PD – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quale Resistenza? https://www.carmillaonline.com/2023/04/24/quale-resistenza/ Mon, 24 Apr 2023 21:55:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76973 di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della [...]]]> di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della carta stampata come i bugiardoni di regime: La Repubblica, La Stampa e il Corriere, bensì quella di chi in quel vero e proprio mattatoio che è l’Ucraina, la guerra proprio non la vuole: non vuole combatterla e non vuole viverla. E rifiuta la narrazione drogata di un regime nato da un golpe targato CIA nel 2014, che ha non solo represso l’opposizione interna russofona e ortodossa d’osservanza moscovita, ma ha chiuso radio e giornali, messo al bando i partiti d’opposizione compreso il PC d’Ucraina, perseguitato giornalisti e chiunque cerchi di informarsi su canali alternativi e di esprimere il proprio dissenso. Un regime che con un sito, Myrotvorets (1), segnala i “nemici” da colpire e cancella come “eliminati” quelli assassinati dalle sue bande naziste, come accaduto al fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e alla giornalista Dughina. In una guerra iniziata con questo golpe e con l’aggressione alle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nate per difendere la popolazione russofona dalla repressione nazi-banderista (2).

In questo contributo video di Nicolai Lilin si scopre che una rete di ragazzi ucraini, per fuggire dalla guerra, ha aiutato a scappare dal paese almeno (stima la Gestapo, pardòn, i servizi ucraini) 1500 retinenti alla carneficina bellica. A fuggire da un paese il cui governo ha persino proibito per legge l’eventualità di intavolare trattative con il nemico. Anche psicologicamente una gabbia sociale che non lascia alcuno scampo.
Due di questi attivisti si sono già presi sette anni. Il perno centrale di questo gruppo (non ne conosciamo il nome) stava in Moldova e fortunatamente è riuscito a scappare, evitando così i 9 anni che il regime banderista di Kiev voleva comminarli.

Questo dunque è un episodio della Resistenza vera in Ucraina, non quella del battaglione Azov spacciato dai nostri falsificatori a mezzo busto per un circolo di lettori di Kant. E neppure quella degli “anarchici” armati fino ai denti e a pieno servizio della strategia unipolare atlantista, organici all’esercito nazi-banderista, strani soggetti ai quali certa compagneria dà spazio associandola a Resistenze antifasciste e antimperialiste vere e proprie come in Rojava o nel Chiapas.

La vera Resistenza dunque, in Ucraina come altrove, è resistere alla guerra, battersi contro il fascismo di cui si tinge ogni regime che la guerra la vuole imporre sempre per gli interessi delle classi dominanti. Ciò significa disertare, rifiutare, sabotare e nelle condizioni che lo consentono, combattere l’unica guerra che valga la pena di essere combattuta: quella degli sfruttati contro gli sfruttatori, la guerra popolare e proletaria realmente antimperialista e di classe, nelle fasi politiche in cui questo passaggio si rende necessario e inevitabile.

Pertanto, è possibile sfilare il 25 aprile con le Schlein dall’elmetto rosa? No, proprio non è possibile. Non lo è in linea di principio perché come la Meloni e il resto della partitocrazia il PD è più che supino ai desiderata imposti dagli USA attraverso la NATO nell’invio di armi a Zelensky, in spregio e violazione ancora una volta dell’art. 11 della Costituzione. È soprattutto la forza politica maggiormente accreditata a Washington e non da oggi.

Non è possibile nemmeno riguardo il sentiment del nostro popolo, che non vuole questa guerra e non vuole mandare armi a uno dei due contendenti. Per cui, quale Resistenza abbiamo in comune con il PD e compagnia cantante? Nessuna, quando c’è chi sostiene un governo nazi-banderista e destra o sinistra che siano, obbediscono al padrone d’Oltreoceano andando persino contro gli interessi del proprio paese.

Ma questo sentiment nostrano, ben espresso da fior di sondaggi, si lega bene a un’altra Resistenza, che è andata oltre una visione del fascismo piuttosto retrodatata, fatta di orbace e fez, di nostalgici a Predappio e di gruppi manovrati dagli apparati dello Stato alla bisogna.

È una Resistenza diversa, che in questi tre anni è cresciuta in una vasta opposizione sociale alle restrizioni pandemiche che, la si pensi come si vuole, di fatto hanno rappresentato un laboratorio politico di controllo sociale che molti, purtroppo, nella sinistra di classe hanno sottovalutato. Una Resistenza popolare che ha attraversato numerosi paesi, dal nostro all’Australia, al Canada e a numerosi altri (3). Una Resistenza che ha saputo collegare questo passaggio autoritario di superamento persino dei diritti fondamentali “borghesi”, quello delle restrizioni “sanitarie” alla successiva fase di guerra che stiamo vivendo oggi.

Cos’è allora il fascismo e come si presenta oggi? In questo spunto di Andrea Zhok, c’è una sintesi che ben lo definisce:

«Dopo l’uscita giovialmente fascista di La Russa sui partigiani, eccoci ricaduti stancamente per la miliardesima volta nel giochino politico più stantio della storia italiana.
A destra ogni tanto si sveglia qualcuno, estraendo l’orbace dall’armadio tarlato del nonno, e per darsi un tono tira fuori qualche trombonata da Cinegiornale dell’Istituto Luce. Sorge naturale il sospetto che gente come il ridente Presidente del Senato siano a libro paga del PD, perché cosa farebbe il comitato di affari multinazionali che risponde a quel nome senza le sue cicliche rimpatriate “antifasciste”?
Se non ci fosse ogni tanto qualche anziano reduce che se ne esce con un bel “Quando c’era LVI!” una buona parte del PD (e dell’odierno arco costituzionale) non sarebbe distinguibile dal reparto pubbliche relazioni di una Corporation multinazionale.
Ma grazie al cielo ogni tanto, come i pugili suonati che menano pugni all’aria al suonare del gong, di quando in quando si riesce ancora a riesumare qualche scampolo di “minaccia fascista” d’antan e a “sinistra” per qualche giorno si può respirare:
“Fiuuu! Abbiamo ancora una ragione di esistere”.
Ora, il punto davvero grave, quello imperdonabile e che se ignorato oramai deve essere inteso come dolo, è non capire DOVE sta il potere oggi e qual è l’orizzonte odierno di pericolo rappresentato da QUESTO potere.
Perché, sia ben chiaro, è sacrosanto tener ferma la condanna del fascismo storico.
E’ sacrosanto perché è giusto lottare contro un Potere impermeabile alla volontà popolare, contro un Potere che monopolizza la comunicazione mediatica, contro un Potere che censura le voci politicamente sgradite, un Potere dove politica, “padroni del vapore” e magistratura si allineano nello schiacciare ogni contestazione, un Potere guerrafondaio e affetto da un patologico senso di superiorità.
E’ giustissimo combattere tutto questo.
Solo che oggi tutto questo non lo si trova sotto il nome “fascismo”.
Il Potere reale, il Potere apparentemente illimitato, arrogante e pericoloso oggi è nelle mani di un blocco politico tecnocratico e neoliberale, trasversale a destra e sinistra, un blocco il cui baricentro è il “medio-progressismo” (cit. Fantozzi) rappresentato al meglio da forze come il PD.
E’ così negli USA, è così nell’UE ed è così in Italia.
E riciclare oggi il “pericolo fascista” non è più un errore di analisi: è una colpa politica grave, è complicità con il potere nella sua forma più pericolosa.»

(Andrea Zhok)

Io semplicemente mi limito a definire il fascismo come quella forma di dominio repressivo e classista che il capitale assume in determinate fasi di crisi economica, politica e sociale nei confronti delle classi popolari subalterne. Quando il suo potere viene messo in discussione, ma anche quando il conflitto sociale è a dei livelli così bassi da consentire spazi di manovra sul corpo sociale tali da abbassare l’asticella dei diritti, dei salari, delle forme di democrazia che lo stato liberale aveva dapprima concesso nel corso delle lotte sociali.

Il primo caso, in Italia, trovò le sue massime espressioni con modalità diverse a seguito delle lotte operaie e contadine degli anni ’20 con l’ascea di Mussolini e nell’Italia del secondo dopoguerra attraverso la strategia della tensione e lo stragismo di stato voluto e diretto dagli USA negli anni della Prima Repubblica.

Mentre il secondo è proprio di oggi, dopo la sconfitta storica delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e di classe e della forza del movimento operaio nei mutamenti di composizione di classe e di avvento del tatcher-reaganismo neoliberista nei primi anni ’80 del secolo scorso. Se facciamo un paragone con la situazione francese, lo scarto di conflittualità sociale balza subito agli occhi.

La discesa in piazza di un movimento anti-pandemico, certo eterogeneo, con molta confusione, certe ambiguità, espressione dei più diversi settori sociali colpiti dalle restrizioni che toccavano anzitutto il mondo del lavoro: lavoratrici/tori, piccole attività, avrebbe dovuto comunque svegliare lo spirito tattico leninista in certi ambiti dei comunisti italiani. Ma si è lasciato il campo a forze di altra natura, spesso apprendisti stregoni che oggi nell’inevitabile riflusso del ciclo di lotte si contendono le spoglie di questo movimento con goffi quanto autoreferenziali tentativi di aggiudicarsi l’egemonia, di cosa poi…

Ma comunue questo vasto ciclo di lotte trasversali nel corpo sociale, il cosiddetto 99%, ha saputo collegare nel post-covid il legame di continuità tra la “dittatura sanitaria” e la guerra attuale. “Guerra e pandemia, unica strategia” è lo slogan che sintetizza questa consapevolezza in un antifascismo che  spesso è più nei fatti che nelle intenzioni, poiché il fascismo oggi si ripresenta come strumento autoritario della guerra imperialista, ma anche come laboratorio di controllo sociale e in specifico del capitale sul lavoro, come guerra sociale dall’alto, che non ammette emendamenti alla sua traiettoria bellicista e di rapina sociale.

Chi nell’ambito dell’antagonismo di classe ha paragonato il greenpass al tesserino sanitario, addirittura alla patente ha fatto e tutt’ora sta facendo del buon antifascismo? In realtà il compito di questo antagonismo doveva essere quello di andare in quelle piazze che hanno risposto con la mobilitazione al ricatto del greenpass, a un regime che ha sospeso migliaia di lavoratrici e lavoratori. Ma questa miopia gli ha impedito qualsiasi iniziativa in questo senso, lasciando nell’ignavia il miglior patrimonio politico della lotta di classe italiana. La risposta dunque è no, non fa un buon antifascismo.

L’intervento politico è venuto invece da quelle componenti di questo patrimonio che all’inizio in ordine sparso, poi via via con livelli minimi di organizzazione di base è stata interna a questo movimento e oggi spinge per sviluppare la consapevolezza che la guerra conclamata ha una stretta correlazione con la guerra biologica creata e sviluppata nei biolaboratori in tutto il mondo e di cui Wuhan rappresenta la struttura più nota ed emblematica. Così come la correlazione è anche tra guerra imperialista esterna e quella antiproletaria interna, con l’autoritarismo biotecnologico che piega il lavoro salariato agli standard di sfruttamento necessario al capitale per estrarre pluvalore relativo e assoluto dai corpi precarizzati, individualizzati, ossia privi di anche solo un’intenzione aggregativa di classe.

È su queste coordinate politiche che parte della sinistra rivoluzionaria sarà presente alla grande manifestazione del prossimo 1° maggio a Pesaro, contro la costruzione di un biolab di terzo livello in Italia e in una zona del tutto inadatta: vicino a numerose abitazioni e su terreno alluvionale (4).

La lotta dunque continua e non ho trovato parole più adatte per definire la nuova Resistenza a un capitalismo atlantista in declino e per questo ancor più pericoloso e feroce Sono queste parole di Davide, amico e compagno:

La Liberazione è cosa seria

E oggi più che mai necessaria: occorre liberarsi dal sistema della guerra permanente, dal sistema della paura, del terrorismo di stato che si sussegue ininterrotto di emergenza in emergenza per legittimare sempre nuove forme di comando e di sfruttamento.
Liberarsi dalla paura e dalla vigliaccheria che hanno portato a dare credito alla più grande operazione di militarizzazione integrale della società che hanno chiamato pandemia.
Quell’operazione NON È UNA PARENTESI INFELICE DELLA STORIA, bensì un’ accelerazione di processi già in atto da decenni e arrivati ora ad una svolta epocale, basata sul dominio totale dell’oligarchia capitalista in lotta per tenere a galla un sistema, il loro, malato terminale, che sta portando l’ umanità nel baratro.
Il primo passo del cambiamento necessario è avere chiara la visione dei processi in atto, cosa che per ora non si esprime minimamente a livello collettivo. Non a livello di massa.
Quindi non sorprende assistere allo spettacolo indegno di gente che scambia la guerra della Nato per Liberazione.
La maggior parte di quei signori sono gli stessi che parlavano di “responsabilità sociale” in appoggio alle inoculazioni forzate.
Di menzogna in menzogna, dalla guerra “sanitaria” a quella imperialista.
Due facce della stessa medaglia. Chi continua ad occultare una delle due, o applaudire ad entrambe, farebbe bene a lasciar perdere il 25 aprile, la liberazione ha bisogno di uomini e donne libere, non di servi addormentati.
Cominciare dal CORAGGIO, qualità primaria in via di estinzione: dal latino HABEO CORE, avere cuore.
Una vita senza coraggio è una vita senza cuore, da morti che camminano, il materiale umano necessario alle guerre del capitale.

DISERTARE RIFIUTARE SABOTARE.
Evviva la Libertà, evviva la liberazione.

