natura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scolpire il tempo, seminare il vento, creare antagonismo https://www.carmillaonline.com/2025/10/06/scolpire-il-tempo-seminare-il-vento-creare-antagonismo/ Mon, 06 Oct 2025 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90254 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Siamo la natura che si ribella!, ammonisce con efficace sintesi uno striscione no-tav esprimendo un radicale antagonismo nei confronti del mortifero sfruttamento capitalista patito dall’essere umano e dalla natura, di cui è parte. Nella Carta di intenti stesa dal Comitato No-Tav di Torino al momento della sua fondazione in apertura di millennio è scritto: «Siamo persone ed associazioni della società civile che credono sia possibile un mondo diverso, più giusto e responsabile dell’attuale, e che lottano per realizzarlo. Apparteniamo, di fatto, a quel 20% dell’umanità che pratica uno stile di vita insostenibile per [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Siamo la natura che si ribella!, ammonisce con efficace sintesi uno striscione no-tav esprimendo un radicale antagonismo nei confronti del mortifero sfruttamento capitalista patito dall’essere umano e dalla natura, di cui è parte. Nella Carta di intenti stesa dal Comitato No-Tav di Torino al momento della sua fondazione in apertura di millennio è scritto: «Siamo persone ed associazioni della società civile che credono sia possibile un mondo diverso, più giusto e responsabile dell’attuale, e che lottano per realizzarlo. Apparteniamo, di fatto, a quel 20% dell’umanità che pratica uno stile di vita insostenibile per il pianeta, ma vogliamo metterlo in discussione perché pregiudica i diritti del restante 80%, delle future generazioni, delle altre specie viventi sulla Terra. Non vogliamo un futuro ricco di beni di consumo […] carico di paure e di angosce in uno stato di guerra permanente: perciò ci battiamo, in modo pacifico ma determinato, contro il modello neoliberista che in nome degli interessi economici di un’esigua minoranza rappresentata dai poteri forti sfrutta le persone e la natura, assoggetta le istituzioni e la politica cancellando progressivamente diritti, democrazia e pace». Comitato No-Tav di Torino, 13 Dicembre 2002.

Passato in sordina dalle sale cinematografiche, ma fortunatamente ancora visibile su RaiPlay, il film Semina il vento (2020) diretto da Danilo Caputo, autore della sceneggiatura insieme a Milena Magnani, ambientato nel tarantino, è attraversato dal medesimo spirito che anima le comunità montane piemontesi in lotta da decenni.

Il film, girato tra San Marzano di San Giuseppe, Grottaglie, Monteiasi, Statte e Monteparano, prende il via con il ritorno a casa dai genitori, nelle campagne del tarantino, di Nica (Yile Vianello), una giovane studentessa di agronomia. Le sequenze d’apertura del film la mostrano taciturna, chiusa nei suoi pensieri, introversa, restia anche solo a scambiare qualche frase di circostanza con chi le sta dando un passaggio in auto nel viaggio verso il paese natale; giusto qualche parola espressa controvoglia al cellulare con un interlocutore, di cui non ci è dato a sapere alcunché, che invita a far pulizia delle sue cose e “gettare tutto” prima di eliminare la sim dell’apparecchio, a sancire la chiusura di un capitolo della sua vita.

Il film di Caputo è la storia di un ritorno, un “nostos” dalle connotazioni regressive verso il proprio paese natale, saturo dei fantasmi del passato, sempre pronti ad aggredire. Come la Sandra di Vaghe stelle dell’orsa (1965) di Luchino Visconti, Nica torna verso il proprio passato, verso gli angusti spazi della provincia solitaria e silenziosa. Se nel film di Visconti incontriamo Volterra, città dalle parvenze spettrali e intrise di un ambiguo e sfarzoso passato, nel film di Caputo è la provincia di Taranto ad accogliere la protagonista e ad avvolgerla del suo tetro dolore. Un dolore fatto di sfruttamento del territorio da parte di un sistema che costruisce stabilimenti industriali deturpando il territorio e legando gli abitanti del luogo ad un lavoro sempre più abbrutente ed alienato.

Se nel passato gli abitanti potevano vivere dei prodotti che quello stesso territorio offriva, l’industria li lega, come in un carcere, ad un’altra forma violenta di lavoro. Lo dice la stessa Nica nel film: adesso la gente preferisce morire di tumore piuttosto che morire di fame. Infatti, in diversi momenti del film vediamo stagliarsi le industrie con le loro ciminiere dalle quali vengono continuamente emessi dei fumi tossici: ormai, il paesaggio arcaico è irrimediabilmente devastato. Vediamo le due facce di una stessa medaglia: le ciminiere e le industrie, gli oliveti e il mare; sono le due facce della terribile medaglia della contemporaneità industriale e postindustriale.

Quegli oliveti non sono più ‘sacri’ e quelle campagne non sono più ataviche ed arcaiche, legate ad una ritualità perduta fuori della storia perché ormai sono imbruttite per sempre dall’inquinamento e dai rifiuti tossici; quel mare non è più quello appartenente al mito e al mondo preindustriale: lo vediamo incresparsi e brillare al sole ma sullo sfondo compaiono perennemente le ciminiere e le industrie che lo feriscono nel profondo come le coste fra Lazio e Toscana, deturpate da siti industriali, che vediamo ne La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, ambientato negli anni Ottanta1.

Quegli anni sono passati come una lama affilata che ha deturpato luoghi e coscienze per lasciare spazio ai Novanta, altrettanto devastanti; il nuovo millennio è corso lungo quella stessa scia e ha buttato giù le ultime macerie rimaste di un passato ormai definitivamente cancellato. Ha lasciato in piedi mefitici mostri industriali mentre le coscienze, impaurite e inquinate esse stesse da sempre nuove emergenze, si sono rapprese in simulacri digitali che vorrebbero rappresentare la vita reale. Nell’epoca dei droni e dello sterminio degli innocenti, dei social e dei meme, la realtà là fuori è sempre più squallida e brutale: restano quelle mostruose cattedrali nel deserto, fabbriche e industrie, e gli ultimi alberi da abbattere in nome del profitto. E, fuori dal mondo virtuale nel quale sembrano ormai immerse, le persone continuano a respirare aria inquinata e malata.

Nica si fa lasciare dall’uomo che le offre un passaggio nei pressi di un grande impianto industriale che si erge come una vetusta cattedrale di cemento e metallo tra le sterpaglie di un deserto rurale arso dal sole che, soltanto qualche decennio prima, insieme al lavoro ha portato inquinamento e dissoluzione ad una comunità già decimata dalle partenze verso il Nord dei più giovani in cerca di sostentamento più che di fortuna.

Raggiunta dal padre che la conduce a casa, Nica ritrova la madre ridotta a starsene costantemente a letto, più che per il mal di testa che la affligge, per lo stato di depressione che la attanaglia derivato dal veder svanire la speranza di poter aprire un negozio, e con essa dei suoi sogni di una vita nuovamente attiva.

Lo stato in cui versa la donna manifesta la situazione di sospensione, di mancanza di futuro che investe l’intera comunità locale alle prese con la malattia degli ulivi secolari che avevano contribuito a dare sostentamento alle generazioni precedenti.

I pidocchi che rendono improduttivi gli alberi sembrano rappresentare gli effetti maligni dello sfruttamento capitalista sulla natura e con essa di un’antica civiltà rurale. È come se gli ulivi, ammalandosi, finissero per sottrarsi alla loro naturale produzione di frutti, così come la donna, disillusa, si ritira dalla vita attiva.

Tradito dalle lusinghe industriali, che ora si risolvono in licenziamenti e disoccupazione, e dalla natura maltrattata che reagisce negando i suoi frutti, il paese è condannato a uno stato di immobilità, di impotenza e, terminati i quattro soldi del licenziamento, i suoi abitanti si ritrovano ad auspicare il via libera all’abbattimento degli ulivi per poter incassare qualche soldo nella consapevolezza che si tratta di una soluzione che risponde a esigenze immediate, ma incapace di offrire loro un futuro. È insomma una comunità che, non vedendo sbocchi possibili, si limita a prolungare la propria agonia consapevole che si sta lasciando morire.

È in tale contesto che fa ritorno la giovane, a sua volta disillusa dalla vita condotta fino ad allora in città, ma che, a differenza degli altri paesani, pur nella sua riservatezza e apparente fragilità, riesce a trovare la forza e la determinazione di agire, di prospettare un futuro per la famiglia, per la comunità e per gli ulivi.

La ragazza, che pure cerca di ridare un futuro all’universo rurale da cui proviene attraverso risposte scientifiche alla malattia degli alberi, non rifiuta il mondo arcaico, con le sue ataviche credenze e superstizioni. Per certi versi sembra opporre al nefasto presente, frutto del passato più recente, un futuro capace di riannodare i fili con il passato più lontano: a dover essere estirpati non sono gli ulivi secolari, ma quella malamodernizzazione che con le sue industrie, con le sue false promesse derivate da una logica capace solo di guardare all’immediato, ha condotto a un presente catatonico e avvelenato privo di futuro.

Nica e la sua amica Paola, nell’auto ferma davanti al mare, ascoltano la musica ed una delle due si fuma una canna, figlie ribelli di un territorio devastato, tenaci piratesse del sud perdute nell’abbandono e nella solitudine. Se Nica vuole portare avanti la tradizione del suo paese appresa dalla nonna, Paola sta incidendo un disco in dialetto grico, in modo così da recuperare l’antica cultura della propria terra. Ma si tratta, ormai, come già notato, di una terra preda di una devastazione totale e gli esseri umani ne sono vittime allo stesso modo delle piante.

Nica e Paola, come le piante, vivono nel tempo perché possiedono la memoria del passato: è interessante ricordare qui quanto scrive Andrej Tarkovskij nel suo saggio teorico dal titolo Scolpire il tempo: «Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono due facce della stessa medaglia […] Un uomo privo della memoria è in balia di un’esistenza illusoria: fuori dal tempo non è più capace di conservare il suo legame con la realtà esterna, e quindi è condannato alla follia»2.

Nica e Paola sono capaci di ricordare, esercitano la memoria come un’arte. Anche le piante sono le testimoni silenziose della memoria: nelle prime inquadrature le vediamo apparire a tratti nel buio, illuminate dai fari dell’auto sulla quale si trova Nica che sta tornando a casa. Altre volte, nel corso del film, le piante in generale e gli ulivi in particolare sono oggetto di vellutati movimenti di macchina che le mostrano imponenti e silenziose come se fossero delle antiche, terribili divinità.

