Peter Weir – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il signor Weir, le vergini e il mistero https://www.carmillaonline.com/2021/12/07/il-signor-weir-le-vergini-e-il-mistero/ Tue, 07 Dec 2021 21:34:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69587 di Franco Pezzini

Ritorno a Hanging Rock, a cura di Emanuela Cocco, pp. 180, € 14,00, Arcoiris, Salerno 2021.

(Per i tipi Arcoiris è uscita da pochi giorni questa bella raccolta di racconti ad avvio di una nuova collana “di letteratura nera, raccapricciante, fantastica, inquietante, fantasmatica”, tReMa, progettata e diretta da Emanuela Cocco. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

 

C’è un tempo e un luogo perché

qualsiasi cosa abbia principio e fine…

 

Rivisto oggi, rimasterizzato a recuperare luci e [...]]]> di Franco Pezzini

Ritorno a Hanging Rock, a cura di Emanuela Cocco, pp. 180, € 14,00, Arcoiris, Salerno 2021.

(Per i tipi Arcoiris è uscita da pochi giorni questa bella raccolta di racconti ad avvio di una nuova collana “di letteratura nera, raccapricciante, fantastica, inquietante, fantasmatica”, tReMa, progettata e diretta da Emanuela Cocco. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

 

C’è un tempo e un luogo perché

qualsiasi cosa abbia principio e fine…

 

Rivisto oggi, rimasterizzato a recuperare luci e colori caldi che il tempo aveva appannato, Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock) di Peter Weir, 1975, resta un film entusiasmante, anche se meno enigmatico di quanto apparisse all’uscita. Oggi sappiamo di un finale omesso (che è possibile vedere anche su You Tube) e di una parte determinante di storia già stralciata dal romanzo-fonte di Joan Lindsay, 1967; e decenni di critica hanno analizzato l’opera, dissodandola scena dopo scena alla luce di chiavi diverse. Proviamo a sintetizzare, con il necessario strabismo con cui dovremmo sempre leggere un film o un romanzo: un occhio all’autore e al suo pubblico originale, un occhio a noi oggi. E un primo passo può consistere nel cercare una chiave classificatoria.

Consultando Wikipedia in data odierna (6 ottobre 2021) troviamo che la versione italiana non ne offre un’etichetta di genere, mentre la pagina inglese parla senz’altro di mystery film, termine sufficientemente generico – tradurre “poliziesco” è già troppo – su un mistero (appunto) che richieda un tentativo di risoluzione, ma senza ulteriori specificazioni.

Visto che Picnic ad Hanging Rock offre la chiave ideale alla bella raccolta che avete in mano, non sembra inutile analizzarne rapidamente gli ingredienti. A partire da quelli cifrati nel titolo: il picnic evoca una situazione piacevole, un’occasione conviviale di gita nella Natura (un picnic suggella la svolta di un’altra storia di fanciulle vittoriane alle prese con l’Altrove, Carmilla di Le Fanu), mentre Hanging Rock (Rocciappesa, Rocciapendente) è una formazione geologica molto suggestiva, circonfusa da leggende di spiriti e memorie dell’antica presenza aborigena, nello stato di Victoria nell’Australia sudorientale.

La storia appunto dell’escursione in loco il giorno di San Valentino 1900 di un gruppo di ragazze da una scuola privata conduce com’è noto al mistero della scomparsa di due di loro e di un’insegnante (una terza allieva verrà trovata dopo giorni, priva di memoria sull’accaduto): ma quell’irruzione di ciò che epifanizza come caos nel mondo in apparenza ordinato dell’istituto vittoriano (caos vs. ordine), eruzione del “male delle donne” (isteria vs. salutismo della gita), contatto delle allieve con una natura indecifrabile (Natura vs. cultura), fiato di un passato arcaicissimo (passato vs. presente), fa esplodere dall’interno la realtà oppressiva dell’istituto. La data della festa di San Valentino suggerisce a tocchi lievi lo tsunami sentimentale, comunque emotivo e in un ultima istanza sessuale nell’ambiente un po’ represso della scuola: e a più riprese torna il tema del sogno, in Australia non esaurito in vaga fantasia ma cifra connotante di uno stato dell’esistenza. Si pensi al Tempo del Sogno della locale cultura aborigena, età mitica originaria richiamata ad alcune formazioni geologiche del territorio – come appunto certe montagne o rocce – e insieme dimensione raggiungibile sciamanicamente appunto attraverso il sonno. A rendere un successivo film di Weir, L’ultima onda (The Last Wave), 1977, una specie di ideale sequel dove la deflagrazione si fa escatologica, chiamando in causa direttamente la cultura aborigena, lo spazio onirico e raggiungendo il mondo della crisi climatica a noi contemporaneo.

