giudice. Indossavano pantaloni della tuta e magliette a maniche corte. I loro capelli erano un po’ crespi. Ed era la prima volta che notavo “accenti televisivi” neutri come quelli di tanti presentatori. Gli assistenti sociali, il giudice e l’avvocato avevano tutti un accento televisivo. Nessuno di noi lo aveva. Gli amministratori della giustizia erano diversi da noi, chi veniva giudicato era uguale8.

Un proletariato bianco che, in termini di emarginazione, non ha nulla da invidiare a quello afro-americano di cui spesso ha condiviso il destino sociale.

Middletown è una delle cittadine più antiche dell’Ohio, sviluppatasi nell’Ottocento grazie alla sua prossimità con il fiume Miami […] Sotto il profilo socioeconomico è prevalentemente operaia. Sotto il profilo razziale, è abitata soprattutto da bianchi e da neri (questi ultimi sono il prodotto di un’altra migrazione di massa). [Ma] La strada che era l’orgoglio di Middletown è diventata un punto di incontro di drogati e spacciatori. Oggi Main Street è il tipico posto dove nessuno ha il coraggio di avventurarsi dopo il tramonto.
Questo cambiamento è sintomo di una nuova realtà economica: la segregazione residenziale. Il numero di bianchi della classe operaia che vivono in quartieri degradati è in continuo aumento. Nel 1970, il 25 per cento dei bambini bianchi viveva in un quartiere in cui il tasso di povertà superava il 10 per cento. Nel 2000, quella percentuale è salita la 40 per cento. E oggi, quasi certamente è ancora più elevata. Come ha rivelato uno studio effettuato nel 2011 dalla Brookings Institution, « rispetto al 2000, tra il 2005 e il 2009 era più probabile che gli abitanti dei quartieri più poveri fossero bianchi nati localmente, diplomati o laureati, proprietari di casa che non beneficiavano della pubblica assistenza». […] Le ragioni sono complicate. La politica abitativa del governo federale ha incoraggiato attivamente l’acquisto di case, dal Community Reinvestment Act di Jimmy Carter alla “ownership society” di George W. Bush. Ma nelle Middletown di tutto il mondo la diffusione della proprietà immobiliare ha un costo elevatissimo: quando i posti di lavoro vengono meno in una determinata zona, il calo delle quotazioni immobiliari intrappola le persone in certi quartieri. Anche se vorreste trasferirvi, non potete, perché le case di livello più basso sono ormai fuori mercato: il valore nominale, quello su cui è stato erogato il mutuo, è superiore alla somma che sarebbero disposti a pagare i possibili acquirenti. I costi di trasferimento sono così elevati che molti rimangono dove sono9.

Ma questa segregazione e ghettizzazione forzata, che trasforma il sogno della casa di proprietà in un incubo senza risveglio, è ancora soltanto uno degli aspetti che potrebbero avvicinare il proletariato bianco povero a quello afroamericano10. Un altro era costituito (è ancora costituito?) dal rifiuto del nuovo arrivato nei luoghi in cui gli hillbilly migravano in cerca di lavoro,

Poiché le economie del Kentucky e del West Virginia erano cronicamente depresse rispetto a quelle degli altri stati vicini, le montagne avevano solo due prodotti appetibili per le fabbriche del Nord: carbone e robusti montanari. E gli Appalachi esportavano grosse quantità sia dell’uno che degli altri.[…] Negli anni Sessanta, sui dieci milioni di abitanti dell’Ohio, un milione erano nati in Kentucky, West Virginia o Tennessee. Questo dato non tiene conto del gran numero di immigrati in arrivo da altre zone degli Appalachi meridionali; e non include i figli o i nipoti di migranti che scendevano dalle montagne. Ce n’erano sicuramente tanti, perché gli hillbilly avevano tassi di natalità notevolmente superiori a quelli della popolazione indigena. [Ma] su chi lasciava le colline del Kentucky per cercare una vita migliore gravava un grosso pregiudizio negativo […] Per la classe media tradizionale dei bianchi dell’Ohio quegli hillbilly erano come alieni. Avevano troppi figli e ospitavano famigliari per troppo tempo […] Come si legge in un libro, Appalachian Odissey11, sulla migrazione di massa dei montanari nella città di Detroit: «il problema non era solo che gli immigrati in arrivo dagli Appalachi, ex-contadini “fuori posto” in quella grande città, davano fastidio ai bianchi metropolitani del Midwest. Il problema era che quegli immigrati venivano a confutare tutta una serie di assunti su come si presentavano, su come parlavano e come si comportavano i bianchi […]. La cosa inquietante degli hillbilly era la loro appartenenza etnica. Evidentemente appartenevano alla stessa razza di coloro che detenevano il potere economico, politico e sociale a livello locale e nazionale. Ma gli hillbilly avevano anche molti tratti in comune con i neri del Sud che affluivano a Detroit»12.

Non potrebbe esservi formulazione più chiara del fatto che linee del colore e linee di classe si sovrappongono talmente spesso da diventare sostanzialmente la stessa cosa. Dimenticarlo significa soltanto partecipare al grande gioco dei diritti umani usati come strumento di separazione e divisione all’interno del proletariato. Così ben espresso dalle politiche liberali in voga oggi sia in America che in Europa.

Un ultimo elemento di interesse, tra i tanti che si potrebbero ancora rilevare dalla lettura del testo di Vance, è quello sulla presunta religiosità del proletariato bianco, sempre e soltanto dipinto come misogino, razzista e ultraconservatore dal punto di vista religioso e politico, facendo come al solito di tutta l’erba un fascio come ben conviene ai difensori dell’ordine capitalistico dal “volto umano”. In realtà, come ci avverte ancora l’autore,:

nel cuore della Bible Belt, la pratica religiosa non è affatto diffusa. Contrariamente a quanto si crede, nella regione degli Appalachi — in particolare dall’Alabama settentrionale e dalla Georgia fino all’Ohio meridionale – le chiese sono molto meno frequentate che nel Midwest, in diverse zone del Mountain West e in gran parte del territorio compreso tra il Michigan e il Montana. Stranamente, noi ci crediamo più praticanti di quanto siamo in realtà. In un sondaggio effettuato recentemente dalla Gallup. gli abitanti del Sud e del Midwest dichiaravano tassi più elevati di frequentazione delle chiese di tutto il paese.
Questa ipocrisia ha a che fare con la pressione culturale. Nell’Ohio sudoccidentale, dove sono nato, sia l’area metropolitana di Cincinnati sia l’area metropolitana di Dayton fanno registrare tassi molto bassi di frequentazione della chiese, quasi nella stessa misura dell’ultralaica San Francisco. A San Francisco nessuno si vergognerebbe di non andare in chiesa. In Ohio è esattamente il contrario. [Così] in una parte del paese afflitta dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione, dall’abuso di alcol e di droghe e dal disgregarsi delle famiglie, la pratica religiosa è crollata13.

Lasciando ai soliti cospirazionisti di sinistra il compito di indagare i motivi che hanno spinto Vance in passato a scrivere questa elegia hillbilly, come recita il titolo originale, prima di convertirsi a Trump, il recensore non può far altro che consigliarne la lettura a tutti coloro che intendono ancora occuparsi degli Stati Uniti e delle contraddizioni sociali e “razziali” che li agitano, raccomandandolo a chiunque intenda occuparsi ancora di lotta di classe, poiché è sempre più utile e necessario meditare sulle contraddizioni della stessa, piuttosto che sulle facili e troppo spesso ambigue certezze trasmesse dagli slogan o dalle Convention di Chicago o Milwaukee.

Così. mentre gran parte della critica ne ha spulciato le pagine alla ricerca di indicazioni riguardanti il possibile risultato delle prossime elezioni presidenziali americane, l’impressione che se ne ricava è che il dibattito politico e letterario riposi, ancora, sulle rive di uno stagno in cui milioni di rane restano sul fondo in attesa, magari inconsapevole, di spiccare il prossimo salto, verso la luce e la rivincita di classe.


