Philip K. Dick – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Philip K. Dick e l’Aforisma di NietzscheNel Labirinto di Philip K. Dick 3 https://www.carmillaonline.com/2025/07/24/philip-k-dick-e-laforisma-di-nietzche/ Thu, 24 Jul 2025 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89163 di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e [...]]]> di Diego Gabutti

Prima di Philip K. Dick – californiano, anima tormentata, scomparso poco più che cinquantenne nel 1982 – quelle della fantascienza erano tempeste in un bicchier d’acqua: battaglie spaziali, omini verdi, distopie e utopie sempliciotte. Con lui tutto cambiò. Restarono gli alieni, i viaggi nel tempo, i «dopobomba», i bersagli ingenui della fantascienza detta «sociologica» (la pubblicità, l’ambiente, i boom demografici, le catastrofi spicciole nonché varie ed eventuali da fondo di giornale) e gli universi paralleli. Restarono, ma mutati di segno, per così dire transustanziati, con un tocco d’horror metafisico – una miscela di Kafka, Beckett, Lovecraft e Dalí.

Chissà se per caso oppure di proposito, o se non fu piuttosto un semplice scherzo del destino, come nella canzone di Bob Dylan, ma il giovane Dick s’era spinto più in là di qualunque scrittore di fantascienza della sua generazione. Chissà come e perché, gli capitò un giorno di lanciare uno sguardo oltre le copertine di Galaxy, Astounding, Worlds of Tomorrow e Amazing Stories – prima da lettore di Heinlein, Asimov e soprattutto van Vogt, poi da scrittore di novelle «brevi» e «lunghe», secondo le misure contemplate all’epoca delle riviste pulp, oggi per lo più scomparse – si trovò puramente e semplicemente a contemplare l’abisso. Lì, Oltre la Soglia, c’era l’Aforisma di Nietzsche – simile all’Occhio di Dio che d’un tratto si spalanca nel cielo in Eye in the Sky, del 1975, oggi nel vol. II del Meridiano delle Opere scelte di Dick – e l’Aforisma ricambiò il suo Sguardo. Dick non fu più lo stesso dopo questo incontro con l’indicibile (un po’ come Johnny Yen, il Criminale Nova di William Burroughs e «galoppino del trauma della morte», quando spiega all’Ispettore J. Lee: «Ero molto più bello prima dell’incidente»). Philip Dick trasformò l’ingenua cassetta degli attrezzi della fantascienza (i marziani, l’iperspazio, i robot, gli androidi) in un calderone stregato e fumante nel quale ribollivano incubi metafisici e terrificanti dubbi sulla natura della realtà.

Straordinario autore di racconti, come quasi tutti i suoi semblables nell’epoca d’oro delle riviste, gli anni Cinquanta e Sessanta, scrisse anche romanzi giustamente molto celebrati, ma niente di paragonabile all’eccezionale sequenza di storie brevi e lunghe che in una serrata successione di pagine – dialoghi serrati, finali non «a sorpresa», come nei racconti più banaloidi dell’epoca, ma affilati come rasoiate – mettevano in scena agghiaccianti paradossi filosofici, singolarità e metamorfosi da incubo, terrificanti loop temporali dai quali non c’era uscita, macchine assassine in veste umanoide che non sapevano d’essere tali. Trovate queste novelle nei quattro volumi (preziosissimi) di Tutti i racconti editi da Mondadori tra il 1994 e il 1997 (poi ristampati, non saprei quanto fedelmente, da Fanucci, una decina d’anni dopo, nel 2009). Dick, dicebamus, ha scritto anche romanzi giustamente celebrati, e i migliori compaiono tutti, in veste particolarmente reverente e sciccosa, oltre che in traduzioni ineccepibili, nei due volumi appena usciti delle sue Opere scelte. Ma i racconti brevi e lunghi (più i brevi che i lunghi) restano fuori gara. Dick novelliere è stato semplicemente un gigante.

La sua, fin dalle primissime prove, è una fantascienza d’avant-garde radicale (il tempo scorre all’indietro, i dittatori modellati su Mussolini si moltiplicano come virus mutanti del Covid attraverso gli universi paralleli, gli oggetti d’uso comune tipo le caffettiere e i tostapane diventano senzienti grazie all’«effetto Rushmore», i quiz televisivi sono la copertura di guerre apocalittiche, tutto è Matrix, nulla è come sembra, tutto è permesso, niente è vero). Lì per lì, nei Cinquanta e Sessanta, non se ne accorge nessuno, tanto meno i lettori di fantascienza, per lo più incapaci di distinguere un Urania dall’altro, figurarsi Dick da E.T.A. Hoffman (o da Ursula Le Guin, che frequentò la sua stessa scuola, il Berkeley High School di Berkeley, California, dove si diplomarono entrambi nel 1947). È soltanto dopo la sua morte, come capita agli artisti di Montmartre nei melò strappacore, che l’opera di Dick attira l’attenzione di lettori sofisticati, registi e sceneggiatori alla ricerca di soggetti insieme romanzeschi e inquietanti, saggisti controcorrente, autori non soltanto di fantascienza che si professano a lui affini (per esempio Emmanuel Carrère, che gli dedicq un lungo e ammirato saggio, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi 2016). A dimostrazione, come pensava lui, gnostico convinto, che qui nel mondo d’Arimane non c’è giustizia, anche i film (a partire da Blade Runner, regia di Ridley Scott, 1982) che furono tratti dalle sue storie come pure i serial televisivi ispirati dai suoi racconti e romanzi (tra gli altri L’uomo nell’alto castello nel 2015-2019 e Philip K. Dick’s Electric Dreams nel 2017-2018) uscirono tutti dopo la sua morte.

Oggi Mondadori pubblica nei Meridiani – iniziativa meritoria, che ne impreziosisce il côté pop del catalogo – una scelta ricca e ragionata dei suoi romanzi a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce; Carrére firma la cronologia. Sono storie abissali. Poco prima di morire, e di passare per questa via alle edizioni prestigiose e all’immortalità, Dick partecipò a una convention di fan della fantascienza. Si presentò con una maglietta sulla quale c’era scritto: «Se non vi piace questo mondo, dovreste vederne certi altri».

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Intervista a Emanuele TreviNel Labirinto di Philip K. Dick 2 https://www.carmillaonline.com/2025/06/24/intervista-a-emanuele-trevinel-labirinto-di-philip-k-dick-2/ Tue, 24 Jun 2025 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89013 di Domenico Gallo

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00 stampa

Partiamo da lontano. Come è nato il tuo interesse per la fantascienza?

Se devo partire proprio…da lontanissimo, non posso che individuare il punto di partenza nel mondo della Marvel, e specialmente dei Fantastici 4 e dell’Uomo ragno. Da lì, la transizione verso la pagina scritta era abbastanza naturale per le persone della mia età (sono nato nel 1964) – gli Urania con le copertine di Karel [...]]]> di Domenico Gallo

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00 stampa

Partiamo da lontano. Come è nato il tuo interesse per la fantascienza?

Se devo partire proprio…da lontanissimo, non posso che individuare il punto di partenza nel mondo della Marvel, e specialmente dei Fantastici 4 e dell’Uomo ragno. Da lì, la transizione verso la pagina scritta era abbastanza naturale per le persone della mia età (sono nato nel 1964) – gli Urania con le copertine di Karel Thole erano un oggetto di desiderio molto simile, in fin dei conti, agli albi della Marvel. Solo che contenevano un prodigio ulteriore, e decisivo: l’atto della lettura comportava il piacere e la fatica di immaginare la storia, e dunque di ricrearla, facendone qualcosa di completamente personale.

A partire dalla tua formazione, questa passione per la fantascienza come ha convissuto con il tuo percorso di studi classici?

Io sono totalmente immune dall’idea, puramente sociologica, che esistano “livelli” diversi della letteratura. Magari mentre andavo a caccia di tutti i libri di Robert Sheckley che riuscivo a trovare in giro, ero lo stesso adolescente che scopriva L’armata a cavallo di Isaac Babel’, o i romanzi di Jack Kerouac o i manifesti del Surrealismo di André Breton. L’unica distinzione che per me è sempre stata efficace è tra un libro che accende l’immaginazione, come accennavo prima, e uno che non ne è capace, o magari non va bene per me.

Come è nata l’idea del Meridiano su Philip K. Dick? Ci sono state delle difficoltà a inserire uno scrittore di fantascienza tra i santi della letteratura mondiale?

Durante uno dei primi giorni del lockdown, nel 2020, ho ricevuto una telefonata di Renata Colorni, che per molto tempo ha guidato i Meridiani con imprese memorabili in tutte le direzioni. Era quasi arrivato il momento della meritata pensione, per lei, e voleva avviare un progetto di cui aveva perfettamente intuito l’interesse culturale. Alessandro Piperno, arrivato alla direzione della collana dopo Renata, ha poi sostenuto il lavoro con grande complicità. Il bello è che né Renata né Alessandro sono persone interessate alla fantascienza. Della fantascienza si può parlare per anni senza arrivare a nessuna conclusione definitiva. Anche se posso dire di averla sempre amata, è una categoria troppo vasta ed astratta per me, che ho una mentalità, forse antiquata, più legata all’ammirazione dell’eccellenza, al culto del singolo artista, che scriva una poesia lirica o una saga horror non mi interessa molto preventivamente.

Come è stato organizzato il lavoro tra te e Paolo Parisi Presicce, tra l’altro autore di una bibliografia critica dalla precisione sbalorditiva?

Paolo ha la passione delle bibliografie, e conoscevo già bene un suo lavoro notevole su Herman Melville uscito da Mimesis (herman Melville. Racconto di un tipo strano, 2019). È stato un amico comune, Beppe Sebaste, uno scrittore molto appassionato a Dick, a suggerirci di lavorare insieme al Meridiano. Devo a Paolo molte conoscenze importanti riguardo a Dick: volumi e articoli in riviste difficilmente accessibili. Anche il suo lavoro di traduzione e commento alla Trilogia di Valis, se vogliamo impropriamente chiamarla così, è stato decisivo. Poi c’è stata l’esperienza bellissima delle schede critiche dedicate ai singoli romanzi che abbiamo scelto per il Meridiano. L’idea di partenza è stata quella di far parlare direttamente Dick dei suoi romanzi, attingendo sistematicamente alla sua mania di auto-interpretarsi. In primo luogo, quindi, abbiamo attinto all’Esegesi, curata e tradotta da un gigante nella storia italiana di Dick, Maurizio Nati (anche se a volte il ricorso all’originale ci è servito per uniformare meglio il lessico e le informazioni veicolate…); poi i saggi e le conferenze di Dick; poi ancora ovviamente le interviste, perché Dick ne ha concesse di memorabili che ormai fanno parte della sua opera, prima fra tutte quella del 1974 a Paul Williams. Perché metto le interviste all’ultimo posto di questa scala di attendibilità decrescente ? Solo perché c’è un lato istrionico di Dick, in tutti i suoi rapporti umani, che rende necessaria molta cautela nel citare questa o quella risposta! Gestire in modo sensato questa enorme massa di parole è stato un lavoro nello stesso tempo, scusate l’ossimoro, paziente e spericolato. Però, nonostante tutto il fascino del suo lavoro di auto-interpretazione, che diventa colossale dal 1974 al 1982, ovvero negli ultimi otto anni della sua vita, il critico deve resistergli, non dimenticare il proprio punto di vista. Poi c’erano altre questioni che abbiamo approfondito libro per libro: i modelli di riferimento, stratificati e complessi come si addice a uno scrittore coltissimo e onnivoro come Dick, la frequente trasformazione di un racconto breve in un romanzo, la storia editoriale…p.s. devo dire che l’Enciclopedia dickiana, ovvero il Caronia-Gallo (La macchina della paranoia, Agenzia X, 2006) come lo chiamavamo alla maniera dei dizionari del liceo, è stato un modello utilissimo, soprattutto per certe voci che attraversano l’opera da capo a fondo («droghe», «poteri psi» eccetera eccetera).