In effetti è dopo un sonno e una sorta d’incubatio di fronte alla fenditura superiore dell’Hanging Rock che le tre ragazze spariscono come in trance, e l’insegnante di matematica si sperde (in déshabillé, dice qualcuno) nella confusione alla base del rilievo roccioso, dove almeno un paio di orologi si sono misteriosamente fermati all’ora panica del mezzogiorno; mentre la quarta ragazza che era salita, meno avventurosa e più repressa delle altre, alla loro sparizione nella cavità fugge in preda a un terrore isterico, con urla belluine. Sempre in seguito a un sogno-visione su quello spazio della montagna, il giovane Michael Fitzhubert condurrà il suo giovane aiutante a ritrovare presso la fessura una delle ragazze… e nel finale rimosso dal regista, la dispotica direttrice della scuola si assopirà a sua volta nello spazio incubatorio, finendo malissimo.

Dunque mystery, va bene: ma varie altre categorie potrebbero essere spese per tentare d’inquadrare il film. Alcune antiche, come quella del Sublime, “l’orrendo che affascina”: fotografa la sostanza della vicenda solo in parte, ma può dire qualcosa di certi brividi che sotto la rupe animano la festosa compagnia. Altre legate allo sviluppo cinematografico: non siamo qui distanti per esempio dal sottogenere folk horror che proprio in quegli anni conosce evocazioni fondamentali – si pensi a The Wicker Man di Robin Hardy, 1973 – e vede in scena scioccanti riemersioni di paganesimo in chiave visionaria e sovversiva dell’ordine noto. Tanto più se ipotizziamo a monte qualche retroterra di cultura classica, almeno da parte della narratrice Joan Lindsay: come tramanda Pausania, le Arrefore erano due vergini – come le ragazze che qui spariscono definitivamente nella rupe, ma in realtà più giovani, tra i 7 e gli 11 anni – abitanti per un anno in un luogo dell’Acropoli di Atene non lontano dal tempio di Atena Poliade. In occasione della festa estiva delle Arreforie, le due ricevevano dalla sacerdotessa di Atena una cesta di cui ignoravano il contenuto (un fallo, o forse un suo sostituto simbolico?), per portarlo entro un passaggio sotterraneo naturale nel recinto di Afrodite dei Giardini, sulle pendici dell’Acropoli, lasciarvelo e prenderne un altro, sempre coperto; poi venivano sostituite da altre due vergini. Si sono viste nel rituale dimensioni di iniziazione sessuale, la catabasi quale morte dello stato virginale e l’emersione dal cunicolo sotterraneo di Afrodite come sbocco alla maturità anche fisica. Per altri interpreti, l’iniziazione non sarebbe stata quella tribale “ordinaria” legata alla crescita d’età, ma una misterica (i misteri, del resto, hanno spesso attinto elementi rituali dai riti di passaggio tribali): e in ogni caso si è notata la somiglianza con il mito delle Cecropidi, che curiosando nella cesta affidata da Atena con l’ingiunzione a non guardarvi, trovavano un serpente avvolto attorno al bimbo Erittonio, venivano colpite da follia e si precipitavano dall’Acropoli. Mystery, insomma, non solo e non tanto come enigma poliziesco ma come mistero indicibile di un rito di passaggio, legato a un’età della vita (e in questo senso il film è stato opportunamente avvicinato a uno molto più tardo, Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola, 1999, ambientato però all’incirca negli anni dell’uscita del film di Weir e che pure abbina inquietudini adolescenziali, greve repressione e fughe infere) o piuttosto all’accostamento a realtà ulteriori.