  1. M. Basile, Middletown e San Francisco, nuove città simbolo di sogno e disillusione americana, «la Repubblica» 25 agosto 2024  

  2. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024, pp. 10-12.  

  3. Ibidem, p. 58.  

  4. In proposito si veda qui  

  5. A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011.  

  6. J. Still, Fiume di terra, Mattioli 1885, Fidenza 2018.  

  7. J.D. Vance, op. cit., p.50.  

  8. Ivi, pp. 81-82.  

  9. Ivi, pp. 51-55.  

  10. Su questa vicinanza che potrebbe dare inizio a diversi riposizionamenti nell’ambito della lotta di classe, come aveva previsto il presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere Nere Fred Hampton, poi ucciso, nel 1969 a soli ventuno anni, dalla polizia e dal FBI nella sua casa di Chicago, si veda il film di Shaka King: Judas and the Black Messiah (2020)  

  11. Philip J. Obermiller, Thomas E. Wagner ed E. Bruce Tucker, Appalachian Odissey: Historical Perspectives on the Great Migration, Praeger, Westport 2000.  

  12. J.D. Vance, op. cit., pp. 33-36.  

  13. Ibidem, p. 96.  

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Elogio dell’eccesso/5: Giorgio de Santillana, “the cat who walks alone” https://www.carmillaonline.com/2024/04/04/elogio-delleccesso-5-giorgio-de-santillana-the-cat-who-walks-alone/ Thu, 04 Apr 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81750 di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale. (Amadeo Bordiga, “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965)

La ripubblicazione da parte delle edizioni Adelphi di Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana, apparso per la prima volta nel 1961 e tradotto in italiano nel 1966 nella versione di Giulio De Angelis riproposta anche per l’attuale edizione, permette non soltanto di affrontare un tema importante per la riflessione filosofica e scientifica, ma anche di riscoprire uno scienziato e filosofo cui, ad esempio, sia Wikipedia che l’Enciclopedia Italiana Treccani concedono uno spazio fin troppo esiguo, al limite dell’insignificanza. Oltre a ciò, tale riscoperta, potrebbe condurre ad una riflessione su quanto il pensiero e le conoscenze antiche siano state rimosse, se non in alcuni casi negate, per fare spazio alla “Ragione” illuministica e alla scienza applicata e strumentale successiva alla “Rivoluzione” industriale.

In fin dei conti i due spunti di riflessione si ricollegano poiché la negazione delle conoscenze scientifiche anteriori alla rivoluzione scientifica avvenuta a cavallo tra XVI e XVII secolo è proprio ciò che il filosofo della scienza di origini italiane ha contribuito a smontare con tutta la sua opera. Non tanto per quanto riguarda le “scoperte” effettuate quanto, piuttosto, per la concezione che per troppo tempo ha fatto sì che, tra gli antichi, soltanto ai greci fosse riconosciuto la stessa capacità di osservazione e astrazione che poi avrebbe caratterizzato la “scienza” moderna.

Non sappiamo quasi niente del pensiero, vuoi religioso vuoi scientifico, degli uomini dell’Età della Pietra. Ma dobbiamo indubbiamente a quegli ingegnosi tecnologi i principi fondamentali del trattamento della materia e dell’energia: suscitar il fuoco nel focolare, scoprire il principio della leva per lo scaglialancia, sfruttare la tensione e la torsione per far sfrecciare il dardo nell’aria, chiudere la trappola con uno scatto, fissare la scure al manico. Poiché le prime cose son sempre le più difficili, guardiamoci bene dal ritenere queste conquiste qualcosa di naturale. Ancora meno ovvie sono le conquiste della rivoluzione neolitica e dell’Età del Bronzo: la semina del grano, la fonditura, la tessitura, l’arte del vasaio, e tutti i mestieri. E neppure è facile capire come venne agli uomini l’idea di elevare piramidi a gradini quadrangolari che fungevano da abitazione ai loro dei. Solo culture altamente sviluppate possono esser state capaci di compiere imprese del genere. Gli umanisti e i filologi che si occupano di storia possono ben considerarle conquiste rudimentali, gli ovvi inizi di una società ancora legata alla terra. A costoro potremmo opporre ciò che aveva da dire Galileo, che di queste cose se ne intendeva: «E parmi che molto ragionevolmente l’antichità annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell’arti nobili, già che noi veggiamo il comune de l’ingegni umani esser di tanta poca curiosità … L’applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti e pensieri di spiriti sopraumani».
Dunque, niente di molto «primitivo» in tutto ciò. Un tempo gli studiosi davano per scontata l’identità del nostro passato con i «selvaggi» contemporanei che si astengono ostinatamente dalla produzione del cibo e quindi sono stati schedati sotto la voce «Età Paleolitica». Il «primitivo» degli studiosi ottocenteschi era semplicemente «pre-logico», un fanciullo che raccontava a se stesso storie ingenue, che noi ascoltiamo con divertita condiscendenza. La scala del Progresso partiva di lì1.

Giorgio de Santillana (1900-1974) prende spunto da colui che è considerato il fondatore del moderno metodo sperimentale scientifico per tornare a quei secoli, troppo spesso considerati oscuri, durante i quali la specie, nel muovere coscientemente i primi passi sulla superficie terrestre, elaborò le sue capacità logiche e razionali, ben prima che il pensiero borghese, di origine rinascimentale e illuminista, dividessero le età del mondo tra quelle considerate razionali e quelle irrazionali o primitive, insieme alle culture che ne avevano costituito la manifestazione epifenomenica.

Se, infatti, la critica illuministica della religione aveva un reale fondamento politico, l’estensione della critica alla superstizione che ne reggeva ancora la funzione sociale a tutte le conoscenze che avevano accompagnato la crescita delle società umane precedenti e “altre” finiva infatti col condannare all’oblio, senza possibilità di appello, non soltanto le forme prevalentemente folkloriche di tante conoscenze tradizionali, ma anche, e forse prevalentemente, quelle che avevano formato il substrato conoscitivo della resistenza comunitaria all’emersione del capitalismo mercantile e della sua “scienza” (in cui iniziava ad esser considerata come tale anche quella “economica”) come forma dominante di indirizzo della produzione e riproduzione sociale. Dando così inizio a una prima e definitiva cancel culture, ben più radicale e totalizzante di quella ritenuta attualmente tale.

Una trasformazione che era iniziata proprio nello stesso periodo della nascita e dello sviluppo delle moderne pratiche scientifiche che, in età rinascimentale dopo aver puntato menti e cannocchiali verso l’universo che circondava un pianeta che sempre meno avrebbe costituito il centro del cosmo creato da Dio per l’Uomo, avrebbero iniziato a stabilire, sulla Terra, precisi e più saldi confini nazionali, proprietari, sociali e conoscitivi. Confini che iniziavano a segnalare l’appropriazione privata o di classe non soltanto delle ricchezze materiali socialmente prodotte, ma anche di quelle immateriali ricollegabili alle conoscenze necessarie per la gestione dell’ambiente e delle società2.

Una modificazione del “potere conoscitivo” che oltre a ridurre enormemente, all’interno delle società “occidentali”, il potere che le donne si erano conquistate all’interno delle comunità di villaggio3, si era riappropriato del potere giudicante dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, “razionalizzandolo” e trasformandolo in un sistema di leggi che, una volta liberato dall’ingombro di carattere religioso, poteva presentarsi come “libero”, “indipendente” e più equo, ponendo il cittadino non più davanti al giudizio di Dio, ma a quello dello Stato (che sostituiva il primo nella funzione della distribuzione del premio e/o del castigo)4.