Sandro Veronesi sul Corriere della sera lamenta che lo strano non è che sia uscito un Meridiano su Dick, ma che non fosse uscito già da tempo. Ed elenca una compatta schiera di scrittori che, secondo lui, devono molto alla scrittura di Dick. Tu cosa ne pensi? Davvero ha avuto quell’influsso sulla letteratura statunitense? E se sì è accaduto dopo Blade Runner?

Io sono molto vecchia maniera in queste cose, nel senso che non mi piace generalizzare. Che Thomas Pynchon, al momento di scrivere L’arcobaleno della gravità, sia montato sulle spalle di Time Out of Joint (c’è un bellissimo saggio di Umberto Rossi al proposito) mi sembra un esempio indiscutibile e molto interessante di trasformazione geniale di un’eredità. Lo stesso direi dell’Incal di Moebius e Jodorowsky. È da notare che in questi due esempi non sono solo la trama o la logica narrativa, ma un’attenzione al personaggio e alla sua psicologia che mi sembrano il contributo maggiore di Dick alla fantascienza. Detto questo, Veronesi ha ragione. La lista degli scrittori che qualcosa hanno attinto da Dick è impressionante.

Parliamo un po’ del rapporto tra PKD e la fantascienza. Mi viene in mente un autore poco studiato come Alfred E. Van Vogt. È Dick stesso che dichiara un legame tra la sua narrativa e quella del mostro sacro che verrà poi associato alla Dianetica e a saperi parascientifici. Certamente il tema dei mutanti, quello del potere e dei complotti, ancora un eccezionale dinamismo della trama sembrano accumunarli. Come ti sembra che fosse composta la cassetta degli attrezzi di Dick all’inizio della carriera?

Allora, Van Vogt era già un autore di culto quando ero un ragazzino, e Dick gli ha sempre tributato una giusta ammirazione. L’ho un po’ riletto durante il lavoro al Meridiano, trascinato dai suoi colpi di scena e dalla sua inquietante idea dell’umano. Senza essere ingiusto verso un grande maestro, riprendo l’accenno fatto nella risposta precedente: Van Vogt è un Dick senza psicologia, le sue trame scandite dai famosi colpi di scena (praticamente uno a pagina) sono perfetti fuochi di artificio ma sono quasi del tutto prive di spessore umano, e dunque di possibilità di identificazione. La mia convinzione è che lo scrittore al quale Dick abbia guardato con più ammirazione e invidia sia sempre stato Kurt Vonnegut.

Dick pur essendo nato come scrittore di fantascienza, tra i pulp più popolari, si rivela immediatamente affascinato dai capovolgimenti di punto di vista che, in seguito, diventeranno i capovolgimenti dell’intera realtà nell’ambito della dialettica che guida la tua analisi tra koinós kosmos e ídios kosmos, vale a dire tra realtà condivisa e realtà individuale. È attirato dal falso sin dai suoi primi scritti. Il suo primo romanzo, Solar Lottery, è basato su una truffa elettorale e su altri elementi legati alla falsificazione e alla bugia. Dick mi ha spesso ricordato Orson Welles. Altri scrittori di fantascienza usavano queste tecniche, come il capovolgimento grottesco, il paradosso, la parodia, penso Fredric Brown, Robert Sheckley, Cyril Kornbluth e Fredrik Pohl, ma lui sembra più coerente verso la logica del complotto prima politico poi ontologico. È questo che lo rende una figura sostanzialmente anomala in quel mondo molto contraddittorio della fantascienza? Un cane sciolto?

Non ci avevo mai pensato ma sì, è vero, in Dick c’è una certa grandiosità della concezione che può ricordare Orson Welles. La differenza è che in Welles, per motivi intrinseci all’industria del cinema, l’inespresso finì per prevalere decisamente su quello che riuscì a fare (la lista dei suoi progetti è lunga venti volte più della sua filmografia !), mentre a noi scrittori, per quanto sfigati possiamo essere, nessuno impedisce di finire il nostro libro che non costa nulla. Riguardo al complotto, direi che in Dick qualsiasi manipolazione politica è anche, per necessità, una manipolazione ontologica, una manomissione del principio di realtà. Un aspetto della mia introduzione al Meridiano che avrei voluto approfondire è l’analogia tra le distopie di Dick e l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt. Non mi interessa tanto la conoscenza diretta, ma la convergenza del pensiero.

Nel tuo Profilo mi sembra che prediligi la lettura antropologica/filosofica a quella politica di scrittore che nasce letterariamente durante il maccartismo e poi si libera negli anni della contestazione e delle proteste contro la Guerra del Vietnam e la denuncia di un potere poliziesco e imperialista. Ritieni il riverbero della situazione politica del suo contemporaneo dentro la sua scrittura come un elemento non particolarmente caratterizzante e originale?

Vedi, forse non tutti i lettori di questa rivista (che seguo fedelmente da tantissimi anni) saranno d’accordo, ma a me nella letteratura interessa la reazione soggettiva alla pressione del mondo, reazione che è sempre deformante e inattendibile, dunque priva di attendibilità. Quello che privilegio nel mio lavoro di critico, se vuoi che lo riassuma in maniera brutale, è l’essere soli al mondo e non capirci nulla, si tratti di Flannery O’ Connor o di Philip K. Dick.

Alla fine mi sembra che interpreti gli ultimi cinque romanzi di Dick come una riconciliazione tra il suo mestiere di scrittore di fantascienza e l’aspirazione a essere un letterato realista. Possiamo dire Dick raggiunge inconsapevolmente (o consapevolmente?) una dimensione postmoderna come Kurt Vonnegut? Sembrerebbe il percorso inverso di letterati come Philip Roth, Cormac McCarthy, Don DeLillo e molti altri…

No, c’è qualcosa di intrinseco al suo misticismo e al suo gnosticismo che mi sembra tenerlo legato alle sue origini – l’idea della salvezza come informazione più che come redenzione. Non mi stupisce la sua terminale scoperta dei testi gnostici, che conosceva in maniera molto approfondita. Il Cristo degli gnostici è colui che dissolve le tenebre dell’ignoranza, è un maestro molto più che un pastore. Ora tu mi chiederai che cosa c’entra questo con la fantascienza…ebbene, c’entra moltissimo, perché l’informazione salvifica è un segnale, difficile ma non impossibile da decifrare.

Una lettura un po’ piccata del Meridiano PKD che circola soprattutto nelle arene dei social sostiene che Dick sia stato inserito nella collana perché erroneamente non è un autore di fantascienza ma un letterato. Mi sembra che il tuo lavoro, invece, dimostri esattamente il contrario, ovvero che la fantascienza fa parte della letteratura e alcuni suoi autori abbiano dignità di essere accostati ai grandi romanzieri del Novecento. Sbaglio io o…

Guarda, io non seguo i social, e non per snobismo, ma perché non ho tempo e sono poco tecnologico, però è un errore rinchiudersi in un ghetto! Allora Stephen King cos’è, horror o un grande scrittore ? E H.P. Lovecraft ? E l’immensa Agatha Christie di cui Antonio Moresco ha curato un Meridiano che considero gemello del nostro ? La verità è che tutto è un genere, anche i libri che scrivo io sono una specie di genere con i suoi fan e la sua stampa specializzata.

Pier Paolo Pasolini. La tua lettura che accomuna Dick e Pasolini è estremamente interessante. Io aggiungerei che entrambi hanno praticato una ricerca religiosa convulsa, sincera ed eretica, ognuno nel contesto della tradizione e cultura del proprio continente, ma anche la loro critica alla tecnologia rivela comunanze sorprendenti. La ricerca del valore essenziale dell’umano che viene soffocata dalla società dei consumi (che è convergenza di tecnologie produttive e della comunicazione), il divenire macchina e le macchine diventare umani (ma umani scadenti…). Dick, da scrittore di fantascienza, letteralizza e brutalizza le metafore rendendole vicenda avventurosa, Pasolini invece usa il giornalismo e il pensiero critico per denunciare questa sottile invasione che sostituisce umani con ultracorpi… Per Pasolini è una visione nostalgica della civiltà contadina rivisitata soprattutto nel suo cinema, per Dick è una ricerca tutta statunitense del cristianesimo originale in una nazione in cui l’invenzione religiosa contemporanea era, ed è diffusa. Oltre a Pasolini, quali intellettuali europei vedi inconsapevolmente legati all’uomo di Ubik?

Sono molto d’accordo, e aggiungo un dettaglio significativo – la passione di entrambi per le interviste, praticate come un vero e proprio genere letterario. Aggiungerei un terzo nome a creare una costellazione decisiva, ed è un artista molto legato (a modo suo) all’immaginario fanatscientifico: Andrej Tarkovskij. Non sono maestri nostalgici, perché sanno bene che il passato perduto è irrecuperabile. Li vedo come grandi custodi dell’umano, che è sempre minacciato da forze avverse. Il loro erede più significativo mi sembra Anselm Kiefer.

Per finire, immaginario dickiano. A un certo punto lettori e critici impongono termini come shakespeariano, kafkiano, orwelliano. È il segno vero di una partecipazione all’universo della cultura mondiale, ma quanto è un tradimento?

Beh, ci sono uomini politici e militari che hanno dato il nome a un cappotto o a un panino, la nostra gloria è passare dal nome all’aggettivo. L’importante è ricordare che c’è sempre poco di Kafka nel “kafkiano” e di Dick nel “dickiano”. Ma con una differenza: basta aprire l’Esegesi per toccare con mano quanto il concetto di “dickiano” provenga dal diretto interessato, che ne parla con inquietudine e vero e proprio disagio…

 

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Ruggine siamo e ruggine ritorneremo. Nel Labirinto di Philip K. Dick 1 https://www.carmillaonline.com/2025/06/17/ruggine-siamo-e-ruggine-ritorneremonel-labirinto-di-philip-k-dick/ Tue, 17 Jun 2025 05:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88702 di Paolo Prezzavento

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00

Per quelli come noi che hanno avuto modo di apprezzare le opere di Philip K. Dick nei vecchi Urania e Millemondi, nelle collane delle Edizioni Nord, nella Collezione Immaginario Philip K. Dick di Fanucci e adesso negli Oscar Mondadori, chi come noi ha avuto il privilegio di seguire da vicino i primi contributi critici italiani sull’opera di questo scrittore straordinario e [...]]]> di Paolo Prezzavento

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00

Per quelli come noi che hanno avuto modo di apprezzare le opere di Philip K. Dick nei vecchi Urania e Millemondi, nelle collane delle Edizioni Nord, nella Collezione Immaginario Philip K. Dick di Fanucci e adesso negli Oscar Mondadori, chi come noi ha avuto il privilegio di seguire da vicino i primi contributi critici italiani sull’opera di questo scrittore straordinario e visionario, chi ha avuto il privilegio ulteriore di tradurre opere come Ubik (1965), In senso inverso (1967) e alcuni dei romanzi e dei racconti più importanti della sua produzione, non può non salutare l’uscita del Meridiano Mondadori – Opere Scelte di Philip K. Dick, in due volumi, come una consacrazione dovuta da tempo a uno degli scrittori più geniali e profetici del nostro tempo, che hanno contribuito a plasmare, a scrivere il nostro presente e il nostro futuro.

Ma è possibile canonizzare Dick, normalizzare Dick, e – in definitiva – addomesticare Dick? Come si fa a ridurre nei canoni di un genere letterario – o della pura e semplice letteratura – un autore così originale? Ecco perché forse si sarebbe dovuto riflettere in modo più approfondito su alcuni spunti geniali presenti nelle cosiddette opere mainstream di Dick, quei tentativi di Dick di uscire dai canoni del romanzo di fantascienza, opere che purtroppo non sono state incluse in questo cofanetto.