Possono venire in mente, a questo proposito, le Furie rappresentate da Pier Paolo Pasolini, negli Appunti per un’Orestiade africana (1970), sotto le vesti di enormi alberi perduti nella savana. Le piante, nel film, oltre che divinità, appaiono come veri e propri esseri viventi dotati di corpo che, come gli umani, si ammalano e guariscono. In un componimento appartenente alla bella raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, intitolata Piante vs umani e uscita recentemente (non a caso per l’editore salentino “Terra d’ulivi”), protagonista è proprio un ulivo che – afferma l’autrice – come un essere umano “vivo” è capace di sogni («Mi sono addormentata sotto un ulivo / come sopra un vivo / una bolla includeva / me e lui – sognammo – i suoi rizomi che vanno nel profondo / senza una legge biochimica / vanno come i sogni»3 ).

In un’altra sequenza vediamo sempre Paola, insieme ad un altro giovane, impegnata nella ripresa di un filmato nel quale entrambi, vestiti di una tuta rossa, si muovono in modo meccanico e robotico. Sull’inquadratura ‘robotizzata’ dal movimento dei personaggi si staglia l’entrata in campo di Nica che, letteralmente, ‘entra’ dentro di essa muovendosi rapidamente e in modo fluttuante. La sua andatura, fisica e corporea, entra in contrasto con il movimento meccanizzato degli altri personaggi (emblema forse dell’esistenza scontata degli individui ormai rassegnati a vivere in un territorio inquinato e tossico, preda di un sistema delinquenziale e malato?) e prelude essa stessa a una via di fuga e di rifiuto di quel mondo: la giovane, infatti, dopo aver lambito il percorso meccanico degli altri due, si allontana uscendo dal campo.

Individuato un insetto antagonista ai parassiti che avvelenano gli ulivi, la giovane agronoma si prodiga affinché questo prosperi e si riproduca così da contrastare l’agente che li ha resi incapaci di dare frutti. Ben presto Nica scopre di dover ampliare la battaglia che sta conducendo con caparbietà contrastando, oltre i pidocchi, i versamenti di veleni prelevati da un’industria vicina con cui gli abitanti del paese, tra cui lo stesso padre, tentano di accelerare l’abbattimento degli alberi ormai vissuti come impaccio da cui liberarsi in cambio di qualche soldo con cui tirare avanti ancora qualche tempo.

Ecco allora che gli insetti antagonisti ai pidocchi degli ulivi che la ragazza individua e fa moltiplicare assumono anche una connotazione metaforica alludendo alla necessità di individuare e organizzare antagonismo sociale contro un altro tipo di parassiti che risponde a logiche mortifere, di avvelenamento, di sfruttamento e assorbimento della vitalità degli individui e delle terre, al solo scopo di ottenere un profitto immediato come se non vi fosse un domani.

A essere messa sotto accusa dal film è allora quella logica capitalista che, soprattutto nella sua fase industriale, ha espropriato l’essere umano dal suo legame con la natura, ha trasformato entrambi in cave da cui estrarre profitto per poi abbandonarli una volta spremuti e prosciugati di ogni energia vitale.

Il film sembra suggerire che l’antagonismo alla stato di cose presenti, derivato da quella incontrollata accelerazione industriale che si è rivelata mortifera, dovrebbe saper coniugare logica razionale e tradizioni antiche, le conoscenze scientifiche di cui si dispone – che sono altro rispetto alla tecnoscienza capitalista – e, perché no, le tracce di quelle credenze ancestrali sprezzantemente soffocate in nome di un progresso basato sul solo presente, incurante com’è del passato e del futuro.

Ecco allora che parallelamente al tradizionale falò di buon auspicio che, con il suo simbolico spazzare via di ogni negatività, derivato da pratiche ancestrali, accompagna la festa del Santo del paese, la protagonista decide di affiancarne un nuovo, di lotta, incendiando uno degli escavatori impegnati nell’eliminazione dei secolari ulivi che si sottraggono dalla loro naturale collaborazione con gli umani.

Non c’è bisogno di eroi dalla muscolatura erculea, né di vendicatori mascherati che si ergono a portavoce di chi non li ha nominati; ad appiccare il fuoco può essere una giovane e introversa ragazza dall’aspetto minuto e inoffensivo ma dotata di una risolutezza e di una costanza cui, spesso, solo le donne sono capaci.

Nica è caparbia, tenace e il suo volto e la sua acconciatura la fanno assomigliare alla Giovanna d’Arco cinematografica interpretata da Renée Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928) di Carl Theodor Dreyer: un’eroina quasi mitica decisa a condurre fino in fondo la sua battaglia. E, a finire sul rogo in questo caso non sarà lei ma la ruspa che devasta gli ulivi in nome del profitto: Nica non esiterà, come già osservato, in un estremo gesto di ribellione, a incendiare quello strumento di morte, servo della crudele meccanica del capitale.

Se nella poesia di Pasolini dal titolo Il pianto della scavatrice (1956), la stessa ruspa emetteva un urlo di dolore distruggendo lembi di campagna per cementificarla, lo scavatore contemporaneo che vediamo nel film è ormai un oggetto meccanizzato e abulico, un automa forse parente lontano di una pervasiva Intelligenza Artificiale che lambisce le nostre esistenze. Vicino ad un fuoco che si erge silenzioso e catartico, Nica stessa si muove in silenzio, come se fosse una figura eterea e figlia del fuoco ella stessa: vengono in mente le sequenze di Sacrificio (Offret, 1986) di Andrej Tarkovskij, nei momenti in cui Alexander si muove placidamente vicino alla propria casa a cui ha appiccato il fuoco.

Certo, quello di Nica è un gesto individuale, ma che può moltiplicarsi al pari degli insetti antagonisti che alleva tenacemente, come del resto, da qualche tempo, dimostrano le comunità montane del nord Italia in lotta contro quell’alta velocità ferroviaria che è soltanto distruzione della natura di cui è parte l’essere umano che la abita. Siamo la natura che si ribella!


  1. Cfr. P. Lago, G. Toni, Anni Ottanta: la chimera e la memoria ai tempi della devastazione, in «Machina», 31 luglio 2024. 

  2. A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze, 2015, pp. 55-56. 

  3. F. C. Fiorentin, Piante vs umani, Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2024, p. 27 

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Avanti barbari!/3 – Il passato vive ancora nel presente https://www.carmillaonline.com/2024/08/21/avanti-barbari-3-il-passato-vive-ancora-nel-presente/ Wed, 21 Aug 2024 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84010 di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro. Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte [...]]]> di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro.
Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro
AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte popolari e di classe avvenute a cavallo tra Medio Evo ed Età moderna, proprio quando ebbe inizio il salto definitivo verso la società dominata dal modo di produzione capitalistico.

La rivolta di Thomas Müntzer, dei suoi seguaci contadini e delle sue conseguenze è già stata in passato oggetto di numerose ricerche storiche, riflessioni politiche e narrazioni romanzate1, ma l’insieme dei testi qui presentati, che si spingono ben al di là dei confini temporali della guerra contadina, è tenuto insieme soprattutto dalla convinzione espressa chiaramente nel testo riguardante l’esperienza dei diggers guidati da Gerrard Winstanley nell’Inghilterra della rivoluzione seicentesca.

La storia dei Diggers, che nell’Inghilterra del Seicento si opposero a enclosures e privatizzazioni occupando terre comunali per «lavorare insieme e insieme spezzare il pane», non fu che un capitolo di una guerra più grande. L’affermazione della modernità industriale, infatti, fu tutt’altro che un pacifico e lineare progresso. Al contrario, soltanto una vera e propria guerra civile, che insanguinò l’Europa per secoli, rese possibile l’imposizione della proprietà privata e del lavoro salariato, il disciplinamento dei corpi e dei territori, lo sradicamento dei diritti consuetudinari delle comunità rurali.

L’Europa, di cui troppo spesso oggi si lodano e cantano le origini cristiane, si è formata nel sangue e nelle rivolte sconfitte contro i valori che il cristianesimo, il nascente Stato moderno, l’economia di mercato e lo sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo e sulla natura portavano con sé e che dovettero essere imposti a forza, a suon di repressioni, processi, torture e terrorismo organizzato dal braccio armato della Chiesa e dello Stato che ne avrebbe ereditato la funzione sia giudicante che di formazione degli uomini e delle donne, secondo dottrine del tutto estranee agli interessi materiali di questi ultimi e alle loro credenze e conoscenze.

Un autentico processo di cristianizzazione forzata e di colonizzazione che anticipò e accompagnò quello che si scateno sui popoli indigeni delle colonie successivamente all’espansione europea nelle Americhe e negli altri continenti appena “scoperti” e conquistati. Come si donmanda Luciano Parinetto nel suo testo: «Tra il ‘500 e il ‘600 la cultura del capitale si instaura in Occidente e si sviluppa, anche grazie all’accumulazione originaria permessa dalla conquista dell’America. Fra ‘500 e ‘600 dilaga (in Europa e in America) la caccia alle streghe. Vi è un rapporto tra i due eventi?»2

Evidentemente una domanda retorica che serve allo studioso per spiegare come, a partire dall’esempio tratto dai Paesi Baschi, il diavolo degli inquisitori e dei giudici dei primi anni del Seicento non fosse altro che la rappresentazione demoniaca e immateriale di processi di produzione e riproduzione della vita che sfuggivano alle logiche dell’accumulazione capitalistica, negandole e rifiutandole.

Questo diavolo dei Baschi, piuttosto, pare incarnare la stessa economia basca, nel momento in cui quella, capitalistica, della monarchia francese, la stava cancellando, con l’annessione di una piccola regione al grande Stato, che avrebbe distrutto quella originale e diversa. Il rogo delle streghe basche serve infatti alla monarchia francese per eliminare una cultura autonoma antichissima, portatrice di una economia alternativa, quanto mai diversa da quella del capitale. […] Un’economia basata sullo sperpero e non sull’accumulo e, in quanto tale, somigliante a certe economie “selvagge” 3 che i conquistatori dell’America si erano trovati davanti agli occhi fin dai tempi di Cristoforo Colombo. […] Una economia del dispendio, fiduciosa nella materna e feconda natura che tutto spreca e tutto ridona, opposta a una economia che va cancellando la natura dietro lo streben incessante all’accumulo, alla valorizzazione4.

Sarebbe stato proprio un inquisitore dell’epoca, Pierre de Lancre, consigliere del re al parlamento di Bordeaux, incaricato da Enrico IV di Francia di condurre una crociata contro le streghe del Labourd, territorio basco ai confini tra Francia e Spagna, a mettere «in rapporto gli stregati baschi e gli stregati amerindi! I Baschi sono diversi, le streghe sono diverse, gli amerindi sono diversi; il Potere impersonale di Lancre è invece normale, come normali sono le stragi che compie per mantenersi e accrescersi»5.