Sarà proprio de Santillana, in un’opera realizzata con Hertha von Dechend, a ricollegare le rivoluzioni scientifiche del XVI secolo, senza mai nominarle, con quelle operate millenni prima dai nostri antenati, quando le conoscenze del cielo, delle costellazioni, dei loro movimenti stagionali e degli equinozi, per dirla in breve “astronomiche”, costituivano un elemento importante per l’orientamento durante i viaggi e l’organizzazione della produzione sociale5. Ma la vera novità nell’opera di de Santillana e von Dechend era costituita dal fatto che il “mito” e i miti perdevano la loro connotazione primitiva e “irrazionale” per rientrare, invece, in una forma razionalizzata di conoscenza scientifica che, in età spesso precedenti l’invenzione della scrittura, poteva essere memorizzata e trasmessa oralmente da una generazione all’altra. Una forma di conoscenza, priva di copyright e brevetti “scientifici”, che apparteneva alle comunità che l’avevano prodotta. Come avrebbe affermato la von Dechend nella nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993:

De Santillana era approdato alla storia delle scienze esatte e alla storia delle idee partendo dalla fisica, e dopo essersi occupato a fondo della filosofia della natura nell’antichità. Io ero partita dall’etnologia storico-culturale, e più precisamente da Leo Frobenius. Avevamo in comune un profondo disagio nei confronti del modo dominante di interpretare e di giudicare tradizioni che non si erano espresse nella «lingua» a non famigliare, e cioè nell’idioma scientifico coniato dai Greci, in ragione del quale le nostre scienze portano nomi greci e i nostri concetti fondamentali – da «assioma» a «ipotesi», da «prassi» a «simmetria» e a «sistema» – sono vocaboli greci […] proiettando così all’indietro fino alla Grecia la concezione del mondo divenuta usuale a partire da Newton.

Per continuare poi ancora ricordando che:

Delle numerose cause del nostro disagio ne citeremo qui una soltanto: l’incompatibilità dei risultati matematico-tecnici che si possono dimostrare, in quanto si possono misurare, per le culture antiche, con il livello delle corrispondenti tradizioni «mitiche». Per fare un esempio specifico, l’incompatibilità delle piramidi e della loro disposizione esatta con l’apparente chiacchiericcio dei testi delle piramidi e del libro dei morti. Due sono le spiegazioni possibili: o gli Egizi non hanno costruito le piramidi […] oppure le moderne traduzioni dei testi sono fondamentalmente sbagliate. Il fatto che parecchi dei nostri contemporanei preferiscano impelagarsi in ipotesi di architetti extra-galattici piuttosto che ammettere l’esistenza di Egizi dotati di competenze eccezionali dimostra chiaramente come una semplicistica fede nel progresso e una storiografia improntata a un evoluzionismo volgare ci rendano più difficoltoso l’accesso alle civiltà antiche6.

Giorgio de Santillana era nato a Roma il 30 maggio del 1900 e avrebbe lasciato l’Italia nel 1936 a seguito delle crescenti restrizioni imposte dal regime agli accademici di origine ebraiche. Negli Stati Uniti svolse tutta la carriera successiva al MIT di Boston, dove sarebbe diventato noto come «the cat who walks alone» per l’abitudine di fare passeggiate notturne nel campus, probabilmente per scrutare quella volta celeste che così tanto avrebbe indirizzato i suoi studi. Nel 1955 pubblicò The crime of Galileo, un’indagine approfondita della crisi del Rinascimento e della condanna dello scienziato, ma nel frattempo si era imbattuto nelle riflessioni di Giordano Bruno per il quale il contenuto della filosofia egizia, in sostanza, non era altro che “astronomia”.

Dopo l’incontro con Hertha von Dechend a Francoforte nel 1958, le sue ricerche subirono una brusca virata verso un campo di studi che lo attraeva da tempo.

Per uno storico che ha esplorato l’inesorabile affermarsi del razionalismo scientifico, si tratta forse della massima sfida speculativa: risalire alle origini remote della scienza, verso un periodo anteriore all’invenzione della scrittura, di cui rimane un materiale documentario insolito, fatto di una prodigiosa abbondanza di miti e leggende accumulate nel corso dei secoli, le cui tracce sopravvivono in forme eterogenee […] Miti e leggende di provenienza diversa, in molteplici varianti, spesso incongrue, e per loro natura ostili al concetto e refrattarie alla formalizzazione.
[…] La sua «fuga verso le antiche età» (come descriveva le sue ultime ricerche nella conferenza di Palazzo Torlonia nel 1966) non è una semplice fuga saeculi, ma la ricerca di una visione sinottica in cui occorre complettere tutti i livelli dell’essere7.

Le idee espresse da de Santillana e von Dechend nel Mulino di Amleto sono molto ardite e soltanto oggi possono, forse, essere comprese appieno, in un momento in cui il declino dell’Occidente e delle sue cosmogonie politiche, economiche e scientifiche si fa sempre più evidente. Motivo per cui la convinzione dei due autori dell’esistenza di conoscenze astronomiche avanzate già in epoca neolitica, può fare il paio con l’attuale scoperta del peso del pensiero e dell’agire coloniale sull’emarginazione delle culture e delle società “altre”, sottomesse e definite primitive per pure esigenze di carattere imperialistico e di dominio e sfruttamento economico.

Fatto sta che, secondo de Santillana, queste conoscenze astronomiche avanzate erano divenute già di difficile interpretazione nella civiltà egizia e babilonese, e l’astrologia ne era solo una tardiva degenerazione […] Le grandi idee cosmologiche sembrano fiorire soprattutto tra nomadi e navigatori e, tra popoli che non possedevano ancora una scrittura, e venivano trasmesse per via unicamente verbale e mnemonica, in un linguaggio intessuto di storie e altamente tecnico, che pur essendo di natura non matematica, era tuttavia dominato, se non ossessionato, dalla precisione (perché ciò che non è esatto è ingiusto). Secondo de Santillana la perdita di questo tesoro di conoscenze arcaiche […] sarebbe essenzialmente dovuta a «due grandi sciagure nella storia». La prima avvenuta quando l’uomo abbandona il nomadismo e si mette a coltivare la terra. La seconda, quando l’uomo ha inventato la scrittura. Con il suo avvento, intorno al 4000 a. C., si forma «una classe in grado di fissare i dati e conservarli per farne uno strumento di potere. La scrittura nasce fondamentalmente come contabilità… con la sua invenzione cessa il pensiero e inizia l’amministrazione»8.

Sicuramente l’invenzione della scrittura segna l’atto di nascita delle società divise in classi, mentre l’ipotesi di una scienza “diversa” da quella affermatasi in Occidente dal XVI secolo ad oggi non è estranea nemmeno al pensiero scientifico contemporaneo.
Infatti, come ricorda Eugene P. Wigner, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1963, ricostruendo il percorso della sua formazione scientifica a Princeton, fu forte la confusione quando qualcuno gli manifestò le sue perplessità riguardo al fatto che, nello scegliere i dati su cui verifichiamo le nostre teorie, operiamo una selezione alquanto ristretta.

«Se costruissimo una teoria su fenomeni che trascuriamo e trascurassimo invece alcuni dei fenomeni che attirano la nostra attenzione, non arriveremo forse ad un’altra teoria che, pur avendo poco a che fare con la precedente, spieghi altrettanti fenomeni di questa?». Bisogna ammettere che non abbiamo alcuna certezza che non possa esistere una teoria cosiffatta9.

Da cui consegue, sempre secondo il Premio Nobel, che “le leggi di natura sono tutte proposizioni condizionali, e che si riferiscono soltanto a una parte minima della nostra conoscenza”10.