Una famosa battuta di Emmanuel Carrère risuona nella mente del lettore invasato di Dick – o meglio, di PKD – per tutta la sua preziosa Cronologia ed è appropriata anche per comprendere l’approccio che avremmo avuto noi in un Universo alternativo, un Universo parallelo in cui, come scrive lo stesso Emanuele Trevi, “il Meridiano non l’ho scritto io, ma qualcun altro”. La battuta di Carrère è la seguente: “Nel caso del Cristianesimo delle origini, o del Cristianesimo in generale, dove finisce la patologia, la psicopatia, la malattia mentale, e comincia la religione?” Ne Il Regno (2014) Carrère ama descrivere i Cristiani della prima ora come un gruppo di pazzi scatenati, che facevano delle cose folli, che immaginavano un mondo che ancora non esisteva, di là da venire. Lo stesso fanno quel gruppetto di pazzi invasati, Phil, Kevin, David – ognuno rappresentante un diverso aspetto della personalità dello scrittore – che si interrogano sul Secondo Avvento di un nuovo Messia nel romanzo VALIS. Proseguendo su questa china, in una fusione tra il pensiero di Carrère e quello di Dick – e sappiamo quanto l’opera di Dick abbia influenzato quella di Carrère – si potrebbe affermare: “In quale punto preciso della parabola esistenziale di questo grande scrittore visionario, Philip K. Dick, si può dire che finisca la tossicodipendenza (da anfetamine) o la malattia mentale e inizi la religione o il misticismo?”

Philip K. Dick è stato uno scrittore che già in vita aveva un suo seguito di lettori appassionati, di giovani seguaci della controcultura e della fantascienza che lo ammiravano. C’è stato un periodo in cui questi giovani lettori in America, in Europa, in Italia e anche nei paesi del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo, leggevano i classici della letteratura nord-americana e della letteratura russa come Herman Melville, Walt Whitman, William Blake, i Beat, L’Urlo di Allen Ginsberg, le poesie di Gregory Corso e di Lawrence Ferlinghetti, i romanzi di William Burroughs e di Fedor Dostoievskij… Molti di questi giovani iniziarono a leggere i romanzi di Philip K. Dick verso la fine degli anni Sessanta. Già all’epoca, negli Stati Uniti, Dick veniva considerato il maestro del genere “paranoico” della fantascienza, ovvero della fantascienza psichedelica. La sua narrativa era incentrata sui temi degli universi paralleli, su personaggi che scoprono di essere vittime di enormi cospirazioni politiche o che la loro realtà è un’illusione o un’allucinazione indotta dalle droghe (vedi il racconto La Fede dei nostri Padri (1967), purtroppo escluso da questo Meridiano, in cui l’intera realtà è un’allucinazione indotta da una potente droga allucinogena)…

Leggendo le considerazioni di Emanuele Trevi nel suo Profilo di Philip K. Dick e la brillante – pur se fantasiosa, a volte – Cronologia di Carrère, ritroviamo alcuni degli episodi salienti nella vita di Dick che hanno profondamente influenzato la sua opera. Carrère ci ricorda ad esempio che nel periodo 1963-64 Dick comincia ad elaborare una fobia paranoica incentrata sulla figura della sua terza moglie, Anne Rubinstein, convincendosi che Anne avesse ucciso il marito precedente e fosse in procinto di fare lo stesso con lui. Poi nel 1964 Dick divorzia da Anne e comincia a fare uso di droghe, soprattutto di anfetamine, cosa che gli consente di lavorare ad un ritmo spaventoso. Da questo profondo stato di frustrazione – accentuato dalle ristrettezze economiche e dai continui rimproveri della moglie – Dick riemerge scrivendo dei veri e propri capolavori, come Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1969), un romanzo in cui una nuova droga dalle straordinarie potenzialità diventa lo strumento di un Dio Malvagio per condizionare le nostre menti, e Ubik, il suo capolavoro assoluto, un romanzo che ha tutte le carte in regola per diventare un libro sapienziale come il Libro di Giobbe, i Salmi, o L’Ecclesiaste.

Un altro episodio fondamentale è l’incontro tra PKD e James Pike, vescovo della Chiesa Episcopale californiana, un incontro che segna l’inizio della svolta religiosa di Dick e – scrive Carrère – “di un’amicizia appassionata tra teologi inclini all’eresia. I due discutono all’infinito, spingendosi sempre più in là, fino a sviluppare una teoria secondo la quale il pane che Gesù dava da mangiare ai suoi discepoli era in realtà un fungo allucinogeno che cresceva sulle rive del Mar Morto” o – aggiungiamo noi – nelle grotte misteriose dove sono stati nascosti per secoli i Rotoli di Qumran (ritrovati nel periodo 1947-56), antichi manoscritti la cui interpretazione del Giudaismo e del Cristianesimo delle origini diventò per Pike una vera e propria ossessione, ossessione che trasmise al suo amico Philip. Gioverà ripeterlo: come si fa ad “addomesticare” nel Canone Occidentale un messaggio così eversivo di qualsiasi principio religioso o puramente letterario? Il Reverendo Pike tornerà poi in diversi romanzi di Dick, come In senso inverso, nel ruolo di un Messia redivivo.

Nel Marzo 1974 Dick, dopo una serie di esaurimenti nervosi, ha una visione mistica, pare dovuta ad una anestesia particolarmente forte operata dal suo dentista. Comincia ad avere delle visioni indotte da un ciondolo a forma di pesce – antichissimo simbolo cristiano – che una ragazza addetta alle consegne porta al collo, anzi tra i seni (come precisa il perfido Carrère), e comincia a vedere un raggio di luce rosa (a pink beam of light) che gli trasmette una miriade di informazioni che provengono da un’entità misteriosa, cui successivamente Dick darà il nome di VALIS (Vast Active Living Intelligence System). Questa esperienza mistica diventerà il centro della sua esistenza, e da essa nascerà la cosiddetta Trilogia di Valis, un trittico di romanzi che cercano, in qualche modo, di dare una spiegazione a ciò che gli è accaduto. Questo trittico conclude giustamente il secondo volume del Meridiano Dick, e non poteva essere altrimenti. Romanzo centrale della Trilogia è L’invasione divina (1981), in cui Dick rielabora il concetto di un Dio che torna sulla Terra sotto le spoglie mortali di un bambino di nome Manny, cioè Emmanuel (come Carrère, come Trevi), un’entità aliena che ci “invade” proprio seguendo il topos dell’invasione extraterrestre che gli scrittori di fantascienza hanno immaginato per più di un secolo, a partire da La Guerra dei Mondi di H.G. Wells (1898). Per tutti gli anni Settanta e fino alla sua morte nel 1982, Dick scrive anche una sorta di sterminato “trattato filosofico”, una auto-analisi della propria psiche e uno sforzo enorme di auto-interpretazione dei propri scritti, dal titolo L’Esegesi (un’opera che da sola meriterebbe un altro cofanetto in tre volumi dei Meridiani) in cui cerca di spiegare gli strani fenomeni che gli sono capitati dopo la rivelazione del raggio rosa, per un totale di circa 8.000 pagine, per lo più ancora inedite.

Ma l’idea centrale di tutta l’opera di Dick è la seguente, anzi sono due le domande fondamentali: “Che cosa è reale?”; “Che cosa è umano?”. È a partire da queste due domande che Dick sviluppa tutta una sua originale riflessione filosofica che lo porta ad allargare i confini della realtà e i confini dell’umano, fino ad includere le stesse macchine intelligenti che noi abbiamo creato ma che in un futuro non tanto lontano ci sostituiranno completamente. Parafrasando una famosa formula religiosa, Dick in un suo saggio arriva ad affermare: “Verrà un giorno in cui una macchina dirà: Ruggine siamo e ruggine ritorneremo”. Che cosa significa questo? Significa che verrà un giorno in cui produrremo un essere dotato di un’intelligenza artificiale così sviluppata che comincerà a porsi delle domande sulla sua stessa esistenza e sulla sua prossima fine, proprio come fa il protagonista del racconto La formica elettrica (1969), Garson Poole, un androide, cioè una macchina, che comincia a porsi delle domande filosofiche sulla sua esistenza e sulle sue percezioni, e arriva al punto di modificare – anzi tagliare – il nastro che ne regola le sensazioni e gli accadimenti quotidiani.

Dicevamo della “svolta religiosa” di Dick, ben rappresentata nel Meridiano dalla cosiddetta Trilogia di VALIS. Quel folle geniale che va sotto il nome di Paolo di Tarso, con cui Dick spesso si identifica, fu il primo a sottolineare l’importanza della caritas nella sua Prima lettera ai Corinzi, concetto che Dick riprende e traduce nel linguaggio moderno con empatia, cioè la capacità di immedesimarsi negli altri, nelle sofferenze dei nostri simili, e anche di coloro che non sono nostri simili, come fa Rick Deckard – il bounty killer di androidi – che comincia ad “empatizzare” con gli androidi e la loro umanissima paura di morire in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) e il più improbabile tra gli agenti della caritas, quell’ammasso di muffa gelatinosa proveniente da Ganimede, Lord Running Clam, in Follia per Sette Clan (1964). Romanzi che riattivano i nostri neuroni specchio, oramai anestetizzati dai disastri della Guerra di Gaza e in Ucraina, dai massacri cui ogni giorno assistiamo da spettatori impotenti sintonizzandoci sui notiziari Tv o leggendo i giornali…

Philip K. Dick è stato uno dei grandi scrittori che ci hanno fatto intravedere un mondo governato dall’Intelligenza Artificiale, il mondo in cui vivremo da qui a pochi anni, il mondo che sognano alcuni miliardari tecnocrati imbottiti di psichedelici come Elon Musk, oppure alcuni convinti assertori di una nuova società governata da una élite tecnocratica e dall’AI, come Peter Thiel, fondatore della Palantir Technologies, azienda leader nel campo dei Big Data e nell’utilizzo militare dell’Intelligenza Artificiale. Verrà un giorno in cui la decisione stessa di scatenare una guerra nucleare sarà affidata all’Intelligenza Artificiale, una decisione del tutto assurda ma possibile proprio perché sarà opera di un meccanismo del tutto privo di empatia. Già adesso l’AI ci sta sfuggendo di mano, e possiamo immaginare un prossimo futuro in cui diventerà impossibile fermare un attacco di droni guidati dall’Intelligenza Artificiale, sarà impossibile mandare un contrordine, interrompere la missione, perché oramai la missione è stata programmata e i droni si rifiuteranno di obbedire, anzi alcuni droni potrebbero decidere di attaccare la centrale dalla quale è partito il contrordine, interpretandolo come un tentativo di sabotaggio. Prima o poi succederà, anzi forse è già successo… Il recente attacco ai bombardieri nucleari russi da parte di decine di droni ucraini guidati dall’intelligenza artificiale, l’Operazione Spiderweb, ci ha già dato un assaggio di quelle che saranno le guerre del futuro, le guerre in cui il soldato in carne ed ossa diventerà un semplice accessorio. Anche questa è una cosa che Philip K. Dick aveva previsto più di settanta anni fa nel racconto Modello due del 1953, in cui si immagina una guerra futura combattuta dalle macchine tra di loro, in cui gli ultimi superstiti umani lottano disperatamente per sopravvivere.

C’è un’ultima profezia di Philip K. Dick che non si è ancora avverata e speriamo che rimanga per sempre tra gli scenari possibili ma improbabili nell’evoluzione della civiltà, un’ipotesi soltanto teorica. In alcuni suoi romanzi Dick immagina un futuro post-apocalittico (ad esempio in Cronache del dopobomba(1965)), in cui l’apocalisse nucleare ha completamente devastato il nostro pianeta, romanzi in cui gli umani sono costretti a vivere sulle colonie di Marte o sulla Terra in bunker sotterranei per non morire contaminati dalle radiazioni, e ad ammazzare il tempo bruciandosi il cervello con le droghe, perennemente impegnati in giochi di ruolo basati sui meravigliosi plastici della bambola Perky Pat messi in vendita dalla Perky Pat Layouts del magnate Leo Bulero (vedi il racconto I giorni di Perky Pat e il romanzo Le Tre Stimmate di Palmer Eldritch ). È possibile racchiudere tutta questa ricchezza di significati dentro due volumi di un Meridiano? Forse no, ma lo sforzo notevole compiuto dai curatori nel Profilo dell’Autore e nelle Notizie sui testi, oltre agli innumerevoli episodi racchiusi nella Cronologia di Emmanuel Carrère – per non parlare della ricchissima Bibliografia – ci aiutano a prepararci all’incontro con questa vasta, attiva, vitale, intelligenza aliena. Lasciatevi invadere.