Davide Milazzo, insegnante di arti marziali

 

Note:

1. Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Myrotvorets

2. Qui Valerio Evangelisti spiega molto bene il contesto in cui è nata questa aggressione, otto anni di bombardamenti sulla popolazione civile del Donbass. Aggiungerei una considerazione: la Resistenza in Italia ebbe l’apporto decisivo di forze imperialiste come quelle angloamericane contro il nazifascismo. Si facciano le dovute conclusioni e accostamenti a partire dalle ragioni di un popolo oppresso e a cui è stato vietato persino di parlare il russo. La questione è un po’ più complessa di come la pongono certi “compagni”.

3. si veda il laboratorio canadese nel mio intervento su Carmilla qui e a Radio Blackout il 23 febbraio 2022.

4. Qui il mio blog che dà spazio alle Lavoratrici e Lavoratori autorganizzati (Ravenna) e qui un sito dell’Assemblea Antifascita contro il Greenpass (Bologna). Entrambi articolano le mobilitazioni da un punto di vista di classe.

(Immagini tratte dalle opere di Bansky e il “Chef Guevara” da Tv Boy)

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Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta. https://www.carmillaonline.com/2023/02/19/dal-bunga-bunga-al-festival/ Sun, 19 Feb 2023 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76167 di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, [...]]]> di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, destinate soltanto a far smarrire qualsiasi riferimento alla guerra tra le classi e ai bisogni materiali delle fasce sociali meno abbienti della società.

Sì, le lunghe “battaglie”, soprattutto mediatiche, condotte sulle “malefatte” di un premier autentico erede del Marchese del Grillo, intravisto nel nostro futuro più che nel passato nazionale da quel geniaccio cinematografico che rispondeva al nome di Mario Monicelli, avranno pure alimentato tanta ironia, anche sulle pagine di «Carmillaonline» attraverso le “Schegge taglienti” di Alessandra Daniele, ma, soprattutto, sono servite a diffondere una tendenza al moralismo e al giustizialismo che, dopo aver rinvigorito l’immagine di Marco Travaglio e del suo giornale e aver costituito le fondamenta dei “Vaffa Day” di Beppe Grillo, che hanno preceduto l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle, ha cancellato, o almeno ha cercato di farlo, ogni riferimento al fatto che la battaglia politica, soprattutto se condotta da Sinistra, dovrebbe fondare le sue radici nelle contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico. E non nelle sue platoniche ombre mediatiche.

Si dice che Antonio Ricci, ideatore di tanta tv berlusconiana, dai tempi di Drive In e Lupo Solitario fino ai tutt’ora inossidabili Striscia la notizia e Paperissima, sia da sempre appassionato ammiratore e collezionista di tutto quanto riguardi il Maggio francese e il Situazionismo. Così da far pensare che di quella significativa esperienza critica possa esser diventato uno dei legittimi eredi. Portando lo spettacolo ad essere l’unico elemento di riferimento per qualsiasi critica sociale e politica e rovesciando la rabbia della critica nel sorriso, nemmeno acido, dello spettacolo d’intrattenimento. Tanto da poter dire che se Bonaparte fu l’esecutore testamentario della Rivoluzione francese, così Ricci, si scusi il paragone un po’ azzardato sul piano storico e delle dimensioni effettive dei personaggi e degli eventi, lo è stato altrettanto in Italia per le intuizioni di Guy Debord sulla Società dello spettacolo.

Passato dalle collaborazioni con Beppe Grillo a quella più lunga, solida e, probabilmente, meglio remunerata col Cavaliere di Monza, l’autore televisivo, dopo essersi fatto le ossa in Rai, ha potuto scatenare il suo estro in una serie di programmi che hanno abituato il pubblico a reagire con lo sghignazzo e la battuta a qualsiasi evento politico e sociale. Trasformando così ogni evento in un puro e semplice spettacolo satirico. Anche se dai tempi di Lupo Solitario e dei gemelli Ruggeri, ivi transitati dal cabaret insieme a Patrizio Roversi e Syusy Bladi, e dell’ironica critica al socialismo reale raffigurato nell’immaginaria terra di Kroda, a quelli del Tapiro d’oro di Striscia la notizia e degli involontari capitomboli di Paperissima, qualcosa si è perso per strada. Soprattutto in termini di originalità.

Ma poco importa poiché, per i motivi appena menzionati, forse, si dovrebbe affermare che il vero artefice e stratega dei successi berlusconiani, compresi quelli processuali, sia da individuare proprio in colui che del détournement situazionista ha fatto la sua carta vincente e il grimaldello per scassinare una comunicazione “politica” già da tempo imbalsamata. Il rovesciamento, l’uso obliquo dei significati e dei fatti ha infatti finito col costituire il motore e il motivo delle narrazioni politiche italiane, certo non soltanto a partire dall’epoca berlusconiana, ma che in quest’ultima ha trionfato.

Soprattutto a Sinistra.
Un trionfo del rovesciamento che ha fatto sì che oggi gran parte del cosiddetto elettorato, ma anche chi scrive, non sappia più cosa significhi concretamente in politica il termine “sinistra”. Troppo volubile, troppo espandibile, troppo ambiguo e, come si sa, il troppo stroppia.

Una Sinistra istituzionale ammaliata dai salotti dei talk show televisivi. Una Sinistra per cui il look e l’apparenza hanno trionfato sui contenuti, così come dimostrano ancora le immagini di quella parte della stessa che esultava trionfante alla vista del Cavaliere che lasciava Palazzo Chigi nel 2011. Soltanto per sottomettersi, poi, al successivo governo Monti, lanciato in tv come salvatore della patria, non lo si dimentichi mai, proprio da Pier Luigi Bersani, e alla riforma Fornero delle pensioni. Senza nemmeno lontanamente accennare a ciò che oggi, per un tipo di riforma simile ma tutto sommato più leggera (64 anni invece di 67 per la pensione di vecchiaia) sta accadendo nelle strade e nelle piazze francesi.

Una Sinistra, infine, che si affida ai messaggi social e alle prediche vuote del Festival di Sanremo, durante il quale lo spettacolo di nani e ballerine di craxiana memoria si è ripetuto su grande scala e con un audience elevatissima. Liberalismo da strapazzo che, tra fiori che volavano per i calci di Blanco e le finte provocazioni di Rosa Chemical, Fedez e dei Maneskin, si è ammantato di “impegno civile” per mezzo dei discorsi stantii e retorici di Benigni; di un femminismo che non è riuscito nemmeno a elevarsi al livello dell’hollywoodiano “Me Too” (già piuttosto deludente rispetto ad un serio discorso sulla questione delle reali condizioni sociali e famigliari di milioni di donne); della superficiale lamentatio antirazzista e di mille altre banalità di base scambiate per discorsi “seri” e “impegnati”.

Discorsi del tutto simili a quelli contenuti nei programmi del PD che un altro uomo di spettacolo, Fiorello, ha definito “discorsi ad minchiam” dopo essersi imbattuto in un articolo dell’Adnkronos riguardante “i caratteri del nuovo partito nella quattro mozioni”, nel quale si citava testualmente: «Il nuovo Pd dovrà essere ‘aperto’, ‘inclusivo’ e ‘di prossimità’. Ma anche ‘paritario’, magari con una ‘cosegreteria’ o comunque con vertici ‘duali’ uomo/donna, e mai più ‘verticista’».

Il successo di tanto chiacchiericcio inutile e vuoto, tutt’altro che classista, si è visto, ad esempio nel calo dei tesserati del PD, sul quale pesano nonostante tutto anche le false tessere campane, la scarsa attenzione per il suo congresso (soprattutto nelle sezioni di tradizione “operaia”) e nel risultato delle votazioni regionali di Lazio e Lombardia in cui, guarda caso, il vero vincitore è stato l’astensionismo. Un astensionismo cosciente, non nel senso politico ma di rabbia e disgusto volutamente espresso attraverso il non voto. Come ha ammesso Stefano Fassina in un articolo dell’«Huffington Post» del 16 febbraio scorso:

Un’astensione con un nettissimo segno di classe. A tal proposito, le analisi delle precedenti tornate elettorali, amministrative e politiche sono inequivocabili. In attesa della scomposizione sociale del voto del 12-13 febbraio scorso, ne troviamo chiara conferma nell’affluenza a Roma, dove la quota di votanti in ciascun Municipio è direttamente proporzionale al reddito medio in esso registrato. […] In sintesi brutale, chi ha più bisogno di politica sta lontano dalla politica e, quando si avvicina alla politica, sta lontano dalla sinistra ufficiale…

Astensionismo che segnala anche, però, la possibilità di una rinascita futura di movimenti spontanei dal basso, poco ideologizzati e ancor meno inquadrabili ai fini dell’ormai cadaverico parlamentarismo. Manifestazione di uno scontento diffusissimo, giovanile e non, operaio e non, femminile e non, che per forza di cose dovrà, in forme ancora tutte da definire, rivolgersi contro l’attuale sistema di valori “condivisi” e di sfruttamento diffuso, mal retribuito e spietato del lavoro salariato. In sostanza, contro il capitale e le sue guerre sociali e militari.

Per ora, Berlusconi ha vinto e si sfrega ancora una volta le mani felice. Ma non ha vinto per i cavilli legali utilizzati dai suoi abili avvocati e nemmeno per le crepe apertesi nella magistratura e nel suo lavoro. Sempre fin troppo efficiente nei confronti di anarchici e No tav. Anche se Marco Travaglio potrà piangere ancora su puttanieri scagionati e giudici minacciati, mentre ancora qualche giorno fa il suo giornale mostrava un’immagine di prima pagina in cui alle spalle di Alfredo Cospito si proiettavano le ombre dei mafiosi, sbandierando il suo giustizialismo “tradito” nelle aule di tribunale e parlamentari.

Silvio Berlusconi rimane l’autentico vincitore di Sanremo, tant’è vero che del, tutt’altro che monolitico, blocco di centro-destra è stato l’unico a non iniziare la tiritera opposta su foibe, famiglia e droga. Perché sapeva di aver vinto, insieme ad un Guy Debord rovesciato nel suo contrario (com’è destino di ogni teorico del détournement), quando ha visto il Presidente della Repubblica inchinarsi davanti allo spettacolo e alle sue implacabili leggi. In nome dei discorsi di “impegno civile”. Mentre, Zelensky, nel ruolo di fantasma europeo, poteva soltanto aggirarsi ma non manifestarsi di persona sul palco dell’Ariston.

Dunque, dopo tanti anni, missione compiuta per il Cavaliere. Con la Sinistra istituzionale definitivamente rovesciata nel contrario di ciò che avrebbe dovuto essere e “rifondata” a immagine e somiglianza del glamour dei programmi Mediaset.
The king is dead, long live the king!
Anche se all’orizzonte già si delinea il volto confuso di uno strano soldato…

APPENDICE

Si allega qui di seguito, per dover di cortesia e non per altro, la precisazione richiesta all’autore dall’Ufficio Stampa di Striscia la notizia.

PRECISAZIONE CON RICHIESTA DI PUBBLICAZIONE

Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta.

Gentile Sandro Moiso,

abbiamo letto il suo pezzo “Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta”, apparso su Carmillaonline.com il 19 febbraio. Superata una certa sorpresa nell’assistere al divertente e creativo tentativo di collegare l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter” al Festival di Sanremo 2023 e all’impatto sul linguaggio televisivo (e non solo) avuto da Striscia la notizia e dai programmi di Antonio Ricci, ci teniamo a precisare alcuni punti che ci sembrano decisivi.

Drive In, come d’altra parte anche Lupo solitario, che lei cita, è stato un programma innovativo, libero e libertario. Era una caricatura delle abitudini degli italiani e della società dell’epoca: un programma comico e satirico che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni 80. Una parodia dell’Italia di quegli anni esagerati, del riflusso, dell’edonismo reaganiano e della Milano da bere. Omar Calabrese, Luciano Salce, Giovanni Raboni, Federico Fellini, Umberto Eco, Oreste Del Buono, Angelo Guglielmi e tanti altri intellettuali dell’epoca la definirono «la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv» o «l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv».

È andato in onda dal 1983 al 1988, quindi molti anni prima della fondazione di Forza Italia e non ha nulla a che fare con l’impegno politico diretto di Silvio Berlusconi.

E seppure, come scrive lei, a Striscia la notizia, che è nata nel 1988, a volte si ride, è pure vero che non è sempre così. Si ride pochissimo quando, come in questi giorni, si mandano in onda immagini delle violenze dentro il CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Palazzo San Gervasio, delle gabbie in cui vengono rinchiusi gli “ospiti” della struttura, delle fascette di contenzione, della “terapia” a base di sedativi che alcuni di loro sono costretti a prendere. Tanto più che Striscia la notizia è l’unica voce di denuncia, nell’indifferenza generale della stampa nazionale. A Striscia si ride pochissimo anche quando salta in aria l’auto dell’inviata da Palermo, Stefania Petyx, che tra i tanti servizi contro le mafie ne ha realizzato uno a Corleone, proprio sotto la casa di Totò Riina. O quando in redazione arriva un pacco bomba o quando viene data alle fiamme la casetta di un inviato. Si ride pure pochissimo quando si denunciano magagne, errori, inefficienze del nostro Paese e lo si fa senza riguardi per le più importanti imprese pubbliche e private, dall’Eni a Fca, a Telecom, e per questo si accumulano più di 400 vertenze legali, e neppure quando si indaga sulle acque minerali, i supermercati, le grandi aziende che talvolta sono sponsor della rete televisiva che manda in onda il programma. È chiaro che tutti noi (lei compreso) potremmo sempre fare di più. Ci proviamo, spesso non ci riusciamo e aumenta il disincanto nel constatare che una risata, anche finta, non seppellirà nessuno.