Il fatto è che presso Hanging Rock il tempo “ordinario” conosce strane perturbazioni (indicativo è l’inchiodarsi degli orologi), forse proprio per lo sghembo reagire con il Tempo del Sogno e insieme con la bolla di non-tempo dell’esperienza iniziatica. Per cui, al di là dell’idea originale dell’autrice del romanzo, che nel capitolo stralciato offriva uno sviluppo almeno in parte razionale, sembra non improprio considerare Picnic ad Hanging Rock come un film fantastico – di quel fantastico che, ricordiamo, è meno un contenuto che un modo di narrare in ossequio a ragioni visionarie, interiori, legate a un certo sguardo sulla realtà. E del resto L’ultima onda, che riprende tale tipo di linguaggio, sarà poi un film compiutamente fantastico. Ovvio, le classificazioni sono utili fino a un certo punto: ma possono offrire qualche suggestione per tentar d’entrare nella fenditura additata da Weir. E magari riceverne suggestioni ispirative.

Letto nell’ambito degli anni Settanta di provocazioni, ribellioni e utopie lisergiche, Picnic ad Hanging Rock è di quelle eruzioni epocali una lettura brillante, equilibratissima, potremmo dire – se fosse un testo scritto – in punta di penna. Un film che assomma così tanti spunti affascinanti, intelligenti, piacioni da spingere un critico acuto come Giovanni Grazzini (Corriere della sera, 19 marzo 1977) a definire tra le lodi Weir – “questo regista galeotto [che] sa vendere la sua merce con la scaltrezza di chi allaccia il pubblico con corde impalpabili” – come “uno stregone di sublime ruffianeria”. L’esplosione estatica dell’oppressivo ordine vittoriano, la ribellione onirica delle ragazze evase nell’Oltre, lo spiazzamento delle categorie occidentali, razionali, istituzionali di controllo sul mondo vengono offerti dal film a un’epoca che sa ben apprezzarli. Laddove oggi a distanza di mezzo secolo, analizzati ormai da millanta punti di osservazione, soggetti a innumerevoli carotaggi, rinfrescati negli straordinari aspetti visivi con un congruo restauro, offrono insieme una festa di bellezza, il tributo malinconico a un’epoca ormai chiusa e il senso amaro di una tragedia che finisce persino col sopravanzare la carica politica dell’apologo.

L’elemento infatti più connotante della storia è in sé l’evento sparizione, tanto più conturbante per quanto attiene (non ce ne voglia la povera insegnante di matematica) le due ragazze. Sappiamo che il numero di sparizioni ogni anno è vertiginoso, sia per motivi privati – gente che, a titolo diverso e non necessariamente tragico, vuole sparire dalla circolazione – sia di dinamiche sociali o politiche (si pensi solo a quelle denunciate dalle Madri di Plaza de Mayo); ma a grandi numeri molte riguardano donne giovani o giovanissime, sul fronte conclamato della cronaca come nel caso nostrano tanto noto di Emanuela Orlandi, o invece per esempio nel silenzio delle infinite vittime di Ciudad Juárez. Sappiamo perfettamente quanta angoscia susciti la sparizione di qualcuno, tanto più di qualcuno che ci sia caro, e ricordiamo discorsi tante volte echeggiati – “Ci facciano almeno ritrovare il corpo”, “Ci fosse almeno una tomba su cui piangere”: dove il dolore illimitato del mancato ritorno, specialmente di chi è giovane, assume i connotati umanamente non sopportabili dell’inavvicinabilità a un resto concreto, fossero anche ossa o ceneri. La sparizione è già in radice metafora della morte; anzi, con un linguaggio che potrebbe piacere alla povera insegnante di matematica del film, è – potremmo dire – una morte al cubo, uno spazio vuoto e un buco nero capace di disarticolare la realtà intorno come l’ordine vittoriano dell’istituto descritto. A partire da dinamiche di tempo: qualcuno sparisce, prima c’era, poi non più e potrebbe riapparire (così accade alla terza delle ragazze) ma la speranza è erosa dall’incedere dei giorni… In questo senso e con il conforto della simbolica di Weir sul Tempo dei Sogni, insieme e più che in un luogo si sparisce in un tempo, da un tempo.

 

E a questo punto possiamo tornare alla raccolta in questione. Dove, nell’ambito di questa nuova intrigante collana di narrativa provocata da spunti cinematografici, sotto la sollecita e visionaria cura di Emanuela Cocco, gli autori si sono confrontati con gli input di Picnic ad Hanging Rock rileggendoli con grande libertà. Cerchiamo di accorparli per filoni.