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Un viaggio in ucronia https://www.carmillaonline.com/2024/10/11/un-viaggio-in-ucronia/ Fri, 11 Oct 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84882 di Paolo Lago

Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.

C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira [...]]]> di Paolo Lago

Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.

C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira a ricostruire una sorta di universo parallelo in cui i fatti ormai appurati come ‘storici’ sono avvenuti in un modo diverso portando a diverse conseguenze. Ad esempio, due fra le ucronie più studiate riguardano due figure storiche come Napoleone e Hitler: allora, pensando ucronicamente, se così si può dire, ci potremmo chiedere cosa sarebbe successo se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo o se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale. Emmanuel Carrère, nel suo interessante saggio dal titolo Le Détroit de Behring, edito in Francia nel 1986 e recentemente uscito in italiano nella bella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco con l’azzeccato titolo Ucronia, ci guida attraverso un vero e proprio viaggio in un’altra dimensione, in un tempo che non c’è.

I più importanti esempi di ucronia verso cui ci conduce lo scrittore francese appartengono alla modernità culturale piuttosto che alla postmodernità. Come ha notato Fredric Jameson, infatti, nella cultura postmoderna la categoria di spazio è considerata come dominante, in opposizione a quella di tempo, assai più importante, invece, per la modernità. Se l’eterotopia, infatti, nell’analisi di Foucault, appare una caratteristica importante della postmodernità (ma non l’utopia, che è stata sempre importante dagli antichi ai contemporanei), l’ucronia, nella cui etimologia campeggia la parola “tempo”, appare intrisa di modernità. Ecco che Carrère ci presenta nelle prime pagine del suo saggio una importante ucronia, Napoleone apocrifo, creata nel 1836 da Louis-Napoléon Geoffroy-Chateau, figlio di un ufficiale dell’esercito napoleonico caduto ad Austerlitz. Da notare anche che si tratta di un’ucronia nata prima che Renouvier coniasse il termine. Geoffroy ci racconta appunto di un Napoleone che, non sconfitto, ha creato un impero universale fino a morire per un colpo apoplettico nel 1832, a 62 anni. Creando un Napoleone imperatore del mondo, come nota Carrère, l’ucronista Geoffroy “non può rassegnarsi all’idea della sua caduta, che lo tocca così da vicino” e si autoconvince che la storia che egli racconta sia quella giusta adoperandosi per screditare quella che conosciamo e per estirparla alle radici: “dal momento che non si può fare in modo che la storia sbagliata non abbia avuto luogo, e neppure che gli uomini la ignorino, bisogna prodigarsi, soli contro tutti, per screditarla”. E se la storia ‘ufficiale’ fosse un enorme inganno? Se fosse stata creata ad arte da alcuni occulti ‘reggitori dei fili’? solo mettendo in discussione la storia si può giungere a una possibile legittimazione dell’ucronia. D’altra parte, Carrère cita il grande storico Paul Veyne che così si esprime: “Non si è storici se non si avverte, attorno alla storia che si è realmente verificata, una moltitudine indefinita di storie compossibili, di cose che avrebbero potuto andare altrimenti”.

Certo, si potrebbe pensare che l’ucronista, sotto sotto, possa essere anche un oscuro creatore di fantasie di complotto dal momento che molti complotti, come nota Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto, si basano su “un gioco di realtà alternative divenuto mostruoso”. Perché non dobbiamo mai neanche sottovalutare, per utilizzare un’espressione di Carrère, “l’onnipotenza di chi ha in mano la penna” e basterebbe evocare un titolo come Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, in cui si infittiscono manoscritti criptati dai quali per gioco emergono piani e fantasie di complotto. E anche quest’onnipotenza – si potrebbe aggiungere – appare del tutto appartenente alla modernità: oggi, nel mondo digitalizzato, basterebbe forse sfiorare pochi tasti di un touch screen. Del resto, lo stesso Manzoni nei Promessi sposi, pur non creando un’ucronia, grazie al potere e alla maestria della sua penna (con la quale ci ha anche presi in giro creando la messinscena del manoscritto ritrovato) ha ritagliato all’interno della storia una vicenda fantastica (ma plausibile) con personaggi anch’essi fantastici ma anche profondamente realistici. L’ucronista-complottista, allora, quasi fosse l’oscuro killer di un romanzo noir, avanzerebbe cancellando prove e eliminando studiosi e testimoni, per creare il suo universo alternativo e per tramandarlo ai posteri, come in una versione moderna di Matrix.

L’ucronista non è un folle, anzi, è estremamente lucido e intelligente perché ha trasformato la sua idea ucronica in un feticcio: il suo solo campo di battaglia – nota Carrère – è la memoria. Se l’ucronia a carattere ‘privato’ e personale può portare a speculazioni, appunto, dal carattere più o meno innocuo (del tipo, se io avessi studiato fisica nucleare probabilmente adesso non starei qui a scrivere questa recensione, ma non si sa mai), quella che ingloba grandi accadimenti storici può essere uno strumento di potere. Charles Renouvier, nella sua opera che si intitola appunto Ucronia, “non dipinge un idillio, non traccia, come Geoffroy, una curva trionfale tutta ascendente: ci sono guerre, invasioni, crisi, proprio come nella realtà” (e in questo modo l’ucronia appare più verisimile). Il filosofo francese costruisce un mondo in cui il cristianesimo non ha attecchito in Occidente, restando relegato in Oriente. In Occidente, anche nella modernità, continua a prosperare la potenza di Roma, rigorosamente pagana, perché gli imperatori hanno cercato di bloccare l’avanzata del cristianesimo in ogni modo (infatti, “se mai riusciranno a trionfare, dovremo rinunciare a tutto ciò per cui la vita è degna di essere vissuta: ai nobili piaceri, alla virtù disinteressata, alla libertà di cui godiamo, alla speranza di estenderla nel mondo…”). Sempre su questo tema, si potrebbero ricordare allora altri romanzi che Carrère nel 1986 non poteva conoscere, e cioè la trilogia ucronica di Sophie McDougall, composta da Romanitas (2005), Roma brucia (Rome burning, 2007) e Il sangue di Roma (Savage city, 2010), in cui si immagina appunto che l’impero romano non sia mai caduto arrivando fino ai giorni nostri.

Lo scrittore francese, nel suo interessante saggio, ricorda anche altre ucronie, tra cui Ponzio Pilato (1961) di Roger Caillois, in cui non solo l’Occidente, come nell’opera di Renouvier, ma tutto il mondo riesce a scongiurare il cristianesimo semplicemente perché Ponzio Pilato decide di non condannare e di liberare Gesù. Un altro importante romanzo ucronico è La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962) di Philip K. Dick, in cui lo scrittore immagina che le potenze dell’Asse abbiano vinto la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1960 siano diventati un protettorato giapponese. Come in un’ucronia che si rispetti, l’autore non indugia nel descrivere le circostanze che hanno portato a questi eventi: dal momento che si tratta della realtà (seppure fittizia), sono conosciuti da tutti e non è necessario descriverli. È con questa reticenza, con questo ‘non detto’ che l’ucronia si rafforza. E grazie al libro di Carrère, che oggi questa bella e appassionante traduzione ci permette di leggere finalmente in italiano, capiamo come negli interstizi della storia si possano celare spazi di ‘non detto’, delle ellissi che possono spalancare porte verso territori immaginari e immaginati: perché la storia e – si potrebbe aggiungere, vista la complessità che circonda da ogni lato – anche le vicende contemporanee, vanno sempre lette e sondate con estrema attenzione e lucidità e, perché no, anche con la giusta pacatezza e modestia.

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Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Il fascino antiquario dell’Utopia https://www.carmillaonline.com/2024/05/22/il-fascino-antiquario-dellutopia/ Wed, 22 May 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82492 di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti [...]]]> di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti (nell’analisi), irrealizzabili o superate nel volger di poco tempo, nonostante contenessero talvolta apprezzabili elementi di critica sociale. Così, già nel 1880, Friedrich Engels poteva sottolineare come:

In Francia [prima della Rivoluzione] tutto fu vagliato dalla critica più spietata (religione, concezione della natura, società, governo); tutto doveva giustificare la sua esistenza ante il tribunale della ragione o esser annientato. […] Tutte le forme sociali e statali fino allora esistite, tutte le concezioni tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali. […] Ora finalmente sorgeva la luce della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.
Ora noi sappiamo che tal regno della Ragione fu solo il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna fu realizzata solo come giustizia borghese; che l’uguaglianza andò a finir nell’uguaglianza borghese ante la legge; che la proprietà fu proclamata come il principale diritto umano; e che lo Stato conforme a ragione (il contratto sociale di Rousseau) si realizzò come repubblica democratica borghese (e solo così poteva realizzarsi). Come i loro predecessori, i grandi pensatori del ‘700 non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro epoca.
[…] Nella lotta contro la nobiltà, con diritto la borghesia si proclamò rappresentante delle varie classi lavoratrici di ogni tempo; eppure in ogni grande movimento borghese scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che fu l’antecessore più o meno sviluppato del proletariato moderno (la Guerra dei contadini degli anabattisti e Thomas Münzer durante la Riforma tedesca; i Livellatori durante la Gloriosa rivoluzione inglese; Babeuf durante la Prima rivoluzione francese). Tali sommosse rivoluzionarie d’una classe ancora indefinita si espressero pure teoricamente: nel ‘500 e nel ‘600, utopistiche descrizioni di regimi sociali ideali; nel ‘700 teorie già comuniste (Morelly e Mably).
[…] La prima forma della nuova dottrina fu un comunismo ascetico ricalcato su Sparta (spregiatore di tutti i godimenti della vita). Poi seguirono tre grandi utopisti: Saint-Simon; Fourier; Owen. […] Però, al loro tempo la produzione capitalistica (e con essa l’antagonismo fra borghesia & proletariato) era assai poco sviluppata. La grande industria nata in Inghilterra era ancora ignota in Francia. E solo la grande industria sviluppa quei conflitti (nonché fra classi, fra le forze produttive e le forme di scambio) che rendono necessario un mutamento del modo di produzione, l’elisione del suo carattere capitalistico. [Ma] nel 1800 i conflitti scaturiti dal nuovo ordine sociale erano solo sul nascere, così come i mezzi per risolverli.
[…] Tale situazione storica segnò i fondatori del socialismo: a produzione e lotta di classi imperfette corrisposero teorie imperfette. Finché celata nei rapporti economici arretrati, la soluzione della questione sociale doveva uscir dal cervello. La società offriva solo incongruità: eliderle toccava alla ragione pensante. Serviva inventar un nuovo e più perfetto ordine sociale ed imporlo alla società dall’esterno colla propaganda e magari con l’esempio di colonie-modello. Tali nuovi sistemi sociali erano condannati ad esser utopie: più essi erano elaborati nei loro particolari, più dovevano risultar fole.
[…] La concezione degli utopisti segnò a lungo le idee socialiste dell’800, e in parte le domina ancora. […] Il socialismo è per tutti loro l’espressione delle assolute Verità, Ragione, Giustizia. […] Ma la verità, la ragione e la giustizia assolute sono diverse per ogni caposcuola [Da ciò] poteva venir fuori solo un socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna oggi nelle menti della maggior parte degli operai socialisti francesi e inglesi; una miscela che ammette varie sfumature, che risulta dalle invettive critiche meno polemiche, da princìpi di economia e immagini della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più, durante la discussione, sono smussati gli angoli acuti della precisione dei singoli componenti, come ciottoli levigati nel torrente. Per far del socialismo una scienza, serviva anzitutto porlo su una base reale1.