Si potrebbe aggiungere, in virtù del titolo scelto per questa serie di interventi e recensioni, che Baschi, streghe e amerindi sono barbari ovvero estranei al sistema sociale e culturale che si è andato affermando, con la forza, in Europa nei secoli successivi al Mille. Sistema che, al di là delle banalità di base espresse dal movimento femminista borghese attuale e da Me Too, ha visto proprio nelle conoscenze e nelle pratiche femminili, nonché nell’autonomia economica e culturale delle donne, un autentico “mostro” da estirpare a qualunque costo. Così come dimostra il terzo dei tre testi qui recensiti, quello di Starhawk, Il tempo dei roghi. Nel quale, come affermano i curatori dello stesso:

L’autrice si domanda non tanto il perché della caccia alle streghe ma piuttosto perché si sia dispiegata proprio in quel preciso momento storico (non il “buio Medioevo” ma il “luminoso Rinascimento”). Così ci conduce nei secoli XVI e XVII, i secoli della grande trasformazione, che seguono la “scoperta del nuovo mondo” e la riforma protestante, i secoli dell’affermazione dello Stato nazione, della scienza moderna e dell’economia capitalistica. Un processo che si fonda innanzitutto sull’esproprio delle terre, delle risorse comunitarie, dei saperi e dell’immaginario a esse collegati. Le donne furono le più colpite da questo cambiamento in quanto il loro ruolo di cura e di controllo sugli eventi biologici rappresentava l cuore della vita e dell’autonomia delle comunità rurali. Perciò divennero il bersaglio della nuova classe di medici e burocrati borghesi e del loro ”sapere scientifico” – rigorosamente maschile – che non poteva ammettere conoscenze e pratiche estranee al loro monopolio (proprio come la Chiesa non poteva tollerare alcuna conoscenza a sé estranea). E’ proprio a partiredalla posizione delle donne del mondo contadino depositarie, delle conoscenze legate alle erbe e ai gesti terapeutici così come ai rituali e alle credenze precristiane, che si è costruita la figura della strega. Ma è un ritratto nato nelle carte dei processi e nel sangue delle torture e dei roghi6.

L’autrice, infatti, ci dimostra come il vero e proprio assalto condotto dallo Stato e dal Capitale contro le donne intese come streghe costituì, di fatto, il grimaldello con cui fu indebolita e fatta saltare l’unità di conoscenze e pratiche delle comunità contadine nell’epoca degli espropri e delle privatizzazioni delle terre e dei saperi in nome del profitto e dell’arricchimento individuale.

Un processo che, certo, non durò un giorno ma che, più o meno coscientemente, portò all’attuale società dei saperi e delle ricchezze separate dal corpo sociale che le ha prodotte. In cui l’arricchimento del singolo individuo è diventato il segno del suo valore sociale e della su “perfezione” di stampo calvinistico, per cui il lavoro non costituisce più uno degli aspetti della vita collettiva, ma un’autentica etica cui sottomettere tutti gli altri parametri di giudizio e analisi dei risultati raggiunti.

Una trasformazione che ha completamente marcato i tempi successivi fino ad oggi, cercando di cancellare qualsiasi traccia della barbarie ancora presente in noi, anche qui in Occidente, e negli altri popoli ancora sottomessi alle logiche del Capitale e del colonialismo. Costringendoci a chiederci ancora di che cosa siamo stati espropriati e che cosa può aiutarci a resistere nella battaglia contro un nemico che è ancora in gran parte lo stesso di allora.


  1. Come ad esempio in Q (1999) di Luther Blissett/Wu Ming che non hanno mai apertamente dichiarato il grande debito nei confronti dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar (1968) per quanto riguarda le vicende ambientate nella città di Münster degli anabattisti guidati da Jam Matthyjs.  

  2. L. Parinetto, Transe e dépense, Tabor/porfido 2024, p. 5.  

  3. A proposito di “economie selvagge, potrebbe rivelarsi utile per il lettore la consultazione di R. Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, Bruno Mondadori editore 2008 e M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Casa editrice Valentino Bompiani, Milano 1980. 

  4. L. Parinetto, op. cit., pp. 13-14.  

  5. Ivi, p. 14.  

  6. Starhawk, Il tempo dei roghi, Tabor/Erbas e salude 2024, pp. 5-6.  

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Vivere di niente, morire per nulla https://www.carmillaonline.com/2024/08/18/vivere-di-nulla-morire-per-niente/ Sun, 18 Aug 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83856 di Sandro Moiso

Nel profluvio di complimenti istituzionali e premi pomposi per i soliti film italiani buonisti e privi di qualsiasi spigolosità e ruvidezza, come quelli recenti di Paola Cortellesi e Edoardo De Angelis, gran parte del pubblico cinematografico si sarà sicuramente perso un buon film di un regista italiano, pur premiato all’ultima edizione del festival del cinema di Cannes.

Si tratta di I dannati di Roberto Minervini, che ha vinto il premio ex aequo per la migliore regia nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2024. Un film duro, spoglio, secco e spietato; che non ha [...]]]> di Sandro Moiso

Nel profluvio di complimenti istituzionali e premi pomposi per i soliti film italiani buonisti e privi di qualsiasi spigolosità e ruvidezza, come quelli recenti di Paola Cortellesi e Edoardo De Angelis, gran parte del pubblico cinematografico si sarà sicuramente perso un buon film di un regista italiano, pur premiato all’ultima edizione del festival del cinema di Cannes.

Si tratta di I dannati di Roberto Minervini, che ha vinto il premio ex aequo per la migliore regia nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2024. Un film duro, spoglio, secco e spietato; che non ha bisogno di effetti speciali ed eroismi di qualsiasi specie per parlare della guerra e della sua unica, intrinseca e definitiva finalità: trasformare i vivi in morti. Prima nella coscienza e poi anche dal punto di vista della nuda carne.

Minervini è un regista e sceneggiatore italiano nato a Fermo nel 1970 che, fin dai primi anni duemila, vive e lavora tra Italia e Stati Uniti, soprattutto come documentarista. Le sue opere sono, quasi tutte, a metà strada tra documentario e fiction, senza mai entrare nella sfera dei docudrama basati su eventi reali. Il suo film Stop the Pounding Heart ha fatto parte della Selezione ufficiale del Festival di Cannes del 2013 e ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il David di Donatello come miglior documentario nel 2014. Il film precedente, Bassa marea (Low Tide) era stato presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2012 e insignito del premio Ambassador of Hope. Mentre il film Louisiana (The Other Side) è stato selezionato per la sezione Un Certain Regard al Festival del cinema di Cannes del 2015. Ed è forse quest’ultimo ad anticipare, in qualche modo, lo sguardo sulla violenza e l’America da cui occore partire per comprendere anche l’ultimo film ambientato durante la Guerra civile americana del XIX secolo.

Louisiana pone al suo centro la vita di un personaggio che si autodefinisce criminale e tossicomane, inserito in un ambiente di emarginazione che contrasta con la bellezza del paesaggio e la natura intorno al corso del fiume Mississippi. Natura e bellezza che non toccano la vita di sofferenza della sua famiglia allargata composta da minorenni dediti, come la sua donna, all’uso di stupefacenti, dalla madre malata di cancro e da un nonna disperatamente attaccata alla vita.

Le uniche prospettive del protagonista sembrano essere costituite dalla prossima morte della madre e dal fatto che dovrà scontare tre mesi di carcere che gli dovrebbero consentire di disintossicarsi. Gli altri personaggi che si aggirano intorno a lui come fantasmi sono reduci del Vietnam alcolizzati e obnubilati dalla retorica americana, nella speranza che qualcosa possa ancora cambiare nelle loro vite tossiche. Ciò che unisce tutti è il profondo disprezzo nei confronti di Obama, così nell’ultima parte del film la scena si sposta su altri personaggi che armati fino ai denti si preparano (idealmente) a sconfiggerne la “dittatura”.

Il film si conclude con l’immagine di un’auto, su cui campeggia su una fiancata una scritta irriguardosa nei confronti di Obama, distrutta dal fuoco delle armi e dai successivi colpi dei miliziani impegnati a difendere, nella loro visione del mondo, la libertà di possedere armi e di usarle per difendere le loro famiglie, mentre il tutto sfuma in un melanconico tramonto.

Natura selvaggia, violenza, vite inutili, ideali vaghi e confusi sono gli stessi elementi alla base della trama di I dannati. Un ottimo esempio di film antimilitarista che, a differenza di molti altri, non si sofferma mai su alcun momento epico o commovente della guerra, sottolineandone piuttosto la noia dei gesti e della quotidianità cui si contrappone soltanto la sorpresa di una morte tanto improvvisa quanto crudele.

Unici modi per sfuggirla rimangono la fuga e la diserzione, per chi riesce, oppure il tradimento: per esempio non lanciare l’allarme per l’arrivo degli scorridori nemici pur di provare a salvare la pelle, anche se questo costerà la vita di tutti gli altri membri del distaccampamento. Una guerra fatta di nemici invisibili, di egoismi individuali e piccini, di fede fasulla e paura (tanta).
Un film che sembra rinviare a quello bellissimo di Ermanno Olmi, Torneranno i prati (2014), tratto da un magnifico racconto di Federico De Roberto, La paura (1921).

La natura circostante primeggia sulle ansie, le paure e le guerre degli uomini ed è racchiuso proprio lì il senso della scena finale, esattamente come nel precedente Louisiana; mentre l’ambientazione americana è sicuramente dovuta non solo al fatto che da anni Minervini si occupa di vari aspetti della rovina sociale degli Stati Uniti, ma anche a ciò che un certo antiamericanismo di maniera spesso non permette di cogliere negli aspetti importanti del paradigma americano, irrinunciabili per comprendere il “nostro mondo” e le sue barbare leggi.

Pertanto ciò che ad alcuni potrebbe apparire come moda o dipendenza non è altro che la volontà di mettere a nudo come anche una guerra considerata “giusta”, quella del Nord contro il Sud secessionista nella guerra civile americana, può essere altrettanto stupida e crudele di quelle sbagliate (Vietnam, Prima e Seconda guerra imperialista, etc.).

Così i soldati dell’Unione destinati a soccombere uno dopo l’altro, senza gloria e senza memoria, non sono altro che dannati della guerra e delle sue sempiterne infamie. Magari contornate dai sogni infantili ispirati dalle letture bibliche o da quelli di contadini che nel selvaggio territorio del Montana, dove il film è stato ambientato e girato, non vedono altro che terre buone da coltivare o per allevare cavalli.

«I Dannati nasce, cinematograficamente, dalla voglia di affrontare la finzione e di ‘riscrivere’ un genere, quello dei film di guerra, senza la solita rappresentazione muscolare, interrogandomi sul significato di parole come ‘vittoria’» – così aveva detto il regista nel presentare, a Cannes, un film che, come in tutte le guerre, non vede nessun vincitore reale tra i combattenti.

