Praga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Ripellino, un magico prosatore https://www.carmillaonline.com/2024/03/18/ripellino-un-magico-prosatore/ Mon, 18 Mar 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81772 di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui [...]]]> di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui produzione saggistica l’opera più nota è probabilmente Praga magica (1973). Ripellino è sicuramente un magico prosatore, artefice di una scrittura critica evocatrice di dimensioni ‘altre’, una scrittura capace di aprire varchi verso un altrove narrativo e poetico che non può restare imbrigliato nella fredda scrittura critica. Perciò, ogni saggio di questo autore si può leggere come un romanzo o come una poesia, facendo attenzione alle figure di stile e di suono, alle immagini evocate e magicamente rappresentate, come in un rituale sciamanico.

Recentemente è uscito un breve saggio che abbraccia, nei suoi punti essenziali, con attenzione e rigore, l’intera produzione critica e saggistica di Ripellino. Si tratta di Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore di Giuseppe Traina, che per la prima volta distende uno sguardo analitico sulle prose del grande slavista siciliano. Come rende noto l’autore nella premessa, dopo questa analisi della prosa ripelliniana, farà uscire un altro studio dedicato all’opera poetica di Ripellino, dal titolo Autunnale ripelliniano. Adesso, sotto il rigoroso e capace occhio analitico di Traina c’è, appunto, la produzione saggistica dello slavista (che, poi, come vedremo, definire Ripellino semplicemente “slavista” è sicuramente riduttivo): la sua critica letteraria, la sua critica d’arte, la sua scrittura politica, la sua critica teatrale lasciando da parte – poiché sicuramente estrinseca ad un discorso incentrato sulla saggistica – la prosa narrativa di Storie del bosco boemo.

Il viaggio nella prosa critica ripelliniana comincia con il già ricordato Praga magica, vero e proprio capolavoro di Ripellino nonché frutto del lavoro e dello studio di una vita. Non è un caso che Traina abbia scelto come titolo del primo capitolo del suo libro, dedicato a Praga magica, “Il flâneur”. Si tratta infatti di un’opera di viaggio, di movimento, di scoperta incessante della città “vltavina” (cioè attraversata dalla Vltava, la Moldava), per utilizzare una definizione dello stesso Ripellino. È quest’ultimo a definire Praga magica come “un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell’insicurezza e nei mali, con disperàggine e con pentimenti continui, con l’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa” (Einaudi, Torino, 1973, p. 22). Ripellino è un “flâneur” che, con uno sguardo incantato, si muove incessantemente per Praga e ci conduce alla scoperta dei suoi risvolti più magici e misteriosi, dei palazzi antichi e vetusti – quelle “nere casacce streghesche, sorgenti di maleficio” – dell’arte cupa e meravigliosa che si nasconde nei suoi vicoli, delle arcane vetustà e incantamenti del quartiere ebraico, del Golem, di Rodolfo II e dell’Arcimboldo, degli spettri e delle superstizioni, dei percorsi e delle suggestioni kafkiane. Tra l’altro, Franz Kafka (insieme ad altri autori boemi) è uno dei principali protagonisti letterari del libro che, come altri misteriosi e spettrali personaggi, compare preferibilmente di notte (una frase che ricorre diverse volte, nella narrazione di Praga magica, è infatti la seguente: “Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka torna a via Celetná, vestito di nero”). Lo scrittore, nelle magiche pagine ripelliniane, diviene egli stesso un personaggio magico. La penna di Ripellino, muovendosi come un Omero o un Apollonio Rodio, inanella i luoghi come perle sulla collana di parole del poeta – come scrive Bertrand Westphal riguardo alla geografia letteraria delle opere antiche. È il suo sguardo a caricare di senso nuovo ogni angolo di Praga, un senso nuovo dominato dalla sua capacità medianica di incantatore.

Traina, giustamente, sottolinea la pluralità di stili e di registri sottesa alla tessitura del libro: alla melanconia spesso infatti subentra una “felice buffoneria e una «condizione clownesca»”. Né si deve dimenticare che Ripellino è un autore per il quale gioca un ruolo estremamente importante l’immaginario circense legato all’attorialità e alla clownerie, alla dimensione spettacolare in senso positivo. Praga magica – secondo Traina – si configura quindi come “un libro-specchio di straordinaria leggibilità: dove l’estro funambolico di certe pagine e la precisione filologica di altre richiamano strettamente i precedenti risultati della saggistica ripelliniana e le meravigliose poesie delle sue sillogi, agglutinandosi in un’immagine da orafo che è squisitamente praghese e rodolfina”.

Il secondo capitolo, intitolato “Il saggista”, prende in esame due saggi di Ripellino: Il trucco e l’anima, dedicato alla cultura teatrale russa del primo Novecento, e Letteratura come itinerario nel meraviglioso, una raccolta di saggi pervasa da uno straordinario senso di unitarietà. Anche in questi saggi-romanzi (in Ripellino la forma saggio è in continua metamorfosi e si dilata inevitabilmente verso altri lidi narrativi), Traina rileva peculiari tratti stilistici dello studioso e poeta, come l’iperbole lessicale, la ricerca del neologismo e le neoformazioni linguistiche, la predilezione per il “sinonimo anticato, da vocabolario”. Tali peculiarità stilistiche conducono la prosa ripelliniana verso il territorio del “barocco del Novecento”. D’altra parte, in questi saggi si trovano diversi “spiragli stranianti aperti sull’oggi, che possiedono, di volta in volta, una valenza «politica» o morale di stampo benjaminiano che ben appartiene al Ripellino maggiore: al poeta, al saggista, al testimone del tempo che ha vissuto”. L’apertura verso sempre nuovi orizzonti nonché il fastidio per il settorialismo accademico che imbriglia gli studiosi esclusivamente ad una disciplina è espresso nell’Introduzione a Letteratura come itinerario nel meraviglioso dove rivendica l’anti-accademismo del proprio lavoro critico: “Fin dall’inizio la slavistica fu da me concepita come evasione dalla «slavistica» e dalle indagini «specializzate» per pochi savi – come inusitata riserva di tesori poetici e pretesto di comparazioni (Einaudi, Torino, 1968, p. 5). Come chiosa Traina, in queste parole troviamo “la scelta dell’anti-accademismo come contravveleno esistenziale e l’opzione per la slavistica come volano d’una vocazione da comparatista sommo”. Ripellino è stato infatti un “comparatista sommo” che, per poter districarsi nell’intricato (allora sicuramente meno di oggi) mondo accademico, ha dovuto imboccare una via di ‘specializzazione’.

Il capitolo successivo di Primaverile ripelliniano è dedicato al “critico delle arti visive” e viene quindi analizzata la raccolta di saggi dal titolo Il sogno dell’orologiaio, curata da Alfredo Nicastri nel 2003. Anche i saggi di critica d’arte sono pervasi della magia lessicale e stilistica che avvolge le parole del Ripellino critico letterario: un ingrediente “inconfondibile” che, in questo caso, “rivela particolarità retoriche, sintattiche e prosodiche che lo arricchiscono”. Anche da un punto di vista tematico e contenutistico, lo studioso utilizza spesso le opere d’arte analizzate come uno specchio nel quale rivedere ciò che gli sta più a cuore come, ad esempio, nel caso di Paul Klee: “Nelle opere di Klee Ripellino ritrovava uno specchio delle proprie predilezioni: la presenza dell’opera buffa, della clownerie, del teatro, anche di marionette”. Un articolo dedicato a Chagall, invece, ripropone un andamento diaristico ed autobiografico caro allo studioso. Qui, Ripellino passa con straordinaria disinvoltura dal ‘fuori’ al ‘dentro’ di un quadro del pittore russo: come scrive Traina, “la descrizione della folla che s’assiepa alla mostra trapassa analogicamente nell’ecfrasi della folla che popola i dipinti di Chagall”. Ripellino critico d’arte – pensando che l’arte sia inscindibile dalla letteratura – diviene poi anche poeta e inserisce nei suoi excursus critici delle poesie dedicate ai suoi amici artisti Dorazio e Perilli.