Senza far torto a nessuno degli autori, due racconti soprattutto si sono avvicinati allo spirito del film – in termini, va sottolineato – di grande originalità. Ipotesi V di Fabio Massimo Franceschelli presenta non solo la storia di una scomparsa “impossibile” nella Roma 1970, ma la devastazione di chi cerca di darvi risposta. Senza derivazioni apparenti, la mente corre ai misteri di un romanzo di ambientazione in gran parte romana, Il fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne, dove la gestione del mistero – sparizioni comprese – è evocata con tanta forza onirica da far pensare i lettori a soluzioni sovrannaturalistiche, e l’autore stesso dovrà intervenire a spiegare che no, la sua soluzione non era quella. In effetti quando nel 1977 la Rai ne offrirà una versione sceneggiata, lo renderà una storia di mistero, reincarnazioni e fantasmi alla Segno del comando. E torniamo alla cifra di un  fantastico-imbarazzo (alla Todorov, se vogliamo) che lascia nello spiazzamento e fa ipotizzare il preternaturale senza poter però esser certi di nulla.

Sempre in stretta connessione con lo spirito del film è Memory Hotel di Sergio Gilles Lacavalla, con l’immaginario incontro a distanza d’anni tra due delle ex-giovanissime attrici, e il tragico sviluppo del rapporto un tempo nato tra loro. Qui l’autore ha probabilmente lavorato di fantasia su un dato storico, il clima un po’ malsano sul set che aveva visto le giovanissime esordienti coalizzarsi contro la povera attrice gallese Rachel Roberts, nei panni dell’antipatica direttrice del collegio Mrs. Appleyard, confondendo interprete e personaggio (e spingendola a recitare parte delle scene davanti a una parete bianca, onde evitare le occhiatacce delle ragazze). Ovviamente lo sviluppo del racconto e il tragico finale sono di fantasia.

Altri racconti giocano sul rapporto tra sparizione e crisi identitaria – intesa non nel senso psicologico più comune, ma di quella perturbazione profonda che spesso connota il fantastico. È il caso del suggestivo C’è uno squarcio sulla recinzione lungo la via che taglia il frutteto di Christian Di Furia, sul set di una casa abbandonata che sembra uscire da Vampyros Lesbos di Jess Franco, 1971 (c’è anche una ragazza su un grande divano rosso che si nasconde sotto una coperta e fa pensare alla contessa Nadine di Soledad Miranda – e qui il nesso col film, una storia di donne e manichini che termina proprio con una sparizione e rifrazione identitaria); ma è il caso anche del raggelante Charlotte sulla scogliera di Domenico Caringella, e qui se dovessimo pensare al clima di un film (ma non occorre, il legame non è così stretto) si potrebbe citare L’isola delle demoniache di Jean Rollin, 1974. Sparizione e crisi identitaria, dicevo: nel senso che la persona sparita può essere in realtà la stessa che ne denuncia la scomparsa (per schizofrenia, scissione della personalità, frantumazione della medesima in un effetto-Legione o mille altre fattispecie tra lo psichico e il paranormale) o l’identità terrena che lascia all’abbraccio della desolata madre una proiezione spettrale, un’inquietante presenza.

Tra possessione e deflagrazione psichica si sviluppa un altro racconto molto bello e inquietante, La naturale legge del vuoto di Lucrezia Pei e Ornella Soncini. Qui più che a un film – che dovrebbe battere dalle parti delle pellicole esorcistiche di ambientazione africana – in grazia della citazione dal Fisiologo, si potrebbe pensare a un quadro, La iena di Leonora Carrington, oggetto anche del suo celebre racconto del 1937 La debuttante. Ma in realtà il grido belluino della quarta ragazza in fuga dall’Hanging Rock, e il riferimento del romanzo alla “hyena call of hysteria”, sono spunti sufficienti alla sconvolgente vicenda descritta, dove “nel buio [del cinema, Alice] fu riempita e svuotata”: un’espressione terribile e cruda che può implicare significati diversi, ma reca di fatto avvio a una scomparsa dall’umanità. Avvicinandosi in ciò a un racconto del tutto diverso e struggente, Sparire di Vins Gallico, dove le sparizioni parallele di un padre e di un figlio parlano il linguaggio di una ritrazione dalla vita per il primo, dal dolore e dalla fatica per il secondo.