Il lettore interessato alla fantascienza a questo punto si sarà già chiesto a che dovrebbe servire una così lunga citazione, vecchia ormai di quasi centocinquant’anni, in un contesto in cui, almeno apparentemente, l’attenzione dovrebbe rivolgersi principalmente agli autori e alle correnti critiche di tale genere letterario, eppure, eppure…

E’ proprio l’efficace introduzione di German A. Duarte al volume che raccoglie gran parte dei materiali pubblicati sulla rivista «Un’ambigua utopia» (d’ora in avanti citata come UAU) a dimostrare come anche i migliori tentativi di anticipazione sociale, politica e culturale siano, in qualche modo, tutti destinati a fallire. Proprio per l’imprevedibilità dei processi storici che, pur mantenendo spesso caratteristiche unitarie all’interno di un medesimo modo di produzione, possono riformularsi, espandersi e prendere strade che gli esercizi previsionali precedenti non potevano nemmeno immaginare.

German A. Duarte, nato a Bucaramanga (Colombia) nel 1983, dopo aver frequentato la Scuola di Cinema e Nuove Tecnologie di Lione (ARFIS) si è trasferito in Italia, dove attualmente è ricercatore presso la Libera Università di Bolzano. I suoi interessi di ricerca si muovono tra il cinema, le nuove tecnologie, la fantascienza, la produzione di valore nell’era digitale. Tra le sue pubblicazioni: Fractal Narrative. About the Relationship Between Geometries and Technology and Its Impact on Narrative Spaces (Transcript, 2014), La scomparsa dell’orologio universale (Mimesis, 2009); ha curato Reading Black Mirror. Insights into Technology and the Post-media Condition (Transcript, 2021). Ha inoltre pubblicato su «Carmillaonline»: West World: la valle della disrupzione, diviso in tre parti uscite nel marzo/aprile 2023.

Per DeriveApprodi ha curato questo «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, rendendo più agile la consultazione di una rivista che, inizialmente in formato di fanzine, tra il 1977 e il 1982, in soli nove numeri, diede vita ad una riflessione sul ruolo della fantascienza nel ridefinire oppure soltanto definire un’immagine del futuro anticipatrice dei cambiamenti oppure della continuità dell’esistente e del modo di produzione di cui era espressione.

La rivista era già stata ristampata integralmente in due volumi dalle edizioni Mimesis nel 20092, ma quella attuale (che pure contiene ancora una postfazione di Spagnul in appendice) risulta di più facile consultazione, sia per la scelta di testi operata che per il fatto di non essere in “copia anastatica” come quella precedente, piuttosto difficile da consultare visto il carattere di fanzine ciclostilata dei primi numeri della stessa. Ma al di là degli aspetti puramente formali, è proprio il discorso di “indirizzo” sviluppato dal curatore a rendere interessante questa nuova edizione.

Il volume che avete tra le mani […] sofferma lo sguardo sui modi in cui l’era industriale ha immaginato l’era post-industriale al fine di contribuire a rendere intelligibili alcuni elementi di quello che abbiamo chiamato al di là della prassi. Il testo aspira a fare luce su alcuni aspetti del meccanismo che permette, in maniera collettiva, di immaginare un futuro che non è chiaramente tracciato o inserito in una serie lineare di causa-effetto. In altre parole, il testo vorrebbe esplorare quell’entità astratta che chiamiamo immaginario e i modi in cui, attraverso questo, sia possibile territorializzare un futuro non tracciato, un futuro che sembra sfuggire una sorta di sequenzialità apparente. È da lì che nasce l’interesse per le esperienze degli anni Settanta.
[…] UAU è senza dubbio una testimonianza rilevante della forma in cui i movimenti di sinistra si sono appropriati delle narrazioni popolari di questo genere con l’intenzione di «occupare l’immaginario». Eppure, occupare l’immaginario non era altro che il tentativo di immaginare il futuro; immaginare un futuro non tracciato. Bisogna ricordare che nel secolo delle ideologie l’unico tempo modificabile era il passato; il futuro era semplicemente un virtuale ormai coniugato dal presente. Lo mostrava chiaramente Orwell nel suo fondamentale 1984. Di conseguenza l’occupazione dell’immaginario sostenuta dal movimento coincideva nella pratica con una agrimensura di un nuovo immaginario che si sovrapponeva a quello che aveva prodotto l’età industriale. Inoltre, l’occupazione dell’immaginario richiedeva il completo abbandono delle ideologie novecentesche e della loro visione di progresso (da lì il desiderio di voler «distruggere la fantascienza»). Usando la fantascienza come serbatoio di immagini e di fenomeni non ancora esistenti, UAU finì per mettere in luce i limiti di tutto l’apparato teorico ereditato dal Novecento.
Infatti, il radicale materialismo storico del collettivo lo poneva di continuo di fronte all’impossibilità di capire le relazioni sociali che il nuovo contesto tecnologico iniziava a delineare3.

Sostanzialmente, attraverso i nove numeri della rivista, è possibile analizzare sia la generosità di un periodo di lotte, penetrato in profondità nell’immaginario culturale e nella critica che ne scaturiva, che i limiti di ciò che più volte, nel corso del Novecento e, talvolta, già nell’Ottocento, ha voluto definirsi come avanguardia. Termine cui proprio l’editoriale del primo numero della rivista rinviava più meno indirettamente. In quel tentativo di modificare il futuro (della società, dell’arte o dell’immaginario non importa) distruggendo il presente condiviso e il passato degli stessi fattori. Dai quali, sostanzialmente, modificandone l’ordine, non si sarebbe dovuto ottenere lo stesso risultato. Ideale che ha animato tutti i movimenti d’avanguardia, e i loro manifesti, dal Manifesto del Partito Comunista del 1848 fino al Surrealismo e alle successive neo-avanguardie, ma che ne ha segnato irriducibilmente la caducità.

Nell’Editoriale di quel primo numero, pubblicato nel dicembre del 1977 e a cui avevano collaborato Marco Abate, Giancarlo Bulgarelli, Gerardo Frizzati, Danilo Marzorati, Giugliano Spagnul, Michelangelo Milani e Vittorio Curtoni, si affermava:

Apriamo questo editoriale del primo numero di «Un’ambigua utopia», ponendoci una domanda d’obbligo. Definire cos’è la fantascienza [ma] lo diciamo già da subito, le nostre risposte a questa e ad altre domande, le nostre critiche, analisi, sono di parte. Non cerchiamo la verità assoluta, il Santo Graal. Cerchiamo di fornire una risposta di classe. Una risposta che parte dalle nostre esigenze, dalla nostra scelta di lavorare per l’una o per l’altra classe.
A seconda del proprio pensiero politico allora? Ma cosa c’entra la fantascienza con la politica? […]
Non sono le scommesse sul futuro quelle che ci interessano […] è una scommessa sull’oggi. Scienza, strumento, indagine per riappropriarci della fantasia, della creatività, del godimento. Ecco, ci siamo. Questa è la nostra verità, la verità che ci interessa. La nostra fantasia, la creatività, la spontaneità, il gioco, il piacere il godimento. Tutto questo è stato occultato, seppellito, represso dalla scienza ufficiale, che ha assunto il proprio idolo nel cosiddetto «principio di realtà».
La fantascienza è invece portavoce del «principio del piacere». In pratica i bisogni del capitale, contro i bisogni dell’uomo.
Il capitale deve, per sopravvivere e svilupparsi reprimere i veri bisogni dell’uomo, per sostituirli con i suoi bisogni (creare nuovi prodotti e creare l’esigenza di consumarli), con un modello di vita e di società a lui congeniale (la famiglia, la scuola, la caserma, il lavoro salariato ecc. ecc.).
La fantascienza è un segno di rivolta a tutto questo, è la riscossa del principio del «piacere» sul principio di «realtà».
[…] Noi non siamo dei sostenitori della SF, non siamo dei fans. Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza. Vogliamo distruggerla.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro questo contenitore che si chiama
fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro
che quello che si trova fuori.
[…] La parola fantascienza sancisce la non veridicità di quello che essa ingloba. La non realtà.
La presenza della parola fantasia, annulla l’ufficialità e pertanto la realtà della scienza. La politica è la vita e perciò la realtà. La fantascienza, essendo la non-realtà, non può quindi essere politica. Quale miglior travestimento per una politica reazionaria.
Se, ad esempio, Heinlein, Anderson, Vance e altri facessero letteratura «normale » o filosofia invece di SF o fantasy, la loro linea politica sarebbe scoperta, palese e il loro pubblico sarebbe solamente quello che già in partenza è d’accordo con loro. Con la copertura della fantascienza, e perciò della neutralità dal politico, essi possono arrivare a un pubblico ben più vasto (anche di sinistra) e propagandare la loro bieca filosofia reazionaria.
[…] E, pertanto, modelli, parametri di interpretazione della realtà, falsi bisogni, vengono introiettati e messi in grado di operare a livello inconscio.
Per i contenuti rivoluzionari o solo progressisti, invece, il discorso è l’opposto. Qualunque proposta di un mondo, di vita alternativa, è fantascientifica.Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare.
[…] Quale in concreto allora il nostro compito?
Noi crediamo che sia il ripercorrere a marcia indietro la strada che intercorre tra una ben precisa ideologia, il pensiero e l’opera di fantascienza, svelando così, da una parte, i contenuti reazionari, e dall’altra contribuendo a realizzare un’analisi scientifica sui problemi di un modo di vita alternativo, per imparare a praticare l’utopia, anziché sognarla 4.

La dichiarazione d’intenti era chiara, ma come ogni manifesto o altra iniziativa tesa a definire un canone o un modello interpretativo, in questo caso di lettura classista del “genere fantascienza”, una volta per tutte, avrebbe finito con lo scontrarsi con la realtà dei fatti. Come sottolinea ancora il curatore nelle pagine finali dell’introduzione.

Il numero nove, apparso nel secondo trimestre del 1982, segnerà la fine di questa esperienza.
[…] Si percepisce in qualche modo che il serbatoio d’immaginario della fantascienza si era ormai esaurito, come il secolo che si stava chiudendo. Come qualche anno dopo avrebbe affermato James Ballard: «Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. Ha creato la letteratura popolare più importante del XX secolo. L’immaginario fantascientifico che vediamo nel cinema, nella televisione, nelle pubblicità e così via, è l’immaginario più potente che il XX abbia creato. Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto».
Come ben sintetizza Ballard, il successo della fantascienza non è stato nel prevedere un futuro, ma nel generare il nostro presente, oltretutto un presente che il collettivo di UAU rifiutava. Allo stesso tempo, le parole di Ballard ci mostrano che l’obiettivo originale di UAU, «il voler distruggere la fantascienza» si è risolto in un fallimento5.

E questo non soltanto perché quel concetto di scientificità della previsione, già rivendicato nel testo di Engels citato in apertura, avrebbe finito col far nuovamente precipitare nell’Utopia (quindi in ciò che deve essere forzatamente superato dagli eventi e dai conflitti reali) ciò che avrebbe voluto superarla, e neppure per quanto afferma Diego Gabutti, nella seconda delle tre postfazioni, ovvero che:

A descrivere il futuro non provano neanche più le allegorie utopistiche (ma anche distopiche, è lo stesso) d’un tempo più felice, quello dei movimenti radicali e delle teorie politiche ed escatologiche ottimiste, positive. A parlarci di futuro oggi è il cyberpunk, o il ciclo dei Terminator cinematografici, dove il futuro pesa come un incubo sul presente, oppure dove uomo e macchina si fondono tra loro e a chi entra nei mondi virtuali della rete agognando sollievo dal tempo presente conviene lasciare «ogni speranza», come a Dante giunto alle porte dell’inferno. Oggi l’utopia, lungi dall’essere soltanto ambigua, come sui pianeti gemelli di Ursula Le Guin e nella ragion sociale del collettivo e della rivista che qui ricordiamo, è sprofondata in mare, al pari d’Atlantide e Mu e d’ogni altro continente perduto […] A spiegarci quanto sia oggi inimmaginabile e indescrivibile il futuro sono le versioni cinematografiche delle storie di Philip Dick, delle quali (esagerandone un po’ l’importanza) negli ultimi anni si è celebrato il culto: Blade Runner, A Scanner Darkly, Minority Report, Radio Free Abemuth.
Dal futuro, d’un tratto, si deve distogliere lo sguardo, come a Los Alamos dall’orizzonte, prima che esploda la Bomba devastratrice e che Shiva Distruttore di Mondi cominci a danzare sulle rovine del mondo6.