A chiudere il saggio di Giuseppe Traina incontriamo un capitolo dal titolo “Il reporter”, dedicato agli articoli raccolti prima in I fatti di Praga e poi in L’ora di Praga, nei quali è possibili incontrare di nuovo lo stile inconfondibile del Ripellino “saggista-poeta e poeta tout court”. Ripellino, qui, seguendo l’urgenza dei fatti praghesi da raccontare nei mesi del 1968, adotta la forma del reportage: rapida, disinvolta, dominata più dai fatti che dalle parole. Sono articoli redatti per “L’Espresso” nei mesi precedenti e immediatamente successivi l’agosto 1968, quando giunsero a Praga i carri armati sovietici. La rabbia e il dolore, negli articoli successivi all’agosto – come scrive Traina – sembrano stemperarsi “in un sentimento più tipico di Ripellino, in una malinconia struggente di cui sente, sia pure a distanza, il riverbero nell’azione residua dei suoi amici praghesi, almeno di quelli che sono rimasti, che non sono riparati in esilio”.

Dulcis in fundo, Primaverile ripelliniano è arricchito da una postfazione di Luigi Weber dal titolo “Necessità di Ripellino”, in cui lo studioso ribadisce la necessità, oggi, di un saggio critico su Ripellino prosatore; un vuoto ben riempito, appunto, dal volume di Traina. Weber sottolinea poi l’importanza ancora maggiore di questo studio poiché va a colmare anche il vuoto dato dalla mancanza di studi critici sulla saggistica e, nella fattispecie, sulla grande saggistica italiana contemporanea. Allora, a fianco di Ripellino possiamo ricordare, fra gli altri, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, Cristina Campo, Piero Camporesi, Carlo Ginzburg, dei quali viene tracciato un quadro delle opere più significative. Perché la critica “è l’esercizio più prossimo alla fantasia” e si trova nella libertà straordinaria di penetrare il reale e consegnarlo alla complessità. La critica e la saggistica letteraria, cinematografica, teatrale, artistica dischiudono mondi e immaginari liberati e ciò vale soprattutto per Angelo Maria Ripellino, che scriveva una pagina critica nello stesso modo in cui scriveva una poesia o un racconto. Perché la critica dovrebbe essere sempre creatività, arte, libero immaginario e meno che mai mero esercizio accademico.

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Un divertissement (anti)complottista https://www.carmillaonline.com/2021/05/05/un-divertissement-anticomplottistico/ Wed, 05 May 2021 20:42:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65964 di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

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di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

Il testo in questione è Pandemonium di Diego Gabutti, edito da Longanesi nella collana La Gaja scienza, da tempo dimenticato ma ancora facilmente reperibile nel mercato dei libri usati, e oggi, a detta dello stesso, neppure troppo amato dall’autore.
Eppure, come al solito, eppure…
Un testo che riesce a mettere insieme Aleister Crowley, la P2, i servizi segreti italiani “deviati”, Satana in persona (ma soltanto nei sogni dei personaggi principali), brigatisti pentiti, baroni siciliani cornuti, magia sexualis e ricerca dell’homunculus è ancora degno di un’occhiata, magari anche attenta.

Si era agli albori dell’uso delle reti, o rete qual dir si voglia, attraverso l’utilizzo di BBS (Bulletin Boatd System)1, in cui già l’autore individuava la sciagurata possibilità di produrre informazioni incontrollate e bufale a go-go (perché poi oggi si preferisca l’anglicizzante fake news all’italianissimo, e soprattutto evidentissimo nel significato, bufale, è una questione ancora tutta da chiarire).

Un autentico oceano in cui nuotano enormi cazzate mescolate a notizie vere, fasulle, presunte, controllate ed incontrollate (che, in fin dei conti possono reciprocamente rovesciarsi nelle une o nelle altre). Uno stagno per la pesca degli scemi (soggetti ideali sia come pescatori che come pesci), un mare in cui scatenare la fantasia degli agenti dei servizi per comunicare tra di loro oppure per creare eventi improbabili, ma parzialmente credibili oppure assolutamente incredibili, ma luccicanti come oro per i tordi di turno. Che spesso si accodano convinti di svolger un qualche ruolo significativo ai confini di un mondo sospeso in permanenza tra realtà, magia e politica: quello dell’eterno complotto.

Insomma il regno dell’impostura globalizzata in cui ogni impostore, cosciente o meno di esserlo, sogna e immagina di giocare un ruolo significativo nel gran ballo delle balle.
Una enorme commedia degli equivoci in cui, se non ci andassero di mezzo gli innocenti veri (nel caso di Pandemonium delle giovani prostitute uccise o, meglio, sacrificate, per fini oscuri e irrealizzabili, nella realtà le vittime di attentati e violenze indiscriminate giustificate spesso da visioni del mondo reazionarie e folli) ci sarebbe soltanto da sbellicarsi dalle risate (così come capita per gran parte delle lettura del libro).

Il big complotto in questo caso si vorrebbe cosmico, universale, capace di rifondare il mondo e sostituire il suo signore e creatore con un altro, magari dotato, quest’ultimo, di corna, zoccoli, attributi di ambigue dimensioni e demonietti irrispettosi e burloni di contorno. Esoterismo e magia si snodano tra la Sicilia, Milano e Torino. Città, quest’ultima, dove fino ad un decennio or sono era possibile trovare numerose librerie dedite esclusivamente all’argomento; tutte dai nomi improbabili e memori del mito della città magica per eccellenza al centro dei triangoli bianchi e neri (come la maglia della squadra foraggiata dalla ex-FIAT) che attraverserebbero ancora l’Europa tra Lione e Praga, l’est e l’ovest come un Treno ad Alta Velocità del potere e della Grande Bestia.

C’è da ridere, ma anche da piangere, come quasi sempre capita, nel pensare alla serietà con cui i media ufficiali, autentici produttori di fake news ad oltranza si dedicano oggi al disvelamento delle fake news non autorizzate dalle veline di Stato. Un’autentica caccia alle streghe messa in opera da stregoni che in questo modo rendono tutte le bufale degne di attenzione.

Così, dopo aver letto il romanzetto e riflettuto sull’oggi e le sue scie chimiche circondate da manovre per ridurre la popolazione bianca schiava di quelle di altri colori oppure sul negazionismo vero sprofondato in un uso fin troppo spregiudicato del termine per demonizzare qualsiasi avversario delle verità “di Stato”, sorge spontaneo un altro dubbio: il complottismo è davvero soltanto di destra? Oppure anche questa è soltanto un’altra fake news, sorta in un territorio in cui Giorgio Gaber (cos’è di destra, cos’è di sinistra) avrebbe sguazzato ridendo con Enzo Jannacci?

In un territorio dell’immaginario dove la cabala della finanza finge di saper quali sono le soluzioni migliori per il destino del mondo e la scienza si trasforma in esoterismo in nome del profitto; Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (destra) si incrocia con i segreti cosmici di Peter Kolosimo (sinistra) e dove l’inossidabile Gianni Flamini (sinistra “democratica”), con i suoi eterni studi sull’abilità dei servizi “infedeli” di controllare quasi ogni evento della storia italiana recente, in particolare la lotta armata, e soprattutto senza mai prendere in considerazione il fatto che i servizi possano essere, in realtà, “fedelissimi” e proprio per questo motivo agiscano così come hanno fatto e continuano a fare, incrocia la penna in un duello infinito con i convinti assertori delle presenza dei Visitors (destra fantascientificamente “fessa”) nelle sfere del potere mondiale, non ci sarebbe forse soltanto da sbellicarsi dalle risate?

E invece no, poiché ancora troppo spesso coloro che si pensano investiti di un occulto dovere di informazione oltre che dotati di un’innata verbosità, ritengono necessario rendere tutto ciò noiosamente serio, quasi a voler rilanciare, più ancora che a soffocare, il discorso complottistico e la sua diffusione in rete e oltre, contribuendo così ulteriormente allo spostamento dell’attenzione dalla necessaria e radicale negazione della dominante narrazione tossica dell’esistente finalizzata alla difesa ad ogni costo (anche quello di cadere ripetutamente nel ridicolo, come accade in questi giorni di fallimenti presentati come trionfi della scienza e della politica) del modo di produzione attuale.