E’ un pensiero radicale quello di de Santillana, radicalismo che forse è alla base della scarsa considerazione che, come si è affermato all’inizio, ne ha ridotto le note biografiche su Wikipedia o sull’Enciclopedia italiana, ma che può essere ancora foriero di interessanti e utili riflessioni, anche per chi non si interessi direttamente di storia della scienza e del pensiero scientifico. Ed è forse questo il motivo per cui può rendersi necessaria la lettura a quasi sessant’anni dalla sua prima pubblicazione italiana del saggio qui “recensito”: Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C. Saggio in cui si rivela centrale, proprio per l’attinenza con quanto fin qui riportato, il sesto capitolo, L’universo del rigore (pp. 122-147), dedicato a Parmenide di Elea, una colonia greca dove il filosofo nacque intorno al 525 a. C. Oltre ad essere il promulgatore di un codice di leggi per cui, per generazioni, gli Eleati furono soliti raccogliersi una volta l’anno per riconfermare la loro fedeltà alla costituzione di cui era stato il promotore,

per caso sappiamo anche, attraverso testimonianze frammentarie, che dette contributi importanti alla geometria e all’astronomia; classificò le figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del Mattino e nella Stella della Sera (Lucifero e Vespero) un unico pianeta; delimitò sul globo terracqueo le cinque zone in cui è suddiviso dai tropici e dai circoli artici; se poi si deve credere a Teofrasto, che è il nostro più autorevole informatore, fu lui, primo tra i pitagorici, a proclamare la sfericità della Terra e la teoria che la Luna brilla di luce riflessa. Nonostante questi grandi contributi scientifici la sua gloria deriva da un campo diverso: è famoso come inventore della implicazione logica11.

Scrisse una sola opera i versi, intitolata Della Natura, suddivisa in due parti, una «Via della Verità» che tratta delle necessità del pensiero in se stesso, e una «Via dell’Opinione» che sembra dovesse costituire un’ambiziosa cosmogonia unita a una teoria fisica, anche se di questa seconda parte sono sopravvissuti solamente frammenti così miseri da renderne impossibile la ricostruzione del piano generale. Così, come afferma ancora de Santillana: «Il poema è stato descritto come “ispirato dal rapimento della logica pura” e come il primo testo filosofico in senso moderno, ma la sua diretta attinenza al pensiero scientifico ci sembra sia stata trascurata»12.

In realtà, anche se la «Via della Verità» venne consacrata come «fondamento della metafisica», a causa del fatto che molti suoi contemporanei dovevano aver pensato che a quell’uomo fosse stato concessa, nel trattare dell’Essere e del Non-Essere, la visione di cose inesprimibili,

vi sono tuttavia prove innegabili del fatto che Parmenide, affrontato sul suo terreno, appartiene a buon diritto anche alla scienza. Se interpretiamo il termine “Essere” non come una misteriosa potenza verbale, ma come una parola tecnica che designa qualcosa che il pensatore aveva in mente ma non poteva ancora definire, e sostituiamo ad esso una x nel contesto dell’argomentazione di Parmenide, ci sarà facile vedere che vi è un altro concetto, e solo uno, che può essere messo al posto di x senza dar luogo a contraddizioni in qualsiasi punto del testo; quel concetto è il puro spazio geometrico (per designare il quale mancava ai Greci una parola, conoscendo essi solo termini relativi come “luogo”, “aria”, “respiro”, “vuoto”). Inoltre, esso è costruito gradualmente, usando il principio di indifferenza o ragion sufficiente, che già era noto ai predecessori naturalisti di Parmenide; ma esso è ora applicato per la prima volta coscientemente come strumento fondamentale della logica scientifica, mentre Platone e Aristotele discutono l’Essere con strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici13.

Fermiamoci qui, soltanto per notare che de Santillana riesce a cogliere e sottolineare un momento fondamentale della perdita delle conoscenze scientifiche precedenti la civiltà classica e come questo sia forse la causa principale della riduzione a “filosofia” di ogni precedente conoscenza tecnica.
Dando inizio a quel “trionfo” della cultura classica umanistica che ancora ci perseguita e limita ogni nostra reale prospettiva di conoscenza del passato e del futuro (e delle loro possibili culture e conoscenze).

Conoscenze tutt’altro che mesmeriche o metafisiche, ma che soltanto l’ignoranza dei posteri, già all’epoca, ha potuto relegare a “misteri” e culti misterici.
Così come, tutto sommato, la scienza del capitale, ha cercato di fare con tutte le conoscenze un tempo utili alla conduzione della società umana e, troppo spesso, relegate a credenze, miti e aspetti folklorici inadatti alla conoscenza necessaria allo sviluppo degli interessi materiali dello stesso.

Ma questa considerazione finale su un grande storico della scienza e della conoscenza e la sua opera “eccessiva”, che lo ha relegato a camminare da solo, o quasi, nella notte della ricerca storica, non sarebbe completa se non si cogliesse in tutto ciò anche la condanna di coloro che, nel pensarsi “critici” del capitale e del suo modo di produzione e della sua scienza, finiscono col trattare i popoli e le conoscenze altre con la stessa logica da “sbaracco”, accettando di fatto l’irrazionalismo senza essere capaci,invece di cogliere le logiche e la profonda razionalità connesse a quelle stesse conoscenze. Scambiando la scienza con la magia e riducendo le competenze cosmologiche ad astrologia da quattro soldi.


  1. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 16-17.  

  2. Su tali argomenti, si vedano: C. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019 e R. Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014.  

  3. Si vedano ancora: M. Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, Edizioni Tabor 2021 e S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.  

  4. Si vedano in proposito: R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza Editore, Bari 1971 e I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.  

  5. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 1983 (prima edizione americana 1969).  

  6. H. von Dechen, Prefazione all’edizione tedesca in G. de Santillana, H. von Dechen, op. cit., edizione riveduta e ampliata, Adelpi 2000, pp. 12-13. Sull’influenza rimossa delle culture egizie e africane sul quella cultura si veda ancora M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano, 2011. Per la provenienza “extra- galattica” delle conoscenze degli antichi si vedano le numerose opere di Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (1922-1984), all’epoca giornalista di area marxista-leninista e corrispondente del quotidiano «l’Unità». L’eccesso di scrupolo “progressista” lo portò a diventare uno dei maggiori esponenti dell’archeologia misteriosa e della teoria degli antichi astronauti. Per le sue opere di maggior successo la casa editrice Sugar creò un’apposita collana “Universo sconosciuto”. Dal 1960 si era avvicinato al maoismo e si occupò anche di astronautica, sessuologia, parapsicologia ed esobiologia.  

  7. M. Sellitto, La scienza, prima del mito (e dopo) in G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, Edizioni Adelphi, Milano 2020, pp. 158-159.  

  8. M. Sellitto, op. cit., pp. 161-162.  

  9. E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sci­ences, conferenza tenuta alla New York University nel 1959 ora in E.P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Edizioni Adelphi, Milano 2017, p. 12.  

  10. E.P. Wigner, op. cit., p. 21.  

  11. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, op. cit., p. 123.  

  12. Ivi, p. 124.  

  13. ibidem, pp. 130-131.  

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Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/ Sat, 14 Oct 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79556 di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco [...]]]> di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.

Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.

Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.

Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.

La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.

E’ soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.

Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.

L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.

Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi .
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.

Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.

Come afferma Francesca Mannocchi su La Stampa del 15 ottobre:

Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi fossero «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti»5.

Anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto, oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio dei popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.

In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)6.

Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. E’ successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi7, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.

Eppure, eppure…è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:

questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] esso ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo8.

Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.

Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»9 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza10.

Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon11. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite12.

Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro ancora, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:

con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)13.

Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.

Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano14.

Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.

Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati15.

Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrlevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel16 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.

Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata17. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero di affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese18. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”19.

Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo20. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta di fondamentale importanza.


  1. Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13  

  2. Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci. 

  3. Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.  

  4. Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.  

  5. F. Mannocchi, Israele, la disumanizzazione del nemico, La Stampa, 15 ottobre 2023  

  6. Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22  

  7. A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997  

  8. Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23  

  9. Ivi, p. 22  

  10. cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023 

  11. Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.  

  12. “L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
    “Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.  

  13. Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30  

  14. Ivi, pp. 25-26  

  15. Ivi, pp. 36-37  

  16. “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”  

  17. La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.  

  18. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.  