A superare le previsioni del collettivo di UAU sarebbero stati proprio alcuni scrittori italiani che, al contrario del nichilismo che caratterizzava secondo i suoi rappresentanti scrittori come Lino Aldani o Vittorio Curtoni, proprio a partire dagli anni in cui si chiudeva l’esperienza della rivista avrebbero saputo lanciare lo sguardo sul futuro di guerre che oggi ci ha “finalmente” raggiunto e il passato che ha contribuito a determinarlo: Sergio Altieri (meglio conosciuto come Alan D. Altieri)7 e Valerio Evangelisti8.

Il volume curato da German Duarte si rivela comunque estremamente utile per ripercorrere le tappe di un’esperienza che, per quanto superata, nasconde ancora tra le sue pagine motivi di grande interesse analitico sull’immaginario di un’epoca e allo stesso tempo godibilissime dal punto di vista letterario. Di fatto imperdibile per chiunque si interessi di critica radicale e letteratura d’anticipazione.


  1. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), versione di Leonardo Maria Battisti, novembre 2017 (qui)  

  2. A. Caronia, G. Spagnul (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, Edizione integrale, voll. I e II, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009.  

  3. G. A. Duarte, Un’Ambigua Utopia. Mappatura di un “al di là della prassi”, in G.A. Duarte, (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 10-11.  

  4. Editoriale, «Un’ambigua utopia» n.1, dicembre 1977, ora in G. A. Duarte (a cura di), op. cit. pp. 20-22.  

  5. G.A. Duarte, op. cit, p. 15.  

  6. D. Gabutti, Guardando avanti, in G. A. Duarte, op. cit., p. 473.  

  7. In particolare con i due romanzi Città oscura (Dall’Oglio, 1981) e L’occhio sotterraneo (Dall’Oglio, 1983)  

  8. In particolare con i romanzi del ciclo di Eymerich, iniziatosi con straordinario successo nel 1994 con Nicolas Eymerich, inquisitore (Urania 1241, 2/10/1994.)  

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In che accidenti di mondo siamo? https://www.carmillaonline.com/2023/12/10/in-che-accidenti-di-mondo-siamo/ Sun, 10 Dec 2023 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80093 di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael [...]]]> di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael Crichton utili non solo a evidenziare le mutate modalità con cui attraverso il filtro distopico si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici e all’emergere della questione della “coscienza artificiale”, ma anche a prendere atto delle nuove forme di sfruttamento introdotte dall’universo digitalizzato contemporaneo.

Dopo essersi soffermata sul perturbante confronto tra l’essere umano e la macchina antropomorfa, sul rapporto tra identità/alterità che ne deriva e sul problema della coscienza a partire da alcuni celebri interrogatori o colloqui psicoanalitici proposti dalla fantascienza – dalle indagini del robopicologo di Mirror Image (1972) di Isaac Asimov, alla misurazione dell’empatia del test Voight-Kampff in Do Androids Dream of Electric Sheep (1968) di Philip K. Dick, poi ripreso dal film Blade Runner (1982) di Ridley Scott, fino al dialogo tra due cyborg ibridazioni umano-tecnologiche di Ghost in the Shell, media franchise sviluppatosi a partire dal celebre manga di Masamune Shirow (dal 1989) – Emanuela Piga Bruni propone un interessante confronto tra il film Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton e la serie televisiva da esso derivata Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld, dal 2016) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy per HBO suggerendo importanti riflessioni sul contesto contemporaneo ipertecnologico votato alla disincarnazione dell’umano e alla trasformazione del suo immaginario e della sua coscienza.

Un contesto, quello contemporaneo, in cui pur persistendo il fascino per l’avanzata digitale nonostante il palesarsi della deriva a cui questa sta conducendo in termini di controllo e sfruttamento, cresce anche il timore per la perdita del controllo sulle tecnologie da parte degli esseri umani indotti a domandarsi con preoccupazione se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana evitando però di chiedersi quanto quest’ultima si stia nel frattempo “computerizzando” per effetto delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dell’Intelligenza Artificiale al servizio del capitalismo della sorveglianza e predittivo.

Alcune narrazioni distopiche hanno saputo proporre riflessioni sull’incidenza delle tecnologie sugli esseri umani e su come questi ultimi si stiano trasformando. Se il romanzo di fine anni Sessanta Do Androids Dream of Electric Sheep di Dick si concentra sulle strutture oppressive del potere in un periodo incentrato sul medium televisivo, nel film dei primi anni Ottanta Blade Runner di Scott è invece l’universo informatico nella forma antropomorfa del replicante a conquistare la scena.

Confrontando l’androide del romanzo con il replicante del film si nota come del primo Dick eviti di dare una descrizione tecnologica, tratteggiandolo quasi come una figura magica, mentre il secondo venga utilizzato da Scott per mettere in scena non tanto una guerra tra esseri umani e macchine sfuggite al controllo, quanto piuttosto un tragico confronto tra macchine sempre più intelligenti e intuitive che sembrano dotarsi di coscienza ed esseri umani che stanno perdendo le loro peculiarità.

Se nel romanzo sono gli androidi a mancare di empatia, nel film sono piuttosto gli umani a mostrarsi deficitari in tal senso. Nell’opera di Scott il discrimine tra umano e macchina si sposta sulla presenza o meno di un passato, su quanto i ricordi siano derivati da esperienze vissute o impiantati artificialmente. Evidenziando il processo di artificializzazione del corpo umano, il film, rispetto al romanzo, insiste sulla sempre più difficile distinguibilità tra naturale e artificiale, tra organico e tecnologico.

Nell’opera di Dick l’artificiale assume un ruolo negativo in quanto simboleggia la realtà sintetica creata dai media e dalla farmacologia che ha condotto alla perdita di qualità tipicamente umane come l’empatia, l’amore e l’ironia: lo scrittore invita dunque a cogliere nell’artificiale la manipolazione della realtà operata dal potere.

Si può dire che a marcare una differenza sostanziale tra gli androidi di Dick e i replicanti di Scott è il fatto che mentre i primi vengono considerati demoni perché mancano di un’anima, i secondi si presentano come vittime del demone umano che sembra ormai aver smarrito la propria.

La questione della macchina antropomimetica è affrontata da Dick in un paio di suoi racconti nei primi anni Cinquanta: Second Variety e Impostor pubblicati su riviste di fantascienza nell’estate del 1953 (rispettivamente su “Space Science Fiction” e “Astounding Science Fiction”). Se nel primo il dover distinguere chi è umano da chi non lo è induce il lettore a immedesimarsi con il protagonista umano certo di essere tale, nel secondo caso chi legge è invece portato a identificarsi con chi, sospettato di essere artificiale, sente minacciata la propria identità di essere umano.

La questione della macchina antropomimetica si viene a intrecciare con il motivo del “cogito androide” ripreso da Dick sul finire degli anni Sessanta tanto nel citato Do Androids Dream of Electric Sheep? quanto nel racconto The Electric Ant (1969) in cui non ci si chiede più se si è realmente umani o soltanto programmati come tali, ma ci si domanda come possa reagire un robot organico che si crede umano nel momento in cui viene a conoscenza della sua vera natura. La questione del cogito androide, centrale nel film di Scott, viene affrontata direttamente da Dick nei suoi scritti The Android and the Human (1972) e Man, Android and Machine (1976).

Anche dal confronto tra il film Westworld di Crichton e l’adattamento che ne ha derivato l’omonima serie televisiva creata da Jonathan Nolan e Linda Joy proposto da Emanuela Piga Bruni – che si concentra esclusivamente sulla prima stagione –, permette di evidenziare come siano cambiate le modalità con cui si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici, con tanto di emergere della “coscienza artificiale”.

Lo scenario è quello di un parco divertimenti a tema con diverse ambientazioni – antica Roma imperiale, medioevo fiabesco e western di fine Ottocento – di proprietà della corporation Delos Inc. in cui operano robot antropomorfi indistinguibili dagli esseri umani programmati per soddisfare i desideri dei facoltosi visitatori sotto la discreta sorveglianza di operatori umani da una sala di controllo.

Ai clienti è permesso tutto ciò è invece loro proibito nella vita quotidiana in quanto ogni loro comportamento è rivolto contro esseri non umani imprigionati nella coazione a ripetere programmata, impossibilitati a ribellarsi mettendo in pericolo i visitatori. Un guasto nei robot induce uno di loro, il gunslinger “dal cappello nero” – che ha le sembianze dell’attore Yul Brynner, tra i protagonisti del celebre western I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges – a prendere violentemente di mira uno dei clienti, Peter Martin (Richjard Benjamin), arrivato nel parco insieme all’amico John Blane (James Brolin), dai diversi tratti compartimentali.

Nella serie televisiva i due amici diventano Logan (Ben Barnes), individuo senza scrupoli desideroso di sfogare i suoi peggiori istinti sui personaggi antropomorfi, e William (Jimmi Simpson), che da un iniziale ritrosia a commettere atti violenti si trasforma nel corso delle sue ripetute partecipazioni al gioco facendo pian piano emergere la parte più oscura di sé mentre tenta di risolvere il “mistero del labirinto” e di scoprire il dietro le quinte del parco.

Centrale nella serie è il personaggio di Dolores, prototipo degli host realizzati da Robert Ford (Anthony Hopkins) e dall’ormai deceduto, rispetto al presente narrativo, Arnold Weber (Jeffrey Wright), incline a essere solidale alle proprie “creature”.

Piga Bruni sottolinea come sul piano metanarrativo il testo televisivo non manchi di rinviare alla produzione e al funzionamento tipici della serialità generando un meccanismo di mise en abîme. Il controllo si presenta come un sistema a livelli concentrici con al centro i loops degli host, dunque le gesta dei clienti, i tecnici della corporation e, al livello più esterno, chi osserva la serie televisiva da casa. Ogni anello permette l’osservazione degli anelli che contiene.

Sia le attrazioni che i visitatori vivono nell’illusione di avere una scelta, mentre sono spiati e utilizzati per il profitto. Pur con livelli diversi di consapevolezza e margine d’azione, entrambe le categorie agiscono ritenendo di poter scegliere, di essere responsabili delle proprie azioni, ma le loro scelte sono predeterminate dal ridotto novero di possibilità offerte a monte. È una riflessione che possiamo estendere al cerchio esterno di noi spettatori, seguendo un percorso ricorsivo che attraversa mondi che sono via via reali uno all’altro1.

In tali tipi di narrazioni distopiche la figura dell’androide si presta facilmente a fungere da «allegoria di tutti i (s)oggetti sfruttati» imponendo una riflessione sui risvolti etici e sul ruolo della tecnologia nella nostra contemporaneità.

Se gli esseri antropomimetici del film di Crichton degli anni Settanta venivano presentati come macchine elettromeccaniche rivestite da sembianze umane, gli host della serie televisiva del nuovo millennio mostrano di essere costruiti con ossa, carne e sangue, del tutto simili agli umani ben oltre le sembianze superficiali. L’evoluzione non riguarda solo i corpi di questi esseri artificiali ma tocca anche la dimensione della coscienza e delle emozioni.