Con i nostri più cordiali saluti

L’ufficio stampa di Striscia la notizia

P.S. Antonio Ricci non ha mai firmato esclusive di alcun genere con nessuna rete proprio per avere la più grande autonomia possibile.

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Una donna sòla al comando https://www.carmillaonline.com/2022/09/26/una-donna-sola-al-comando/ Mon, 26 Sep 2022 07:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74134 di Alessandra Daniele

Atlantista verace, novità fasulla, Giorgia Meloni ha vinto, come previsto. Il PD ha perso, come al solito. L’affluenza è crollata. I fascisti non sono tornati. Non se ne sono mai davvero andati. Persecuzione dei lavoratori, repressione del dissenso, campi di concentramento in Libia, attentati alla Costituzione, guerra, cosa farà la Meloni che non abbia già fatto il PD? È una sfida alla sua altezza. Chi l’ha votata? E perché? I suoi elettori, oggi in festa, si dividono in 4 macro-categorie:

I Fascistoni Lo zoccolo duro, quelli che la votano fin dall’inizio, [...]]]> di Alessandra Daniele

Atlantista verace, novità fasulla, Giorgia Meloni ha vinto, come previsto. Il PD ha perso, come al solito. L’affluenza è crollata.
I fascisti non sono tornati. Non se ne sono mai davvero andati.
Persecuzione dei lavoratori, repressione del dissenso, campi di concentramento in Libia, attentati alla Costituzione, guerra, cosa farà la Meloni che non abbia già fatto il PD? È una sfida alla sua altezza.
Chi l’ha votata? E perché? I suoi elettori, oggi in festa, si dividono in 4 macro-categorie:

I Fascistoni
Lo zoccolo duro, quelli che la votano fin dall’inizio, e la voteranno fino alla fine. Razzisti, sessisti, xenofobi, omofobi, appartengono a tutte le classi sociali, e sono accomunati dalla passione per la fiamma che sorge dalla tomba di Mussolini, fuoco sacro da cui ai loro occhi Giorgia è circonfusa.

I Reazionari
Prevalentemente di classe media, devoti della trinità Dio, Patria, o Padania, e Famiglia, con l’aggiunta del Portafoglio, un tempo avrebbero votato Democrazia Cristiana, più di recente hanno scelto Forza Italia, o Lega, adesso insieme alla Madonnina piangente adorano Giorgia, la Madonnina urlante. Si definiscono moderati, ma sono a tutti gli effetti reazionari.

I Delusi
Provengono dal Movimento 5 Stelle, dalla Lega, dal PD, dall’astensione, e persino dalla sinistra. Di classe medio-bassa, mal ripongono nella Meloni le loro speranze di riscatto sociale. Il loro è anche un voto di protesta. Questo è lo stesso fenomeno che porta il proletariato bianco in tutto l’occidente a votare a destra, e che ha fatto la fortuna di Trump e Le Pen. In realtà, la fede capitalista di Giorgia è salda quanto quella di Draghi. E di Berlusconi.

I Modaioli
Di classe prevalentemente medio-alta, li hanno provati tutti, a seconda della moda del momento. Di questa categoria fanno parte anche le femministe alla Valeria Marini. Questi elettori sono i più volubili, e molleranno Giorgia appena comparirà all’orizzonte il prossimo cazzaro.

Il Ciclo del Cazzaro infatti è ricominciato: Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini, adesso tocca a lei, Giorgia Meloni, prima regina della dinastia dei Re Sòla.
E così com’è stato per gli altri, anche il suo momento passerà, e ne resteranno le macerie.
Sta a noi far sì che stavolta, insieme alla cazzara di turno, crolli anche il marcio sistema fascio-capitalista che l’ha prodotta.

 

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Il babau fascista e la (solita) tiritera antifascista https://www.carmillaonline.com/2022/09/21/il-babau-fascista-e-la-tiritera-antifascista/ Wed, 21 Sep 2022 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73779 di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, [...]]]> di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, intervista a cura di Edek Osser – estate 1970)

A pochi giorni di distanza dalla “fatidica” data del 25 settembre, è difficile dire quanti saranno gli elettori che si presenteranno, convinti e con la tessera elettorale in pugno, ai nastri di partenza dell’ennesima e gaglioffa tornata elettorale.
A giudicare dai risultati degli ultimi anni, pochi. Molto pochi. Considerato soprattutto il fatto che, nell’attuale competizione, a farla da padrone sono stati più i nomi e le poltrone “garantite” dei candidati che non i programmi. Ma se anche così non fosse, vale comunque la pena di sottolineare come l’uso dei termini “fascismo” e “antifascismo” abbia ancora una volta caratterizzato la propaganda di una sinistra sempre più esangue e asservita alle esigenze del capitale nazionale e internazionale.

L’attuale farsa elettorale, infatti, vede le sinistre, più o meno parlamentari di ogni grado e risma, ricorrere ancora una volta all’espediente narrativo, già troppe volte visto in scena sia sui palcoscenici istituzionali più importanti che nei teatrini politici più scadenti, secondo il quale l’elettore “di sinistra” dovrebbe accorrere alla chiamata alle armi per difendere nell’urna la “democrazia” e la costituzione dall’ennesimo e vile assalto “fascista”. Trama semplice, priva di alcuna complessità interpretativa, in cui i buoni stanno, o devono stare, tutti dalla parte del “centro-sinistra” o al massimo di tutti quei partiti ancora non apertamente schierati con il terribile “centro-destra”.

A parte la qualità della compagnia che certo non fa rimpiangere quella del centro-destra, rimanendo nello schema interpretativo proposto dai media e dai rappresentanti dello schieramento “autenticamente” democratico, il primo pericolo sarebbe infatti presentato dal rischio di una revisione o riscrittura della carta costituzionale.

Su questo argometo, tralasciando il tema delle visite “agostane” di Giorgia Meloni al capo dello Stato rivelate dal “Fatto Quotidiano” del 10 settembre scorso, non occorre neppure ricorrere alle armi della critica proposte dalla Sinistra Comunista per smontare il grido di dolore che si leva dal perbenismo centrosinistrese. Basta, si pensi un po’, quanto è già stato scritto su un quotidiano tutt’altro che estremista come «il manifesto».

Le vicende delle «riforme costituzionali» ci dicono che l’attacco alla Costituzione non è venuto solo dalle destre ma anche dai partiti di centrosinistra, non è più vero dunque che il centrosinistra difende la Costituzione e le destre ne vogliono la distruzione. Centrosinistra e centrodestra sono stati protagonisti per vent’anni di tentativi, falliti, di modificare in pejus la Carta costituzionale del 1948 […] ai tentativi falliti si sono affiancati quelli riusciti a modificare la Costituzione. Eccone l’elenco: revisione del Titolo V (attuata dal governo Amato), dell’articolo 8 (votata dal Pd guidato da Bersani), degli articoli 56 e 57 per la riduzione del numero dei parlamentari (voluta dai 5S con il sostegno del Pd). Può essere punto di riferimento per la difesa della costituzione il pd, l’artefice principale delle sue manomissioni?1.

Non solo ma, entrando più nel merito delle questioni attuali, nello stesso articolo si aggiunge che se

la barbara Meloni si fa garante della scelta atlantica soprattutto per quanto riguarda il sostegno armato all’Ucraina, anche Letta è schierato con la Nato sostenendone le politiche militari, e il voto sul Trattato di adesione della Svezia e della Finlandia ha visto il Pd e il centrodestra votare insieme a favore […] Dunque la lesione dell’art.11, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è compiuta sia dalla barbara Meloni sia dal progressista e democratico Letta. E il Pd ha in mano la società di produzione di armamenti Leonardo, guidata da Alessandro Profumo e da altri suoi iscritti, ch e propongono politiche aggressive di difesa e potenziamento dello strumento militare2.

E concludendo poi ancora che se

la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese […] si prenda la proposta di legge costituzionale AC224 e si troverà scritto che «la presente proposta di legge costituzionale si prefigge di superare il previsto stallo del sistema dei partiti chiudendo la transizione italiana e prendendo come riferimento il modello francese nella sua integralità (sistema elettorale e forma di governo». Dunque la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese che anche il democratico e progressista Ceccanti3, con altri del Pd vuole… 4.

Ora, tralasciando le quisquilie di ordine formale e costituzionale, considerato che qualsiasi carta costituzionale non è certo destinata all’eternità poiché al cambiamento dell’ordine sociale e politico deve per forza corrispondere un cambiamento delle leggi “fondamentali” che lo ispirano5, proviamo a considerare la questione fascismo/antifascismo da un più ampio punto di vista.

Non è affatto vero che il fascismo ci sia perché manca un governo capace di reprimerlo. E’ una turlupinatura far credere che la formazione di un governo di tale natura, e in genere lo sviluppo del rapporto tra l’azione dello Stato e quello del fascismo, possano dipendere dall’andamento delle cose parlamentari.
[…] Il governo forte e il fascismo forte sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano il maximum della fregatura.
Poche delucidazioni a queste nostre asserzioni, contrapposte al gioco nauseante della «sinistra» politica che si elabora nei contatti osceni di Montecitorio, e alla quale rinnoviamo di tutto cuore la dichiarazione antica che essa ci fa mille volte più schifo di tutti i reazionismi, i clericalismi, i nazional-fascismi d’altra volta e di adesso.
Lo Stato borghese – la cui macchina effettiva non è nel parlamento ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura – non è affatto mortificato di essere scavalcato dall’azione selvaggia delle bande fasciste. Non si può essere contrari ad una cosa che si è preparata e che si sostiene: burocrazia, polizia, esercito, magistratura, sono per il fascismo, loro naturale alleato, indipendentemente dalla combinazione di pagliacci in feluca che reggono il potere.
Per eliminare il fascismo non è necessario un governo più forte dell’attuale. Basterebbe che l’apparato statale cessasse di sostenerlo con la sua forza […]
Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un “governo forte”. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione dal duello tra bianchi e rossi6.

Il contesto della citazione è quello drammatico della guerra civile italiana, precedente alla marcia su Roma e alla presa del potere fascista, ma non per questo quelle parole non possono rinviare al dibattito fasullo di oggi. Dibattito in cui la solita sinistra liberal-democratica non ha neppure il coraggio di chiedere, seppur retoricamente, un’azione forte del governo contro il fascismo, ma soltanto ai rappresentanti dello stesso di cambiare il simbolo elettorale oppure di dichiararsi diversi da quel che sono.

Certo per la “sinistra” attuale, in particolare per il Pd, è facile chiedere agli avversari ciò che ha già fatto in casa propria, ripudiando qualsiasi riferimento alla lotta di classe, ma per la borghesia capitalistica, nazionale e internazionale, reazionaria o conservatrice, non lo è altrettanto. In fin dei conti la borghesia e il capitale non possono ripudiare se stessi e la propria forma Stato. Garante della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro salariato e sottopagato.

Una volta il blocco di sinistra si contrapponeva a quello della destra borghese perché il secondo manteneva l’ordine con mezzi coercitivi, e il primo si proponeva di mantenerlo con mezzi liberali. Adesso l’epoca dei mezzi liberali è finita, e il programma delle sinistre è quello di mantenere l’ordine con più “energia” della destra. Questa pillola dovrebbe essere fatta inghiottire ai lavoratori col pretesto che l’ordine è perturbato dai “reazionari” e che l’energia del governo l’assaggerebbero gli squadristi di Mussolini. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il suo peggior nemico è chi si propone di mantenerlo con maggior energia7.

Oggi, forse, la richiesta dello Stato forte, che pur non manca nel panorama attuale grazie alle politiche di progressiva concentrazione del potere nelle mani di tecnici mai eletti dai cittadini, è più sottilmente esposta, adombrandosi di manovre economiche, piani di ripresa e resilienza, di accordi sovranazionali che, apparentemente, sembrano spingere sullo sfondo il discorso dell’azione “forte” dello Stato “nazionale”. Nascondendo dietro alla questione dei “diritti” «un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario.»8

Un immaginario in cui il diritto individuale sopravanza qualsiasi esigenza di liberazione generale della classe e, conseguentemente, della specie. In cui l’“Io” idealizzato sottomette le esigenze collettive e in cui l’idea del “privato” distrugge qualsiasi esigenza comunitaria. Aprendo ulteriormente le porte, per converso, anche in certe sgangherate versioni dell’estrema sinistra, a tutte quelle rivendicazioni, tipiche del fascismo e delle destre tendenti a inserire/soddisfare l’individuo, emarginato e impoverito, negli schemi della Nazione “sovrana”, della Patria, della Razza, della Proprietà “privata” e della Famiglia, patriarcale e indissolubile.

Non è certo pertanto nella pania dei “diritti” oppure in quella delle rivendicazioni a carattere nazionalistico che si può individuare lo strumento più efficace per combattere un fascismo di facciata che nasconde la profonda aderenza al Fascismo vero di gran parte dei partiti politici italiani e della loro forma Stato. Ereditata quasi integralmente dalla mancata reale “sconfitta” del Fascismo storico. Grazie, soprattutto, alle politiche messe in atto del CLN, tese più a impedire la svolta rivoluzionaria e anticapitalista che una parte della Resistenza portava con sé, più che a rifondare lo Stato repubblicano su nuove basi (e d’altra parte come si sarebbe potuto farlo senza negarne radicalmente il modo di produzione sul quale si fondava?). Anche se occorre, a questo punto, fare un salto indietro, fino al 1924.