Per chi, come il sottoscritto, è stanco di retorica e demagogia di ogni colore e provenienza, il film è davvero una benedizione. Anche per le immagini estremamente belle ed efficaci nella loro nudità e apparente semplicità, frutto di una regia dal tratto stilistico essenziale e, soprattutto, ben lontana dal populismo che da sempre, in Italia, caratterizza opere come quelle cui si è fatto riferimento all’inizio.

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Mondi paralleli, tempo e rivoluzione in Auguste Blanqui (e nelle opere di Valerio Evangelisti) https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/mondi-paralleli-tempo-e-rivoluzione-in-auguste-blanqui-con-uno-sguardo-a-valerio-evangelisti/ Wed, 15 Nov 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79822 di Sandro Moiso

Auguste Blanqui, L’eternità viene dagli astri. Ipotesi astronomica, Traduzione di Raffaele Fragola, con una nota di Ottavio Fatica. Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pagine 132, 13 euro .

Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) è stato una delle figure principali dei movimenti rivoluzionari socialisti dell’Ottocento. Nato da una famiglia benestante, passò dal repubblicanesimo giovanile (cosa che già gli costò due anni di carcere per della polvere pirica ritrovata durante una perquisizione nella “Société des familles” da lui fondata nei primi anni Trenta del XIX secolo) al socialismo di carattere comunista proprio durante gli anni della prima detenzione. Che [...]]]> di Sandro Moiso

Auguste Blanqui, L’eternità viene dagli astri. Ipotesi astronomica, Traduzione di Raffaele Fragola, con una nota di Ottavio Fatica. Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pagine 132, 13 euro .

Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) è stato una delle figure principali dei movimenti rivoluzionari socialisti dell’Ottocento. Nato da una famiglia benestante, passò dal repubblicanesimo giovanile (cosa che già gli costò due anni di carcere per della polvere pirica ritrovata durante una perquisizione nella “Société des familles” da lui fondata nei primi anni Trenta del XIX secolo) al socialismo di carattere comunista proprio durante gli anni della prima detenzione. Che non fu l’unica, visto che avrebbe complessivamente trascorso, tra il 1831 e il 1879, trentasei anni e cinque mesi in prigione, motivo per cui ci si riferisce ancora oggi a lui come all'”Enfermé” (il Recluso).

Con l’amnistia del 1836 tornò in attività e fondò la “Société des saisons” con la quale, nel 1839, partecipò all’organizzazione di un’insurrezione che gli costò la condanna a morte, commutata in ergastolo, dal quale fu graziato otto anni dopo. Partecipò ai moti del 1848 e aderì alla “Société républicaine”, ma fu nuovamente arrestato e condannato alla deportazione in Africa, da dove tornò con l’amnistia del 1859 per essere ancora arrestato nel 1861. Dopo essersi sottratto alla legge andando in esilio in Belgio, continuò incessantemente la propria azione di propaganda politica, fondando i periodici «Candide» e «La patrie en danger». Per rientrare poi in Francia nel 1870 dopo la caduta di Napoleone III a seguito della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana. Dopo un’ennesima incarcerazione, Blanqui avrebbe pubblicato, nel biennio 1880-81, il giornale «Ni Dieu ni maître» (“Né Dio né padrone”), titolo talmente programmatico da esser diventato un dei motti più conosciuti dell’anarchismo1.

Uomo d’azione più che elaboratore di teorie, egli fu sempre fermamente convinto che il proletariato avrebbe potuto creare da sé una società di liberi e di uguali soltanto mediante un’insurrezione armata guidata da una piccola minoranza ben organizzata e decisa ad imporre la dittatura del proletariato (di cui fu il primo ad elaborare il concetto, in anticipo sugli stessi Marx e Engels)2.

Blanqui con la sua opera e la sua azione fu fonte di ispirazione non solo per generazioni di rivoluzionari, ma anche per scrittori come Valerio Evangelisti, anche se il legame che esiste tra l’opera di Valerio Evangelisti e quella di Auguste Blanqui è molto più profondo di quanto possa suggerire il fatto che il primo abbia intitolato il secondo volume della trilogia del Sol dell’avvenire con una delle frasi più celebri del rivoluzionario francese: Chi ha del ferro ha del pane.

Infatti, al di là delle simpatie “politiche” blanquiste e per l’azione spontanea degli oppressi spesso presenti nelle riflessioni e negli scritti di Evangelisti, occorre qui ricordare l’autentica venerazione che l’autore bolognese aveva per un’opera meno conosciuta del rivoluzionario francese, scritta mentre quest’ultimo languiva in carcere per essere stato arrestato proprio il giorno prima della proclamazione della Comune, il 17 marzo 1871. A seguito di ciò era stato prima condannato alla deportazione, il 17 febbraio 1872, poi commutata in carcere a vita e per motivi di salute incarcerato a Clairvaux, da cui fu in seguito trasferito al Chateau d’If, da dove poté uscire nel 1879 in seguito ad un provvedimento di amnistia, che non riconobbe però il fatto che Blanqui fosse stato eletto deputato a Bordeaux.

Quest’opera, ora ripubblicata dalle edizioni Adelphi, intitolata L’éternité par les astres e uscita per la prima volta in Francia il 20 febbraio 1872, tre giorni dopo la sua condanna all’ergastolo, va considerata come un autentico livre de chevet per Valerio Evangelisti, tanto da averlo spinto ripetutamente a consigliarlo come utile lettura ad amici, compagni e redattori di «Carmillaonline», la webzine di cultura, letteratura e immaginario di opposizione da lui fondata nel 2003.

Come si è detto poco innanzi, nel 1871 Auguste Blanqui, «l’eterno cospiratore», stava scontando l’ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. In tale occasione, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che stava infiammando Parigi, lo avevano trasferito nel remoto castello di Taureau, in Bretagna, dove fu sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riescì a scrivere e a far arrivare all’esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarebbe stato il suo primo libro, pubblicato l’anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall’ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui aveva meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che – ispirandosi all’edificio cosmologico di Laplace – avanzava un’ipotesi vertiginosa:

Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità.
La terra è uno di questi astri. Ogni essere umano è dunque eterno in ogni secondo della sua esistenza. Ciò che sto scrivendo in questo momento in una cella del Forte di Taureau l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, su di un tavolo, con una penna, degli abiti addosso, in circostanze del tutto analoghe. Questo vale per chiunque.
Tutte queste terre sprofondano, l’una dopo l’altra, nelle fiamme rinnovatrici, per rinascerne e ripiombarvi ancora, monotono fluire d’una clessidra che da sola si capovolge e si svuota eternamente. È un nuovo sempre vecchio, e un vecchio sempre nuovo3.

Queste righe comprese nel Riassunto, posto al termine dell’opera, suggeriscono il contenuto delle riflessioni di Blanqui sul cosmo, gli astri e il destino o il divenire di ogni singolo essere vivente, incluso l’uomo. Il tutto, però, inserito in un contesto in cui l’esistenza di infiniti mondi paralleli supera il mito dell’eterno ritorno, poi ripreso e rafforzato nel pensiero di Nietzsche, per aprirsi alle infinite possibilità che si offrono, seppur in mondi diversi, all’agire umano in direzione del cambiamento dell’esistente.

Il testo affronta il tema attraverso una visione che, però, non è suggerita dalla disperazione legata alla lunga prigionia prevista, inserita nel corso di una vita già segnata da decenni di detenzione, ma dalla speranza o addirittura dalla sicurezza che ciò che è stato sconfitto o non è possibile qui ed ora può risultare vincitore, e quindi essere possibile, in un altro momento, in un altro mondo. Massima espressione quindi della fiducia nel positivo esito della lotta contro lo sfruttamento e il dominio dell’uomo sull’uomo.

Il tema dei mondi e degli universi paralleli, oltre ad essere discusso come uno dei paradossi o delle possibili conferme della fisica più avanzata, ha certamente costituito un tema ricorrente della Fantascienza, dai fumetti di Brick Bradford ai romanzi e racconti di Murray Leinster, Jack Williamson, Philip K. Dick, Poul Anderson, Michael Moorcock e molti altri ancora.

Romanzi e racconti che immaginano possibilità diverse per l’evoluzione dell’uomo e della sua storia, di cui The Man in The High Castle di Dick (1962)4, che immagina un mondo in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dal Giappone e dalla Germania e gli Stati Uniti sono stati occupati e colonizzati per gran parte del loro territorio, costituisce ancora uno dei più validi esempi.

Mondi paralleli che assumono spesso il volto dell’ucronia e della distopia o anti-utopia come capita, soltanto per citarne ancora uno, nel mondo dominato dai vampiri, in cui Dracula ha sposato la regina Vittoria, del ciclo di romanzi e racconti di Kim Newman5. Ma in cui occorre intraveder la possibilità che, come aveva affermato Albert Einstein, in occasione della morte di un suo caro amico, “ciò che non è qui ora e adesso non è detto che non sia invece presente in un altro angolo dell’Universo”. Ovvero nel tempo e nello spazio o, se si preferisce, nello spazio-tempo intuito dallo steso ideatore della teoria della relatività.

Lasciamo per un momento da parte i sistemi stellari originali per occuparci più particolarmente della terra. La ricollegheremo fra poco a uno di essi, al nostro sistema solare, del quale fa parte e dal quale dipende il suo destino. Si capisce che nella nostra tesi l’uomo, così come gli animali e le cose, non ha uno specifico diritto all’infinito. Di per sé, egli non è che un essere effimero. È il globo di cui è figlio che lo rende partecipe della sua patente d’infinità nel tempo e nello spazio. Ognuno dei nostri sosia è figlio d’una terra sosia essa stessa della terra attuale. Noi facciamo parte del calco. La terra-sosia riproduce esattamente tutto ciò che si trova sulla nostra, e di conseguenza ogni individuo, con la sua famiglia, la sua casa, quando ne ha una, e tutti gli avvenimenti della sua vita. È un duplicato del nostro globo, contenente e contenuto. Non vi manca nulla6.