Non meno belli, gli altri testi sviluppano la provocazione da maggiori distanze, forse sull’onda della convinzione che il modo migliore di rifarsi a uno spunto sia di tradirlo, almeno superficialmente. L’eclissi di Silvia Tebaldi, ambientato a Ferrara, si concentra con grande eleganza formale sulla declinazione cronologica ed esistenziale del tema, tra orologi che si fermano, sparizioni e riapparizioni negli anni, e poi assieme dietro una certa porta;  L’ultimo orco di Matteo Macchia riprende il tema delle sparizione nelle fiabe – alle quali in fondo la storia di Weir si apparenta – tra orchi, cavalieri e bambini perduti; La sparizione di Alessio Mosca di Pierluca D’Antuono evoca con un congruo, obliquo linguaggio un viluppo onirico tra riviste letterarie, indagini di polizia e metamorfosi; Conservazione della specie, di Lucia Ghirotti, narra delle sparizioni parallele di un poveretto e di un pallone in una No Man’s Land attorno a Roma, in un tripudio di tutta una natura sarcofaga. Troviamo qui in scena delle cornacchie, mentre altre e un corvo narratore permettono di richiamare il binomio sparizione/follia, tra frantumi di lettere a Milena e muri sbrecciati, in Una volta io sono scomparso [NOF4 was here] di Sara Mazzini. In un altro racconto con abbondanti concessioni all’onirico e al surreale, Il Decapitato II. Il ritorno dello scrittore senza testa dell’argentino Ariel Luppino, la sparizione è invece parziale – nel senso letterale –, riguardando la sola testa del protagonista.

Con un occhio al cinema su inquietudini boschive, dove l’apparire di un cervo non richiama san Giuliano l’ospitaliere ma presenze ben più stranianti e sinistre, Scivolare di Claudio Kulesko evoca una sensazione di sparire tra incubi di suicidio e disturbanti alterità naturali: sullo sfondo, la riflessione pessimistica del filosofo e scrittore norvegese Peter Wessel Zapffe, non a caso tra gli ispiratori di Ligotti.

Insomma, si fa in fretta a dire sparire: come la materialità della scomparsa nel Picnic di Weir conduceva a una estrema varietà di ripercussioni, così un intero ventaglio di accezioni del termine – materiali o metaforiche – dirama verso un’infinita ricaduta di situazioni estreme, spiazzanti o liminari. Si sparisce perché si muore e qualche volta perché si vuole vivere, ma sempre si tratta di un’esperienza radicale, che impone domande vertiginose e può costringere al confronto col tremendum.

 

Il che ci indirizza a dire qualcosa sul titolo della collana avviata da questo volume. La vita quotidiana ci pone talora davanti a inquietudini grevi, ma è relativamente raro che la paura irrompa in forma pura, con ricadute fisiche sul nostro corpo: il rizzarsi dei capelli descritto dai primi gotici, il tremito neurale incontrollabile, la deflagrazione psicosomatica del terrore presuppongono uno shock a più livelli che di norma – fortunatamente, diciamo pure – ci è precluso.

Il titolo tReMa può ricordarci questo, a partire dal panico assoluto della ragazza fiondata giù da Hanging Rock urlando con voce d’isteria-iena; e richiama in fondo a un’etichetta – letteratura del Terrore – che nel suo sviluppo storico flirtava con lo shock rivoluzionario, ma in seguito sempre meno è stata utilizzata, sostituita più diffusamente dalla dicitura dell’orrore e dal più sintetico termine horror, latino o inglese che sia. D’altra parte, l’indicativo o imperativo tReMa richiama anche il brivido di ciò che può essere soltanto evocato e mai nominato: un’esperienza psicosomatica da antichi misteri, un tremendum che accede a una dimensione esistenziale profonda e trasformatrice. A questa è possibile giungere solo attraverso una crisi delle categorie note, come consumata nell’incubatio delle vergini sotto la fenditura-vulva (hystera in greco è l’utero) che apre alla trance del Tempo dei Sogni. Indicativo o imperativo che sia, prendiamolo come un invito a lasciarci turbare nella mente e fin nelle pieghe del corpo, per cogliere le risonanze che da quell’Hanging Rock emergono: perché la letteratura fantastica non è escapismo e ci permette di sentire, a volte vedere, dimensioni della realtà (individuale o collettiva) altrimenti precluse. Mettiamo il tremito in conto, e lasciamoci iniziare.