Prima di tutto: l’origine del fascismo.
Ho ricordato che il movimento fascista è per la sua origine storica collegato ad una parte di quei gruppi che invocarono l’intervento italiano nella guerra mondiale.[…] Questo gruppo si era completamente identificato con la politica della concordia nazionale e dell’intervento militare […]
La crisi governativa in Italia è stata caratterizzata da qualcuno nel modo seguente: il fascismo rappresenta la negazione politica del periodo durante il quale predominava da noi una politica borghese liberale e democratica di sinistra. Esso è la forma più aspra di reazione contro la politica di conces­sione attuata da Giolitti ecc. nel dopoguerra. Noi siamo invece dell’avviso che fra questi due periodi esista un legame dialettico: che l’atteggiamento originario della borghesia italiana durante la crisi in cui il dopoguerra precipitò lo Stato, non fu se non la naturale preparazione del fascismo.
[…] Siamo così giunti ad un punto in cui fascismo e democrazia si incontrano. Il fascismo ripete in sostanza il vecchio giuoco dei partiti borghesi di sinistra e della socialdemocrazia, cioè chiama il proletariato alla tregua civile.[…]
A base di tutto ciò sta ovviamente lo sfruttamento dell’ideologia nazionalistica e patriottica. Non si tratta di qualche cosa di completamente nuovo. Durante la guerra, nell’interesse nazionale, la formula della sottomissione di tutti gli interessi particolari all’interesse generale dell’intero paese era già stata ampiamente utilizzata.
Il fascismo riprende dunque un antico programma della politica borghese, ma questo programma appare in una forma che in un certo senso riecheggia il programma della socialdemocrazia e che d’altra parte contiene qualcosa di veramente nuovo […]
Il fascismo vorrebbe conciliare e fare tacere tutti i conflitti economici e sociali all’interno della società. Ma questa non è che l’apparenza esterna. In realtà, esso cerca di realizzare l’unità all’interno della borghesia, una coalizione fra gli strati superiori delle classi possidenti in cui esso appiani i contrasti singoli fra gli interessi dei diversi gruppi della borghesia e delle diverse aziende capitalistiche.
[…] Ma, in tal modo, si irretisce in una contraddizione insolubile, perché è estremamente difficile attuare una politica unitaria della classe borghese finché le organizzazioni economiche dispongono di una completa libertà di sviluppo e finché vige una completa libertà di concorrenza fra i singoli gruppi di imprenditori.
[…] Ma, nell’insieme, il suo programma sociale non è null’altro che il vecchio programma di menzogne democratiche, che rappresenta solo un’arma ideologica per il mantenimento del dominio della borghesia.
Il fascismo è molto rapidamente – prima ancora della presa del potere – divenuto “parlamentare”; ha governato per un anno e mezzo senza sciogliere la vecchia Camera che in grande maggioranza era composta di non fascisti e, in parte addirittura di antifascisti. Con la flessibilità che è una caratteristica dei politici borghesi questa Camera si è affrettata a mettersi a disposizione di Mussolini per legalizzare la sua posizione e concedergli tutti i voti di fiducia che a lui piacque di chiedere. Lo stesso primo gabinetto Mussolini – ed egli, nei suoi “discorsi di sinistra”, vi ritorna sempre – non fu costituito su basi puramente fasciste, ma abbracciò rappresentanti dei più importanti fra gli altri partiti borghesi: dal partito di Giolitti, dei Popolari, della sinistra democratica. Si trattava, dunque, di un governo di coalizione. Ecco cosa ha partorito il cosiddetto colpo di Stato! Un partito che nella Camera contava 35 deputati ha preso il potere e ha occupato la grande maggioranza dei posti di ministro e sottosegretario9.

A partire da queste prime considerazioni, è chiaro che anche l’antifascismo di cui troppo spesso si parla, soprattutto in tempi di elezioni, può assumere forme e contenuti diversi, quasi sempre solo di facciata, niente affatto conciliabili tra di loro.

Il proletariato è antifascista in base alla sua coscienza di classe; esso vede nella lotta contro il fascismo una poderosa battaglia destinata a capovolgere radicalmente la situazione e a sostituire la dittatura della rivoluzione alla dittatura del fascismo. Il proletariato vuole la sua vendetta, non nel senso banale e sentimentale della parola; vuole la sua vendetta in senso storico.
Il proletariato rivoluzionario capisce per istinto che al fatto dell’aumento e del predominio delle forze della reazione si deve rispondere col fatto della controffensiva delle forze di opposizione; il proletariato sente che solo attraverso un nuovo periodo di dure lotte e – in caso di vittoria – attraverso la dittatura proletaria lo stato di fatto potrà essere radicalmente cambiato. Il proletariato aspetta questo momento per restituire all’avversario di classe, con un’energia decuplicata dalle esperienze, i colpi che oggi è costretto a subire.
L’antifascismo dei ceti medi ha un carattere meno attivo. Si tratta, è vero, di una forte e sincera opposizione, ma alla base di questa opposizione è un orientamento pacifista: si vorrebbe con tutto il cuore ristabilire in Italia una vita politica normale, con piena libertà di opinione e discussione… ma senza colpi di manganello, senza impiego della violenza. Tutto deve tornare alla normalità, sia i fascisti che i comunisti devono avere il diritto di professare le loro convinzioni. È questa l’illusione dei ceti medi, che aspirano ad un certo equilibrio delle forze e della libertà democratica.
Anche nella borghesia in senso stretto regnano oggi dei dubbi sull’opportunità del movimento fascista. Si nutrono delle preoccupazioni, di cui i due citati organi di stampa (“Corriere della Sera” e “La Stampa” – NdR) sono, fino a un certo punto, i portavoce. Essi si chiedono: è questo il metodo giusto? Non è esagerato? Nell’interesse dei nostri scopi di classe noi abbiamo creato un certo apparato che doveva rispondere ad alcune esigenze. Ma non andrà esso oltre le funzioni che gli attribuivamo e gli scopi che ci prefiggiamo? Non sarà costretto a far più di quanto è bene? Gli strati più intelligenti della borghesia italiana sono per una revisione del fascismo e dei suoi scantonamenti reazionari, per timore che questi portino necessariamente ad una esplosione rivoluzionaria. Naturalmente, è nell’interesse espresso dalla borghesia che questi strati della classe dominante conducano nella stampa una campagna contro il fascismo per ricondurlo sul terreno della legalità, per farne un’arma più sicura e flessibile dello sfruttamento della classe operaia10.

Continuando poi con le seguenti considerazioni, svolte a seguito dell’assassinio di Giacomo Matteotti:

l’opposizione borghese considera l’intera questione come un fatto giudiziario, come una questione di morale politica […] Per noi, al contrario, si tratta di una questione politica e storica, di una questione di lotta di classe […] Bisogna dichiarare apertamente che solo l’azione rivoluzionaria del proletariato può liquidare una situazione simile; una situazione che […] non può più essere sanata con puri provvedimenti giudiziari, col ristabilimento filisteo della legge e dell’ordine. A tale scopo è invece urgente la distruzione dell’ordine esistente, un capovolgimento completo che solo il proletariato può condurre a termine.
[…] All’ordine del giorno è anche la questione del giudizio del fascismo italiano da parte della opinione pubblica internazionale, della campagna di propaganda condotta contro di esso dai paesi civili. Si crede addirittura di vedere nell’indignazione morale della borghesia degli altri paesi un mezzo per liquidare il movimento fascista.
I comunisti e i rivoluzionari non possono abbandonarsi a questa illusione sulla sensibilità democratica e morale della borghesia degli altri paesi. Anche là dove oggi si presentano ancora tendenze pacifistiche e di sinistra, domani il fascismo sarà usato senza scrupoli come metodo di lotta di classe. Noi sappiamo che il capitale internazionale può solo rallegrarsi delle imprese del fascismo in Italia, del terrore che esso esercita laggiù contro operai e contadini.
Per la lotta contro il fascismo […] si tratta di una questione di lotta di classe. Noi non ci rivolgiamo ai partiti democratici degli altri paesi, alle associazioni di idioti e di ipocriti come la Lega per i diritti dell’uomo, perché non vogliamo fare sorgere l’illusione che si tratti per essi di qualche cosa di sostanzialmente diverso dal fascismo, o che la borghesia degli altri paesi non sia in grado di preparare alla sua classe operaia le stesse persecuzioni e di compiere le stesse atrocità che il fascismo in Italia11.

E’ un chiaro richiamo alla necessità della lotta quello che il rappresentante del PCd’I espone nella sua relazione sul Fascismo e sui modi per combatterlo, che anticipa di vent’anni le modalità espresse poi dalla spontanea Resistenza degli oppressi e dei militari tornati dai fronti bellici. Come ad esempio esprimeva benissimo Nuto Revelli, nel suo diario della campagna di Russia12: «Cialtroni! Più nessuno crede alla vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata (di Russia – NdR) non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi…a farvi fuori!»13

Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua […] Non è così facile fare la rivoluzione!
Noi siamo assolutamente convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche migliaio di comunisti armati. Il P.C. d’Italia è l’ultimo ad abbandonarsi a simili illusioni. Siamo fermamente convinti della necessità inderogabile di attirare nella lotta le grandi masse. Ma l’armamento è un problema che può essere risolto solo con mezzi rivoluzionari […] Ma dobbiamo liquidare l’illusione che una manovra qualsiasi ci metta un giorno in condizione d’impadronirci dell’apparato tecnico e delle armi della borghesia, cioè di legare le mani ai nostri avversari prima che passiamo all’attacco contro di essi.
Combattere questa illusione che spinge il proletariato alla pigrizia in senso rivoluzionario non è terrorismo […] Noi non diciamo affatto che siamo dei comunisti “eletti” e che vogliamo sconvolgere l’equilibrio sociale con l’azione di una piccola minoranza. Al contrario, vogliamo conquistare la direzione delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè del partito comunista.
Questo il problema che ci sta di fronte14.

Ieri come oggi il soggetto antagonista non può affidarsi alle promesse elettoralistiche e alle chimere parlamentariste per sconfiggere il suo avversario, sia che si nasconda sotto le spoglie di Giorgia Meloni che di Letta, Salvini, Renzi, Calenda, Berlusconi, Di Maio o altri ancora. Compresi i «sinistri» che accampano ancora motivi tipici del Fascismo e del Nazionalismo, quali Sovranità e Nazione, in un paese in cui più che la difesa dei confini sarebbe necessario farla finita una volte per tutte con il capitale e i suoi scherani. In divisa militare o in abito grigio da parlamentare che siano.

Strategia perdente, quella dell’attuale “antifascismo” da elezioni, che spinge i giovani a doversi accontentare del piagnisteo ipocrita di “Repubblica” del 21 settembre sulle manganellate distribuite a Palermo dalle forze del dis/ordine sui contestatori del comizio di Giorgia Meloni, dimenticando però che proprio quel giornale rappresenta una delle voci più autoritarie nei confronti dei movimenti reali. Com il suo direttore, Maurizio Molinari ha ben dimostrato sempre nei confronti del Movimento NoTav, definito terrorista dallo stesso.

Mentre, solo per fare un esempio, il fatto che al sorgere di un movimento dal basso e concreto nelle istanze, come quello rappresentato nel Regno Unito da «Don’t Pay» che ha raccolto in poco tempo più di centomila aderenti, che potrebbero diventare un milione, intorno a una richiesta fondamentale, ovvero «la riduzione delle bollette energetiche a un livello accessibile», il governo “conservatore” di Liz Truss ha dovuto rispondere con un provvedimento del valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di sterline indirizzato al contenimento del caro-bollette per i prossimi 24 mesi.

Anche se tale provvedimento si è reso necessario prima di tutto per fornire un aiuto alle aziende, è chiaro che il potenziale pericolo rappresentata dal movimento, sul piano della lotta di classe, ha costituito uno dei fattori chiave per una svolta in tal senso. Considerato anche, come ha affermato Salvatore Toscano su «L’indipendente», che: «L’iniziativa, come si legge sul sito, ricalca un’idea realizzata nel Regno Unito alla fine dello scorso millennio, quando 17 milioni di persone si rifiutarono di pagare la Poll Tax, contribuendo alla caduta del governo e all’inversione delle sue misure più dure».

Insomma, la lotta concreta dal basso è l’unica che paga e, talvolta, può essere addirittura sufficiente che il suo spettro si aggiri per l’Europa15.


  1. Franco Rosso, La Costituzione non è difesa dal partito di Letta, «il manifesto», martedì 9 agosto 2022, p.15  

  2. F. Rosso, art. cit.  

  3. Cui Fratoianni ha lasciato il seggio di Pisa – NdA  

  4. ivi  

  5. Per fare solo un esempio, quale dovrebbe essere la concezione della proprietà privata, del lavoro, dell’organizzazione socio-politica in una situazione in cui una rivoluzione radicale e proletaria prendesse il sopravvento? Potrebbe ancora basarsi sui principi liberali oppure dovrebbe affermarne, come pensa l’estensore di queste note, altri? Magari assolutamente diversi e contrari a quelli attualmente in vigore?  

  6. A. Bordiga, Del governo, «Il Comunista», 2 dicembre 1921  

  7. A. Bordiga, art. cit.  

  8. Fabio Ciabatti, Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2, «Carmilla on line», 23 agosto 2022  

  9. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista (Ventitreesima seduta, 2 luglio 1924)  

  10. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  11. Ivi  

  12. N. Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 1967 – prima edizione Panfilo editore, Cuneo 1946  

  13. N. Revelli, op. cit., p. 210  

  14. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  15. “Il Sole 24 Ore” del 10 settembre 2022 rivela che dal Rapporto Coop 2022 emerge che un italiano su tre entro Natale potrebbe non riuscire più a coprire le spese per le utenze di luce e gas, mentre il 57% degli italiani si sarebbe già dichiarato in difficoltà nel pagare l’affitto.  