Allora meglio seguire le vicende di un romanzo che si snoda tra gli anni Venti e gli anni Novanta, tra orge nei cimiteri siciliani, esperimenti per la cattura dell’energia orgonica di reichiana memoria all’interno di bordelli più o meno di lusso, riti massonici celebrati da personaggi incappucciati ma privi di mutande, agenti segreti in combutta con brigatisti esoterici sulle cui tracce sono altri ex-prigionieri politici in cerca di vendetta, in una girandola narrativa in cui tutti coloro che risultano infoiati dal desiderio di potere politico, economico, magico e religioso vengono definitivamente messi alla berlina.
Poiché non potrà essere nient’altro che una risata a seppellirli tutti insieme e definitivamente.


  1. Si tratta di un sistema telematico che consentiva a computer remoti di accedere ad un elaboratore centrale per condividere o prelevare risorse. Il sistema era stato sviluppato negli anni settanta e ha costituito il fulcro delle prime comunicazioni telematiche amatoriali. Tra le novità consentite dai sistemi BBS, le principali furono la messaggistica e file sharing centralizzato  

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Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri https://www.carmillaonline.com/2019/04/26/qualcosa-di-meglio-biografia-partigiana-di-otello-palmieri/ Thu, 25 Apr 2019 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52257 di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico [...]]]> di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico Pontieri, hanno incontrato Otello Palmieri e attraverso le conversazioni, le fotografie e i ricordi si sono immersi, con il benestare del protagonista, nella sua vita rocambolesca. Si sono così ritrovati a combattere i fascisti, a scappare dall’Emilia alla Cecoslovacchia incolpati dell’uccisione dell’oste fascista di Oliveto, a migrare in Svizzera per sbarcare il lunario e in molte altre storie personali e collettive.. in un gioco di specchi tra passato e presente, politica e sopravvivenza, che solo all’apparenza può sembrare anacronistico. Chi è nei dintorni non perda l’occasione di ascoltare le storie di Otello e chiedere ad Alfredo ed Enrico perché storie come queste dovrebbero essere raccontate. Intanto, a seguire, un assaggio del loro lavoro. ss].


Crespellano, sabato 4 marzo 2017, mattina

Otello è titubante, restio. «Io penso che è già tardi… ai giovani non c’interessa più!». Rincara: «sono cose che io penso che non interessano più alla gente». Ecco, pensiamo noi, ci siamo di nuovo. Il novantenne che ha fatto il partigiano, la ferocia che si tramuta in febbre del fare, la Repubblica e la Costituzione, i giovani che non capiscono. Un copione già scritto. Forse. Ma intanto oscilla, apre qualche spiraglio: «le sapevo raccontare meglio», invece adesso la memoria, dice lui, non lo supporta più e «non vorrei che perdeste del tempo per niente». Sorridiamo e pensiamo a una prima domanda per rompere il ghiaccio. Come se non aspettasse altro, però, Otello inizia a raccontare senza preamboli e senza aspettare le domande. Riprende i fili di un discorso interrotto anni e anni fa. La sua è la storia di «quelli che erano incolpati per i fatti del-del-del… di Togliatti! Quando hanno attentato a Togliatti». Sembra un messaggio in codice, il suo modo di mettere le carte in tavola: sono uno che non sta lì a girarci intorno. E noi giù di penna, quasi mandiamo di traverso il caffè per trattenere qualcosa del suo slancio.

Altro che novantenne, ci diciamo con uno sguardo, questo qui va spedito.

Gli appunti si riempiono di righe frettolose, sigle, segni e numeri storti. Un enorme punto di domanda campeggia accanto alla scritta «14 luglio 1948». Quella mattina Antonio Pallante si presentò all’uscita di Montecitorio ed esplose quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista e punto di riferimento quasi indiscusso per chiunque avesse qualcosa per cui battersi. Per la base, e forse anche per i dirigenti, era «il Migliore». Dalle risaie e dai campi occupati per protesta e necessità a lui s’intonava, riadattato, un vecchio canto di lotta: L’Italia l’è malada / Togliatti l’è ’l dutùr. È per questo che quando si diffuse la notizia che Ercoli era più morto che vivo, lo sciopero fu la risposta immediata. Generale, spontaneo, rincorso dal sindacato. Di quelli che basta un niente per fare l’insurrezione. I giorni seguenti furono fra i più incandescenti della storia repubblicana, ma è chiaro che la pentola bolliva da un pezzo e le revolverate di Pallante non furono altro che un modo per sbarazzarsi del coperchio.

Una lunga freccia solca tutto il foglio e termina sulla parola: «Praga». Dal resto s’intuisce però che parliamo della fuga, non tanto della meta. L’espatrio suo, di Filippo e di Ivo – ma anche, scopriamo, di tale Nardi di Borgo Panigale – è ridotto a una sequenza di pallini ripassati una, due, tre volte. Primo «la Bastèrda (bosco vicino a Oliveto – andarci con Mario)», secondo «la Muffa», quindi «Portonovo (Medicina)», poi «via Fiume 15, Bolzano» e infine «San Candido (Dolomiti)».

Tornano e si moltiplicano i punti interrogativi: «Attentato a Togliatti – Bologna??». Siamo perplessi, è evidente. Sentirlo insistere sul 14 luglio ci sembra strano. Che la febbre dell’insurrezione abbia colpito anche le colline bolognesi? E tutti quei libri che ci spiegano che qui il partito è sempre stato il primo della classe, allineato, fatto di militanti disciplinati e quadri lungimiranti? Non erano quelli delle feste dell’Unità, della “falce e tortello”? Mica è l’Amiata!, sussurriamo appena, mica son le fabbriche milanesi, ma non osiamo interrompere. Il flusso di annotazioni sovverte le leggi della cronologia, gli stessi eventi tornano con una circolarità bizzarra, inspiegabile. […]

Otello è un fiume in piena. Regala frammenti, aneddoti, battute. Esplode in risate inaspettate, soprattutto raccontando delle volte in cui sarebbe dovuto morire e non è morto, durante la guerra, sempre col ritornello «e anche lì son stato fortunato». I suoi ricordi si accavallano a quelli di Mario, che ricompone i pezzi dei racconti di suo padre, o a Fabrizio che ci spiega la sua idea del libro che sarà. Noi per lo più ascoltiamo, una parola ogni tanto, a metà fra la voglia di entrare in confidenza e quella di vestire i panni dei professionisti. Dopotutto il progetto è solo abbozzato e a giocarsi male la prima impressione si fa presto.

L’ora che segue è un concentrato di tutte le storie che avremmo ascoltato in un mese di incontri, caffè e registratori. Ne emergono appena tratteggiati i contorni, si va formando una mappa di luoghi e spostamenti, sempre rocamboleschi. Man mano i toponimi si fanno oscuri e le due versioni di appunti sono più un intralcio che un’astuzia. Confini attraversati sempre di notte e sempre a piedi, passaggi in moto da una casa di compagni all’altra, paesi frammentati in zone d’occupazione. E poi uomini cui affidarsi sulla base di curiosi segni di riconoscimento, polizie occhiute che interrogano e controllano. In fondo al tunnel, České Budějovice e, finalmente, Praga. Lì c’è la scuola di partito, il lavoro agricolo delle “brigate”. Poi, i modernissimi impianti al confine con la Germania. Da Bologna notizie poco rassicuranti, il processo in stallo e gli «avversari» sempre pronti a screditare: «sono andati a rubare in qualche posto – a me, me l’ha scritto mia mamma perché io ero già in Cecoslovacchia – [e] un signore che abitava a Oliveto, al gîva par al paäiṡ: “Ah, ma i an da magnêr quî ch’i îran là int la Bastèrda[1]», dovranno pur mangiare quelli nascosti nel bosco, «la gente a Oliveto ci credeva […] banditi». E soprattutto li credeva a due passi da casa, nei rifugi partigiani.

Quelli, invece, stavano oltrecortina.

Spuntano finalmente le due valigie da dietro al mobile. Le sbirciavamo con la coda dell’occhio dal nostro arrivo, senza azzardarci a chiedere. Otello non ne è geloso, le apre e sparpaglia il contenuto sul tavolo. Saltano fuori i quaderni, pagine fitte con gli accenti sulle consonanti, testi brevi e termini copiati in sequenza, qualche disegno geometrico. «1953» si legge sull’etichetta sbiadita di un quaderno nero. Ci fiondiamo a sfogliarlo, magari troviamo qualcosa del 5 marzo. Cinque tre cinquantatré, il giorno in cui i comunisti di tutto il mondo piansero la scomparsa di Iosif Vissarionovič Džugašvili, al secolo Stalin.