A differenziare gli esseri antropomimetici proposti della serie televisiva rispetto da quelli del film è la presenza di qualche manifestazione di coscienza. A palesare la dimensione puramente macchinica dei robot di Crichton, suggerisce la studiosa, sono le immagini in soggettiva del pistolero pixelate e scarsamente definite; scelta stilistica volta a sottolineare che si tratta di una ribellione contro gli umani del tutto inconsapevole, priva di una benché minima autodeterminazione, derivata semplicemente da un malfunzionamento tecnologico.

Come sottolinea Piga Bruni, la presenza di un barlume di coscienza negli esseri artificiali della serie televisiva è individuabile, ad esempio, nello sguardo di Maeve quando, per l’ennesima volta, dopo essere stata uccisa al termine del gioco, viene ritirata dai tecnici per essere rimessa in funzione per poi venire nuovamente destinata a soddisfare i clienti. A differenza della visione pixelata del pistolero del film, «la prospettiva di Maeve è nettamente situata, ed esprimere pienamente la dimensione creaturale di una donna ferita, il suo stupore misto a terrore, la percezione di essere in un incubo ancora più inquietante quando, agonizzante ma cosciente, vede il personale del parco incaricato del ritiro»2.

Le modifiche inserite dai creatori nel codice sorgente degli esseri antropomimetici volte a permettere uno sviluppo autonomo della cognizione di sé – come le reveries, le ricordanze – conducono all’emersione di una “coscienza artificiale” e alla definizione di un “inconscio artificiale” immanente, segnando il passaggio verso l’elaborazione di una loro “coscienza collettiva”, «una coscienza di classe volta a intraprendere azioni per riscattare le oppressioni, le torture e lo sfruttamento. Appare allora evidente l’allegoria per cui la condizione delle macchine antropomorfe nella finzione narrativa sia quella concreta degli esseri umani contemporanei, a un tempo merce del capitalismo digitale e fonte della materia prima nell’era del capitalismo della sorveglianza»3. Insomma, negli esseri antropomimetici oppressi di Westworld dovremmo riconoscerci noi esseri umani del nuovo millennio.

Nella serie, la ribellione degli host creati da Robert Ford – che non manca di evocare, sottolinea Piga Bruni, tanto il legislatore di Brave New World (1931) di Aldous Huxley, quanto il sistema fordista – posseduti dalla corporation Delos Inc. e utilizzati da questa nel suo prodotto/servizio di intrattenimento, non deriva da un malfunzionamento tecnico come nel film «ma è un frutto di un percorso di riconquista di sé, di riappropriazione delle proprie memorie ed esperienze, di autodeterminazione, che viene messo in atto da esseri senzienti dotati di percezioni e capaci di provare emozioni»4.

“Il mito della produzione a tutti i costi”, nella rappresentazione di Westworld, è un sistema pervasivo che controlla il ragionamento degli host, cancella i ricordi delle violenze da essi subite e ne dirige i comportamenti. Il controllo delle menti avviene poi anche attraverso alcune pratiche pseudoipnotiche attraverso le quali è possibile orientare direttamente il comportamento dei singoli soggetti: il codice sorgente caricato nel cervello degli androidi contiene evidentemente alcune subroutine che si attivano al riconoscimento della voce e dei gesti di chi detiene il potere5.

Il meccanismo dispotico si estende nella trama nascosta e illecita volta a sfruttare i visitatori dei quali interessa il “surplus comportamentale”. Insomma, il parco a tema si mostra un grande sistema totalitario in cui gli androidi sono mercificati e sorvegliati dalla corporation e i visitatori umani «sono materia prima per il parco in quanto macchina produttiva totalizzante»6. Tutto ciò si estende anche ai telespettatori.

In riferimento più immediato è alla sfera dei social network, gli spazi virtuali in cui i soggetti si muovono dimenticandone la natura mercantile, in cui agiscono senza curarsi di essere osservati e registrati. La spazialità del parco è un fenomeno sociale (delle relazioni tra umani, androidi e il panopticon), così come lo sono gli spazi digitali privati nei quali immettiamo immagini, spostamenti, ricordi, riflessioni e legami affettivi: la materia prima che le grandi corporation che li possiedono conservano in archivi remoti e analizzano in modo da acquisire competenze sulle nostre vite singolari più di quanto non possiamo noi stessi7.

Per Dolores il labirinto di cui prova a venire a capo diviene metafora del proprio sé profondo che conduce alla presa di coscienza di una condizione di essere sovradeterminato e sfruttato abitante un mondo fittizio creato da altri. «Origine o fulcro della presa di coscienza individuale, la scoperta la spinge a trascendere la fisionomia remissiva assegnatale dai creatori – dai “sognatori”, i proprietari del parco – e divenire il villain»8. Dalla complessità labirintica derivano gli interrogativi che si pone Dolores: “Who am I?”, “When am I?”, “Am I in a dream?”.

L’insistito ricorso alla domanda “Have you ever questioned the nature of your reality?” nella serie televisiva ci invita a domandarci “In che accidenti di mondo siamo?”, “Cosa siamo diventati?”. Se i replicanti di Blade Runner e gli host di Westworld, dotati di un briciolo di coscienza, hanno saputo ribellarsi, per quanto sempre meno umani possiamo essere divenuti, forse ci resta ancora qualche possibilità di farlo anche noi. Domandarcelo sarebbe già un importante passo in avanti.

 

 


  1. Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, Carocci, Roma 2022, p. 74. 

  2. Ivi, p. 79. 

  3. Ivi, p. 77. 

  4. Ibidem

  5. Ivi, p. 80. 

  6. Ibidem

  7. Ivi, p. 81. 

  8. Ivi, p. 85. 

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Mondi paralleli, tempo e rivoluzione in Auguste Blanqui (e nelle opere di Valerio Evangelisti) https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/mondi-paralleli-tempo-e-rivoluzione-in-auguste-blanqui-con-uno-sguardo-a-valerio-evangelisti/ Wed, 15 Nov 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79822 di Sandro Moiso

Auguste Blanqui, L’eternità viene dagli astri. Ipotesi astronomica, Traduzione di Raffaele Fragola, con una nota di Ottavio Fatica. Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pagine 132, 13 euro .

Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) è stato una delle figure principali dei movimenti rivoluzionari socialisti dell’Ottocento. Nato da una famiglia benestante, passò dal repubblicanesimo giovanile (cosa che già gli costò due anni di carcere per della polvere pirica ritrovata durante una perquisizione nella “Société des familles” da lui fondata nei primi anni Trenta del XIX secolo) al socialismo di carattere comunista proprio durante gli anni della prima detenzione. Che [...]]]> di Sandro Moiso

Auguste Blanqui, L’eternità viene dagli astri. Ipotesi astronomica, Traduzione di Raffaele Fragola, con una nota di Ottavio Fatica. Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pagine 132, 13 euro .

Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) è stato una delle figure principali dei movimenti rivoluzionari socialisti dell’Ottocento. Nato da una famiglia benestante, passò dal repubblicanesimo giovanile (cosa che già gli costò due anni di carcere per della polvere pirica ritrovata durante una perquisizione nella “Société des familles” da lui fondata nei primi anni Trenta del XIX secolo) al socialismo di carattere comunista proprio durante gli anni della prima detenzione. Che non fu l’unica, visto che avrebbe complessivamente trascorso, tra il 1831 e il 1879, trentasei anni e cinque mesi in prigione, motivo per cui ci si riferisce ancora oggi a lui come all'”Enfermé” (il Recluso).

Con l’amnistia del 1836 tornò in attività e fondò la “Société des saisons” con la quale, nel 1839, partecipò all’organizzazione di un’insurrezione che gli costò la condanna a morte, commutata in ergastolo, dal quale fu graziato otto anni dopo. Partecipò ai moti del 1848 e aderì alla “Société républicaine”, ma fu nuovamente arrestato e condannato alla deportazione in Africa, da dove tornò con l’amnistia del 1859 per essere ancora arrestato nel 1861. Dopo essersi sottratto alla legge andando in esilio in Belgio, continuò incessantemente la propria azione di propaganda politica, fondando i periodici «Candide» e «La patrie en danger». Per rientrare poi in Francia nel 1870 dopo la caduta di Napoleone III a seguito della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana. Dopo un’ennesima incarcerazione, Blanqui avrebbe pubblicato, nel biennio 1880-81, il giornale «Ni Dieu ni maître» (“Né Dio né padrone”), titolo talmente programmatico da esser diventato un dei motti più conosciuti dell’anarchismo1.

Uomo d’azione più che elaboratore di teorie, egli fu sempre fermamente convinto che il proletariato avrebbe potuto creare da sé una società di liberi e di uguali soltanto mediante un’insurrezione armata guidata da una piccola minoranza ben organizzata e decisa ad imporre la dittatura del proletariato (di cui fu il primo ad elaborare il concetto, in anticipo sugli stessi Marx e Engels)2.

Blanqui con la sua opera e la sua azione fu fonte di ispirazione non solo per generazioni di rivoluzionari, ma anche per scrittori come Valerio Evangelisti, anche se il legame che esiste tra l’opera di Valerio Evangelisti e quella di Auguste Blanqui è molto più profondo di quanto possa suggerire il fatto che il primo abbia intitolato il secondo volume della trilogia del Sol dell’avvenire con una delle frasi più celebri del rivoluzionario francese: Chi ha del ferro ha del pane.

Infatti, al di là delle simpatie “politiche” blanquiste e per l’azione spontanea degli oppressi spesso presenti nelle riflessioni e negli scritti di Evangelisti, occorre qui ricordare l’autentica venerazione che l’autore bolognese aveva per un’opera meno conosciuta del rivoluzionario francese, scritta mentre quest’ultimo languiva in carcere per essere stato arrestato proprio il giorno prima della proclamazione della Comune, il 17 marzo 1871. A seguito di ciò era stato prima condannato alla deportazione, il 17 febbraio 1872, poi commutata in carcere a vita e per motivi di salute incarcerato a Clairvaux, da cui fu in seguito trasferito al Chateau d’If, da dove poté uscire nel 1879 in seguito ad un provvedimento di amnistia, che non riconobbe però il fatto che Blanqui fosse stato eletto deputato a Bordeaux.

Quest’opera, ora ripubblicata dalle edizioni Adelphi, intitolata L’éternité par les astres e uscita per la prima volta in Francia il 20 febbraio 1872, tre giorni dopo la sua condanna all’ergastolo, va considerata come un autentico livre de chevet per Valerio Evangelisti, tanto da averlo spinto ripetutamente a consigliarlo come utile lettura ad amici, compagni e redattori di «Carmillaonline», la webzine di cultura, letteratura e immaginario di opposizione da lui fondata nel 2003.

Come si è detto poco innanzi, nel 1871 Auguste Blanqui, «l’eterno cospiratore», stava scontando l’ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. In tale occasione, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che stava infiammando Parigi, lo avevano trasferito nel remoto castello di Taureau, in Bretagna, dove fu sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riescì a scrivere e a far arrivare all’esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarebbe stato il suo primo libro, pubblicato l’anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall’ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui aveva meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che – ispirandosi all’edificio cosmologico di Laplace – avanzava un’ipotesi vertiginosa:

Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità.
La terra è uno di questi astri. Ogni essere umano è dunque eterno in ogni secondo della sua esistenza. Ciò che sto scrivendo in questo momento in una cella del Forte di Taureau l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, su di un tavolo, con una penna, degli abiti addosso, in circostanze del tutto analoghe. Questo vale per chiunque.
Tutte queste terre sprofondano, l’una dopo l’altra, nelle fiamme rinnovatrici, per rinascerne e ripiombarvi ancora, monotono fluire d’una clessidra che da sola si capovolge e si svuota eternamente. È un nuovo sempre vecchio, e un vecchio sempre nuovo3.

Queste righe comprese nel Riassunto, posto al termine dell’opera, suggeriscono il contenuto delle riflessioni di Blanqui sul cosmo, gli astri e il destino o il divenire di ogni singolo essere vivente, incluso l’uomo. Il tutto, però, inserito in un contesto in cui l’esistenza di infiniti mondi paralleli supera il mito dell’eterno ritorno, poi ripreso e rafforzato nel pensiero di Nietzsche, per aprirsi alle infinite possibilità che si offrono, seppur in mondi diversi, all’agire umano in direzione del cambiamento dell’esistente.