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Esperienze audiotattili tra dispositivi panottici e panacustici https://www.carmillaonline.com/2018/08/10/esperienze-audiotattili-tra-dispositivi-panottici-e-panacustici/ Thu, 09 Aug 2018 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42109 di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere [...]]]> di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere un esempio del coinvolgimento plurisensoriale dello spettatore al cinema, basti pensare a come le basse frequenze diffuse in sala dalle tecnologie contemporanee siano in grado di permettere allo spettatore di «percepire i suoni attraverso il corpo e le sue terminazioni nervose, vibrando fisicamente all’unisono con quello che si propone di definire cinema audiotattile» (p. 10). Lo studioso si propone, in particolare, di indagare la reciproca relazione tra sonoro e visivo nell’esperienza cinematografica, rintracciando quei momenti topici nella storia del cinema capaci di evidenziare tale relazione ricorrendo a un approccio metodologico in cui interagiscono le teorie della comunicazione audiovisiva con le teorie e filosofie dei media.

Dopo aver ricostruito le tappe tecnologiche che hanno condotto al cinema «compiutamente sonoro» e alla messa punto del linguaggio cinematografico attraverso il montaggio, e dopo aver analizzato il cinema dagli anni Trenta ai Settanta – soffermandosi sull’avvento del Dolby, sull’innesto del medium radiofonico sul cinema muto, sull’affinarsi della teoria del montaggio audio-visivo, sulle caratteristiche del cinema contemporaneo caratterizzato dall’high fidelity e dal concetto di verità del cinema -, nella parte conclusiva del volume Iannotta si sofferma sui cambiamenti tecnologici che hanno riguardato il cinema a partire dagli anni Settanta, dal perfezionamento dei meccanismi di fonofissazione fino all’avvento dell’era digitale. Secondo l’autore, tali trasformazioni tecnologiche metterebbero «in questione alcuni nodi capitali del cinema strettamente contemporaneo, in particolare il realismo in connessione con l’ontologia nell’epoca della produzione digitale, e il cinema della sorveglianza e del controllo nell’esperienza del cinema audiotattile» (p. 11).

Un esempio paradigmatico di come il cinema audiotattile faccia dell’iperestesia auditiva il proprio centro nodale, è indicato dallo studioso nell’incipit di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman: la macchina da presa, che sbuca dal nero dello schermo, anticipata dal rumore di un elicottero, sorvola la città dominandola dall’alto e controllando le conversazioni dei cittadini.

Short Cuts ci conduce all’interno del dispositivo audiovisivo dall’alto, dalla posizione privilegiata di chi può sorvegliare il mondo sonoro del film […] Altman ci invita a prestare attenzione a quello che si dice per sciogliere una matassa narrativa ricostruendo le vicende dei tanti personaggi inquadrati dalla storia a partire dal sonoro e in prima istanza dalla voce, a volte in altre over altre ancora off dell’opinionista televisivo […] La voce entra in ogni casa e il dispositivo audiovisivo coinvolge in maniera totalizzante le nostre orecchie. Si tratta a tutti gli effetti di un dispositivo e di un film panacustico (p. 186).

Risulta evidente il riferimento all’ambiente panottico e panacustico pensato da Jeremy Bentham che sarà alla base degli studi di Michel Foucault sui dispositivi di sorveglianza e sui meccanismi di sapere e potere. Ai dispositivi di controllo visivo vanno aggiunti quelli di ascolto. Non stupisce che il termine “monitor” sia passato dall’iniziale significato di «istruttore e controllore carcerario», a designare un «apparato tecnologico di informazione» e, dunque, sottolinea Iannotta, di «sorveglianza e controllo». Secondo l’autore, l’esperienza cinematografica sarebbe legata «all’esperienza del controllo: non siamo più in grado di percepire il mondo in cui viviamo come un universo dotato di un senso decifrabile ma ci percepiamo (come) percepiti da altri» (p. 188).

Nel cinema contemporaneo non sono pochi i film che ricorrono alla sorveglianza come dispositivo narrativo. Si pensi a film come: Lost Highway (Strade perdute, 1997) di David Lynch; Gattaca (Id., 1997) di Andrew Niccol; Enemy of the State (Nemico pubblico, 1998) di Tony Scott; The Truman Show (Id., 1998) di Peter Weir; Caché (Niente da nascondere, 2005) di Michael Haneke; Paranormal Activity (Id., 2007) di Oren Peli; REC (Id., 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza; Cloverfield (Id., 2008) di Matt Reeves… È «il fantasma dell’ascolto» ad essere sempre al lavoro in questi film, e, sostiene Iannotta, occorre seguire l’invito di Gilles Deleuze circa la necessità di affiancare allo studio foucaultiano delle società disciplinari l’analisi di un «più invasivo e strisciante meccanismo di sorveglianza posto in essere dalle società di controllo», da qui l’invito del filosofo francese a dotarsi di «nuove armi».