Ma Otello è preso da altro. Legge, commenta, precisa i ricordi, aggiunge particolari e traduce all’impronta dal ceco. «Lavoro individuale, vedi? Se lo devo dire [non riesco], però se lo vedo scritto…» e ride. «È una lingua difficilissima, ci sono due-tre consonanti insieme» e non si sa come pronunciarle. Per impararla, quelli con la quinta elementare come lui avevano dovuto ripartire dalla grammatica italiana, riprendere la mano con gli esercizi. Ed è così che lui ha contratto la malattia della lettura e oggi legge tutto ciò che gli capita a tiro, come allora girovagava per Praga in cerca di biblioteche e vecchi volumi nella lingua ritrovata. A Bolzano, da fuggiasco, scoprì la Commedia, versi d’esilio che hanno percorso i secoli per acciuffarlo poco prima che passasse la frontiera. Le valigie riportano a galla i libri, per lo più manuali e qualche romanzo. Volumi che venivano «da casa», arrivati dall’Italia dentro plichi e doppifondi che i dirigenti di Botteghe Oscure, o i connazionali col passaporto in regola, recapitavano all’ufficio di via Opletalova, appena dietro piazza San Venceslao.

Casa. Passa mai la voglia di tornare a casa? Forse sì. Quando si va nel socialismo realizzato, quando si tocca con mano l’eden. «A dire che si era comunisti, noi eravamo orgogliosi, perché eravamo in un paese… quello che volevamo noi secondo il nostro…» e al diavolo se «invece non era così», se «non era il paradiso che pensavamo noi»! Comunque meglio dei processi ai partigiani e dei fascisti liberi di riprendere le posizioni di un tempo.

O no?

Certo Oliveto, o Bologna che sia, è qualcosa di diverso, è casa. E allora quando gli dicono che il processo è chiuso, lui non esita: «voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar[2]… la mia ragazza». Ci guarda e ride. Ma certo, come si fa a non capire? Meglio il buongoverno del sindaco Dozza a casa tua che una vita di sradicamento sotto il Patto di Varsavia. Ma allora perché nel ’54 non fa in tempo a tornarci, in quella casa, che se ne va in Svizzera?

Mario insiste sulle relazioni forti che legano i partigiani fra loro e alla loro terra, ci suggerisce l’inevitabilità del ritorno anche per chi ha scelto di invecchiare altrove. «Sì, sì…», fa Otello, «io sono rimasto legato qui, sennò non sarei tornato». Quindi la Svizzera è ancora meglio del Pci e di Giuseppe Stalin? cosa sta cercando di dirci?

[…]

Arriva il momento di salutarci e siamo frastornati. Una matassa di appunti fitti ma ci sembra di non capire nulla. Scorgiamo almeno tre vite – la lotta armata partigiana, l’esilio oltrecortina e l’emigrazione nel bernese – che solo in parte si spiegano l’un l’altra. […] Otello legge, impara, scrive, torna, si sposa, riparte, affronta un lutto terribile. Otello sceglie. E questa storia dell’esilio accettato con muta rassegnazione non convince, elude tutte le domande che affollano i nostri pensieri. È probabile che sappia, ma il suo non è martirio, questo è chiaro. Otello tirava (tira?) dritto, credeva (crede?), è determinato. Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti, ripeteva. Ma che c’entra il 14 luglio 1948 con l’uccisione di Mignani, più vecchia di quasi tre anni? Quello che ci sembrava un classico regolamento di conti con gli (ex?) fascisti perde centralità nel suo racconto, scolora di fronte al resto. Come lo spieghiamo nel libro?

«Non lo so» fa uno di noi due.

«Sarà il caso di tornare su a Crespellano a chiederglielo» fa l’altro mentre ci fiondiamo sulla provinciale in direzione est.

[1]     Diceva per il paese: “Ah, ma devono mangiare quelli, che saranno là, alla Bastèrda”.

[2]     Voglio andare a trovare mio padre e mia madre.

]]> Heda Margolius Kovály: autobiografia, memoria e storia del Novecento https://www.carmillaonline.com/2017/07/27/heda-margolius-kovaly-autobiografia-memoria-e-storia-del-novecento/ Wed, 26 Jul 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39591 di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E [...]]]> di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E con una prosa precisa ed uno stile asciutto che denotano rigore ed estrema lucidità di pensiero Heda Bloch – Margolius e Kovály sono i cognomi dei due mariti – narra le vicende autobiografiche vissute tra il 1941 e il 1968, nel cuore dell’Europa – a Praga – e a metà di quel “secolo di ferro” che è stato il Novecento. Si tratta di uno di quei casi in cui gli avvenimenti e gli episodi di una esistenza individuale e privata diventano un tutt’uno con i fatti e gli eventi universali e collettivi della Storia, che travolgono i primi come un tragico ed ineluttabile destino di ingiustizia, di dolore e di morte che è impossibile contrastare.

Heda Bloch nasce in una famiglia di praghesi ebrei nel 1919 ed è poco più che ventenne quando nel 1941 ha inizio la deportazione degli ebrei cecoslovacchi verso i ghetti prima e i centri di sterminio poi nella vicina Polonia. Ne ha invece poco più di trenta nel 1952, quando il marito – Rudolf Margolius, viceministro al Commercio estero del governo comunista della Repubblica cecoslovacca di Klement Gottwald – viene giustiziato poiché coinvolto nel caso Ślanský, quel processo farsa che con metodi pedissequamente stalinisti epurò il partito comunista cecoslovacco e ne eliminò importanti esponenti, quasi tutti ebrei. Infine di anni Heda ne avrà quarantanove quando nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia e il crollo delle speranze riposte nella Primavera praghese, abbandona il paese per recarsi in esilio negli Stati Uniti.

Sono queste le coordinate temporali che delimitano il periodo storico che Heda Margolius Kovály ricostruisce secondo la prospettiva della narrazione autobiografica, ed è a Praga, cioè in una città e in un paese per eccellenza mitteleuropei, che tutta la violenza di cui il XX secolo è stato capace si concentra e si scatena: ad un totalitarismo se ne sostituisce un altro, quasi senza soluzione di continuità e all’invasione, all’occupazione e ai crimini nazisti seguono il colpo di stato, l’occupazione, l’invasione e i crimini stalinisti e sovietici più in generale.

Quello che l’autrice offre al lettore con questo prezioso racconto autobiografico, pubblicato per la prima volta in Canada nel 1973 ed ora tradotto in italiano da Adelphi, è uno spaccato dell’Europa tra il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda e al tempo stesso è un’acuta e profonda riflessione sul totalitarismo, sulle sue costanti strutturali e soprattutto sulle sue conseguenze, che si ripercuotono sulle esistenze individuali e collettive, private e sociali e che si manifestano nella soppressione della libertà, nello stravolgimento della verità e nella violazione della dignità e della vita umane.

Per un regime totalitario non è difficile mantenere la gente nell’ignoranza. Non appena rinunci alla libertà – per “implicita necessità”, per disciplina di partito, per conformità al regime, per la grandezza e la gloria della Patria, o per qualunque altro dei surrogati offerto in modo tanto convincente – ti privi del diritto alla verità. La tua vita comincia a scorrere via adagio, goccia dopo goccia, come si ti fossi tagliato le vene; ti sei volontariamente condannato all’impotenza (p. 16).

Nel 1941 le autorità tedesche del Protettorato di Boemia e Moravia ordinano la deportazione in massa degli ebrei praghesi e la famiglia Bloch viene inviata in Polonia, nel ghetto di Łódź, di cui la scrittrice fornisce una descrizione scarna, fatta di immagini dure e ruvide, che al meglio rappresentano la violenza e la disperazione della non-vita in un ghetto, a cui fa seguito una tappa ancora peggiore verso l’annientamento dell’umano progettato dai nazisti, cioè la deportazione ad Auschwitz, dove l’intera famiglia Bloch trova la morte, eccezion fatta per Heda, che, dopo un periodo di lavoro in un altro campo e presso una fabbrica di mattoni, viene destinata al trasferimento a Bergen Belsen, quando ha inizio lo smantellamento dei grandi lager a Est, in seguito all’avvicinamento della linea del fronte e dell’Armata Rossa. È proprio in occasione di questa “marcia della morte” che Heda, insieme ad alcune compagne, tenta l’impensabile e l’impossibile: la fuga e il ritorno a Praga.