Ciò che anima lo scritto di Blanqui è, innazitutto, un materialismo inflessibile, in cui l’uomo, come tutti gli esseri viventi che lo circondano, deriva le sue caratteristiche da un ambiente dato e definito dalla materia e dalle sue infinite combinazioni che lo costituiscono, in tutte le loro possibili differenze e variazioni. Rilessione che gli fa aggiungere:

Supponiamo tuttavia alcune differenze che ne limitino l’accostamento a una semplice analogia. Si conteranno miliardi di terre di questo tipo prima di incontrare una somiglianza completa. Tutti questi globi avranno, come noi, terreni che digradano a terrazza, una flora, una fauna, dei mari, un’atmosfera, degli uomini. Ma la durata dei periodi geologici, la ripartizione delle acque, dei continenti, delle isole, delle razze animali e umane offriranno innumerevoli varietà. Andiamo avanti.
Una terra nasce, infine, con la nostra umanità, che dispiega le sue razze, le sue migrazioni, le sue lotte, i suoi imperi, le sue catastrofi. Tutte queste peripezie cambieranno i suoi destini, la getteranno su strade che non sono quelle del nostro globo. In ogni minuto in ogni secondo, migliaia di diverse direzioni si offrono a quel genere umano, che ne sceglie una e abbandona per sempre tutte le altre. Quanti scarti a destra o a sinistra modificano gli individui, modificano la storia! Ma non è ancora lì il nostro passato. Mettiamo da parte queste copie confuse. Non per questo non faranno la loro strada e non saranno dei mondi.
Ma alla fine ci arriviamo. Ecco un esemplare completo, cose e persone. Non un sasso, non un albero, non un ruscello, non un animale, non un uomo, non un incidente che non abbia trovato il suo posto e il suo momento nel duplicato. Si tratta d’una vera e propria terra-sosia… per lo meno fino a oggi. Perché domani gli avvenimenti e gli uomini proseguiranno il loro cammino. D’ora innanzi per noi è l’ignoto. Il futuro della nostra terra, così come il suo passato, cambierà strada milioni di volte. Il passato è un fatto compiuto; è il nostro passato. Il futuro si concluderà solo alla morte del globo. Da qui fino allora, ogni istante porterà la sua biforcazione, la strada che si prenderà e quella che si sarebbe potuta prendere. Qualunque sia, quella che dovrà completare l’esistenza propria del pianeta fino al suo ultimo giorno è già stata percorsa miliardi di volte. Non sarà che una copia impressa in anticipo dai secoli7.

Sono le scelte fatte dagli uomini, almeno sulla Terra che li riguarda, a determinare il loro destino. Definitiva affermazione dello spirito che animava Blanqui. Anche a costo di passare attraverso infinite sconfitte, carcerazioni e battaglie sanguinose.

Gli avvenimenti non creano da soli varianti umane. Quale uomo non si trova talvolta di fronte a due strade? Quella da cui egli si allontana gli procurerebbe una vita molto diversa, pur lasciandogli la medesima individualità. L’una conduce alla miseria, alla vergogna, alla schiavitù. L’altra portava alla gloria, alla libertà.
[…] Che si prenda una determinata strada a caso o per scelta, indifferentemente, non si sfugge alla fatalità. Ma la fatalità non trova appoggio nell’infinito, il quale ignora l’alternativa e ha posto per tutto. Esiste una terra dove un uomo segue la strada disdegnata dal suo sosia in un’altra. La sua esistenza si sdoppia, un globo per ciascuna, poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Egli possiede così dei sosia completi e innumerevoli varianti di sosia, che moltiplicano e rappresentano sempre la sua persona, ma prendono solo dei frammenti del suo destino. Tutto ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù lo si è in qualche altro luogo. Oltre alla propria intera esistenza, dalla nascita alla morte, che si vive su una moltitudine di terre, se ne vivono, su altre, diecimila edizioni differenti8.

L’enfermé, come lo aveva definito Gustave Geffroy, il primo autore di una biografia di Blanqui (L’enfermé, pubblicata in Francia nel 1897), aveva saputo, quindi, sollevarsi ben oltre le strette mura di una cella, ben oltre le condanne e le vicissitudini che lo avevano accompagnato per decenni, per librarsi, comunque libero di pensare e di immaginare, al di sopra dei limiti sociali, economici, fisici che sembravano limitare l’agire umano da tempi immemori. E tutto ciò non poteva certo dispiacere ad un autore come Valerio Evangelisti, non soltanto dal punto di vista scientifico e fantascientifico, ma anche filosofico e politico.

L’avventura o la ribellione, oppure la Rivoluzione e il cambiamento radicale sono resi possibili dai viaggi tra i mondi e le infinite possibilità sparse nell’Infinito e nel Tempo, sempre sorprendenti, ma sempre ferreamente definite da quei cento elementi fisico-chimici che, nel gioco ricombinatorio del Cosmo e della Natura, nell’opera di Blanqui rendevano possibile sia la varietà che l’uniformità degli universi o mondi paralleli.

Ecco allora che il “pensare cosmico” di Blanqui incrocia perfettamente la battaglia di Evangelisti per strappare l’immaginario alla sua colonizzazione da parte del capitale, per rifondarne un altro. Ovunque sia possibile. Una battaglia in cui spazio e tempo giocano un ruolo fondamentale, finendo spesso col coincidere come nello spazio-tempo della fisica successiva ad Einstein.

Tempo su cui oggi si gioca, nel tentativo di cancellare ogni memoria delle possibilità di cambiamento radicale che si son presentate agli uomini e alle loro strutture sociali nel corso della storia pregressa, soprattutto una partita fondamentale rappresentata dalla celebre affermazione sulla fine della storia di Francis Fukuyama. Affermazione arrogante e apodittica che nel negare la Storia finiva col negare non solo l’importanza e la presenza del passato per la comprensione dei problemi della società (e la loro possibile risoluzione sulla base di diverse prospettive e aspettative), ma anche il futuro. Riducendo tutto ad un eterno presente, immodificabile e in cui sono destinati a vigere perpetuandosi i valori della società liberale eretta dal dominio del capitale.

Ed ecco allora il perché della scelta di Valerio Evangelisti, proprio all’interno del ciclo di Eymerich, di non cogliere mai, nella tripartizione temporale di ogni romanzo, il momento attuale, il presente.
Nei romanzi gli avvenimenti si svolgono nel Medio Evo dell’inquisitore catalano, in un futuro sempre lontano, se non lontanissimo, e in un presente sempre rappresentato, però, per mezzo di uno scarto temporale che fa sì che l’azione non coincida con il tempo del lettore. Una sorta di presente parallelo e sfuggente, non inquadrabile in un ordine temporale e sociale definito una volta per tutte.

Un presente parallelo o anticipatorio che nega la solidità di quello “reale”, ancora determinato dal Capitale e dalle sue leggi e magari anche da un passato sanguinario e sanguinoso di sconfitte e illusioni, ma che non conferma affatto la stabilità e l’eternità dello stesso. Un presente fuggevole, quello reale, e insignificante rispetto a cui contano molto di più l’esperienza del passato, con i suoi crimini e le sue sconfitte, e le possibilità che si aprono ad ogni bivio per ogni uomo, donna o società in rivolta. Ci sarà sempre un nuovo inizio e una nuova partita da giocare, fino alla fine del globo su cui viviamo e da cui non possiamo separarci. Ed è proprio in questa prospettiva di superamento del miserabile presente che l’opera di Valerio Evangelisti e la visionarietà di Auguste Blanqui hanno finito col coincidere perfettamente.

E proprio quest’ultimo elemento può costituire un ulteriore motivo di interesse, nei confronti del trattato di “astronomia dell’immaginario politicato” appena ripubblicato da Adelphi, per i lettori delle opere dello scrittore bolognese scomparso da poco più di un anno.


  1. Per una più ampia ricostruzione della vita di Auguste Blanqui si rinvia a M. Dommaget, Blanqui, Erre emme edizioni, Roma 1990.  

  2. Per un primo sguardo antologico alle opere di Louis-Auguste Blanqui, si rinvia invece a L.A. Blanqui, Socialismo e azione rivoluzionaria, a cura di G.M. Bravo, Editori Riuniti, Roma 1969.  

  3. A. Blanqui, L’eternità viene dagli astri, Adelphi Edizioni, Milano 2023, Piccola Biblioteca 795, pp. 98-99.  

  4. P. K. Dick, La svastica sul sole, Science Fiction Book Club, Piacenza 1965.  

  5. K. Newman, Anno Dracula (1992), prima traduzione italiana Fanucci, Roma 1997; K. Newman, The Bloody Red Baron (1995), prima traduzione italiana come Il barone sanguinario, Fanucci, Roma 1998 e K. Newman, Dracula Cha Cha Cha (1998), prima traduzione italiana Urania n. 1538, Arnoldo Mondadori Editore, Milano settembre 2008.  

  6. A. Blanqui, op. cit., p. 74.  

  7. Ivi, pp. 75-76.  

  8. Ibidem, p. 77.  

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Un mondo ridotto all’osso https://www.carmillaonline.com/2023/08/03/un-mondo-ridotto-allosso/ Thu, 03 Aug 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78235 di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a tratti impenetrabile, una miseria diffusa che contrasta con il potere e la ricchezza di chi sta in cima alla catena alimentare sociale, un capitalismo finanziario che, negli ultimi decenni, ha trovato nell’affare delle droghe un valido strumento per contenere e rinviare gli effetti di ciò che l’analisi economica marxiana individua come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e si avrà, a grandi linee, la dimensione narrativa dell’ultimo romanzo di un autore che, nato nel 1979, è già stato acclamato come nuovo talento del genere noir sia in patria che all’estero. Con il romanzo presentato in Italia e pubblicato in Francia nel 2022, infatti, ha vinto il Prix 813 ed è stato finalista al Grand Prix de Litérature Policière e la Prix SNCF du Polar. Oltre a questi riconoscimenti “The Devil Himself” (titolo originale) è stato proclamato miglior romanzo straniero al Beaune International Film festival.

Anche se, talvolta, tali premi e riconoscimenti sono “spinti” dai giochi e accordi tra case editrici, c’è da dire che l’opera “al nero” di Farris non delude mai in alcun momento le aspettative del lettore, trasmettendogli l’immagine di una città del Sud di cui “Sua Eccellenza il Sindaco” sa che:

era un luogo spezzato, e i guadagni illeciti non finivano mai. Il deficit di bilancio era enorme, il sistema fognario sull’orlo del collasso. La disoccupazione era alle stelle, la rete dei trasporti in rovina, la criminalità in aumento e la contea in guerra. In più c’erano gli attriti tra l’amministrazione statale quella della città, un miliardo e più di dollari di mancati finanziamenti per i fondi pensionistici. Accuse di concussione, per cui il suo capo dell’ufficio approvvigionamento aveva appena patteggiato. La polizia locale aveva sparato ad una donna di novant’anni durante un blitz antidroga nella casa sbagliata. Perfino il tempo faceva schifo.
Ma il suo compito era trasformare il caos in speranza. Mettere una faccia contenta su quella che sapeva essere l’insidioso inizio di un collasso totale.
Sirene. Fumo. Fame. Spari. Il mondo ridotto all’osso1.