  19. Somdeep Sen, op. cit., p. 16.  

  20. “Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.  

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Il nuovo disordine mondiale / 20: Guerra santa (subito?) https://www.carmillaonline.com/2023/01/11/il-nuovo-disordine-mondiale-20-guerra-santa-subito/ Wed, 11 Jan 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75603 di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili [...]]]> di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili uccisi e brutalizzati, cercano di convincere un’opinione pubblica sempre più stanca e distratta della necessità di “partecipare” alla guerra con l’invio di armi all’esercito di Zelensky ormai “avviato alla vittoria”, l’analisi dei fatti a livello internazionale suggerisce che la vittoria ucraino-occidentale sia ben lontana e che, anzi, questa sia fortemente inficiata da un ampliamento delle aree di conflitto che non fa altro che giustificare il titolo di questa serie di articoli, iniziata su «Carmilla online» esattamente il 25 febbraio 2022.

Da Taiwan alle isole Curili, dall’Artide all’Antartide passando per parti significative dell’Africa Sub-sahariana, il Mar Cinese meridionale e il quadrante dell’Indo-Pacifico, sono tantissimi i punti di frizione in cui le maggiori potenze e i loro alleati locali potrebbero accendere la scintilla di un conflitto devastante che più che in una terza guerra mondiale “a pezzi”1, probabilmente già in atto, potrebbe rapidamente trasformarsi in una guerra totale su larghissima scala. A conferma di ciò occorre sottolineare che in ogni area di frizione e possibile confronto militare si addensano tutti i fattori possibili di competizione: dalla concorrenza economica al controllo delle risorse (sia naturale che tecnologiche, come nel caso della produzione di microchip a Taiwan) fino a quelli riconducibili alle esigenze di carattere strettamente militare e geo-politico. Tutte situazioni in cui i possibili antagonisti sono numerosi e talvolta alleati o nemici sul luogo mentre invece possono avere posizioni rovesciate in altre situazioni di disequilibrio.

A tutto ciò vanno ad aggiungersi le mai sopite contraddizioni intereuropee intorno al ruolo di chi deve comandare in Europa (Francia? Germania? Gran Bretagna? Stati Uniti?)2, quelle interne agli Stati Uniti3 e, last but not least, le differenti posizioni in sede di Alleanza atlantica e Unione Europea rispetto all’invio di armamenti e aiuti all’Ucraina di Zelensky e le posizioni da tenere nei confronti delle sanzioni riguardanti gas, petrolio e commercio con la Russia.

Le folle di cui parla DeLillo nel suo Rumore bianco sono quelle che si riunivano nelle adunate del Terzo Reich, soprattutto in quelle in cui a parlare fosse il Fürher: «Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa […] Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tener lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla»4.

In piazza San Pietro il Papa emerito non poteva più parlare, ma altri lo hanno fatto per lui e lo faranno ancora. Annunciando una nuova stagione di guerra. Non più solo al di fuori della Chiesa, ma anche al suo interno. Non solo per motivi teologici o di forma (la messa in latino), ma ben più sostanziali, concreti e terreni. In un momento in cui, nonostante la strombazzata unità di intenti e di stili di vita, l’Occidente non trova un attrattore degno di questo nome, tanto meno fatale, per riunire nuovamente insieme grandi folle inneggianti alla Patria e alla Nazione, come sarebbe in realtà necessario per proseguire con successo nella guerra dei mondi che è già iniziata.

«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.

Ammesso che tale idea di società, formulata prima da Henri Bergson nel 1932 e successivamente sviluppata da Karl Popper, sia realmente esistita in qualche momento della storia compresa tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tempo attuale, certo ha fatto sì che nel definire le politiche sociali e globali degli ultimi settant’anni, al di là di ciò che è stato ed è ancora dettato dalle esigenze immediate del capitale, all’interno delle società occidentali e del loro modo di produzione dominante a regnare sia stata più la termodinamica del non equilibrio che i principi della meccanica classica. Che necessita di forze, poli e campi tali da poter definire con certezza esperimenti sia nell’ambito delle discipline naturali che sociali (e politiche).

La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).

Per dirla in altro modo: la progressiva vittoria del capitale sulle barriere opposte prima dalle comunità e dalle classi poi degli stati nazionali e dei nazionalismi ha permesso che la sfera di valori in cui milioni, o meglio miliardi di persone nel mondo globalizzato, fin dagli albori dello sviluppo del capitalismo industriale, si muovono sia di fatto andata riducendosi a sole due triadi. Quella dell'”investi, produci/vendi e ricava profitto” (magistralmente riassunta dalla formula marxiana D – M – D1) valida per i funzionari del capitale e quella rappresentata da “lavora-produci, consuma e crepa” sussunta in pieno da ciò che rimane della classe lavoratrice o aspirante ad esser tale.

Al di fuori di ciò, potenzialmente, non dovrebbero sussistere altri valori morali, politici, di classe, nazionali od altri che possano mettere i bastoni tra le ruote alla progressiva espansione del capitale e delle sue regole elementari. Fatto che, soprattutto in Occidente, con il trionfo della società dei consumi dalla fine del secondo conflitto imperialistico in poi e con l’avvento del “secolo americano” a seguito di quello, ha avuto come conseguenza il progressivo superamento mercantile dei confini e delle istituzioni parlamentari nazionali a vantaggio del predominio del capitale finanziario. Dando di fatto vita a comunità d fatto reggentisi unicamente sulle leggi dello sviluppo e dell’interesse capitalistico.

Come chi scrive ha già avuto modo di sottolineare nella prefazione al testo, di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, (Il Galeone Editore, Roma 2022), citando Jacques Camatte6:

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica. Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità7.

Non solo:

(Il capitale) si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere (Macht) di una classe dal momento che non ne ha nemmeno più bisogno per assicurare il proprio dominio (Herrschaft); anche la classe dominante viene dominata. Ormai il capitale ha bisogno solo di schiavi8.

Ecco allora che la classe al potere inizia a saggiare sulla propria pelle il fatto che, secondo Marx (nel III libro del Capitale), «il vero limite al capitale è il capitale stesso». Limite non soltanto più produttivo, come si intendeva principalmente nelle pagine incompiute del Moro di Treviri, ma anche politico ovvero di gestione dello Stato e della società divisa in classi.

Una società frammentata ma, allo steso tempo, organizzata intorno alla fascinazione delle merci e suddivisa in infiniti rivoli “identitari” che vanno dall’appartenenza alle tifoserie sportive alle identità di sesso e genere dei singoli come di quelle etniche e razziali, talvolta sovraniste (ma basterebbero i risultati elettorali ottenuti in Italia da Italexit o dalle parallele liste “di sinistra” o di estrema destra a far comprendere l’inessenzialità delle stesse per un discorso socialmente più coesivo) fino a quelle definite da singole sette religiose, politiche o mercantili (leggi follower di pubblicità di merci e “artisti” o presunti tali di ogni settore dell’intrattenimento commerciale). Un enorme supermercato di merci scintillanti e idee opache in cui, come si diceva all’inizio, a predominare è ancora la necessità di riproduzione del capitale e di estrazione di plusvalore estorto dal lavoro coatto, ma travestita da scelte e gusti “personali”.

In cui anche i rappresentanti politici e di governo son finiti col rassegnarsi ad essere null’altro che prodotti commerciali, possibilmente ben confezionati, da vendere agli elettori. Promoter e spin doctor son diventati così, insieme agli algoritmi che interagiscono nei e con i social, i veri “comitati elettorali” delle competizioni politiche travestite farsescamente da elezioni. Tendenza che ha almeno una data e un luogo di origine: il 1960 e naturalmente gli Stati Uniti, quando ebbe inizio la campagna elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy e la consorte Jacqueline (poi Onassis). Giocata in gran parte sulla giovane età del candidato e la bellezza della coppia. Oltre che su uno slogan da cui Trump ha poi ancora rubato l’ispirazione per il suo Make America Great Again: A time for greatness.