A spingere le fuggitive non è solo l’istinto di sopravvivenza, che nonostante tutte le brutalità subite non è stato ancora sopraffatto dalla rassegnazione alla morte, ma è anche e forse soprattutto il desiderio intenso di rivivere, fosse anche solo per un breve momento, la sensazione di essere libere, cioè esseri umani capaci di autodeterminarsi, di scegliere. È una fuga verso la libertà e per la riconquista di quella dignità umana che il ghetto prima e il campo poi avevano loro negato. Ed il ritorno a Praga, dopo pericoli e difficoltà inimmaginabili, in una città cioè ancora nelle mani delle forze di occupazione e della Gestapo che le dà la caccia, mette Heda Margolius Kovály da un lato nella condizione di sentirsi di nuovo un essere umano, «una donna con un passato e un futuro» (p. 31), ma dall’altro la indirizza verso una via crucis fatta di nascondigli improvvisati, della paura di essere catturata o denunciata e dello spaesamento causato dal ritorno alla vita libera e alla sua città dopo anni nei quali era stato come se avesse (non)vissuto in un (non)mondo a parte che difficilmente gli altri avrebbero potuto capire o anche solo immaginare.

Ma ciò che più sconvolge l’autrice e turba il lettore è l’esperienza della codardia e della fredda indifferenza dei conoscenti e anche degli amici di un tempo, che – chi per paura, chi per insensibilità, chi mostrando addirittura disappunto dinanzi alla ricomparsa di chi credeva morto – più o meno garbatamente chiudono la porta in faccia all’ebrea fuggita dal campo, all’appestata da evitare a tutti i costi. Sono proprio queste le pagine più incisive e più riuscite della prima parte del libro, pagine che vedono la protagonista errare per la città, col rischio di essere catturata, alla ricerca di qualche amico del passato che sia disposto ad aiutarla. Negli occhi di quasi tutti, e non solo di quelli che le chiudono la porta in faccia, Heda coglie un insieme di spavento, stupore, incredulità, come se costoro si trovassero di fronte ad un essere alieno, ad una donna tornata dal regno dei morti. Ed in effetti ella, come gli altri ebrei deportati, per quattro anni ha fatto parte di un altro mondo, di un non-mondo fisicamente vicino, ma ontologicamente lontanissimo, in quanto destinato al non-essere, all’annientamento non solo dell’esistenza dell’uomo, ma anche della sua essenza, in altri termini un mondo collocato in un altrove infernale dal quale nessuno avrebbe dovuto fare ritorno.

L’epifania di un volto noto, ma quasi reso irriconoscibile dalle brutalità sofferte nel lager, agisce come un potentissimo richiamo alla coscienza di ognuno, inchiodata a fare i conti con se stessa e con il proprio senso di colpa. Pertanto non solo la paura di essere accusati dalla Gestapo di complicità con una ebrea fuggiasca, ma forse ancor di più l’imbarazzo di fronte alla cruda verità che si presenta con i lineamenti di un volto femminile stravolto dalla deportazione ad Auschwitz, immobilizzano molti degli amici e dei conoscenti del passato, che non vogliono, non possono, non riescono ad aiutare una donna in fuga dalla disumanità e alla disperata ricerca di prove che attestino che nonostante tutto l’umanità sia ancora possibile.

Scrive l’autrice: «mi toccava fare i conti con un nemico peggiore: la paura e l’indifferenza degli uomini. […] cercavo un essere umano nel quale l’umanità si dimostrasse più grande della paura» (p. 34).

E proprio perché spaesata, disorientata e isolata in quella città tanto amata e altrettanto vagheggiata durante la prigionia, Heda prende la decisione, l’unica possibile, di cercare rifugio all’interno della Resistenza, di lottare per la propria sopravvivenza combattendo il nemico. Una scelta fatta e per necessità e per considerazioni quasi più etiche che propriamente politiche. Sono la ricerca dell’umano dopo aver sperimentato la disumanità e la volontà di agire come donna libera e cosciente della propria dignità che inducono Heda alla militanza partigiana, ben più della coscienza politica o dell’adesione convinta agli ideali del socialismo e del marxismo.

Finalmente la primavera del 1945 porta con sé anche la vittoria, la liberazione dal nazismo e il ritorno a Praga di Rudolf Margolius, marito di Heda dal 1939, anche lui deportato prima a Łódź, poi ad Auschwitz e a Dachau, da cui era riuscito a fuggire. La pace sembra riportare nella vita di Heda la possibilità della felicità dopo gli abissi del dolore, ma la realtà sin da subito si dimostra tutt’altro che facile.

Due mesi dopo la liberazione, gli applausi e gli abbracci erano finiti. La gente non regalava più cibo e vestiti, ma li vendeva sul mercato nero. Coloro che si erano compromessi durante l’occupazione cominciarono a calcolare e a tramare, a controllarsi e a spiarsi a vicenda, a coprire le proprie tracce, ansiosi di mettere al sicuro le proprietà acquisite grazie alla collaborazione con i tedeschi, alla viltà e alle denunce, oppure saccheggiando le case degli ebrei deportati. Ben presto il senso di colpa e la paura della punizione generarono odio e sospetti contro le vere vittime dell’occupazione: gli oppositori attivi e passivi, i partigiani, gli ebrei e i prigionieri politici, le persone oneste che avevano resistito alle persecuzioni senza tradire i propri principi. Gli innocenti diventarono un rimprovero vivente e una potenziale minaccia per i colpevoli (p. 62).

Sono mesi ed anni al contempo molto difficili ed entusiasmanti quelli immediatamente successivi al 1945: la Cecoslovacchia ritorna ad essere una repubblica indipendente e sovrana, un intero paese ed un’intera società sono da ricostruire, da reimpostare su nuove e migliori fondamenta. Il piccolo appartamento che viene assegnato ai Margolius si riempie quasi tutte le sere di amici e conoscenti che discutono di politica, di democrazia, di socialismo, di comunismo, della guerra, degli errori del passato, dei limiti del modello liberal-democratico e delle nuove speranze e prospettive proposte dal socialismo, dell’Unione Sovietica come paese amico ed alleato. La scelta comunista di Rudolf Margolius è anteriore e molto più convinta di quella della moglie, che alla fine, nonostante molte perplessità, si iscrive al Partito per amore del marito e fiducia assoluta nella bontà delle sue idee e per considerazioni – ancora una volta – di ordine morale più che politico. Il crollo del mondo del passato e dei suoi valori dimostratisi fallimentari, la volontà di non rassegnarsi alla malvagità e alla meschinità della natura umana e di credere che nonostante tutto sia possibile lavorare per una società libera, giusta, uguale portano anche Heda a seguire il marito all’interno del Partito comunista.

A quel tempo i comunisti continuavano a sottolineare le basi scientifiche della loro ideologia, ma io so che la strada che portò molti cecoslovacchi tra le loro file era lastricata di forti e buone emozioni (p. 68).

Emozioni, appunto, passioni, sentimenti o impressioni, come quelle suscitate dal comportamento dei comunisti all’interno dei lager e che la scrittrice così ricorda:

Il nostro condizionamento rivoluzionario era cominciato nei campi di concentramento. Forse eravamo rimasti particolarmente colpiti dall’esempio dei nostri compagni di prigionia, comunisti che spesso si comportavano come esseri superiori. L’idealismo e la disciplina di partito conferiva loro una forza e una resistenza che nessun altro poteva eguagliare; sembravano soldati ben addestrati in mezzo a una folla di bambini. […] Nei campi di concentramento si era creato un forte senso di solidarietà, l’idea che il destino di ciascun individuo fosse in ogni modo legato al destino del gruppo, sia che si trattasse del gruppo di prigionieri, dell’intera nazione o di tutta l’umanità (p. 70-71).

Ma l’esperienza del lager risulta fondamentale, secondo le acute analisi dell’autrice, anche per comprendere quella predisposizione psicologico-emotiva riguardo al diritto e al concetto di libertà che contribuì a far sì che molti, in quelle particolari circostanze, quasi inconsapevolmente compissero passi sempre più decisi vero una nuova, una seconda, dittatura.