Come sempre accade, però, in questi casi il lettore si rende rapidamente conto che tale condizione raffigura non soltanto l’immaginaria contea di Trickum in Georgia ma, come quella altrettanto immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner ambientò la maggior parte dei suoi romanzi e racconti, un po’ tutta quell’America povera, bianca, corrotta fino in fondo all’anima nella quale è difficile salvarsi. Se non attraverso autentici bagni di sangue e in cui, alla fine, nessuno è veramente buono, a meno che non si accontenti di recitare soltanto la parte della vittima sacrificale.

La citazione biblica serve a giustificare la vendetta o la semplice furia; la legge copre il marciume e se ne fa complice; i contadini sono orgogliosi delle loro misere proprietà e di un lavoro che richiede investimenti maggiori dei rendimenti che se ne potranno trarre ma, allo stesso tempo, non vedono l’ora di liberarsene per un po’ di quattrini, mentre il progresso si rivela non essere altro che la marcia verso la catastrofe sociale, economica e morale.

Oltre all’ombra di un Faulkner in chiave minore, aleggiano sulle vicende narrate anche quelle del cinema di Clint Eastwood e Don Siegel, della scrittura di Daniel Woodrell e Cormac Mc Carthy e dell’etica di John Dutton, il protagonista della serie televisiva Yellowstone, interpretato da Kevin Costner: Se volete il progresso non votate per me (Stagione 4). Tutte rappresentate e riassunte nella figura di Leonard Moye, il vecchio, spietato e solitario “diavolo” che, solo, può contrapporsi al Male, al Vizio e all’Ingiustizia. Dopo aver sfatto la propria vita e quelle di coloro che gli stavano più vicini.

Ma, come sottolinea la traduttrice del romanzo, nel noir di Peter Farris sono il paesaggio e/o la natura a costituire «la figura più dettagliata, quella dalla personalità più forte e invadente. Nulla, in questo romanzo è determinante quanto la terra, che non solo è oggetto delle mire criminali dei villain ma è complice dei protagonisti in molti modi: nasconde, inghiotte, divora, magari sotto forma di un alligatore che arriva a far giustizia»2.

Un paesaggio crudele e assurdo in cui anche la tecnologia sembra avere poca cittadinanza poiché, come afferma ancora Valentina Daniele, «la modernità non svolge alcun ruolo in questa storia». Se non forse, e indirettamente, mettendo a confronto il vecchio modo di produzione artigianale e illegale di alcolici e whiskey delle distillerie clandestine nelle grotte naturali della regione del Piedmont con quello più moderno, ma comunque altrettanto sotterraneo e illegale, delle raffinerie di cocaina messe in piedi dall’industria delle droghe.


  1. P. Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 52-53  

  2. V. Daniele, Nota della traduttrice in P. Farris, op.cit., p. 261  

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Elogio dell’eccesso /3: Cormac McCarthy e il rosso della sera dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/elogio-delleccesso-3-cormac-mccarthy-il-rosso-della-sera-delloccidente/ Thu, 20 Jul 2023 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78090 di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La [...]]]> di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La strada” – Cormac McCarthy)

Il 20 luglio di quest’anno Cormac McCarthy avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Per uno di quegli insondabili moti degli orologi biologici individuali così non è stato e lo scrittore americano se n’è andato il 13 giugno, nella sua casa nei pressi di Santa Fe, nel Nuovo Messico. Tornando a quel mistero, di cui la morte individuale è la massima espressione e manifestazione, di cui parlava nell’ultima riga di uno dei suoi romanzi più conosciuti.

Se la letteratura americana migliore è impregnata del mistero della morte, in tutte le sue possibili forme, Cormac McCarthy ne è stato forse il cantore più coerente e inflessibile.
Morte per violenza, soprattutto, ma anche morte come fine di tutto: di una vita, di un ciclo, di un mondo, talvolta, come in Non è un paese per vecchi, del senso e di qualsiasi tentativo di dare un significato alle azioni degli uomini.

In un mondo che, invece, ha cercato di allontanare da sé la morte, pur producendola in maniera esagerata, continua e con qualsiasi mezzo, trasformandola narrativamente in un accidente, magari irrimediabile, ma pur sempre tale. Un intoppo nel percorso di vite destinate all’eternità non solo spirituale ma anche fisica e alla realizzazione di sé attraverso il consumo e la produzione di ricchezza (quest’ultima decisamente meno egualitaria della morte che, almeno e nonostante gli sforzi di conservazione criogenica della carcassa individuale, in attesa di un futuro migliore, arriva sempre e comunque per tutti).

Come scriveva già il sottoscritto, qualche anno fa, l’ossessione ricorrente nella maggior parte della migliore letteratura americana certo è

quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.
Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.
Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di Pulp alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di Un brav’uomo è difficile da trovare1.

McCarthy ha sempre suonato il controcanto del fasullo vitalismo americano e per fare ciò ha smontato ogni mito, a partire da quello della Frontiera e se Morte e Male costituiscono i due caratteri dominanti della grande letteratura d’oltre oceano, allora Cormac McCarthy ne rappresentato la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva, tracciando, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana.

Morte e non Storia, soprattutto degli ultimi due secoli. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream. Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttrice e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti. Vendicarsi, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di sopravvivere o di “essere giusti”: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di Non è un paese per vecchi, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo La strada; da Meridiano di sangue, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

Come afferma Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda di The counselor (Il procuratore, Einaudi 2013), mentre confessa provocatoriamente i propri impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini.

Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione2.

D’altra parte la stessa Malkina è in qualche modo prodotto e conseguenza di una narrazione letteraria e politica che nasconde la menzogna e la violenza che sono servite a mantenere inalterato il volto perbenista di una società che dopo aver artificialmente rimosso il Ricordati che devi morire della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare e in cui la morte e il male sono portati alle estreme conseguenze, mentre solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. «Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni»3.

Scorrendo tutte le pagine dell’opera di McCarthy, per certi versi unico vero erede del lato più tragico e provocatorio di William Faulkner, non è difficile capire perché, proprio un attimo prima del raggiungimento del successo con il romanzo All the Pretty Horses (1992 – Cavalli selvaggi, Guida 1993 – Einaudi 1996) che vinse il National Book Award nel 1992, tutte le sue opere precedenti (fino ad allora cinque) fossero uscite dal catalogo della Random House nonostante il successo di critica, non accompagnato però da un adeguato risultato nelle vendite e presso il pubblico. Compreso quello che sarebbe stato poi considerato uno dei suoi capolavori, se non proprio il capolavoro, Blood Meridian, del 1985 (Meridiano di sangue, Einaudi 1996).

L’autore americano aveva iniziato la sua carriera nel 1965, all’età di 32 anni. Era un dropout dell’Università del Tennessee, privo di agente letterario, quando aveva sottoposto il dattiloscritto del suo primo romanzo proprio alla Random House. Manoscritto che per puro caso finì sulla scrivania di Albert Erskine, colui che aveva fatto pubblicare Ralph Ellison, Robert Penn Warren e lo scrittore che sembra aver maggiormente ispirato McCarthy: William Faulkner. Erskine apprezzò il “manoscritto” e così la Random House pubblicò il primo romanzo, The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), un debutto ruvido, strano e decisamente non commerciale, che però già conteneva alcuni dei temi tipici di tutte le sue opere successive.

Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere4.

Eccone qui il primo esempio: il Mito della Frontiera e dei suoi uomini liberi e indipendenti, indifferenti alle leggi del progresso e abitatori di una terra selvaggia non è altro che polvere ancor più che polverosa leggenda. Come si afferma nel risvolto di copertina della prima edizione italiana, le vicende «hanno come sfondo un paesaggio arcaico, descritto con una prosa dalle cadenze bibliche che rimanda alla tradizione faulkneriana. I personaggi di McCarthy convivono con una natura che non ha nulla di idilliaco, ma è capricciosa e ostile proprio come i suoi abitanti.»

Un altro dei temi di McCarthy è infatti proprio la Natura, indifferente al destino degli uomini e alle loro storie e la cui sacralità è definita non dall’idillio, ma dalla sua crudeltà e impenetrabilità. Non a caso gli sfondi più spesso descritti dall’autore non sono quelli di colline e paesaggi ameni, ma piuttosto quelli di deserti soleggiati e ricchi di tempeste di polvere, di rocce granitiche e di pianure riarse dal sole. Per precipitare poi, in uno degli ultimi e più noti romanzi, The Road (2006 – La strada, Einaudi 2007) in uno scenario di ceneri e alberi bruciati. In cui la specie muore insieme al mondo che ha finto di poter dominare, soltanto per distruggerlo.

Erskine smosse mari e monti per promuovere il libro, sollecitando autori come Truman Capote, James Michener e Saul Bellow affinché lo leggessero, ma nonostante questi sforzo promozionale il romanzo vendette poco. Così come il successivo del 1968, Outer Dark (Il buio fuori, Einaudi 1997).

Una storia scandalosa e crudele in cui un giovane insegue la sorella, da cui ha avuto un figlio che lui ha cercato di uccidere subito dopo la nascita, attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Una storia di incesto e povertà cui si sovrappone la violenza di un mondo spietato e, come sempre, tinto di rosso cremisi. Con un epilogo di inimmaginabile crudeltà, come se l’entità che sembrerebbe presiedere nella più totale indifferenza le vicende umane avesse finalmente deciso di svelare il proprio ghigno grondante sangue.

Quando la Random House chiese a McCarthy se avesse qualcuno a cui inviare il suo terzo romanzo, Child of God (1973 – Figlio di Dio, Einaudi 2000) la storia di un assassino seriale e necrofilo che terrorizza una contea del Tennessee, l’autore, con una lettera, rispose: «Ed McMahon del Tonight Show, è un conoscente. Siamo stati a pescare insieme a Bimini la primavera scorsa e poi a bere al Cat Cay (fino a quando è caduto dal molo e hanno dovuto portarlo in aereo a Lauderdale per ricorrere alle cure ospedaliere). Provate a fargli giungere una copia del mio libro. Dovrebbe leggerlo (non come beve, certamente, ma più o meno)5

Quel romanzo, ancora una volta, raccontava il trionfo assoluto del Male, incarnato nella figura di Lester Ballard, uno dei tanti white trash che popolano le catapecchie del Sud rurale, le campagne ferme nel tempo in cui la Storia è scandita dai linciaggi e dalle pubbliche impiccagioni, dove la promiscuità e l’incesto costituiscono la regola, dove la miseria e l’abiezione sommergono qualsiasi forma di società strutturata secondo i canoni della modernità. Un mondo destinato a produrre mostri e su cui sembra campeggiare, come in ogni altro romanzo di McCarthy, l’avviso: No politically correct, please.