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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/09/13/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-3/ Tue, 13 Sep 2022 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73698 di Emilio Quadrelli

Le armi della critica

Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le armi della critica

Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, a un invito al Grande fratello, entrare nell’entourage di Palazzo Grazioli o, magari dopo essere scampati alla morte in fabbrica, diventare parte dello show parlamentare. In tale contesto, entrare a far parte del grande spettacolo della politica, rappresenta una fortuna non diversa da una corposa vincita alla lotteria, un’occasione che, nella migliore delle ipotesi, nella vita può capitare una volta soltanto.

Queste le uniche e concrete strade perseguibili per i socialmente esclusi. Dentro le strettoie di questo passaggio altre vie non ve ne sono. Fuori dalla prospettiva della Storia sono Ruby e non Zohra1, Fedez e non Ali la Ponte2 a dettare i tempi e i modi dell’emancipazione. Ma che cosa caratterizza tutto ciò? Sostanzialmente una cosa: la dimensione puramente individuale, e quindi del tutto contingente, dell’esistenza. Fuori da un corpo e un “destino” storico e collettivo non vi sono alternative. Ora, al di là di tutte le retoriche che si possono utilizzare per indicare un destino collettivo, un solo passaggio rende realmente storico e collettivo un progetto: la conquista del potere politico e il farsi classe dominante3. Tutte le altre forme di esistenza collettiva, per loro natura, non possono che risultare effimere e prive di ricadute sostanziali.

È possibile essere catturati collettivamente dal pathos per la propria squadra del cuore, cadere in estasi collettivamente sotto le note di una sinfonia particolarmente cara o di un sound accattivante, si può praticare il “patriottismo di quartiere” o legarsi allo stile di vita di una gang condividendone oneri e onori ma tutto ciò, alla prova dei fatti, non emancipa di una virgola la condizione di fondo4. Solo il farsi classe storica consente di squarciare il velo alla prosaicità del presente. Solo il farsi classe dominante consente di guardare negli occhi il mondo senza perdersi nelle anguste, per l’intera vita, prospettive condominiali. Un intera arcata storica, nel bene e nel male, è stata informata da tale scenario.

I proletari, gli operai, i subalterni delle epoche che ci hanno precedute non percepivano se stessi come esclusi, marginali, socialmente delegittimati e via discorrendo ma parti di un tutto che, alla scala della storia, rivendicava una legittimità storica e politica oggettivamente determinata. Il comunismo e il potere operaio come tendenza storica non negoziabile era qualcosa che stava dentro la realtà delle cose. Contro questo, il potere imperialista, poteva solo, a ben vedere, giocare di rimessa conscio in qualche modo che, offensive tattiche a parte, sul piano strategico la sua non poteva che essere una posizione di ripiego e difesa. Il detto del vecchio Keynes: “Sui tempi lunghi siamo tutti morti”, rendeva in qualche modo esplicita la convinzione della borghesia di stare combattendo una battaglia di retroguardia, il cui fine non era altro che trascinare il più a lungo possibile lo stato di agonia.

In tale ottica l’affermazione: “L’imperialismo è una tigre di carta” era qualcosa di ben più che un modo per rincuorare gli effettivi di un Esercito rosso in via di ricostituzione bensì l’affermazione di una “certezza storica” che poggiava su fatti difficilmente contestabili. Se guardiamo all’intera storia del Novecento, e in particolare ai decenni Sessanta e Settanta, il senso di tale affermazione appare persino banale. Ma dietro a tutto ciò che cosa c’era? Un inguaribile ottimismo?, Un eccesso di alcool?, Una malcelata volontà di potenza?, oppure, più realisticamente, tutto ciò poggiava su un’idea – forza, quella della lotta per il comunismo, che aveva plasmato intere generazioni operaie e proletarie e che, con la vittoria dell’Ottobre, aveva posto, non più teoricamente ma praticamente, all’ordine del giorno la dimensione storica del proletariato?

Di ciò, non stupidamente, ne erano ampiamente consapevoli i quadri migliori delle varie borghesie imperialiste. La lotta contro lo spettro rosso del potere operaio e proletario diventa l’alfa e l’omega del comando capitalistico internazionale. Sotto questo aspetto, tanto per fare degli esempi concreti, la Guerra del Vietnam5 e la Guerra d’Algeria6 ne sono state la migliore cartina tornasole. Sotto la bandiera dell’anticomunismo tutte le forze imperialiste, pur se a diversi gradi, si sono ritrovate unite su quel campo di battaglia7.

Verrà da domandarsi che cosa, tutto ciò, abbia a che vedere con la presente questione dell’esclusione sociale. Perché questi continui richiami a una storia della quale, obiettivamente, si fa persino fatica a ritrovarne traccia tanto che, il solo parlarne, sembra accomunarci a quella massoneria dell’erudizione inutile della quale, la storia europea, vanta una corposa tradizione8? In realtà, nel contesto, ci troviamo di fronte a qualcosa di ben poco massonico, erudito e ancor meno inutile. In palio, infatti, vi è la questione del marxismo e del suo essere idea – forza. Che cosa occorre, andando al dunque, alle masse dei dannati delle metropoli contemporanee? Attraverso quali passaggi diventa possibile, sensato e realistico modificare i rapporti di forza attuali tra le classi? Partiamo, intanto, con il riconoscere che tutte le illusioni e gli abbagli coltivati, in primis dall’intellighenzia modernista della sinistra, hanno fatto repentinamente bancarotta e che, non per caso, si assiste a un ritorno a Marx. Allo stesso tempo la questione dell’organizzazione, non nelle sue derive effimere e plastificate, torna a essere oggetto di interesse e ragionamento politico. In qualche modo persino Lenin riprende ad albeggiare tra gli orizzonti dei movimenti antagonisti9.

“I fatti hanno la testa dura” e alla fine diventa difficile eluderli come se nulla fosse. Proprio dentro questa possibile renaissance occorre però non farsi prendere dagli eventi o dagli entusiasmi e usare sino in fondo le armi della critica evitando facili scorciatoie insieme alle inevitabili semplificazioni che queste si portano appresso. Occorre, questo il compito di chiunque si pensi come avanguardia, mettere il marxismo alla prova dei tempi evitando in tal modo di ridurlo a dogma e a vuoto esercizio accademico.

Detto ciò, torniamo al nostro tema. Una facile, ovvia e certamente sensata risposta alla condizione di classe contemporanea è quella che porta a identificare nella ri-costruzione dell’organizzazione di classe nella forma partito e nel “restauro” del marxismo le necessità primaria degli attuali dannati delle metropoli.. La risposta è corretta ma, per non cadere in un facile quanto inconcludente “organizzativismo” e dottrinarismo senza costrutto, occorre riempire di carne e sangue questo passaggio al fine di non trasformare la prima in semplice questione “tecnica”, la seconda in mera operazione “scolastica”. La carne e il sangue di ogni organizzazione proletaria è data solo e unicamente dalla prospettiva politica che è in grado di far vivere dentro le lotte. Ogni lotta parziale, ogni lotta settoriale, ogni piccolo conflitto metropolitano, ha senso se inserito in una prospettiva se ogni lotta, ricordando Lenin, è una “scuola di guerra”. Una guerra non indifferenziata e indistinta ma una guerra che, grazie alla sintesi del “politico” o, per essere maggiormente chiari, dell’elemento soggettivo è in grado di sedimentare organizzazione e, con questa, forza politica autonoma della classe10.

In assenza di una prospettiva storico – politica ossia di una dimensione che ponga, in via definitiva, la questione del potere politico e la sua conquista è impensabile che l’orizzonte delle masse possa forzare l’ordine dello stato di cose presenti. Una volta compiuto tale passaggio, almeno in apparenza, tutto sembrerebbe diventare persino banale e in virtù di ciò il semplice “restauro”del marxismo esserne, al contempo, corollario e premessa. Ma per condurre con efficienza ed efficacia un tale compito è necessario, per prima cosa, capire dentro quale scenario si sta agendo11.

Certo una ripresa di una certa “didattica di classe”, a fronte dello scempio teorico conosciuto negli ultimi venti, trenta anni è un’impresa di per sé meritoria ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che un tale passaggio, di per sé, possa presentarsi risolutivo. Si tratterebbe, in qualche modo, di ricadere in un’operazione “culturalista”12, magari tramite la riscoperta del non troppo felice intellettuale organico di gramsciana memoria13, attraverso la quale riuscire nuovamente a far quadrare il cerchio.

Una tentazione che oggi, in seguito ai reiterati fallimenti e disastri a cui è pervenuta l’insieme della sinistra, conosce una certa diffusione. Si tratta di un’operazione che, per quanto comprensibile, ha ben poco di marxista. Non è certo attraverso l’artifizio del mito che la teoria comunista, in quanto unità dialettica di teoria e prassi, può realisticamente assolvere ai compiti del presente. Non è guardando indietro, andando alla ricerca di una, per altro improbabile, età dell’oro che si rende un qualche servizio utile alla classe. Da sempre, e in ciò il “metodo leniniano” è in grado di raccontare ancora molto, lo scopo e la funzione del marxismo consiste nel porre l’organizzazione della classe, escludendo ogni volo pindarico dentro la “concretezza” del presente14.

Allora, per tornare al filo conduttore del nostro discorso, la questione dell’esclusione sociale può e deve essere compresa dentro lo scenario del presente avendo a mente i passaggi che hanno caratterizzato l’attuale fase imperialista. Se, come ormai anche gli ipovedenti sono in grado di osservare, per l’organizzazione statuale imperialista il problema di fondo consiste nell’escludere le masse ben poco sensato appare il riproporre modelli politici e organizzativi di un’epoca in cui, con tutte le contraddizioni che pure si portava appresso, il tema dell’inclusione politica e sociale dei subalterni rimaneva un obiettivo di non secondaria importanza per le stesse classi dominanti.

La vera sfida che oggi la teoria marxista deve affrontare è la formulazione di una soggettività in grado di misurarsi con gli scenari del presente. Affermare che la Storia non è finita e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico non si sono esaurite anzi sono sempre più macroscopiche e devastanti è un passaggio importante ma ancora insufficiente. Tutto ciò può portare a riaffermare, e non si tratta ovviamene di cosa da poco, dell’esistenza del partito storico del proletariato15 ma questa, se è la condizione al contempo preliminare e indispensabile per ogni possibilità di ragionamento su organizzazione e partito, è altresì lontana dal risolvere il problema poiché non è attraverso la semplice restaurazione di un corpo teorico classico che diventa possibile venire a capo delle sfide del presente. L’esergo, in realtà l’incipit, posto a fronte del testo ha ben poco di casuale e ancor meno di “rituale” o ossequioso. Il richiamo a quel fondamentale passaggio del Manifesto è posto perché obbliga a guardare avanti e ad avere il coraggio di leggere, per potere conseguentemente agire, le rotture alle quali, nel suo divenire, il modo di produzione capitalista impone.

(fine terza parte – continua)


  1. Zohra Drif, militante del FLN algerino, fece parte dei primi commando operativi femminili entrati in azione nel corso della “Battaglia d’Algeri”. Fu lei a compiere, il 30 settembre del 1956, l’attentato contro il Milk – Bar di place Bugeaud di Algeri uno dei più noti ritrovi della gioventù pieds – noirs. Fu catturata il 24 agosto 1957 insieme al responsabile del FLN di Algeri Yacef. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, Rizzoli, Milano 2007  

  2. Ali – la – Pointe, militante del FLN algerino. Cresciuto tra i mondi dei marginali della casba di Algeri in carcere, a Barberousse, a stretto contatto con i militanti effellenisti imprigionati si politicizzò. Evaso nel corso di un trasferimento a un’altra prigione, tornò nella casba non più come marginale ma quadro politico – militare del FLN. La mattina del 28 dicembre 1956 portò a termine la sua prima missione militarmente rilevante uccidendo il sindaco di Algeri Amédée Froger. Cadde l’8 ottobre 1957 nella fase finale della “Battaglia d’Algeri” insieme a Hassiba Ben Bouali e al dodicenne “Petit Omar”. L’abitazione che serviva loro da rifugio e base operativa del FLN venne fatta saltare per aria dai paracadutisti del 1 R. E. P.. Con loro trovarono la morte altri 17 algerini le cui case, situate nelle immediate vicinanze del rifugio di Ali – la – Pointe, saltarono in aria insieme a questa. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit.  

  3. Su questo aspetto decisivo della teoria marxista si veda V. I. Lenin, “Stato e rivoluzione”, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  4. Significativo, al proposito, sono l’insieme di retoriche sorte intorno alle subculture metropolitane e agli “stili di vita” a queste annesse come unico e legittimo orizzonte delle classi sociali subalterne. Per una discussione su questi temi, cfr. E. Quadrelli, “Il nodo di Gordio. Per una lettura politica della “questione stadi”.”, in AA. VV., Stadio Italia, cit.  

  5. Tra i molti testi che ricostruiscono questa vicenda si vedano, S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1989; M. B. Young, Le guerre del Vietnam, Mondadori, Milano 2007.  

  6. Oltre al ricordato lavoro di Horne si può vedere, molto sintetico ma molto esplicativo, B. Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009.  

  7. Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005  

  8. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.  

  9. Si veda ad esempio, G. Roggero, La misteriosa curva della retta di Lenin. Per una critica dello sviluppo del capitalismo oltre i beni comuni, La Casa Usher, Firenze 2011  

  10. Per una discussione su questi temi si veda, E. Quadrelli (a cura di), Lenin. Il pensiero strategico. Il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011.  

  11. Ciò che va sempre tenuto ben a mente è il contesto all’interno del quale si opera, Sotto tale aspetto il testo di V. I. Lenin, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, Opere, Vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1956 rimane una delle migliori esemplificazioni della metodologia marxista. È sulla base di questo lavoro analitico, che rompe il quadro concettuale del presente che lo circonda, che Lenin mette a punto le coordinate per la costruzione del partito operaio. Lenin può costruire il partito perché coglie esattamente il divenire storico e non si sclerotizza su un passato che, per quanto quantitativamente ancora consistente, appartiene già alla storia di ieri.  