Gli anni di prigionia ebbero un altro effetto paradossale. Per quanto desiderassimo essere liberi, il nostro concetto di libertà era cambiato. Rinchiusi dietro il filo spinato, privati di ogni diritto, compreso quello alla vita avevamo smesso di considerare la libertà come qualcosa di naturale e assiomatico […] Di solito il ragionamento era più o meno questo: se per costruire una nuova società è necessario rinunciare momentaneamente alla libertà, subordinare qualcosa che amo a una causa in cui credo con forza, sono disposto a fare questo sacrificio. […] Questa vocazione al martirio era più forte di quanto generalmente si pensasse (p. 71-72).

E proprio il dogmatismo, la richiesta da parte del Partito di un atteggiamento quasi fideistico e religioso, la riduzione del marxismo a facile formulario di risposte semplici a problemi complessi sono gli aspetti della militanza nel partito comunista, ancor prima del colpo di stato sovietico del 1948, che sconcertano maggiormente Heda Margolius, in quanto, come sperimenterà personalmente, «un sistema politico che non può funzionare senza martiri è un sistema guasto e distruttivo» (p. 73).

Prima di quello che sarebbe poi stato definito il “Febbraio vittorioso”, cioè il golpe sovietico, in Cecoslovacchia molti comunisti credono ancora che potranno liberamente scegliere la propria via nazionale verso il socialismo e si guarda con maggiore interesse alla Jugoslavia di Tito che all’Urss di Stalin, ma il 1948 pone una pesante pietra tombale su queste speranze ed ha inizio una seconda, lunga, dura dittatura totalitaria che trasforma la Repubblica cecoslovacca in un satellite, uno dei più fedeli, del sistema staliniano. L’intero paese, le sue istituzioni, la sua economia, la sua società vengono sovietizzati e tutto il potere è esercitato in modo assoluto dal monolitico e burocratico Partito comunista di Klement Gottwald: era così nata una nuova Cecoslovacchia in cui «contavano solo la coscienza di classe e le origini di classe, l’atteggiamento verso il Nuovo Ordine e, soprattutto, la devozione all’Unione Sovietica» (p. 103).

Rudolf Margolius di quel sistema e di quel governo diviene parte integrante, sale di posizioni nel partito e diventa viceministro al commercio estero, impegnandosi a fondo in un’attività politica in cui ancora crede convintamente, ma al tempo stesso trasformandosi in ingranaggio di un gigantesco e centralistico sistema burocratico statale-partitico che è sempre più chiuso su se stesso e lontano dalla società, dal mondo del lavoro, dal paese reale, sui quali però con le proprie decisioni e pianificazioni politiche incide pesantemente.

Molto più tardi sarei arrivata a chiedermi se non facessero apposta ad assegnargli un carico di lavoro così folle: chiunque occupasse un posto di responsabilità nel governo non aveva un momento libero per controllare l’effetto del suo lavoro sulla vita quotidiana delle persone. I funzionari del governo e del Partito socializzavano solo tra di loro; si vedevano solo tra loro a conferenze, incontri e assemblee; giudicavano lo stato del paese basandosi solo su relazioni e documenti ufficiali, spesso insensati o del tutto falsi (p. 101).

Col passare degli anni e il radicamento del sistema stalinista le cose continuano a peggiorare, iniziano la repressione poliziesca, le persecuzioni nei confronti dei presunti nemici e sabotatori del socialismo e delle spie al soldo dell’Occidente, gli arresti indiscriminati, anche di persone del tutto insospettabili, i processi dagli esiti già scritti e che irrimediabilmente si concludono con una confessione piena dell’imputato, di conseguenza condannato come nemico del popolo.

Alla fine non dicevamo più niente. La nostra unica reazione era un silenzio attonito, terrorizzato. Solo allora alcuni cominciarono a capire che eravamo sì vittime di un complotto, ma non organizzato dall’Occidente. […] Più il Partito si sforzava di dipingere un’immagine dignitosa e benevola dell’Uomo, meno gli uomini in carne e ossa contavano qualcosa nella società. Più la nostra vita appariva prospera e felice sulle pagine dei giornali, più era triste nella realtà. La crisi degli alloggi divenne disperata. […] Davanti ai negozi c’erano code infinite; mancavano quasi tutti i generi di prima necessità. […] Le imprese nazionalizzate andavano a rotoli. […] Nel 1951 persino l’ottimismo di Rudolf era ormai scomparso, sostituito da un’autopunitiva dedizione al lavoro (p. 109 -111).

Ma il momento peggiore per i Margolius è certamente rappresentato dall’anno 1952, quando in Cecoslovacchia va in scena un “processo farsa” staliniano da manuale: il “processo Ślanský” e cioè un caso di epurazione interna al partito e al governo che vede coinvolto, sulla base di accuse infondate e di prove di alto tradimento del tutto inesistenti l’allora segretario generale del Partito – Rudolf Ślanský appunto – e un’altra dozzina di alti dirigenti ed esponenti del governo, non a caso quasi tutti di origini ebraiche, tutti condannati a morte come nazionalisti borghesi, trotzkisti e sionisti; uno di questi è Rudolf Margolius.

Per Heda Margolius inizia un periodo tremendo, innanzi tutto per la perdita insensata del marito e del padre di suo figlio ed in secondo luogo perché sono l’intera città di Praga, tutta la società cecoslovacca, il paese nel suo insieme che le si rivoltano contro. Prima il sospetto, a cui seguono l’isolamento, poi l’espulsione dal lavoro – in un paese in cui la disoccupazione è considerata reato e atteggiamento antisociale – e da ogni altro luogo o ambito sociale, poi vengono l’ostracismo pubblico, il disprezzo e l’odio. Le stesse circostanze già vissute quando dopo la fuga dal lager era stata respinta quasi da tutti si ripetono tragicamente: Heda è un’appestata, in quanto moglie di un traditore del Partito, della patria, del proletariato e delle sue infallibili guide, Gottwald e soprattutto Stalin. Pertanto vive in condizioni disperate, nella più nera miseria, elemosinando lavori mal pagati per sfamare almeno suo figlio, ammalandosi gravemente più volte e più volte rischiando seriamente di morire nella quasi assoluta indifferenza di un’intera società ormai inebetita dal regime da cui è stata plasmata. La società cecoslovacca infatti si regge sul conformismo, sull’omologazione agli slogan propagandati, sulla religiosa fede nel Partito, ma ancor di più sulla paura, sul sospetto e sulla delazione. Tutti aspetti questi che non mutano, se non forse impercettibilmente, nel passaggio da un totalitarismo ad un altro.

Il soccorso di colui che diventerà poi il suo secondo marito – Pavel Kovály, docente di filosofia, già amico di Heda e di Rudolf Margolius – insieme alla straordinaria tenacia e al disperato coraggio le permettono di vivere e di sopravvivere alla morte di Stalin (1953) e di assistere così alla destalinizzazione del 1956. E da quel momento prende il via un nuovo eroico capitolo della vita di Heda, ora Kovály, la battaglia per la riabilitazione di Rudolf Margolius. Ma ancora una volta si tratta di uno scontro impari, che vede prevalere le logiche autoconservative del regime e del Partito che solo parzialmente riabilitano i condannati del processo Ślanský ed ammettono i propri errori, senza però rivedere il processo nel suo insieme e senza rendere pubbliche le proprie colpe, i crimini compiuti e l’innocenza dei condannati.

Il Partito comunista cecoslovacco riuscì a eludere la questione del processo per tutti gli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta. Ciò che pose fine a quell’epoca non fu il malcontento interno, che il Partito poteva permettersi di ignorare, bensì la pressione crescente dall’estero. In Ungheria, Bulgaria e Polonia le vittime dei vari “processi farsa”, come ora venivano chiamati, erano state riabilitate da tempo. Solo nel nostro Paese non c’era nulla che scalfisse la superficie di quello stagno fangoso (p. 187).

Solo nel 1963, ma con molte riserve e cautele, il

Comitato centrale preparò un documento intitolato “Una comunicazione”, a uso esclusivo degli iscritti, che venne letto a porte chiuse alle assemblee di tutte le organizzazioni di partito. […] Solo alcuni funzionari accuratamente selezionati ebbero il permesso di vedere il documento, mentre ai membri del Partito che ne ascoltarono il testo venne severamente proibito di parlarne. Tuttavia, malgrado il divieto, nel giro di un giorno il contenuto del documento mi era stato riferito praticamente per intero, parola per parola (pp. 187-188).