Se la casa editrice contattò o meno McMahon non è dato sapere, però anche quel romanzo vendette poco o nulla. Così come il quarto Suttree, pubblicato nel 1979 (Suttree, Einaudi 2009). Romanzo che il critico Stanley Booth definì come il «libro più esilarante di McCarthy, ma anche il più insopportabilmente triste.» Popolato da una schiera di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.
E’ il mondo di Knoxville, Tennessee, nel 1951 ed è quello in cui vive e sopravvive Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore protagonista delle vicende narrate. L’altra faccia dell’America perbenista narrata dall’immaginario dell’American way of life dunque.

In quell’occasione l’autore aveva ottenuto il riconoscimento di autorevoli premi letterari e borse di studio finanziate dall’American Academy of Arts and Letters, dalla Fondazione Guggenheim e dalla Fondazione Rockfeller, mentre nel 1981 ne ottenne anche una dalla MacArthur che, come avrebbe scritto ad un amico, rappresentava una piccola “manna” che gli avrebbe permesso «di rimanere nel “business” ancora per un po’.»

Nel 1976 si era trasferito a El Paso dove si sarebbe in seguito documentato e avrebbe iniziato a scrivere il suo quinto romanzo, Blood Meridian. Un libro violentissimo, l’unico in cui compaiano i nativi americani colti nel momento in cui guerreggiano selvaggiamente contro i bianchi che invadono i loro territori sempre più in profondità e mentre un branco di mercenari, comandati da uno dei personaggi più infernali usciti dalla mente di McCarthy, il giudice, scorrazza sulle pianure del Texas e del Sud-ovest, uccidendo e scalpando i membri delle tribù distribuite a cavallo del confine tra Stati Uniti e Messico.

E’ la storia di un ragazzo che a quattordici anni lascia la casa paterna nel Tennessee e si dirige avventurosamente, disperatamente, coraggiosamente e incoscientemente verso l’Ovest, verso il West. Ma il lettore non si aspetti un romanzo di formazione. L’America, come avverrà poi nel terzo e ultimo romanzo della trilogia della Frontiera, Cities of the Plain (1998 – Città della pianura, Einaudi 1999), non cresce o educa i suoi figli: li divora. In Vietnam come in tante altre inutili guerre ai confini del suo impero, negli slums delle metropoli come sulle pianure secche e aride del West. Tom Sawyer in un romanzo di McCarthy non avrebbe mai avuto il tempo di diventare saggio o adulto, avrebbe avuto soltanto il tempo di morire. Possibilmente in maniera ingiusta e violenta.

E anche i nativi non sono da cartolina. Non sono soltanto pacifici rappresentanti di un mondo in estinzione davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Non espongono la bandiera a stelle e strisce come avviene in Soldato blu6 nel tentativo di non essere massacrati. Combattono, aggrediscono, uccidono, scalpano e stuprano (anche le “giacche blu”), riservando ai bianchi ciò che questi ultimi hanno perpetrato su di loro. Non per nulla Blood Meridian è stato definito, dal critico statunitense Harold Bloom, come «il western definitivo».

La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna.[…] Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini i ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve7.

E’ sempre una scrittura visionaria quella dell’autore statunitense, in questo senso biblica per la forza delle immagini che sembrano andare in sovrimpressione, soprattutto nella mente di chi legge. Ma nonostante ciò, o forse proprio in virtù di tutto questo, anche il quinto romanzo vendette poco, o nulla. Così a partire dalla seconda metà degli anni ’80 le prospettive di carriera dello scrittore si annunciavano ormai come tetre e desolate.

Nel 1987 Erskine lasciò il suo posto alla Random House per andare in pensione e McCarthy, nel 1989, ebbe modo di scrivere ad un amico: «Sono stato uno scrittore professionale per 28 anni e non ho mai ricevuto un assegno per i diritti d’autore. Penso sia davvero un record.» Ciò significava, al di là dei riconoscimenti ricevuti e della successiva fortuna editoriale, che lo stesso avrebbe dovuto cambiare il modo di presentare i suoi libri agli editori. Soprattutto dopo il ritiro di Erskine.

E così fu. In un contesto in cui le grandi corporation, proprio a partire dagli anni Ottanta, avevano iniziato ad assorbire un grande numero di case editrici, grandi, medie e piccole, che erano state messe in ginocchio dall’aumento dei prezzi determinato dall’inflazione degli anni settanta che a parità di salari aveva fatto sì che il costo dei libri aumentasse e i lettori diminuissero. Da lì in avanti alla direzione delle case editrici più grandi furono messi uomini che non venivano dalla “letteratura” (come agenti o editori), ma dal marketing,

Nel frattempo McCarthy aveva scritto a Lynn Nesbit (che rappresentava, tra i tanti altri, autori come Joan Didion, Toni Morrison e Tom Wolfe) in cerca di un agente. Per farlo, le aveva scritto le seguenti parole: «Non ho mai avuto un agente prima d’ora, ma penso che sia giunto il momento di averlo e così, se è interessata a parlarmi, può chiamarmi prima di mezzogiorno, ora delle Montagne Rocciose (Rocky Mountain time).»

La Nesbit passò la lettera ad una sua protetta, Amanda “Binky” Urban, che aveva letto Suttree e lo aveva trovato stupefacente. Così Amanda Urban prese in carico lo scrittore e progettò il suo passaggio dalla Random House alla Knopf, dove un nuovo direttore editoriale, Sonny Metha, aveva bisogno di un buon colpo iniziale. Quando la Urban gli propose McCarthy, stimato borsista della MacArthur che però non aveva ancora venduto, con un francesismo, un cazzo, Metha rispose: «Già lo amo».

La stessa Urban, in seguito, avrebbe affermato: «Non potevo credere di stare per prendere in mano il telefono e chiamare un autore che fino ad allora aveva venduto al massimo 2500 copie». Ma in quel frangente si aprirono le porte del successo per Mc Carthy, con il romanzo Cavalli selvaggi, che non è certo tra i suoi migliori, ma da cui fu tratta una versione cinematografica, anch’essa risibile rispetto a quelle tratte da La strada e Non è un paese per vecchi, interpretata da un giovane Matt Damon.

Romanzo che apriva però quella trilogia della frontiera cui si è già accennato e di cui il secondo, The crossing (1994 – Oltre il confine, Einaudi 1995), costituisce forse la summa della visione tragica e nichilista della vita contenuta in tutta la sua opera. Ancora una volta la storia di un giovane, Billy Parham, che lascia la casa di famiglia per addentrarsi, alle soglie del secondo conflitto mondiale, “oltre il confine” nel Messico. Tra deserti, montagne, cavalli, fantasmi di uomini e rivoluzioni, fotografie sbiadite e zingari alla ricerca dei proprietari delle stesse perché si riconoscano prima di svanire anche loro nel tempo o più semplicemente nel nulla.

A farla da padrone è ancora una volta il paesaggio metafisico, ma concretissimo, che assume il ruolo di testimone muto e spietato che vedrà due fratelli cercarsi, perdersi, trovarsi e perdersi ancora su un confine, quello del Sud-ovest, che più che una linea divisoria tra gli stati sembra tracciare quella tra tra il mondo reale e quello narrato, tra la Vita e la Morte, l’Essere e il Nulla.

Dovevano ancora venire altri romanzi, tutti di successo soprattutto negli Stati Uniti, ma già in un’intervista dl 1992, rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel», McCarthy avrebbe dichiarato: «Le classifiche dei bestseller non hanno nulla a che fare con la letteratura. Ha mai guardato i titoli che sono in classifica? Pensa che sia lusinghiero essere in quella compagnia?». E poi, a proposito dell’America: «Più di ogni altro paese sulla terra, l’America è una provvisorietà. Un’invenzione senza storia». In quell’occasione l’intervistatore ebbe modo di osservare come l’autore, che abitava ancora a El Paso «dove la città dei morti sembra provvisoria come la città dei vivi:

E’ affascinato dalla prospettiva in cui l’astrofisica colloca la storia umana, l’insensato arrancare dell’umanità e la sua sofferenza. Ci sono molti elementi che suggeriscono, dice, che l’esperimento umano sarà presto finito. E stranamente, come i predicatori dei suoi romanzi, Cormac McCarthy è un moralista. Meno fanatico, più rassegnato. Quando parla di sventura, non parla di catastrofi ecologiche o economiche, ma della morte interiore dell’uomo, della morte del significato. «Come si può vivere senza morale?», dice ad un certo punto.[…] Ha sottotitolato il suo romanzo Meridiano di sangue il “rosso della sera dell’Occidente”, un libro che, come i dipinti di Hieronymus Bosch, fornisce metafore per la caduta dell’umanità8.

Certo un moralista, come lo sono stati Leopardi o Céline, eccessivi perché perfettamente consci della condizione umana e delle menzogne di un secol superbo e sciocco. Consci che l’ingiustizia, la violenza, il dolore fanno parte di tale condizione e che non saranno le fregnacce liberali, new age, politically correct e della cancel culture (tutte varianti di un unico perbenismo già morto e sepolto) a modificarla. Anzi tali fregnacce son proprio ciò che è necessario continuare a diffonder per nascondere la realtà. Non a caso uno (Céline) è stato demonizzato, l’altro (Leopardi) sminuito a pessimista gobbo e quasi cieco e Mc Carthy spesso inquadrato in un canone americano di difesa di valori che non ha mai sicuramente apprezzato.

Proprio per questi motivi, in tempi di guerra e di crisi autentica dell’Occidente e dei suoi “valori fondativi”, è consigliabile che il lettore non si adagi sulle false sicurezze e le false speranze, distribuite a piene mani sia da destra che da sinistra, e faccia piuttosto un salto di paradigma iniziando subito a sprofondarsi nella lettura dell’opera di McCarthy. Possibilmente integrale.


  1. qui  

  2. C. McCarthy, The counselorIl Procuratore, Einaudi 2013, pp. 114 – 115  

  3. op. cit., pag. 51  

  4. C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002  

  5. Fonte: Dan Sinykin, A career that couldn’t happen now, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  6. Soldier Blue è un film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, Arrow in the Sun, anch’esso liberamente ispirato ai reali eventi del massacro di Sand Creek del 1864.  