  12. In poche parole non è pensabile di risolvere l’insieme dei problemi politici contemporanei facendo ricorso a dei semplici “corsi di formazione”. I “corsi di formazione”, di per sé, possono risultare esaustivi per i maestri ma non per i rivoluzionari di professione, ciò che va costantemente tenuto a mente è il rapporto dialettico tra teoria e prassi. Su questo aspetto rimane importante G. Lukács, “Che cos’è il marxismo ortodosso?”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit.  

  13. Proprio intorno alla figura e alla funzione dell’intellettuale sembra delinearsi al meglio la distanza tra Gramsci, dove le reminescenze idealistiche hegeliane, per di più rimasticate da Croce, fuoriescono in continuazione e Lenin per il quale ogni figura sociale, quindi anche l’intellettuale, è centralizzato e diretto dall’agire di partito. Lenin, che non a caso, applicando appieno alla dimensione politica lo sviluppo del pensiero militare, modella il partito come “Quartiere generale” non concede agli intellettuali alcun status particolare. Riconosce, ma questo è vero e valido per ogni ambito sociale, le peculiarità e le particolarità che necessariamente questo si porta appresso ma, in quanto tale, tali peculiarità non diventano foriere di uno status particolare. Certo, il partito, in quanto organismo professionale, metterà a frutto al meglio le competenze di ciascuno e, in virtù di ciò, è assai probabile che l’intellettuale si occupi, per il partito, di alcune cose piuttosto che di altre ma tutto ciò, questo è il punto decisivo in Lenin, sempre subordinando tali attività alle necessità strategiche del partito. In Gramsci, al contrario, l’intellettuale, in quanto tale, è rivestito di un ruolo, e quindi di una autonomia rispetto al partito, che ricorda non poco le argomentazioni proprie della frazione menscevica. Per una critica serrata di queste ipotesi si veda, V. I. Lenin, “Che fare?”, in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958  

  14. Cfr. E Quadrelli, (a cura di), Lenin, cit.  

  15. Con partito storico Marx, ad esempio negli scritti sulla Comune, K. Marx, “La guerra civile in Francia”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti 1969, indica la formazione del proletariato in quanto classe storico-politica. Una sorta di “articolazione pratica” di quanto, sul piano concettuale, era stato cesellato nel lungo travaglio che porta Marx dall’idealismo hegeliano, passando per l’umanesimo di Feuerbach, alla messa a punto del materialismo storico e dialettico i cui presupposti sono ampiamente delineati in F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971. Si tratta, cioè, dell’individuazione del proletariato come classe che, per la prima volta, nel divenire storico è in grado di far coincidere il suo interesse particolare con l’interesse generale. L’emancipazione del proletariato, quindi, coincide con l’emancipazione dell’umanità. Affermare il persistere del partito storico significa riconoscere che il senso della storia non è compiuto, atto importante ma che è ben lungi dall’offrire soluzioni alle questioni dei tempi le quali non possono che essere affrontate attraverso la messa in forma del partito formale. Glissare sulla questione del partito formale, confidando nell’esistenza del partito storico e della sua “oggettiva” potenza, significa ricadere nel più gretto movimentismo e spontaneismo. Con ogni probabilità, la teoria delle moltitudini, cfr. M. Hardt, A Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, rappresenta la più sofisticata ed elaborata teoria contemporanea alla cui origine vi è la scissione radicale tra partito storico e partito formale. Riaffermare, nel presente, la necessità del partito formale, combattendo le diversificate posizioni liquidazioniste non è un vezzo di ortodossia ma uno dei compiti politici essenziali del movimento comunista.  

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Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/06/08/arma-letale-1-war-and-the-great-human-rights-swindle/ Wed, 08 Jun 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72234 di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International [...]]]> di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)

Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.

Può iniziare da questo episodio una riflessione sul fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, che si scandalizza ad ogni piè sospinto per i motivi più disparatii, come nel caso delle parole proferite per stigmatizzare le scelte del premier ungherese («Sono particolarmente scandalizzato in questo momento dall’atteggiamento dell’Ungheria di Orban, mette il suo veto rispetto alle sanzioni e si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin»), in realtà non si scandalizzi affatto per l’indiretta partecipazione del governo che sostiene il conflitto in atto in Ucraina.

Anima candida, erede del Veltroni-pensiero, pieno di nostalgia per l’età (kennedyana) dell’innocenza perduta, il segretario di un partito che accetta qualsiasi compromesso a favore delle scelte della Banca Centrale europea e del suo ex-governatore ed attuale premier italiano e del progressivo ampliamento della guerra russo-ucraina verso Est e, inevitabilmente, verso Ovest, in compenso, non ha mai perso l’occasione per sbandierare la sua personale difesa, e del suo partito, dei diritti umani e civili.

Questo atteggiamento di un “democratico” difensore dei diritti individuali serve perfettamente ad illustrare l’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo dei valori occidentali e degli interessi economici, politici e militari che li sottendono. In cui, ancora una volta, le violenze connesse a un conflitto sono ascrivibili soltanto ad una delle parti in causa, senza mai considerare l’autentica macelleria di vite, di donne, uomini e bambini che la guerra esige per sua stessa natura. Una divinità che non ha riguardo alcuno per il fronte “giusto” o quello “sbagliato”, da cui esige un medesimo tributo di sangue e di violenza.

Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati, soprattutto occidentali, a definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale oppure di quello globale per la spartizione delle ricchezze e delle influenze economico-militari su scala mondiale.

Pertanto, l’uso che oggi viene fatto, sia dalle ONG che dagli apparati propagandistici e militari, del concetto di “diritti umani” non risulta essere dovuto ad un radicale travisamento degli stessi ma, al contrario, già implicitamente contenuto proprio nelle formulazioni che hanno accompagnato tale concetto fin dalle sue origini.
Come hanno affermato Nicola Perugini e Neve Gordon in una loro ricerca:

Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano1.

Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto, il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative. Contribuendo così a sviluppare il cosiddetto diritto penale del nemico, ovvero un non diritto sostanziale, in cui fa rientrare tutti gli avversari dell’ordine sociale, economico e geopolitico dato, ogni qualvolta si tratti di giudicarli.

La storia anticoloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale. Però, paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid”2.

Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani possa essere costituito proprio dalle forze armate americane, come è riscontrabile dall’annotazione posta in epigrafe a questo intervento. Non solo, ma si stima anche che:

L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum3.

Salta immediatamente agli occhi come tale scelta possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, adottare.

In un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”. Magari per speculari interessi propri, ma sempre diversificati o opposti rispetto a quelli dell’Occidente.

Per questo motivo, a titolo di esempio, l’uso di droni “assassini” per eliminare generali, carri armati con relativi equipaggi o leader politici avversari, sarà sempre presentato in maniera benevola, quasi a voler far svolgere alla macchina la funzione dell’eroe invincibile e sempre giustificato nella sua azione, per violenta che essa sia. Mescolando, nell’immaginario, l’apparato tecnologico diretto a distanza attraverso un joy-stick oppure da un evoluto programma search and destroy con gli eroi del mito, da Gilgamesh a quelli più dozzinali portati sullo schermo da Bruce Willis o Sylvester Stallone.

In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario. Mentre le vittime causate dall’azione avversa, come ben si è visto in questi cento e più giorni di guerra in Ucraina, non possono essere altro e soltanto che vittime di “crimini di guerra”.

Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi si trova ad operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti oppure dai “crimini di guerra” se le vittime saranno il frutto di scontri allargati con potenze di egual forza militare. Seguendo questa logica, nel caso della campagna condotta in Ucraina, i bombardamenti e le azioni militari delle forze armate di Zelensky, per default, colpirebbero quasi sempre e solo obiettivi militari mentre le azioni dei militari russi sarebbero sempre e soltanto dirette a colpire le comunità civili, attraverso i loro corpi fisici e le loro abitazioni.

Contribuendo a sviluppare un’autentica pornografia della morte in cui è possibile seguire in diretta ogni azione mirante a debellare il nemico fino alla sua distruzione, con manifesta simpatia se non addirittura gioia dei media, oppure osservare, con sollecitata commozione e indignazione, le immagini dei corpi trucidati dei “buoni” o dei danni da essi subiti.

Le istanze delle vittime reali o degli avversari diventano così una questione di “verità assoluta”, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed indiscutibile dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. In cui il concetto ampliato di “crimine di guerra” diventa estremamente efficace nello spazzare via dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale, economico o al conflitto perenne tra le classi e tra gli imperi. Non a caso:

Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali4.

La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: «L’essenza della nostra metodologia non è la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza […] l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani»5. In tal modo:

L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale6.

Cosicché

l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce7.

Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere8.

Interrompendo questo lungo excursus sulla funzione del cosiddetto diritto umanitario, in gran parte tratto, con le dovute modifiche, da una recensione già pubblicata su Carmilla nel 20169 e riportando l’attenzione sui fatti attuali, può risultare utile riflettere sul fatto che, proprio per i motivi appena elencati, chi difende i diritti degli immigrati a diventare proletari sfruttati come braccianti o manodopera e manovalanza della malavita, una volta accolti nella democratica italietta bellicista e colonialista, poco o niente voglia sentir parlare di classi sociali e di lotta tra le stesse.

Altrettanto vale per la questione femminile e la violenza sulle donne ridotta a spettacolo hollywoodiano, in cui la drammatizzazione per mezzo di una sceneggiatura basata su frasi e scene ad effetto contribuisce più a dar vita ad una forma di scripted-reality che non a una concreta analisi dei fatti.

Un altro aspetto del genocidio sono i crimini di carattere sessuale, non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini […] Non riusciamo oggi a dare un numero preciso di questi crimini. Possiamo però dire che hanno un carattere di massa. E sono intenzionali, non casuali. Sappiamo di una ragazza di sedici anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l’hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva «Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste». Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri «Così non metterete più al mondo nazisti ucraini»10.

Peccato soltanto che l’autrice dell’articolo summenzionato, la super-commissaria dei diritti umani ucraina, Lyudmyla Denisova, sia stata rimossa successivamente dal suo incarico dal voto di un parlamento ucraino preoccupato dalle cifre degli abusi sessuali russi esagerate e gonfiate dalla stessa. La Verkhovna Rada ha infatti licenziato la commissaria parlamentare per i diritti umani a causa della sua prolungata e ingiustificata permanenza all’estero durante i mesi del conflitto e del

ripetuto mancato adempimento delle sue funzioni relative all’istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupatie ad altre attività per i diritti umani. Secondo il Parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l’Ucraina11.

E soprattutto le vittime reali degli abusi, verrebbe da dire. Ma, si sa, lo spettacolo mediatico e il trionfo del verosimile piuttosto che del vero sembrano costituire l’intima essenza del discorso sulla guerra e i diritti umani. In un contesto in cui la propaganda bellica deve assolutamente raggiungere lo scopo di annichilire le coscienze, sotto un profluvio di immagini e parole accuratamente selezionate.

In tale contesto mediatico e propagandistico l’antimilitarismo di classe dovrebbe zittirsi per accordare i propri strumenti con la partitura dominante e piegarsi alla logica “inconfutabile” dei processi spettacolo in cui, come in una farsa ripetuta con successo, a fare le spese delle vendette degli Stati e delle classi al potere, saranno sempre e solo personaggi secondari e miserabili, presentati come “autentici mostri”, come nel caso del caporale russo poco men che ventenne condannato all’ergastolo da un tutt’altro che imparziale tribunale ucraino. Oppure per timore di cadere all’interno delle liste di proscrizione che alcuni giornali e apparati di sicurezza sembrano imbastire quotidianamente in omaggio al vecchio comandamento di epoca bellica e fascista: Taci, il nemico ti ascolta!12.

Invece di denunciare come la sofferenza e il dolore, la morte e lo stupro, la distruzione e il massacro connessi alla macelleria bellica, da qualsiasi parte in causa siano originati, diventino soltanto, in nome dei diritti umani, strumenti di una propaganda per nulla interessata a sradicare davvero ciò da cui tutto questo ha origine, ma soltanto a sostituire il vero con il verosimile.

La realtà di una forma sociale autoritaria, violenta, egoistica e patriarcale fondata sulla trasmissione della proprietà privata, sulla famiglia, idealizzata al di sopra di tutto, e sullo Stato, ma destinata soltanto a legittimare la figura del pater familias e della religione che a sua volta lo legittima in quanto tale. La realtà dello sfruttamento e dell’imbarbarimento rinviabili alla forma sociale capitalistica, in tutti i suoi aspetti, con quella dei diritti risalenti ancora, e soltanto, alle rivoluzioni borghesi. Grandi o piccole che esse siano state. Dietro al cui spirito, presunto, si son sempre mascherate le aspirazioni espansionistiche e di dominio di potenze ormai giunte, piaccia o meno, alla fine del loro corso storico. Di cui, per l’autentico bene della specie, sarebbe auspicabile la caduta non a fronte di una sconfitta nel corso di un conflitto inter-imperialista dalle conseguenze inimmaginabili, ma a causa di uno scontro, non più ulteriormente rinviabile, tra coloro che possiedono quasi tutto e coloro che, uomini e donne, sono stati spossessati di tutto, compresa la loro umanità. Ad Est come a Ovest.