Solo cinque anni più tardi, nel 1968, la Corte suprema cecoslovacca avrebbe decretato pubblicamente la piena riabilitazione di molti condannati ingiustamente e tra questi anche le vittime del caso Ślanský. Ma il ’68 è anche l’anno della Primavera di Praga, che riaccende in Heda Margolius Kovály e in tanti altri suoi connazionali la speranza di poter mutare radicalmente il socialismo cecoslovacco, di renderlo più simile a come idealisticamente molti lo avevano pensato e immaginato subito dopo il 1945, di poter smuovere le acque stagnanti e marce di quella palude politica che nonostante la destalinizzazione permaneva immutata negli anni.

Heda ora è una donna matura di quarantanove anni, ha alle spalle un vissuto privato e politico durissimo e per lo più fatto di dolorosi drammi personali, di sconfitte e di cocenti delusioni, ma con entusiasmo partecipa e dà il proprio contributo a quella così cruciale pagina della storia del proprio paese dell’Europa intera; entusiasmo che traspare palesemente nelle pagine del libro – le ultime – che raccontano di queste vicende.

Non dimenticherò mai la prima grande manifestazione giovanile, nel marzo di quell’anno. Circa ventimila fra studenti e giovani operai si stiparono nel grande salone della Fiera, altre migliaia si ammassarono nelle sale attigue, a altri ancora si radunarono all’esterno, dove poliziotti confusi e arcigni tentarono invano di provocare un incidente come pretesto per interrompere il raduno.
Tutti quei giovani erano nati e cresciuti in una società attanagliata dalla censura, dove l’espressione di qualunque opinione indipendente era trattata come un crimine. Cosa potevano sapere della democrazia? Come potevano sapere anche solo cosa volevano? Eppure, man mano che procedeva la serata, noi che eravamo più vecchi li ascoltavamo sempre più stupiti e ammirati, colpiti non solo dalla precisione e dalla chiarezza delle idee espresse, manche dall’alto livello della discussione e della disciplina di quella massa di giovani. Sapevano benissimo cosa volevano e cosa non volevano, su cosa erano aperti al compromesso e a cosa non volevano rinunciare.
La primavera del 1968 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato. […]
Quello era il socialismo che Rudolf aveva perseguito. Vent’anni prima era un’illusione; ora stava diventando realtà (pp. 201-204).

Ma nella notte tra il 20 agosto e il 21 agosto, truppe di Unione Sovietica, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria varcano il confine cecoslovacco, puntando sulla capitale; i vertici del Comitato centrale e del Partito comunista cecoslovacco che avevano introdotto il “nuovo corso” vengono rapidamente deposti; la resistenza e l’opposizione popolari bruscamente e violentemente represse e la “normalizzazione” sovietica fa, ineluttabile, il suo corso. È l’ennesima, cocente delusione che Heda è costretta a conoscere, ma questa volta la conduce a prendere la decisione di abbandonare la propria città – teatro di molte delle brutture subite nei trent’anni precedenti, ma ugualmente amata – il proprio paese, il proprio passato per iniziare un futuro diverso altrove, in esilio.

Il treno non si fermò a lungo al confine, e quando cominciò a muoversi mi sporsi dal finestrino più che potevo per guardare indietro. L’ultima cosa che vidi fu un soldato russo, che montava la guardia con la baionetta in canna (p. 214).

A Praga Heda Margolius Kovály ritornerà molto più tardi, dopo la caduta del Muro, dopo la fine dell’Unione sovietica, dopo la divisione tra Repubblica ceca e Repubblica slovacca e solo qualche anno prima della sua morte, avvenuta il 5 dicembre 2010.

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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Il Golem https://www.carmillaonline.com/2015/03/14/il-golem-israele-e-netanyahu/ Fri, 13 Mar 2015 23:01:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21270 di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito [...]]]> di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito dell’interpretazione del Talmud, anche, e forse soprattutto, per essere stato, almeno secondo le leggende che ne circondano l’immagine, colui che, insieme al genero Jizchak ben Simson e al discepolo Jakob ben Chajim Sasson, plasmò dal fango uno o più Golem, riuscendo ad insufflargli lo spirito della vita.

Il Golem costituisce, nella sua interpretazione più semplice, una sorta di automa di argilla, una statua animata destinata ad obbedire agli ordini ed alle necessità del suo creatore fino a quando questi non cancelli dalla sua fronte l’alef di ‘emet, modificandone il significato da verità in met, morte.1 Oppure, più semplicemente, togliendogli dalla fronte la benda contenente le parole magiche che lo animavano e lo tenevano in vita.

Ciò che importa, in questa sede, della suddetta leggenda è legato al fatto che tale o tali Golem, a seconda della versione, spesso si ingrandivano troppo durante la loro azione e finivano col dover essere distrutti dal loro creatore. Anche quando essi erano creati per difendere le stesse comunità ebraiche da nemici più numerosi o più potenti. Bastava infatti un attimo di disattenzione da parte di chi ne deteneva il controllo perché questo o questi finissero col distruggere le proprietà, se non addirittura le vite degli ebrei stessi.

Al di là delle sue interpretazioni kabbalistiche e trascendentali,2 il mito del Golem, anticipando di secoli sia Mary Shelley che Philip K. Dick, tratta della facoltà umana di creare una vita artificiale e nel fare questo ammonisce l’uomo dal non volersi rendere simile a Dio, poiché da un essere imperfetto non può nascere nulla di perfetto. Infatti già nel Talmud si parla di un essere artificiale creato da un uomo pio. Ma il Golem in questione, creato da Rava, è incapace di parlare poiché “i pii, gli uomini giusti, sono dotati di poteri straordinari che sono però limitati dalle iniquità da cui nessun essere umano può essere esente”.3

Prestiamo ben attenzione all’avvertimento: iniquità da cui nessun essere umano può essere esente. Perché, a questo punto, è ben facile poter intravedere nella creazione e susseguente distruzione del Golem una lezione sul limite e la pericolosità che le macchine create dall’uomo, anche nella loro forma istituzionale (Stato, esercito), possono comportare per coloro che credono di poterle usare per la propria difesa o al proprio servizio.

Molto ci sarebbe ancora da dire sui limiti che una parte del pensiero ebraico pone alla vanagloria dell’uomo e dei suoi apparati, ma per ora basti qui citare la contrarietà che molte comunità ebraiche da sempre manifestano nei confronti dello Stato sionista di Israele e delle sue aggressive politiche, sia nel mondo che all’interno dello stesso.4

Contrarietà che ha assunto ultimamente i toni di una grande manifestazione di massa tenutasi a Tel Aviv, sabato 7 marzo scorso, quando decine di migliaia di persone (gli organizzatori hanno parlato di 85.000 manifestanti) si sono raccolte, in vista delle elezioni parlamentari del 17 marzo, per opporsi alle suicide politiche militariste di Netanyahu e del suo governo di destra. Sono stati scanditi slogan come “Fermiamo la guerra”, “Portate i soldati a casa” e “Gli ebrei e gli arabi rifiutano di essere nemici”, mentre sugli striscioni era scritto “Israele vuole un cambiamento” oppure “Bibi, hai fallito, tornatene a casa” (quest’ultimo con riferimento al soprannome del premier).

netanyahu La manifestazione era stata organizzata dal movimento “Un milione di mani”. Lo scopo, a dieci giorni dalle elezioni, era quella di chiedere un cambiamento delle priorità di Israele, con maggiore attenzione a temi come la sanità, la scuola, i salari, la casa, il costo della vita e l’assistenza agli anziani, mentre un bambino su tre versa in condizioni di povertà.

Gli organizzatori del raduno avevano scritto sulla loro pagina Facebook: “Di fronte alla guerra che sta pretendendo un pesante tributo di sangue, di morti e di feriti da entrambe le parti, di distruzione e terrore, di attentati e razzi, noi resteremo con l’affermazione: «Terminare la guerra ora!» Invece di essere trascinati ancora e ancora in più guerre e più operazioni militari, ora è il momento di condurre un percorso di dibattito e di un accordo diplomatico. C’è una soluzione diplomatica. Quale prezzo pagheremo – noi, i residenti del sud e il resto di Israele, e gli abitanti di Gaza e Cisgiordania – per arrivare a questo? […] Insieme, ebrei e arabi, sostituiremo il cammino fatto di occupazione e di guerre, di odio, istigazione e razzismo, con un percorso di vita e di speranza”.