Il testo affronta il tema attraverso una visione che, però, non è suggerita dalla disperazione legata alla lunga prigionia prevista, inserita nel corso di una vita già segnata da decenni di detenzione, ma dalla speranza o addirittura dalla sicurezza che ciò che è stato sconfitto o non è possibile qui ed ora può risultare vincitore, e quindi essere possibile, in un altro momento, in un altro mondo. Massima espressione quindi della fiducia nel positivo esito della lotta contro lo sfruttamento e il dominio dell’uomo sull’uomo.

Il tema dei mondi e degli universi paralleli, oltre ad essere discusso come uno dei paradossi o delle possibili conferme della fisica più avanzata, ha certamente costituito un tema ricorrente della Fantascienza, dai fumetti di Brick Bradford ai romanzi e racconti di Murray Leinster, Jack Williamson, Philip K. Dick, Poul Anderson, Michael Moorcock e molti altri ancora.

Romanzi e racconti che immaginano possibilità diverse per l’evoluzione dell’uomo e della sua storia, di cui The Man in The High Castle di Dick (1962)4, che immagina un mondo in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dal Giappone e dalla Germania e gli Stati Uniti sono stati occupati e colonizzati per gran parte del loro territorio, costituisce ancora uno dei più validi esempi.

Mondi paralleli che assumono spesso il volto dell’ucronia e della distopia o anti-utopia come capita, soltanto per citarne ancora uno, nel mondo dominato dai vampiri, in cui Dracula ha sposato la regina Vittoria, del ciclo di romanzi e racconti di Kim Newman5. Ma in cui occorre intraveder la possibilità che, come aveva affermato Albert Einstein, in occasione della morte di un suo caro amico, “ciò che non è qui ora e adesso non è detto che non sia invece presente in un altro angolo dell’Universo”. Ovvero nel tempo e nello spazio o, se si preferisce, nello spazio-tempo intuito dallo steso ideatore della teoria della relatività.

Lasciamo per un momento da parte i sistemi stellari originali per occuparci più particolarmente della terra. La ricollegheremo fra poco a uno di essi, al nostro sistema solare, del quale fa parte e dal quale dipende il suo destino. Si capisce che nella nostra tesi l’uomo, così come gli animali e le cose, non ha uno specifico diritto all’infinito. Di per sé, egli non è che un essere effimero. È il globo di cui è figlio che lo rende partecipe della sua patente d’infinità nel tempo e nello spazio. Ognuno dei nostri sosia è figlio d’una terra sosia essa stessa della terra attuale. Noi facciamo parte del calco. La terra-sosia riproduce esattamente tutto ciò che si trova sulla nostra, e di conseguenza ogni individuo, con la sua famiglia, la sua casa, quando ne ha una, e tutti gli avvenimenti della sua vita. È un duplicato del nostro globo, contenente e contenuto. Non vi manca nulla6.

Ciò che anima lo scritto di Blanqui è, innazitutto, un materialismo inflessibile, in cui l’uomo, come tutti gli esseri viventi che lo circondano, deriva le sue caratteristiche da un ambiente dato e definito dalla materia e dalle sue infinite combinazioni che lo costituiscono, in tutte le loro possibili differenze e variazioni. Rilessione che gli fa aggiungere:

Supponiamo tuttavia alcune differenze che ne limitino l’accostamento a una semplice analogia. Si conteranno miliardi di terre di questo tipo prima di incontrare una somiglianza completa. Tutti questi globi avranno, come noi, terreni che digradano a terrazza, una flora, una fauna, dei mari, un’atmosfera, degli uomini. Ma la durata dei periodi geologici, la ripartizione delle acque, dei continenti, delle isole, delle razze animali e umane offriranno innumerevoli varietà. Andiamo avanti.
Una terra nasce, infine, con la nostra umanità, che dispiega le sue razze, le sue migrazioni, le sue lotte, i suoi imperi, le sue catastrofi. Tutte queste peripezie cambieranno i suoi destini, la getteranno su strade che non sono quelle del nostro globo. In ogni minuto in ogni secondo, migliaia di diverse direzioni si offrono a quel genere umano, che ne sceglie una e abbandona per sempre tutte le altre. Quanti scarti a destra o a sinistra modificano gli individui, modificano la storia! Ma non è ancora lì il nostro passato. Mettiamo da parte queste copie confuse. Non per questo non faranno la loro strada e non saranno dei mondi.
Ma alla fine ci arriviamo. Ecco un esemplare completo, cose e persone. Non un sasso, non un albero, non un ruscello, non un animale, non un uomo, non un incidente che non abbia trovato il suo posto e il suo momento nel duplicato. Si tratta d’una vera e propria terra-sosia… per lo meno fino a oggi. Perché domani gli avvenimenti e gli uomini proseguiranno il loro cammino. D’ora innanzi per noi è l’ignoto. Il futuro della nostra terra, così come il suo passato, cambierà strada milioni di volte. Il passato è un fatto compiuto; è il nostro passato. Il futuro si concluderà solo alla morte del globo. Da qui fino allora, ogni istante porterà la sua biforcazione, la strada che si prenderà e quella che si sarebbe potuta prendere. Qualunque sia, quella che dovrà completare l’esistenza propria del pianeta fino al suo ultimo giorno è già stata percorsa miliardi di volte. Non sarà che una copia impressa in anticipo dai secoli7.

Sono le scelte fatte dagli uomini, almeno sulla Terra che li riguarda, a determinare il loro destino. Definitiva affermazione dello spirito che animava Blanqui. Anche a costo di passare attraverso infinite sconfitte, carcerazioni e battaglie sanguinose.

Gli avvenimenti non creano da soli varianti umane. Quale uomo non si trova talvolta di fronte a due strade? Quella da cui egli si allontana gli procurerebbe una vita molto diversa, pur lasciandogli la medesima individualità. L’una conduce alla miseria, alla vergogna, alla schiavitù. L’altra portava alla gloria, alla libertà.
[…] Che si prenda una determinata strada a caso o per scelta, indifferentemente, non si sfugge alla fatalità. Ma la fatalità non trova appoggio nell’infinito, il quale ignora l’alternativa e ha posto per tutto. Esiste una terra dove un uomo segue la strada disdegnata dal suo sosia in un’altra. La sua esistenza si sdoppia, un globo per ciascuna, poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Egli possiede così dei sosia completi e innumerevoli varianti di sosia, che moltiplicano e rappresentano sempre la sua persona, ma prendono solo dei frammenti del suo destino. Tutto ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù lo si è in qualche altro luogo. Oltre alla propria intera esistenza, dalla nascita alla morte, che si vive su una moltitudine di terre, se ne vivono, su altre, diecimila edizioni differenti8.

L’enfermé, come lo aveva definito Gustave Geffroy, il primo autore di una biografia di Blanqui (L’enfermé, pubblicata in Francia nel 1897), aveva saputo, quindi, sollevarsi ben oltre le strette mura di una cella, ben oltre le condanne e le vicissitudini che lo avevano accompagnato per decenni, per librarsi, comunque libero di pensare e di immaginare, al di sopra dei limiti sociali, economici, fisici che sembravano limitare l’agire umano da tempi immemori. E tutto ciò non poteva certo dispiacere ad un autore come Valerio Evangelisti, non soltanto dal punto di vista scientifico e fantascientifico, ma anche filosofico e politico.

L’avventura o la ribellione, oppure la Rivoluzione e il cambiamento radicale sono resi possibili dai viaggi tra i mondi e le infinite possibilità sparse nell’Infinito e nel Tempo, sempre sorprendenti, ma sempre ferreamente definite da quei cento elementi fisico-chimici che, nel gioco ricombinatorio del Cosmo e della Natura, nell’opera di Blanqui rendevano possibile sia la varietà che l’uniformità degli universi o mondi paralleli.

Ecco allora che il “pensare cosmico” di Blanqui incrocia perfettamente la battaglia di Evangelisti per strappare l’immaginario alla sua colonizzazione da parte del capitale, per rifondarne un altro. Ovunque sia possibile. Una battaglia in cui spazio e tempo giocano un ruolo fondamentale, finendo spesso col coincidere come nello spazio-tempo della fisica successiva ad Einstein.

Tempo su cui oggi si gioca, nel tentativo di cancellare ogni memoria delle possibilità di cambiamento radicale che si son presentate agli uomini e alle loro strutture sociali nel corso della storia pregressa, soprattutto una partita fondamentale rappresentata dalla celebre affermazione sulla fine della storia di Francis Fukuyama. Affermazione arrogante e apodittica che nel negare la Storia finiva col negare non solo l’importanza e la presenza del passato per la comprensione dei problemi della società (e la loro possibile risoluzione sulla base di diverse prospettive e aspettative), ma anche il futuro. Riducendo tutto ad un eterno presente, immodificabile e in cui sono destinati a vigere perpetuandosi i valori della società liberale eretta dal dominio del capitale.

Ed ecco allora il perché della scelta di Valerio Evangelisti, proprio all’interno del ciclo di Eymerich, di non cogliere mai, nella tripartizione temporale di ogni romanzo, il momento attuale, il presente.
Nei romanzi gli avvenimenti si svolgono nel Medio Evo dell’inquisitore catalano, in un futuro sempre lontano, se non lontanissimo, e in un presente sempre rappresentato, però, per mezzo di uno scarto temporale che fa sì che l’azione non coincida con il tempo del lettore. Una sorta di presente parallelo e sfuggente, non inquadrabile in un ordine temporale e sociale definito una volta per tutte.

Un presente parallelo o anticipatorio che nega la solidità di quello “reale”, ancora determinato dal Capitale e dalle sue leggi e magari anche da un passato sanguinario e sanguinoso di sconfitte e illusioni, ma che non conferma affatto la stabilità e l’eternità dello stesso. Un presente fuggevole, quello reale, e insignificante rispetto a cui contano molto di più l’esperienza del passato, con i suoi crimini e le sue sconfitte, e le possibilità che si aprono ad ogni bivio per ogni uomo, donna o società in rivolta. Ci sarà sempre un nuovo inizio e una nuova partita da giocare, fino alla fine del globo su cui viviamo e da cui non possiamo separarci. Ed è proprio in questa prospettiva di superamento del miserabile presente che l’opera di Valerio Evangelisti e la visionarietà di Auguste Blanqui hanno finito col coincidere perfettamente.

E proprio quest’ultimo elemento può costituire un ulteriore motivo di interesse, nei confronti del trattato di “astronomia dell’immaginario politicato” appena ripubblicato da Adelphi, per i lettori delle opere dello scrittore bolognese scomparso da poco più di un anno.


  1. Per una più ampia ricostruzione della vita di Auguste Blanqui si rinvia a M. Dommaget, Blanqui, Erre emme edizioni, Roma 1990.  

  2. Per un primo sguardo antologico alle opere di Louis-Auguste Blanqui, si rinvia invece a L.A. Blanqui, Socialismo e azione rivoluzionaria, a cura di G.M. Bravo, Editori Riuniti, Roma 1969.  

  3. A. Blanqui, L’eternità viene dagli astri, Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pp. 98-99.  

  4. P. K. Dick, La svastica sul sole, Science Fiction Book Club, Piacenza 1965.  

  5. K. Newman, Anno Dracula (1992), prima traduzione italiana Fanucci, Roma 1997; K. Newman, The Bloody Red Baron (1995), prima traduzione italiana come Il barone sanguinario, Fanucci, Roma 1998 e K. Newman, Dracula Cha Cha Cha (1998), prima traduzione italiana Urania n. 1538, Arnoldo Mondadori Editore, Milano settembre 2008.  

  6. A. Blanqui, op. cit., p. 74.  

  7. Ivi, pp. 75-76.  

  8. Ibidem, p. 77.  

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Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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