In quel contesto e a quell’epoca, la logica dello star system hollywoodiano sostituiva la logica politica con la promozione di un desiderio dal sapore vagamente erotico, ancor più che liberal. Cui, in fin dei conti, hanno dovuto pur qualcosa l’elezione di Bill Clinton, Barak Obama e anche il successo di certi “giovani” politici italiani o altri/e ancora.
Ma tale, oscena, macchina del controllo, che ha funzionato nel cancellare ogni reale identità di classe tra la maggior parte dei lavoratori dipendenti, ed per esaltare il consumo di ogni genere di merce, materiale o immateriale che sia, in realtà diventa anche un ostacolo nell’ambito delle mobilitazioni nazionali e nazionaliste necessarie in caso di guerra. Nessun partito o idea, sia di Destra che della Sinistra liberal-democratica, ha attualmente la forza per mobilitare, in Occidente, grandi masse in funzione bellica: sia dal punto di vista ideologico che militare.

Ce lo ricorda, ad esempio, lo storico Niall Ferguson in un saggio pubblicato su “Bloomberg”:

La guerra è tornata. Anche la guerra mondiale potrebbe tornare? Se è così, influenzerà tutte le nostre vite. Nella seconda era tra le due guerre (1991-2019), abbiamo perso di vista il ruolo della guerra nell’economia globale. Poiché le guerre di quel tempo erano piccole (Bosnia, Afghanistan, Iraq), abbiamo dimenticato che la guerra è il motore preferito della storia dell’inflazione, dei default del debito – persino delle carestie. Questo perché la guerra su larga scala è simultaneamente distruttiva della capacità produttiva, perturbante del commercio e destabilizzante delle politiche fiscali e monetarie. […] Il problema con le guerre prolungate è che gli Stati Uniti e gli europei tendono a stancarsi di loro ben prima che lo faccia il nemico9.

Non si elencheranno qui nuovamente tutti gli elementi di difficoltà nel “vincere” questa guerra che l’Occidente sta incontrando sul piano economico ancor prima che militare, ma certo la scarsa partecipazione emotiva dell’opinione pubblica occidentale ai fatti ucraini costituisce pur sempre motivo di interesse (o di relativo imbarazzo), nonostante la propaganda continua e costante dedicata al tentativo di catturarne l’attenzione (e la passione). Ma è a questo punto che è tornata in gioco la pedina ”Chiesa cattolica”.

Proprio a partire dalla morte del ex-Panzerkardinal Ratzinger si è sviluppata una battaglia, per ora, senza esclusione di colpi, che sembra vertere, più che sulle questioni dottrinarie, su come la dirigenza della più importante componente della cristianità occidentale, ovvero la Chiesa cattolica facente capo a Roma, dovrebbe comportarsi nei confronti di una guerra e dei futuri confronti militari e politici destinati a mettere in crisi, secondo la vulgata mediatica corrente, quelli che sono considerati i sacri valori della libertà e della democrazia occidentale (oltre che il predominio economico dell’ultima qui citata).

Indipendentemente dai risultati dell’incontro “privato” tra la premier italiana e papa Francesco, l’equidistanza ”pacifista” di Bergoglio non sembra più sufficiente ai fautori della “guerra per la libertà”, motivo per cui viene richiesto e suggerito al soglio pontificio di cambiare registro e trasformare l’attuale programma pastorale in un più marcato accompagnamento del gregge al macello. Che tale intento si sia maggiormente manifestato su organi di stampa di destra non colpisce, ma certo gli omaggi tributati al Papa emerito nei giorni delle sue esequie anche dai media considerati liberal o di sinistra potrebbe far pensare ad un riposizionamento degli stessi in chiave sempre più bellicista (se mai ce ne fosse ancora bisogno).

Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ha cercato in ogni modo di mediare e ammorbidire le differenze tra la visione di papa Ratzinger e di papa Bergoglio su varie questioni, non soltanto inerenti alla guerra senza abbandonare il percorso fin qui seguito da papa Francesco:

Nella guerra d’Europa, e per il nuovo (dis)ordine mondiale, che si combatte da più di dieci mesi in terra d’Ucraina il giorno che per gli ortodossi è la vigilia di Natale e per il resto della cristianità l’Epifania è stato un giorno pessimo, triste e feroce persino più di altri di questa carneficina – parola di papa Francesco – folle e sacrilega. Perché quando si trasforma una pur fragile occasione di tregua, comunque sia balenata, da chiunque sia stata offerta, in un nuovo terreno di battaglia – a suon di dichiarazioni sferzanti, di atti ostili e di ordigni letali scaraventati contro le vite degli altri – il giudizio deve essere netto. Così come dev’essere netto il rifiuto della logica politica e bellica e la morale distorta che impediscono di frenare il massacro10.

Appena il giorno prima, però, un quotidiano ritenuto “laico” e liberal-democratico come «Domani» aveva pubblicato una lettera di aperto sostegno all’arcivescovo di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, del 7 marzo 2022, scritta da Ratzinger: «Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino che di sicuro mostra una certa distanza dalle posizioni di Francesco che, dall’inizio del conflitto, ha sempre invocato la pace ma cercando sempre di mantenersi equidistante rispetto alle parti in causa»11.

Nulla da stupirsi, quindi, se un giornale di destra, nello stesso giorno, scrive nel suo editoriale:

…poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non […] ti viene il dubbio che l’Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in Piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale no è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare una storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l’Europa12.

Al di là del triplo salto mortale messo in atto dal direttore del quotidiano per giustificare un ritorno all’Europa da parte di forze di Destra, soprattutto Lega salviniana e Fratelli d’Italia, che sulla critica della stessa e delle sue istituzioni hanno fondato le proprie ipotesi politiche e le proprie campagne elettorali, e trasformare l’identitarismo razzista e populista in una forma di identitarismo cristiano-medievale, quello che è possibile qui individuare è il disperato bisogno di ridurre qualsiasi tendenza pacifista, fosse anche del papa, a qualcosa che non è più utilizzabile ai fini della salvaguardia degli interessi dell’Occidente e soprattutto della parti più frammentate di quest’ultimo: l’Europa e l’Italia.

Tutte le linee di demarcazione (nazionali, politiche, sociali) sono saltate, così, senza disturbare l’inconsistente raccolta di pettegolezzi e gossip rappresentata dal libro, di 336 pagine, di Georg Gänswein, il segretario personale di Benedetto XVI, falco dichiarato e arcinemico di papa Bergoglio13, varrebbe la pena di sottolineare che ciò che non vale per certa destra italiana ed europea vale, però, per quella americana.

Si è detto all’inizio che l’elezione alla quindicesima votazione di McCarthy a portavoce del congresso degli Stati Uniti è stat una dimostrazione dell’influenza che Trump e la parte più “conservatrice “ del Partito Repubblicano avrebbe ancora sullo stesso e sulla vita politica e sociale americana, ma occorre qui sottolineare che uno dei punti di attrito più forte tra i trumpiani e il governo di Biden e l’”altro” partito repubblicano è stato quello rappresentato dall’invio degli armamenti a Kiev e della spesa necessaria per tale programma.

Infatti, tra le richieste di Trump e della sua fazione che Mc Carthy avrebbe dovuto accettare per giunere ad un accordo che ne permettesse l’elezione vi è stata quella della promessa di un «taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina»14.

Pochi media mainstream hanno, poi, ricordato che la visita al Senato degli Stati Uniti di Zelensky, avvenuta a fine dicembre 2022, sia stata una delle meno acclamate e proficue poiché, immediatamente dopo il suo discorso, la votazione sull’appoggio degli USA al governo ucraino ha visto 29 senatori repubblicani (più della metà di quelli in carica per il GOP) votare contro. Rivelando così che il vero argomento del contendere tra democratici e repubblicani oltranzisti è su ben altro che non i diritti riguardanti donne e minoranze di ogni genere.