In Enemy of the State il fuggiasco viene mappato ininterrottamente oltrepassando qualsiasi barriera e, suggerisce Iannotta, nel film il controllo spaziale continuo ha un equivalente sonoro preciso.

Grazie al pan pot (panoramic potentiometer) è possibile creare l’illusione pressoché perfetta che la fonte sonora fluttui circolarmente nello spazio uditivo. La spazializzazione quadrifonica mette in cortocircuito l’idea che esista un unico e determinato punto di ascolto. Il suono satura lo spazio come se fosse una nube di vapore. È qui che si situa il cambio di paradigma: le teorie oculocentriche, pur nella loro sofisticata varietà, individuavano l’esperienza cinematografica in maniera abbastanza univoca, come se ci si trovasse tutti in un unico grande peep-show, con il senso dell’udito pronto ad ascoltare ciò che viene diffuso dallo stesso luogo della visione in correlazione con l’immagine. Sussiste qualcosa di più di un’analogia tra il punto di vista, che al cinema è per lo più genericamente assimilabile al punto di vista della macchina da presa, e un punto di ascolto, che invece non coincide mai espressamente con la posizione delle orecchie dello spettatore. Chi ascolta quello che noi ascoltiamo? Il suono sembra attribuire delle orecchie virtuali alla macchina da presa rendendola un personaggio dotato di una strana concretezza. Non si sta negando la nozione di punto di ascolto; per quanto la si presupponga necessaria, è solo a partire dalle differenze strutturali più volte ribadite tra suono e immagine che si deve chiarire il concetto di rappresentazione uditiva al cinema (pp. 190-191).

Iannotta presenta un interessante confronto tra due importanti film incentrati sul controllo: The Conversation di Francis Ford Coppola e Die 1000 Augen des Dr. Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960) di Fritz Lang. Nel film di Coppola l’esperto di intercettazioni Harry Caul (Gene Hackman), dopo aver intercettato la conversazione di una coppia in Union Square a San Francisco, si trova catapultato in una situazione da cui non riesce a venire a capo. Il ruolo svolto dalla coppia intercettata da Caul, secondo lo studioso, rimanda ad un’analoga funzione rintracciabile nella coppia al centro del film di Lang.

L’ultimo film del regista tedesco marca una differenza importante tra la fine di una fase che si è detta moderna, con al centro la relazione mediale tra cinema e schermo televisivo, e l’epoca del controllo diffuso di un film come Enemy of the State, sull’asse della relazione mediale tra cinema e computer. Il fantasma di Mabuse, che sapevamo essere morto dal secondo film della trilogia, viene evocato da quello che scopriremo essere il suo nuovo erede, il sedicente visionario cieco Peter Cornelius, alias dottor Jordan (Wolfgang Preiss). La coppia di amanti al centro dell’escamotage diegetico del film è composta dal ricco industriale Henry Travers (Peter van Eyck) e da Marion Ménil (Dawn Addams), donna apparentemente disperata che finge il suicidio nell’albergo dove risiede Travers, con l’obiettivo di irretirlo. Con un carrello all’indietro, scopriamo che i due sono spiati su un monitor. La cabina di regia di chi sorveglia quanto accade nell’albergo possiede più videocamere: da qui i 1000 occhi (e orecchie) del titolo. Mabuse, o chi per lui, può vedere e sentire qualsiasi cosa. Un doppio livello di sorveglianza si impone nel film: quello della storia d’amore (Travers spia Marion da una stanza attigua) e quello di Mabuse. Il miliardario sta partendo con Marion ma nutre ancora qualche sospetto su di lei. Incalzata dalle sue domande, la donna confessa di essere un’agente della banda di Mabuse e di averlo ingannato per sposarlo, impadronirsi della sua ricchezza e soprattutto delle sue ricerche sulla bomba atomica. Ma Marion dice di amarlo davvero e implora di essere creduta. L’albergo, rivela, ha occhi e orecchie che osservano e ascoltano: “Loro vedono e sentono tutto!”. Alle richieste di spiegazioni di Traverse, Marion mostra il luogo dell’ascolto. Eccolo al lavoro il sistema di sorveglianza di Mabuse. Il dispositivo panottico e panacustico presente dovunque nell’albergo nel finale disvela tutta la potenza audiovisiva del suo potere occulto (pp. 192-193).