Abbiamo un leader che combatte una sola campagna – la campagna per la propria sopravvivenza politica”, ha detto uno dei principali oratori: Meir Dagan, ex capo del Mossad, che era in piazza con l’ex comandante militare della regione nord ed ex vice capo del Mossad, Amiram Levin.
Per sei anni, il signor Benjamin Netanyahu ha servito come primo ministro”- ha aggiunto- ”In sei anni non ha fatto una sola mossa per cambiare la regione e per creare un futuro migliore

La vedova del colonnello israeliano Dolev Keidar, ucciso durante l’offensiva della scorsa estate contro la Striscia di Gaza, dal podio ha severamente criticato l’approccio del premier verso la questione palestinese. “Sì, signor Primo Ministro, ciò che è importante è la vita stessa, ma è impossibile parlare tutto il tempo di Iran e chiudere un occhio sul sanguinoso conflitto con i palestinesi, che ci costa tanto sangue”, ha detto Michal Kestan-Keidar.

Mentre la crisi mondiale precipita sempre più verso una guerra allargata, è chiaro ormai per molti israeliani che, qualsiasi possano essere gli sviluppi futuri dell’attuale situazione politica, economica e militare internazionale, la politica aggressiva di Benjamin Netanyahu ha portato ormai lo Stato di Israele ad un punto di non ritorno. Soprattutto con la spinta verso la guerra all’Iran, altrettanto voluta dagli Stati del Golfo e dal regime saudita, ma attualmente osteggiata dagli Stati Uniti che, invece, dell’Iran come alleato potrebbero avere sempre più bisogno per dirimere le questioni mediorientali.

La politica dell’incremento della spesa militare di tutte le maggiori potenze e di autentico riarmo da parte della Cina, del Giappone e della stessa Germania confermano il lento scivolare del globo verso un conflitto mondiale,5 di cui le guerre finanziarie e monetarie non sono che un’anticipazione gravida di imprevedibili conseguenze6. Ed Israele potrebbe trovarsi a breve al centro di ogni tipo di conflitto, senza alleati sicuri con cui concordare la propria azione.

D’altra parte Hannah Arendt l’aveva già previsto nel lontano 1948, ai tempi della prima guerra arabo-israeliana: “[…] anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra […] La nuova terra sarebbe qualcosa di molto diverso dal sogno degli ebrei di tutto il mondo, sionisti e non-sionisti. Gli ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difenderli fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività […] il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio […] continuerebbe a essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini”.7

Da settant’anni ormai lo Stato di Israele affida la sua sicurezza a Tsahal, uno degli eserciti più armati, addestrati e potenti del mondo ipocritamente definito come Forza di difesa, senza però mai essere venuto definitivamente a capo dei suoi problemi di sicurezza ed economici. Anzi entrambi sembrano essersi aggravati nel corso dei decenni, dimostrando così che il progressivo rafforzamento del Golem tecnologico-militare non ha contribuito a difendere meglio il suo territorio né, tanto meno, a migliorare le condizioni di vita della maggioranza dei suoi abitanti.

merkavaDa questo punto di vista la storia del carro armato Merkava, il gioiello corazzato dell’esercito israeliano, nato nel 1979 e interamente prodotto in Israele, può costituire un buon esempio.
Il carro Merkava prende pomposamente il nome dalla parola ebraica Merkavah, (carro, biga) usata in Ezechiele (Ez1,4-26) con riferimento al carro-trono di Dio con angeli detti Chayyot.

Il profeta Ezechiele così descrive la struttura del Carro Celeste: “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote”. (Ez. 1,16-21)

Il richiamo biblico serve dunque a definire un mezzo corazzato in grado di raggiungere ogni luogo e in qualsiasi condizione. Tant’è però che, anche se oggi è considerato dagli esperti il carro armato più sicuro al mondo, nel corso degli anni i modelli succedutisi sono stati almeno sette: tutti modificati, o quasi, a seguito delle esperienze belliche sui vari fronti (a partire da quella in Libano degli anni ottanta). E senza che esso sia mai riuscito a trionfare nello sconto urbano o su territori difficili come quello del confine libanese, per cui è stato continuamente modificato.

L’aumento della potenza da sola non basta contro un nemico abile e determinato anche se armato in maniera più povera. Questa è una lezione che le strategie militari occidentali ed israeliane continuano a non comprendere. Anzi, si potrebbe dire che la guerra da sola, come strumento di controllo e di dominio non sarà mai sufficiente a risolvere i problemi tra le società e le nazioni.

Forse era anche questa la lezione che gli uomini pii delle antiche leggende volevano trasmettere: la forza non basta, anzi spesso è dannosa anche, e forse proprio, per chi pensa di averne di più. Poiché nel momento in cui quella forza gli si rivolterà contro, l’apprendista stregone non saprà e non potrà affrontarla perché tutto il suo sapere, tutte le sue abilità e tutte le sue esperienze si saranno già preventivamente concentrate in essa e soltanto in essa. Privandolo di qualsiasi altra possibilità dialettica o strumentale.

Oggi Bibi, l’omino di latta dal sorriso feroce, sbruffoneggia, ricordando qualche nostro premier, mentre scherza col fuoco di una guerra allargata. Eppure già diversi anni fa, un vecchio israeliano, comunista di origini polacche, aveva intravisto la trappola in cui il sionismo si sarebbe racchiuso da sé. Senza via di scampo. “Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni militari e civili dell’Autorità palestinese, nessun segno di prossima capitolazione è in vista. La deteminazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza, si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti a ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore8

E concludeva affermando: “La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono, in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha, fra l’altro, come rovina il popolo di Israele”.9

Schiacciato tra i giochi planetari della potenza declinante di Washington e quelli locali delle monarchi sunnite del Golfo e delle potenze rampanti come Cina, Turchia e Iran, Israele rischia veramente di fare la fine del topo. Nonostante la prosopopea da protettore degli “ebrei di tutto il mondo” con cui Bibi ha voluto presentarsi alle imbambolate piazze parigine del post-Charlie.

merkava 2 A meno che i suoi cittadini non si arrischino, per ridurlo in polvere, a togliere l’alef dalle parole, false, scritte sulla fronte del loro Golem.10 Così come dovremo fare noi anche qui, nel resto dell’Occidente, strappando dalla fronte dei nostri Golem imperialisti e militaristi le magiche parole “Progresso, Democrazia e Libertà” con cui continuano a tenersi in vita. A spese nostre e del mondo intero.


  1. Così come avviene nelle narrazioni medievali riguardanti la creazione del Golem riportate in Moshe Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, Einaudi 2006, pag. 90 e seguenti  

  2. Vedasi, oltre al già citato Moshe Idel, anche Gersom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993 e, ancora, G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi 1980  

  3. M. Idel, op. cit., pag.50  

  4. Si confrontino, a tal proposito, Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005 e Furio Biagini, Giudaismo contro sionismo. Storia dei Neuteri Karta e dell’opposizione ebraica al sionismo e allo Stato di Israele, l’Ornitorinco edizioni, Milano 2010  

  5. Si vedano: Guido Santevecchi, Il riarmo cinese. Spese su del 10%, Corriere della sera 5 marzo 2015; Giovanni Zagni, La Germania pensa al riarmo e rivede il suo pacifismo, Corriere della sera 9 marzo 2015; Guido Santevecchi, La spesa record del Giappone per il riarmo. Guardando alla Cina, 15 gennaio 2015  

  6. Brunello Rosa, La guerra delle valute, in Moneta e Impero, Limes 2/2015  

  7. Hannah Arendt, Salvare la patria ebraica: c’è ancora tempo (1948) in Ebraismo e modernità, Feltrinelli 1993, pp. 167-168  

  8. Michael Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri 2004, pp. 48-49  

  9. M.Warschawski, op.cit., pag.123  

  10. Sulla possibile sconfitta elettorale di Netanyahu e della sua coalizione alle prossime elezioni si veda Bernardo Valli, Tra i seguaci di Netanyahu che temono le urne. La sinistra di Israele torna a sognare la vittoria, La Repubblica 13 marzo 2015  

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