In fine, occorre ricordare che anche sul fronte ucraino le forze in campo, da una parte e dall’altra, dopo aver inutilmente sbandierato su entrambi i fronti la frusta parola d’ordine dell’”antinazismo”, son dovute ricorrere alla religione come ultima ratio dello scontro con risultati che, soprattutto in Ucraina dove la secessione dalla chiesa ortodossa di Mosca si è avuta a seguito della repressione dei preti e dei monasteri non ancora apertamente schierati con il governo Zelensky, sembrano essere ulteriormente divisivi sul piano politico e sociale.

Nell’epoca della mediatizzazione e dematerializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello”stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che c elo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinnza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono i soldati ch ecadranno al fronte15.

Sarà così anche da noi? Tornerà la Chiesa cattolica e romana alla sua antica funzione, ben prima del Jihad islamista, di promozione della “guerra santa” contro eretici e infedeli? Riuscirà il brand del Cristo crocifisso a sostituire quelli dei “gruppi” di ogni risma che popolano i social e delle fashion influencer che si esprimono su ogni aspetto del viver (o non viver in caso di guerra) quotidiano? O rimarrà soltanto un’ipotesi da proporre in alternativa allo scarso fascino esercitato dal binomio Patria e Nazione di cui si è parlato più sopra? E la sinistra antagonista continuerà ancora a rincorrere in rete obiettivi più dettati dagli algoritmi che da effettive lotte reali?

Oppure, nell’ipotesi peggiore, siamo solamente tornati indietro, ad un medioevo mercantile in cui tutti i nodi saranno sciolti soltanto dopo lunghe guerre “di religione” come quelle che anticiparono di trecento anni la Rivoluzione francese16? Tre secoli di interminabili guerre civili e non, destinate a determinare il nuovo assetto politico, sociale ed economico europeo e, successivamente, planetario? Questi sono alcuni dei temi su cui sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro, per non rischiare di predicare nel deserto usando formule dottrinarie che nessuno può più comprendere. In nome di pratiche identitarie e politiche morte da tempo immemore, proprio come il dio crocifisso dei cristiani.


  1. Come l’ha definita Luca Sebastiani sul numero 37 di «Scenari» del 30 dicembre 2022: L. Sebastiani, E’ l’Africa la culla della “guerra mondiale a pezzi”, pp. 12-13  

  2. Cfr. qui

  3. Dove l’elezione soltanto alla quindicesima votazione dello speaker repubblicano al Congresso ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la persistente influenza di Donald Trump sul partito repubblicano e il suo elettorato.  

  4. D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi 2022, pp. 90-91  

  5. Ivi  

  6. S. Moiso, Un capitalismo totale? Prefazione a G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone Editore, Roma 2022, pp. 18-19  

  7. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

  8. J. Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, op.cit., pp. 213-214, ora in S. Moiso, op. cit., p. 24  

  9. N. Ferguson, All Is Not Quiet on the Eastern Front, «Bloomberg» 1 gennaio 2023, qui  

  10. M. Tarquinio, Più ragioni per resistere, «Avvenire» 7 gennaio 2023  

  11. Ratzinger e la lettera di sostegno all’Ucraina, «Domani» 6 gennaio 2023  

  12. A. Sallusti, La nostra Europa è in San Pietro, «Libero» 6gennaio 2023  

  13. Cfr. F. Capozza, Padre Georg rivela gli scontri nella Chiesa, «Libero» 9 gennaio 2023  

  14. Cfr. qui  

  15. M. Giannini, L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger, «La Stampa» 8 gennaio 2023  

  16. Cfr. qui  

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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia https://www.carmillaonline.com/2022/12/31/il-marxismo-secondo-bloch-una-mappa-del-mondo-che-contiene-il-paese-utopia/ Sat, 31 Dec 2022 04:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75132 di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”.  In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto. Riappropriarsi del “futuro nel passato” non significa, come per i nazisti, resuscitare una tradizione ancestrale per riutilizzarla bella e pronta, come fosse un antico cimelio recuperato dal mondo dei morti. Significa, piuttosto, cercare dare compimento al canto della guerra dei contadini tedeschi del 500, citato da Bloch: “Battuti torniamo a casa, i nostri nipoti combatteranno meglio”. Questo è il passato che ancora  ci interpella perché ci assegna il compito di portare a compimento ciò che si è manifestato come possibilità nei tempi che furono senza poter giungere a realizzazione. Nulla c’è nella storia di cui possiamo riappropriarci realmente, se la ripresa non è contemporaneamente un’anticipazione sul nostro futuro.

Sono questi alcuni fili che si dipanano dalla lettura di Speranza e utopia, testo che raccoglie le conversazioni intrattenute da Ernst Bloch tra il 1964 e il 1975, gli ultimi dieci anni della sua vita, con vecchi amici, come Lukács e Adorno, e altri intellettuali. Da questo libro, nota il traduttore Eliano Zigiotto nel breve saggio che chiude il volume, “emergono, esposti in modo colloquiale e diretto, a tratti perfino didascalico, i temi principali del pensiero blochiano, che disegnano anche per l’oggi una topografia del pensiero non arreso”.2 Un pensiero ancora utile per tutti coloro che non vogliono unirsi all’ampia schiera dei corifei dello status quo, felici di celebrare ad abundantiam “i funerali dell’utopia”. Ciò non significa, secondo Bloch, abbandonarsi a vuote fantasticherie perché la speranza è il contrario dell’ottimismo ingenuo. “La speranza può essere delusa perché non è fiducia, ma è circondata dal pericolo e da ciò che può anche essere diverso”.3 Non a caso, “Il coraggio di sperare e di disperare” è il titolo del sintetico testo di Laura Boella che precede quello di Zigiotto. In queste poche parole l’autrice esprime un punto fondamentale del pensiero di Bloch il quale afferma:

Io ho cercato – per esempio nel Principio speranza – di esaminare la cenerentola della logica, la possibilità, e di comprenderla come un’eccedenza molto, molto più grande dell’esistente, perché lo abbraccia tanto per il peggio quanto per il meglio, tanto nel segno della sventura, del nulla, dell’invano, della rovina, quanto nel segno del tutto, del buon esito e della luce.4

Per Bloch, in ogni caso, si tratta di fondare la speranza, l’utopia concreta, attraverso il concetto di “possibile oggettivo-reale”. Entra dunque in gioco la “categoria del non-ancora, che si dà in due forme, soggettiva e oggettiva: come non-ancora conscio e non-ancora divenuto. La prima è interiore, la seconda esteriore”.5
Entrambe sono forme del nuovo, del futuro autentico. Partendo dal punto soggettivo, il non-ancora-conscio è una categoria assai diversa dal non-più-conscio, cioè dal rimosso e dall’inconscio di Freud e, a maggior ragione, da quello di Jung con i suoi archetipi dell’era diluviana. Si tratta del “crepuscolo che guarda avanti, ciò che cova nella giovinezza. È l’aria che circola nei tempi di svolta – Rinascimento, Sturm und Drang, 1848, 1917 – quando sta per nascere qualcosa di nuovo”.6 Il non-ancora-conscio non si manifesta prioritariamente nei sogni notturni, regno del rimosso, ma si esprime più facilmente nei sogni ad occhi aperti, sebbene questi abbiano spesso carattere privato, individuale. Dal punto di vista oggettivo occorre analizzare il reale nella sua dinamica, andando oltre il mero dato di fatto che, positivisticamente, trova appagamento in ciò che è, nell’esser-fattuale, innalzato a giudice di ogni pensiero e a criterio del vero. “Tendenza, latenza, processo … sono concetti arci-materialisti che hanno la loro origine in Aristotele, il primo pensatore del processo di sviluppo”.7