Il film di Coppola, in cui il protagonista deve ricostruire il significato della conversazione della coppia amanti, «offre anche un efficace discorso sul (cosiddetto) reale e sulla rappresentazione che il medium cinematografico è chiamato a dare». Captando la frase «He’d kill us if he got the chance», Caul viene catapultato all’interno dei problemi della coppia e del committente dell’intercettazione fino a comprendere, sul finale del film, che egli stesso è vittima di intercettazioni, scoprendo, in preda alla paura, di non sapervi, né potervi, porre rimedio.

Nell’epilogo delle narrazione, Caul, rientrato a casa, si dedica al suo hobby prediletto, suonare il sax tenore duettando con un disco jazz, improvvisando le note che si accavallano a quelle dello strumento solista. A rompere il fraseggio è il suono insistente di una telefonata […] Harry, spazientito, abbassa il volume del giradischi, risponde e ripete per due volte «Pronto», senza alcun esito. Dall’altra parte del ricevitore si ode solo il suono muto della linea telefonica. La macchina da presa ferma l’inquadratura per qualche secondo sul primo piano del telefono, mentre Caul si sposta nuovamente sulla sedia e riprende a suonare, rialzando il volume del disco. A quel punto la cinepresa si sposta con un carrello laterale per riprendere Harry nuovamente al centro dell’inquadratura. Dopo pochi secondi il telefono squilla nuovamente. Questa volta Caul è visibilmente in ansia, tanto da non prendersi la briga di abbassare, come aveva fatto prima, il volume del giradischi. Si alza e risponde nuovamente: “Pronto”. Questa volta il suono di un nastro che si riavvolge è immediato: “Noi sappiamo che lei sa tutto, signor Caul. Per il suo bene le consigliamo di non immischiarsi. Noi la sorvegliamo”. La musica del giradischi cessa e Caul si mette al lavoro. Con tutta la perizia tecnica di cui è capace cerca di capire come sia possibile che il miglior spione in circolazione sia stato messo sotto controllo. Con metodica professionalità, fa a pezzi la casa in cui vive. Nulla è lasciato al caso, anche la carta da parati viene rimossa. Senza esito alcuno, però. “Noi la sorvegliamo”. Alla fine, evidentemente senza più speranza, anche se si sente ancora sorvegliato, rimette il disco e ricomincia a suonare, tra le macerie, mentre la cinepresa percorre in lungo e largo la stanza dove si trova. L’ultima scena del film lo ritrae mentre continua a suonare il sax, con una panoramica dall’alto. È il cinema del controllo che lo sovrasta e noi con lui siamo sotto il suo dominio (pp. 193-194).

L’abile intercettatore non trova la microspia forse perché questa si colloca fuori dalla sua portata: il sistema di sorveglianza adottato «è irreperibile e irrimediabilmente sottratto agli occhi di Caul perché è allogato nello stesso dispositivo della macchina cinematografica» (p. 195). A differenza di quanto accade nel film di Lang, qui sembra emergere un «dispositivo vedente e senziente che non si interfaccia né identifica con nessun personaggio del film […] Qui l’identificazione è con la stessa macchina da presa, con un occhio e un orecchio capaci di dominare quanto viene visto e udito nella diegesi […] Il luogo del controllo si è spostato, ha cambiato direzione in maniera impercettibile quanto decisiva muovendosi dallo spazio della storia alla condizione primigenia che ogni storia possa essere raccontata» (p. 195).

La sorveglianza è divenuta la vera protagonista della narrazione filmica. Più il protagonista cerca il dispositivo senza trovarlo, più si sente in balia della sorveglianza e in preda alla paura: «il cinema audiotattile si dispiega come un rizoma difficile da decodificare, dove la minaccia è permanente e si fa allarmante metafora dell’ontologia dell’ascolto. Immersi in questa foschia fibrillante, un compito infine sembra spettare a ciascuno di noi: a ogni spettatore audiotattile la propria cimice da trovare» (p. 196).

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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