  1. Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 29-32  

  2. op. cit., p. 13  

  3. Ibid, pp. 25-26  

  4. ibid, p. 198  

  5. ivi, p. 199  

  6. pag. 202  

  7. p. 203  

  8. p. 207  

  9. Sandro Moiso, Che cosa resta dei diritti umani?, Carmillaonline, 14 dicembre 2016 successivamente ripreso in Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019  

  10. Lyudmyla Denisova, Donne stuprate davanti ai figli, porteremo le prove dei crimini russi, «La Stampa», Domenica17 aprile 2022, p.8  

  11. Kiev rimuove dall’incarico la commissaria Denisova, «La Stampa» Mercoledì 1 giugno 2022, p. 11  

  12. cfr. Lo scandalo dei dossier investe il Dis e il governo, il Fatto Quotidiano, mercoledì 8 giugno 2022  

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Il nuovo disordine mondiale /4: Si vis pacem, para bellum https://www.carmillaonline.com/2022/03/05/il-nuovo-disordine-mondiale-4-si-vis-pacem-para-bellum/ Sat, 05 Mar 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70769 di Sandro Moiso

Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi. ( Domenico Quirico, Con le armi consegnate a Kiev siamo già in guerra con Mosca, «La Stampa», 3 marzo 2022)

Scrivere di guerra durante un conflitto in [...]]]> di Sandro Moiso

Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi. ( Domenico Quirico, Con le armi consegnate a Kiev siamo già in guerra con Mosca, «La Stampa», 3 marzo 2022)

Scrivere di guerra durante un conflitto in atto, soprattutto nel corso di uno dalle dimensioni e dalle possibili disastrose conseguenze come quello attuale, implica una grave responsabilità, non solo di ordine politico ma ancor più di carattere morale e civile.
Oggi, sotto il bombardamento continuo di una quantità enorme di missili, disinformazione, proiettili, propaganda, immagini di dolore, fake news e autentica merda ideologica, da qualsiasi parte in conflitto provengano, lo implica ancor di più poiché già il solo scriverne con il distacco necessario per non cadere nelle trappole della propaganda embedded rischia di segnare una cesura incolmabile tra la realtà del dolore e della sofferenza sul campo (sia civile che militare) e l’ancor relativa situazione di pace illusoria e privilegio di chi scrive a distanza.
Detto questo, però, occorre lo stesso contrapporsi al conflitto e al suo allargamento, mantenendo uno sguardo che non sia né da tifoseria calcistica, né tanto meno caratterizzato dall’indifferenza travestita da radicalismo, ma che proprio per questi motivi non può fare uso di un linguaggio del tutto asettico.

Nell’Introduzione alle Leggi di Platone, il cretese Clinia individuava nell’azione di chi aveva preparato la popolazione cretese a combattere su un terreno impervio la condanna della «stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabilì tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori»1. E’ da questo testo che deriverebbe la locuzione latina di cui si è tanto abusato, senza in realtà mai comprenderla pienamente, come si vedrà poco oltre.

Troviamo dunque in un filosofo antico, vissuto tra V e il IV secolo a.C., anche se poi l’autore avrebbe usato l’affermazione di Clinia per poter sviluppare un discorso di diverso carattere, un’affermazione di estrema modernità sul ruolo ultimo degli Stati e della loro funzione: quello della guerra e del guerreggiare, per difendere proprietà, ricchezze, sicurezza, ma anche per ampliare il proprio dominio e i propri possedimenti. Dimostrando, come avrebbe intuito già Michel Foucault fin dagli anni ’70 rovesciando un’altra celebre affermazione, questa volta di Carl von Clausewitz, che «la politica non è altro che una continuazione della guerra in altre forme».

«Se vuoi la pace, quindi, prepara la guerra», anche se la formulazione latina appare in Vegezio, alla fine del IV d.C., come Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum, letteralmente “Dunque, chi aspira alla pace, prepari la guerra”2. Cosa che non modifica il senso della frase, ma che conferma come i discorsi sulla pace e sulla guerra siano intrinsecamente legati. Non in contrapposizione, come potrebbe apparire ad un primo sguardo superficiale, ma in profonda unità di intenti poiché, nella logica degli Stati e della loro azione reale, la garanzia della pace può fondarsi soltanto sul monopolio della forza e della violenza. Come, per esempio, il cosiddetto “equilibrio del terrore” ha dimostrato per decenni

Idea, quella dell’ottenimento della pace attraverso la guerra e il potenziamento delle forze armate e del loro uso, che non segna soltanto l’azione putiniana in Ucraina, ma anche la disordinata e rabbiosa reazione dell’Occidente alla stessa. Per ora più marcata forse in Europa che non negli Stati Uniti. Non a caso, forse, l’uso ufficiale della massima latina apparve, in contesto moderno, prima corredando la stampa del documento del 1892 che celebrava l’alleanza tra la Russia zarista e la Francia in funzione anti-tedesca, mentre, successivamente, sul portone di ingresso della fabbrica Deutsche Waffen und Munitionsfabrik (DWM) passò a identificare le cartucce prodotte da questa con il nome di Parabellum.

Infatti nelle attuali scelte, apparentemente “irresponsabili”, dei governi europei e di quello italiano concorrono alcuni fattori di carattere geopolitico e strategico che non possiamo certo dimenticare.
Il primo è quello del timore europeo di rimanere, in un contesto già di crisi, schiacciati tra gli interessi americani, russi e cinesi, Prova ne sia, non soltanto la decisa azione militare russa, ma la scelta, evidente, degli Stati Uniti di non intervenire direttamente sul fronte Ucraino, non per ragioni di pericolo di conflitto nucleare, come si afferma da parte del governo americano che pur non lo esclude del tutto, ma per fare in modo che si sviluppi in Ucraina una situazione di tipo afghano, in cui siano destinati ad impantanarsi all’infinito tanto gli sforzi bellici di Putin quanto le relazioni economiche e diplomatiche tra alcuni paesi europei (Germania per prima) e la stessa Russia, Con tutte le conseguenti ricadute di carattere energetico ed economico, oltre che geopolitico sulle politiche interne ed estere della UE. Per gli Stati Uniti, nella sostanza, due piccioni con una fava: indebolimento dell’euro e della sua economia concorrenziale a quella del dollaro e del made in USA e del colosso militare russo. Per l’Unione Europea un incubo da cui uscire ad ogni costo. Anche a quello di scatenare una guerra di cui non è difficile prevedere le tragiche conseguenze.

A riprova delle intenzioni statunitensi nei confronti della guerra ai confini orientali d’Europa può essere utile seguire il ragionamento sull’invio di aiuti americani nei confronti dell’Ucraina svolto dalla politologa Jessica Trisko Darden, in un articolo tratto da «The Conversation», che dopo aver dettagliatamente elencatoato l’ammontare degli aiuti americani, principalmente militari, in quell’area nel corso degli ultimi anni, conclude

Consegnare armi a un paese in guerra può sembrare ragionevole, ma questo afflusso di armi può intrappolare un paese in conflitto. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, la proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro, come quelle distribuite in Ucraina, può prolungare i conflitti armati, ostacolare l’attuazione degli accordi di pace e mettere in pericolo le forze di pace e i civili locali. In breve, le armi inviate oggi per aiutare l’Ucraina potrebbero rendere il paese più violento negli anni a venire.
C’è anche il rischio che, una volta superata l’attuale crisi, le armi leggere possano essere vendute dai civili. Queste armi potrebbero finire altrove in Europa o cadere sotto il controllo delle milizie che operano in Ucraina, incluso il battaglione di estrema destra Azov3.

In tale contesto, come si è già sottolineato in un articolo precedentemente pubblicato su «Carmilla on line» il 3 marzo, il riarmo tedesco non denuncia solo il tentativo di trarre un vantaggio economico e produttivo ballando sull’orlo del baratro, ma anche quello di fornire il vero centro del capitalismo europeo di una forza militare indipendente, che non sia costretta a dipendere dalla NATO oppure dalla forza militare francese o, peggio ancora, britannica.

L’altro fattore è riconducibile a quel complesso di eventi che, come si è già detto, hanno segnato negli ultimi vent’anni, prima quasi impercettibilmente e poi in maniera sempre più evidente, il declino del dominio occidentale sul pianeta. Dimostrando che la tanto glorificata globalizzazione ha indebolito, più che rafforzato tale posizione di rendita economica, politica e militare.

Da qui la frastornante campagna di demonizzazione non solo dell’avversario russo, ma anche di qualsiasi altro possibile “dissidente” dal precedente ed oggi frantumato ordine imperiale.
Come ha dimostrato, per esempio, la votazione alle Nazioni Unite dei giorni scorsi, durante la quale, nonostante gli sforzi propagandistici dei governi e dei media occidentali, durante la quale:

Solo quattro paesi si sono chiaramente schierati con la Russia nel voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’Ucraina: Bielorussia e Siria, Corea del Nord ed Eritrea hanno votato contro la risoluzione che chiede la fine dell'”aggressione” della Russia.
Minuscolo rispetto ai 141 sostenitori della risoluzione. Ma il gruppo di paesi che sostengono la Russia, almeno nelle gradazioni, nella guerra in Ucraina o non si posizionano chiaramente contro l’invasione, non è affatto così piccolo.
Sebbene l’approvazione della risoluzione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sia stata estremamente chiara, 34 paesi non vi hanno aderito astenendosi. Dodici paesi non hanno votato.
Mentre l’UE e gli Stati Uniti, così come alcuni altri paesi occidentali, hanno imposto sanzioni di vasta portata alla Russia, alcuni stati sono guidati dai loro profondi legami politici ed economici – o addirittura accolgono con favore qualsiasi cosa che danneggi gli Stati Uniti o la NATO4.

Tra gli astenuti Cina e India, che da sole comprendono quasi la metà della popolazione mondiale e coprono un ruolo ormai importantissimo nell’economia internazionale e nella produzione di acciaio e componenti elettronici dei settori tecnologici più avanzati, e la Turchia che dovrebbe rappresentare il baluardo della NATO sul fianco sud, come si sarebbe detto un tempo. A dispetto di una propaganda governativa e giornalistica che vorrebbe vendere ancora una volta l’idea di un intero mondo schierato contro le forze del male, non vi può esser dubbio che l’Europa e l’Occidente iniziano a sentire puzza di bruciato per il proprio grande avvenire ormai dietro le spalle.

Cosa che il quotidiano tedesco «Handelsblatt» torna a rimarcare in un editoriale posto sulla prima pagina del 4 marzo:

Alla fine della prima settimana di guerra in Ucraina, ci sono molte incertezze e una certezza: la Russia sta mostrando all’Europa una nuova vulnerabilità. Costringe gran parte del continente a invertire la tendenza, le cui conseguenze difficilmente possono essere sopravvalutate.
Il presidente russo Vladimir Putin gode ancora di sostegno nel mondo. Ma non tutti i sostenitori lo fanno per pura convinzione.
Lo storico Niall Ferguson vede l’Occidente in un nuovo confronto tra blocchi di potere e in un’intervista, spiega che l’Europa è rafforzata, ma la prova di resistenza deve ancora venire – se la Cina mette in discussione l’attuale ordine mondiale5.

In maniera ancor più ampia, e discutibile, affronta la questione Francis Fukuyama, uno dei principali teorici del liberalismo odierno, sul supplemento settimanale del «Financial Times» del 4 marzo:

L’orribile invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio è stata vista come un punto di svolta critico nella storia del mondo. Molti hanno detto che segna definitivamente la fine dell’era post-guerra fredda, un rollback dell'”Europa intera e libera” che pensavamo fosse emersa dopo il 1991, o meglio, la fine di The End of History. Ivan Krastev, un astuto osservatore degli eventi a est dell’Elba, ha recentemente dichiarato sul New York Times che “Viviamo tutti nel mondo di Vladimir Putin ora” […] Anche se non possiamo ancora sapere come evolverà tale situazione […] l’attuale crisi ha dimostrato che non possiamo dare per scontato l’attuale ordine mondiale liberale.
[…] Il liberalismo è sotto attacco da qualche tempo, sia da destra che da sinistra […] non solo a causa dell’ascesa di potenze autoritarie come la Russia e la Cina, ma anche a causa della svolta verso il populismo, l’illiberalismo e il nazionalismo all’interno di democrazie liberali di lunga data come gli Stati Uniti e l’India.
[…] L’India liberale di Gandhi e Nehru viene trasformata in uno stato indù intollerante da Narendra Modi, primo ministro indiano; nel frattempo negli Stati Uniti, il nazionalismo bianco è apertamente celebrato all’interno di parti del partito repubblicano. I populisti si irritano per le restrizioni imposte dalla legge e dalle costituzioni: Donald Trump ha rifiutato di accettare il verdetto delle elezioni del 2020 e una folla violenta ha cercato di rovesciarlo direttamente prendendo d’assalto il Campidoglio. I repubblicani, piuttosto che condannare questa presa di potere, si sono in gran parte allineati dietro la grande bugia di Trump.
[…] Come siamo arrivati a questo punto? Nel mezzo secolo successivo alla seconda guerra mondiale, c’era un ampio e crescente consenso sia sul liberalismo che su un ordine mondiale liberale. La crescita economica è decollata e la povertà è diminuita quando i paesi si sono avvalsi di un’economia globale aperta.
[…] Ma il liberalismo classico è stato reinterpretato nel corso degli anni e si è evoluto in tendenze che alla fine si sono rivelate auto-minatorie. A destra, il liberalismo economico dei primi anni del dopoguerra si è trasformato durante gli anni 1980 e 1990 in quello che a volte viene etichettato come “neoliberismo”. I liberali comprendono l’importanza del libero mercato– ma sotto l’influenza di economisti come Milton Friedman e la “Scuola di Chicago”, il mercato è stato adorato e lo stato sempre più demonizzato come nemico della crescita economica e della libertà individuale. Le democrazie avanzate, sotto l’incantesimo delle idee neoliberiste, hanno iniziato a tagliare le spese per lo stato sociale e la regolamentazione, e hanno consigliato ai paesi in via di sviluppo di fare lo stesso sotto il “Washington Consensus”. I tagli alla spesa sociale e ai settori statali hanno rimosso i cuscinetti che proteggevano gli individui dai capricci del mercato, portando a grandi aumenti delle disuguaglianze nelle ultime due generazioni.
Mentre parte di questo ridimensionamento era giustificato, è stato portato agli estremi e ha portato, ad esempio, alla deregolamentazione dei mercati finanziari statunitensi negli anni 1980 e 1990 che li ha destabilizzati e ha portato a crisi finanziarie come il crollo dei subprime nel 2008. Il culto dell’efficienza ha portato all’esternalizzazione dei posti di lavoro e alla distruzione delle comunità della classe operaia nei paesi ricchi, che hanno gettato le basi per l’ascesa del populismo negli anni 2010. […] Questi cambiamenti hanno poi prodotto il loro contraccolpo, in cui la sinistra ha incolpato la crescente disuguaglianza del capitalismo stesso, e la destra ha visto il liberalismo come un attacco a tutti i valori tradizionali.
In questo vuoto sono entrati regimi autoritari illiberali. Quelli di Russia, Cina, Siria, Venezuela, Iran e Nicaragua hanno poco in comune [ma] Hanno creato una rete di sostegno reciproco […]
Al centro di questa rete c’è la Russia di Putin, che ha fornito armi, consiglieri, supporto militare e di intelligence praticamente a qualsiasi regime, non importa quanto terribile per il suo stesso popolo, che si oppone agli Stati Uniti o all’UE. Questa rete si estende nel cuore delle stesse democrazie liberali. I populisti di destra esprimono ammirazione per Putin, a cominciare dall’ex presidente degli Stati Uniti Trump, che ha definito Putin un “genio” e “molto esperto” dopo la sua invasione dell’Ucraina. Populisti tra cui Marine Le Pen ed Eric Zemmour in Francia, l’italiano Matteo Salvini, il brasiliano Jair Bolsonaro, i leader dell’AfD in Germania e l’ungherese Viktor Orban hanno tutti mostrato simpatia per Putin, un leader “forte” che agisce con decisione per difendere i valori tradizionali senza riguardo
[…] Anche se è difficile vedere come Putin possa raggiungere i suoi obiettivi più grandi di una Grande Russia […] C’è anche il pericolo di un’escalation dei combattimenti per dirigere gli scontri tra NATO e Russia mentre montano le richieste di una zona “no-fly”. Ma sono gli ucraini che sosterranno il costo dell’aggressione di Putin, e loro che combatteranno per conto di tutti noi.
I travagli del liberalismo non finiranno anche se Putin perde. La Cina aspetterà dietro le quinte, così come l’Iran, il Venezuela, Cuba e i populisti nei paesi occidentali6.

La lunga citazione può servire a far riflettere sul fatto che lo stesso autore del celebre La Fine della storia, pubblicato per la prima volta nel 1992 dopo la caduta del muro di Berlino, deve fare i conti con il fallimento dell’idea del trionfo del liberalismo e del capitalismo occidentale su scala planetaria. Mentre, allo stesso tempo, nel riformularne i possibili sviluppi futuri indica quali sono i motivi di tale fallimento e i nemici da combattere per chi voglia mantenere in vita l’ormai scompaginato nuovo ordine mondiale sventolato fin dai tempi di Bush Sr.
Può servire, inoltre a comprendere dove affondano le radici di un PD che, in un parlamento di servi, è attualmente il partito più guerrafondaio, nelle dichiarazioni di tutti i suoi leader e ministri che fanno a gara per fare dimenticare le origini dell’ex-PCI e superare i concorrenti di destra e di estrema destra nel soffiare sul fuoco dell’odio anti-putiniano e antirusso.

Preparare la guerra, oppure farla, per mantenere la pace e, soprattutto, difendere ad ogni costo quelli che sembravano i diritti acquisiti di un Occidente invecchiato, impoverito, indebolito e moribondo, questa la parola d’ordine implicita in tante roboanti, e spesso false, affermazioni mediatiche e politiche di questi giorni. Mentre ci troviamo, forse, davanti alla fine di una Storia e all’inizio, sanglant, di un’altra. Motivo per cui, anche se certamente non si può essere a favore di alcuno dei nuovi fronti imperiali in lotta, non si può neppure essere indifferentisti, poiché per comprendere il possibile percorso di un rovesciamento dello stato di cose presenti non ci si può opporre al movimento reale delle società e della Storia, ma comprenderne conseguenze e nuove contraddizioni. Per anticiparle, sfruttarle e non rincorrerle all’infinito, come eterne emergenze.

Però, per tornare al discorso iniziale, si potrebbe dire che per la popolazione civile coinvolta in un conflitto le devastazioni portate da una guerra costituiscono un’effettiva e prioritaria emergenza cui solo il ritorno più rapido possibile ad una situazione di pace può costituire la risposta. Ed è vero, motivo per cui vedere il capo del governo ucraino incitare tutti i cittadini ad opporsi agli invasori russi oppure richiedere armi, aiuti militari sul campo e istituzione di una no-fly zone sull’intera ucraina ad opera delle forze NATO non convince certo della sua reale volontà di proteggere o salvare i civili.

Al di là delle discriminazioni viste già in atto nella fuga dei profughi, tra i quali quelli di origine africana, asiatica o mediorientale vengono ostacolati nel poter utilizzare autobus e treni per fuggire oltre che alle frontiere dell’Europa di Visegrad, ciò che occorre sottolineare è che se si vuole la pace per i propri cittadini non vi è altro strumento che quella di richiederla, accettando tutte le condizioni del nemico. Esattamente come fecero i dirigenti bolscevichi a Brest Litovsk, il 3 marzo 1918, nei confronti delle armate austro-ungariche, germaniche, ottomane e bulgare.

Pace senza se e senza ma, che costò ai firmatari russi la Polonia Orientale, la Lituania, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia. Complessivamente strappando alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione), privandola del 75% della produzione del carbone e del ferro, del 32% della produzione agricola e di circa 5.000 fabbriche, ma firmata per sospendere un conflitto di cui quasi nessuno in Russia voleva la continuazione.

Intanto, qui in Italia, dalla piattaforma della manifestazione nazionale svoltasi a Roma il 5 marzo i sindacati confederali, per prendervi parte, hanno imposto che fossero depennate la maggior parte delle formulazioni più importanti (disarmo, neutralità attiva, l’opposizione agli “aiuti” militari europei, la solidarietà con la società civile ucraina e russa, il No all’allargamento della NATO, la volontà di avere un’Europa liberata dalla armi nucleari dall’Atlantico agli Urali), anche se poi la CISL ha comunque comunicato il suo rifiuto a parteciparvi.

Mentre si è aperta la caccia alle teste dei cronisti meno embedded, come nel caso di Marc Innaro corrispondente RAI da Mosca di cui il PD, prima della cessazione dei servizi RAI dalla Russia, ha richiesto la rimozione/rotazione, e anche le parole di uomini di religione importanti vengono “censurate” nel momento in cui, come è successo con l’ex-vescovo di Ivrea Monsignor Bettazzi in un’interviata al Tg Regionale del Piemonte, fanno affermazioni poco consone alle politiche bellicistiche attuali7 tagliandone le affermazioni che riguardano, sostanzialmente, l’uscita dalla NATO e dalla stagione infinita delle alleanza militari “difensive”.

Per tutto questo, dunque, e per molte altre ragioni si rivela ancora più necessario continuare a scrivere e discutere di questa guerra e di tutte quelle che ancora verranno.

(4 – continua)


  1. Platone, Le Leggi, Libro I, 2  

  2. Vegezio, Epitoma rei militari  

  3. Jessica Trisko Darden, Taking the measure of US aid for Ukraine. The US weapons being sent to help Ukraine today might make the country more violent in the years to come, «The Conversation» 2 marzo 2022  

  4. «Handelsblatt», 3-4 marzo 2022  

  5. Il Nuovo Ordine Mondiale: l’Occidente è abbastanza forte? Miliardi per i militari e un punto di svolta in politica: la guerra di Putin getta l’Occidente in una nuova realtà. E la Cina sta prestando molta attenzione a come reagiscono l’UE e gli Stati Uniti, «Handelsblatt», 4 marzo 2022  

  6. Francis Fukuyama, Putin’s war on the liberal order, «Financial Times Weekend» 4 marzo 2022  

  7. qui  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Cadaveri e papere https://www.carmillaonline.com/2020/07/19/cadaveri-e-papere/ Sun, 19 Jul 2020 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61456 di Alessandra Daniele

“Per bloccare la revoca della concessione autostradale ai Benetton dovrebbero passare sul mio cadavere” aveva promesso solennemente Luigi Di Maio nell’agosto 2018, mentre i social si concentravano sulle papere di Toninelli. La concessione non è stata revocata. Lo Stato ha promesso di ricomprarsela a rate dai Benetton, mentre i magliari si godono il rialzo in Borsa del titolo Atlantia. Non sul cadavere metaforico di Luigi Di Maio, ma sui cadaveri reali delle 43 vittime del Ponte Morandi. Perché, ormai è ovvio, non c’è promessa che il Movimento 5 Stelle non sia disposto a rimangiarsi e tradire, pur di restare [...]]]> di Alessandra Daniele

“Per bloccare la revoca della concessione autostradale ai Benetton dovrebbero passare sul mio cadavere” aveva promesso solennemente Luigi Di Maio nell’agosto 2018, mentre i social si concentravano sulle papere di Toninelli.
La concessione non è stata revocata.
Lo Stato ha promesso di ricomprarsela a rate dai Benetton, mentre i magliari si godono il rialzo in Borsa del titolo Atlantia.
Non sul cadavere metaforico di Luigi Di Maio, ma sui cadaveri reali delle 43 vittime del Ponte Morandi.
Perché, ormai è ovvio, non c’è promessa che il Movimento 5 Stelle non sia disposto a rimangiarsi e tradire, pur di restare al governo insieme a quel PD che lo stesso Di Maio definiva “il partito di Bibbiano”, e col quale giurava di non voler avere “niente a che fare”.
Diamo da sette anni – giustamente – del cazzaro a Renzi e Salvini, ma non ci sono peggiori cazzari dei cinquestelle. Dietro la cortina fumogena dei loro birignao finto ingenui e delle stucchevoli gaffe da neofita, si annidano livelli di cinismo, opportunismo, trasformismo e doppiezza degni della peggiore Democrazia Cristiana. Tradimenti reciproci compresi.
Di Maio già lavora a un governissimo con Mario Draghi premier e l’ex socio Salvini, che usava il tricolore per “pulirsi il culo”, e adesso per coerenza se lo mette in faccia, come mascherina.
Intanto Giuseppe Conte, “l’avvocato degli italiani” si prepara a vendere cara la poltrona, prorogando lo stato d’emergenza per poterli rimettere tutti agli arresti domiciliari.
Gli elettori del Movimento 5 Stelle dovrebbero organizzare una class action, e denunciare Grillo e Casaleggio per truffa aggravata. E dovrebbero farlo al più presto possibile. Prima della prossima porcata, e della prossima tragedia della quale il Movimento si renderà complice.

“Ogni menzogna che diciamo, contraiamo un debito con la verità. Presto o tardi quel debito va pagato”.
Valery Legasov, Chernobyl

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Stercocrazia https://www.carmillaonline.com/2020/06/28/stercocrazia/ Sun, 28 Jun 2020 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61017 di Alessandra Daniele 

È particolarmente difficile scrivere di politica italiana in questi giorni. Perché fa veramente schifo al cazzo. Persino più del solito. È tutta una cacarella di correnti contrapposte, con due soli punti fermi. Matteo Renzi è fermamente deciso a far perdere le elezioni regionali al PD. Uno  scossone che farebbe traballare il governo, rendendo più importante il suo sostegno condizionato. Per Renzi la vendetta è un piatto che si serve quando serve. Matteo Salvini è fermamente deciso a mangiare tutto quello che gli passa davanti. Salumi, mozzarelle, polpette, ciliegie, bulloni, scarafaggi. L’unica cosa che non ha ancora tentato di [...]]]> di Alessandra Daniele 

È particolarmente difficile scrivere di politica italiana in questi giorni.
Perché fa veramente schifo al cazzo.
Persino più del solito.
È tutta una cacarella di correnti contrapposte, con due soli punti fermi.
Matteo Renzi è fermamente deciso a far perdere le elezioni regionali al PD. Uno  scossone che farebbe traballare il governo, rendendo più importante il suo sostegno condizionato. Per Renzi la vendetta è un piatto che si serve quando serve.
Matteo Salvini è fermamente deciso a mangiare tutto quello che gli passa davanti. Salumi, mozzarelle, polpette, ciliegie, bulloni, scarafaggi.
L’unica cosa che non ha ancora tentato di inghiottire sono i cellulari che gli porgono per i selfie, perché quelli sono la sua Sindone: ci lascia impressa la sua immagine di sudore e sugna che gli archeologi del futuro considereranno un falso, perché di tratti evidentemente non umani.
Scrivere di politica italiana in questi giorni è come fare l’autopsia d’un cadavere frollato in una fogna. In mezzo ai topi.
La Destra sfruttta il Covid-19 per istigare all’odio razziale.
I candidati alle elezioni regionali sono una secchiata di riciclati.
Gli Stati Confusionali di Conte non sono serviti a un cazzo.
Ma è davvero questa la politica? No.
La politica, quella vera, è per le strade. Nelle piazze. Davanti alle fabbriche.
La politica, quella vera, non sono le ripicche di Renzi, la bulimia di Salvini, l’inesistenza di Conte. Non è questo teatrino degli orrori.
La politica, quella vera, siamo noi.

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