E proprio attraverso il filosofo greco, Bloch tenta una delle sue operazioni concettuali più ardite: “tracciare un arco tra il concetto di utopia … e la sostanza dell’accadere, ossia la materia”.8 In particolare, secondo la terza definizione di Aristotele della materia, essa costituisce

il grembo di ogni possibilità in generale, il dynámei ón, l’essere-in-possibilità. La materia stessa è incompiuta ed è pertanto protesa in avanti, aperta, ha dinnanzi a sé un imprevedibile percorso che coinvolge gli esseri umani: è la sostanza del mondo. Il mondo è un esperimento, che la materia, attraverso di noi, mette in atto con sé stessa.9

Con questo tentativo di fondazione materialistica della speranza Bloch sembra quasi rispondere indirettamente alle osservazioni di Horkheimer che criticava Benjamin, in una lettera a lui indirizzata, tacciando di idealismo la sua concezione della storia come “non-compiuta”. Una concezione che ha significativi punti di contatto con quella di Bloch. “Se si prende del tutto sul serio l’incompiutezza – scriveva l’esponente della Scuola di Francoforte nel 1936 – bisogna credere al giudizio universale”.10 Altre analogie tra Bloch e Benjamin si potrebbero rilevare, ma qui ci limitiamo a indicare ciò che probabilmente li separa: l’importanza attribuita all’idea di futuro. L’odio di classe e la volontà di sacrificio, sostiene Benjamin, “si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”.11 L’angelo della storia ha lo sguardo  rivolto all’indietro perché cerca di allontanarsi dal cumulo di rovine prodotte da ciò che viene chiamato progresso. Per Bloch, invece, occorre porre maggiormente l’accento sul “verso-dove” sul “a-che-scopo”, ciò che gli utopisti hanno provato a fare. Non si tratta di sacrificare i fini prossimi per i fini lontani, ma di riscoprire la presenza dei fini lontani.

Ciò non significa presentare un’immagine di futuro “dipinta alla perfezione” perché ogni volta che lo facciamo “l’utopia si allenta”. Anche un semplice “acconto dell’utopia”, come può essere la sua rappresentazione in un libro, significa darla in qualche modo per raggiunta e ciò non può che portare all’inganno, alla reificazione di ciò che deve essere concepito soltanto come una tendenza. L’utopia, nella sua funzione critica, deve continuamente rimandare a un “non-dover-essere”, a un’insufficienza del reale,  piuttosto che a un essere perfettamente realizzato.
Rimane il fatto che, secondo Bloch, il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza di engelsiana memoria è stato forse troppo grande con la conseguenza che il socialismo stesso ha perduto il suo sfondo morale e la sua capacità di catturare la fantasia delle persone.  

La rivoluzione è di per sé morale, a partire dalla spinta che le sta alla base, e non è economica, ma morale: non tollerare più che ci siano due specie di uomini, il servo e il padrone. L’esistenza del servo e del padrone può essere definita esattamente in termini economici, ma con questo non ho ancora cavato un ragno dal buco. Che ciò non debba e non possa essere, che non se ne possa più – ecco il fuoco che accende la rivoluzione.12

Parlare di morale, di fantasia non significa, per il filosofo tedesco, sottovalutare “la grande missione illuministica” del marxismo, quella di far “cadere la benda dagli occhi”. Parlando del ruolo scientifico del marxismo, Bloch ne descrive così gli effetti:

Al posto delle parolone generiche, invece del fumoso idealismo, subentrava la spiegazione materiale a cui si aggiungeva la strana sensazione di scoprire un crimine; quasi che un detective scoprisse il funzionamento, l’ingranaggio entro cui la società si muove con la lotta di classe, con l’oppressione di una classe sull’altra fin dal tempo dell’economia agricola, quindi da molti, forse centinaia di migliaia di anni.13

Ben venga dunque il disincanto legato alla demistificazione della sovrastruttura e, per certi versi, anche il suo essere ridotta a un “niet’altro che”, vale a dire a un’espressione di interessi di classe. Ma con questo il compito del marxismo non è concluso perché il suo vero obiettivo è il salto dal regno della necessità al regno della libertà.

Il sobrio sguardo sul mondo non consente alcun inganno ed è interamente al servizio dell’interesse degli sfruttati e degli oppressi, degli umiliati e offesi, contro quello dell’esiguo ceto padronale. La corrente fredda marxista è questo. Sulla sua scia, però, spesso, troppo spesso è stata ingiustificatamente trascurata la corrente calda del marxismo che si volge alla luce che deve sorgere al cadere dell’inganno.14

La polemica marxiana contro l’utopismo astratto, secondo Bloch, fu probabilmente una medicina necessaria per curare l’intellettualismo dei vari Owen, Fourier, Saint-Simon e per sconfiggere la loro illusione che si dovesse fare appello solo alla coscienza dei ricchi perché cominciassero a segare il ramo sul quale erano seduti. L’astrattezza non esaurisce però l’utopia sociale perché essa contiene un’eccedenza che ancora ci interpella: l’idea della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano sfruttati e oppressi”.15 Così come ci riguarda ancora l’altra componente utopica, da sempre colpevolmente trascurata dal marxismo, quella derivante dal diritto naturale che ci parla della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano umiliati e offesi”.16 Senza dimenticare neanche la religione che è sempre stata “la più forte esplosione di speranza” perché in  in essa “hanno trovato posto sogni, tempi e spazi del desiderio”.17 Bisogna però precisare che quella di Bloch è una religione “de-teologizzata”, “senza dio”. Solo attraverso un’opera di demistificazione che non si risolva in un cinico disincanto, possiamo distinguere i miti reazionari al servizio dei signori da quelli che sovversivi che stanno dalla parte degli sfruttati e degli umiliati recuperando “tutto ciò che nel mito alza il pugno chiuso del servo”.18

In conclusione,

I fatti possono essere criticati solo a partire dai contenuti della speranza fondata, cioè dalla speranza guidata dal sapere della tendenza, che permette di rettificarla. È impossibile criticare qualcosa dal di fuori, perché da fuori c’è solo imprecazione o quel che si sapeva già prima, a priori.19

Allo stesso tempo,

ogni critica dell’imperfezione, di ciò che è incompiuto, inaccettabile, intollerabile, presuppone la rappresentazione e l’anelito di una perfezione possibile. L’imperfezione non sussisterebbe se nel processo non ci fosse qualcosa che non deve essere, se non s’intravedesse in qualche modo la perfezione, e precisamente come momento critico.20

In estrema sintesi, per agire abbiamo bisogno di una mappa che ci dica con la maggiore precisione possibile dove siamo e dove stiamo andando. Ma, come sostiene Bloch citando Oscar Wilde, “Una carta del mondo non merita neppure uno sguardo, se non riporta il paese di Utopia”.

 


  1. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, in Id., Speranza e Utopia, Mimesis, Milano 2022, p. 97. 

  2. E. Zigiotto, “Echi del pensiero blochiano”, in E. Bloch, Speranza e Utopia, cit., p. 136. 

  3. E. Bloch, “Speranza in lutto, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 15. 

  4. E. Bloch, “Utopie dell’uomo comune e altri sogni a occhi aperti”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 36. 

  5. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 11. 

  6. Ibidem. 

  7. E. Bloch, “Ereditare la decadenza”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 27. 

  8. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 122. 

  9. Ivi, p. 124. 

  10. Cit. in M. Löwy, Segnalatore di incendio, Ombre Corte, Verona 2022, pp. 49-50. 

  11. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 43. 

  12. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, cit., p. 102. 

  13. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 13. 

  14. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, cit., p. 126. 

  15. E. Bloch, “Qualcosa manca … sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 50 

  16. Ibidem. 

  17. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 16. 

  18. E. Bloch, “Il significato della Bibbia”, in Id., Speranza e Utopia, cit., pp. 83-84. 

  19. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 15. 

  20. E. Bloch, “Qualcosa manca… sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, cit., p. 56. 

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