  7. C. McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi 1996, pp. 56-57  

  8. «Der Spiegel», 30 agosto 1992  

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La natura che ci possiede https://www.carmillaonline.com/2023/05/26/la-natura-che-ci-possiede/ Fri, 26 May 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77407 di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. [...]]]> di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. Attraverso questo senso percepiamo voci misteriose e viviamo in stretta unione con la natura, in un legame vitale, fatto anche di sentimento. Si tratta certamente di una espansione delle facoltà di percezione, di un ampliamento della capacità di immaginazione. La creazione poetica di E. Testa rappresenta un modo di pensare rivoluzionario perché cambia radicalmente i soliti schemi dell’intelligenza e del sentimento circa la natura, proprio in un tempo in cui il disastro climatico fa prevedere l’estinzione della specie umana, senza che il mondo faccia nulla per evitarla. Al posto di una natura inerte, siamo di fronte a un cosmo e una vita che non lasciano fuori la dimensione dell’ignoto, perché un aspetto inconoscibile delle parole proviene dalla profondità della terra, dai suoi elementi vegetali e inorganici, e suscita una comunicazione “che si sente” e “non si può ripetere”; è proprio questa visione a interessare il poeta, che predilige le persone “vedove della vita”, lepri che scappano e non hanno niente da spartire con chi affronta la vita, con i suoi problemi ordinari, con grinta. Le poesie sono voci che vengono a noi in modo oscuro: “tante voci/notturne in pieno giorno”. Voci ebbre che devono legarsi alla catena materiale del conscio, con la sua grammatica e le sue regole. Vi è una visione della bellezza del linguaggio come mondo sonoro, di voci e di muto, ancora prima di essere vergato sul foglio: “A me piace sentire le cose cantare”.

Il linguaggio della memoria e la voce come suono si materializzano in segni, ma prima della lettera scritta vi fu il refuso, il sussurro, la parola orale involontaria e inconscia, appartenenti alle voci della terra e a ciò che vive al suo interno. Anche dalle cose emana una eco che filtra non il niente ma “un tiepido soffio”, il soffio di una dirompente dimensione ctonia. Un’energia primordiale che attraversa la persona è quella che gli elementi naturali trasmettono, il contatto con una pietra, ad esempio. Sono, queste, le uniche sensazioni positive della vita, tangibili ma non esprimibili.

Lo stato esistenziale desiderato del poeta è quello di “essere invisibile nel completo anonimato”, “fuori dalla vita”, “solo di fronte al mio io”, in uno “stato provvisorio di esilio”, “in una soglia notturna d’elisio”. Uno stato di abbandono se consideriamo l’abbandono come distacco dalla vita laboriosa del mondo. Quasi ogni poesia contiene figure del mondo vegetale e di animali, soprattutto di volatili. Vivere in sordina vuol dire vivere come cuciti dietro il risvolto di un arazzo, nascosti e poggiati a qualcosa di materiale. Ma legare la propria vita al futuro dei figli, all’umanità in generale, considerando la casa come vita che continua, può essere pericoloso: una poesia (La caduta del cielo) mostra, in una sorta di allucinazione, come il peso dei morti fa sprofondare nel più profondo della terra i loro corpi, inghiottendo anche la casa costruita sopra, in una specie di implosione. Possiamo morire in qualsiasi momento, e conosciamo la morte solo attraverso il volto dei morti, il loro accumulo nella terra.

Vivere “fuori dalla vita” vuol dire vivere come cuciti dentro la terra, come radici di alberi o come rocce, dove un mondo di solitudine e di silenzio vive in pace. Come un cupo e scuro pino da pece, albero molto resistente al fuoco e al vento, impermeabile alla pioggia, è il poeta: estraneo agli eventi esteriori. Della terra siamo prigionieri, come le sterne che salgono e scendono continuamente al mare. A volte succede che nella solitudine senza gente, i passi diventino la trama sotterranea delle radici, e la lingua madre, la lingua dei primi rudimenti diventa viva e ci parla. Il sole che rende viva la terra sorride per lei, per le gemme di aprile, e l’aria è abitata da suoi propri sogni che vengono a noi la notte.

Dobbiamo pensare la condizione di separazione dal mondo come una condizione di lavoro della fantasia, ben descritta da una poesia in cui il poeta immagina, al mattino, di essere come un merlo zoppo che vaga nell’orto e di cantare sotto la sua pianta preferita. Benedetto è l’abbandono che è capace di stordire in una estasi di bellezza, come il profumo dei fiori di narciso.

Oppressive sono le immagini della vita terrena: un grand Hotel dalle finestre che sono lastre di vetro non apribili; l’esumazione di cadaveri nel cimitero; i morti che appaiono nel sonno operosi e attivi come erano in vita.
La morte dovrebbe essere un salto verso un altro cielo, che non ci limiti a ritornare a terra per cercare il cibo, in una terra dove ogni pezzetto è accaparrato dalla proprietà privata ai fini della grande produzione, impoverito dallo sfruttamento intensivo delle coltivazioni o della pesca. Sarebbe bello un volo in una terra, verso un’erba di nessuno. Quando un uccello muore, sembra che voli in picchiata, come precipitando in un altro cielo: è così che la morte dovrebbe essere nel suo significato. Anche gli oggetti vivono una sorta di morte, quando non esiste più l’ambiente a cui appartenevano. Se vi siete fermati a osservare oggetti d’infanzia o di parenti non più viventi, noterete come una tristezza in essi, vi accorgerete che gli oggetti e le persone sembrano condividere lo stesso desiderio di oblio nel viaggio del tempo che corre, in un credo comune: “parole carezze cenere”, dopo la vita sia l’oblio di quello che un tempo fu.

Non si può trovare nella scrittura un luogo in cui trovare riparo per il proprio essere. Non siamo noi a decidere dove andare, prevalgono i rovi da evitare, nella vita come nella scrittura.
Il distacco del poeta dal mondo ha anche un aspetto teologico, vi è un vissuto di lontananza di Dio, una disperazione che ha una certa somiglianza con quella di Giobbe, una disperata empietà: da una parte vi sono accuse di essere da Lui abbandonato e nello stesso tempo vi sono invocazioni di carezze. Dio è un “superbo bugiardo”, “un brigante di strada”. Al “Dio ignoto” chiede però una carezza, perché forse è “il mio solo compagno”, e al “mio grande nemico” dice: “non sparire!”. Dio ha un volto così muto da essere accecante. Ci viene in mente G. Anders quando affermava che “la disperata empietà è meglio della virtù che non dispera mai”.

La vita, nel migliore dei casi, è “serena infelicità” che trova riparo nell’ombra, o guarda “l’esterno dall’interno”, come fanno le piante. Esiste una forma di gioia, ma è esuberanza che prende senza motivo. L’autore cerca un luogo dove nascondersi dal mondo, dove non vi sia il controllo sulla nostra mente. La comunicazione digitale ci ha addomesticato a non dire niente se non un “tritume di parole, albume della voce”. La voce come albume, viscida appiccicosa e incolore, insapore, è la voce filtrata dallo schermo, inautentica e spettrale.

La vita è schiacciata da una pena tremenda, la distruzione e la corruzione di tutte le cose. La vita umana è la stessa identica vita di un dente di leone, “una vita plebea”, che viene “calpestato sui crocevia”, strappato dalle persone per il gioco di soffiarci sopra, e “la fine indecifrabile, nel vento”. Variando dei brani originali di F. Nietzsche, l’autore scrive:

“Sono facile alle lacrime in questi giorni e talmente irritabile verso l’umanità da aver sempre bisogno di medicine. Mi servono per contrastare il veleno che mi hanno inoculato: la sdegnosa indifferenza altrui mi ha spinto al disprezzo di me stesso e io non ho la forza per sopportarlo. La gente si stupisce del mio volto: sembra quello di chi è appena arrivato da un paese dove non abita nessuno. […]. Nelle mie notti in bianco vado a fondo e getto dal bordo del letto lo scandaglio nelle acque nere della coscienza. Per scovare un’aurora, per afferrare le mie idee: uccelli – gufo aquila allodola picchio – in volo. Non ho però nessuno con cui parlare. Sono stanche le stelle. Nel mio cielo, sono solo. Totalmente solo. E così! Arrivederci!”

Procedere dal buio verso un buio più profondo, non verso la chiarità, vuol dire dimenticare la vita, e questo non è un male, perché “la vita è l’invenzione meglio riuscita del diavolo”; gli affetti una promessa di amore non mantenuta.
L’erba di nessuno è una risorsa improduttiva; un luogo non privatizzato e non soggetto a un valore di mercato della quale all’inizio dell’età moderna in Inghilterra l’economia si era appropria indebitamente, creando delle recinzioni, le enclosures.

Era, la terra di nessuno, la risorsa di sostentamento e di sicurezza per chi viveva prima che nascessero le enclosures, recinzioni che dividevano la classe dei proprietari terrieri da chi non aveva terra e quindi separavano il mondo in ricchi e poveri.
Senza nominare i processi economici dell’economia di mercato, il poeta scrive:

finita quella su cui si può vantare
qualche diritto
di consuetudine o di proprietà
s’incomincia a tagliare
l’erba di nessuno.
La falce passa veloce
sulle ripe scoscese,
nei fossati umidi di guazza
anche ad agosto,
sui muri delle lunari
piramidi azteche dei monti.
L’esile pianta di una terrazza
e la sua tenera malva
sono una riga lontana
tra cielo e mare.
Qui pietra su pietra
e poco prato:
i pruni graffiano le mani.
Ma nessun filo, stelo o stecco
Deve andare perduto.
Tutto serve
per sfamare bestie e cristiani
– per dare fiato
a questo dolore muto

Bisognerebbe invece dare tributi e nutrimenti alla terra: il poeta, tagliandosi un dito, è orgoglioso che il suo sangue sia finito in terra. L’erba di nessuno è anche la vita in uno stato di concentrazione e solitudine, destinata purtroppo a essere continuamente interrotta dalle sollecitazioni che vengono dal mondo: innanzi tutto quella di inserirsi nella sfera sociale e nelle relazioni del consorzio umano. Lo stato di solitudine e di silenzio significa trovarsi soli in quello che si fa senza distrazione alcuna; una elevata forma di concentrazione in cui la mente fa tabula rasa del mondo: vera e propria meditazione spirituale che rappresenta una pace interiore estatica.

 

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La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea https://www.carmillaonline.com/2023/04/21/la-natura-ostile/ Fri, 21 Apr 2023 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76943 di Paolo Lago

[In occasione dell’uscita del volume di Paolo Lago, La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea, Terracqua, 2023, in cui vengono esaminate alcune opere della narrativa contemporanea che si sono confrontate, in forma distopica e non, con la tematica dell’essere umano alle prese con una natura ostile segnata dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, di seguito si riporta un breve estratto dall’introduzione alla prima parte, La natura ostile eco-distopica e post-apocalittica ringraziando l’editore per la gentile concessione]

Nei romanzi che analizzeremo, negli scenari post-apocalittici che vengono rappresentati, potremo incontrare degli elementi [...]]]> di Paolo Lago

[In occasione dell’uscita del volume di Paolo Lago, La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea, Terracqua, 2023, in cui vengono esaminate alcune opere della narrativa contemporanea che si sono confrontate, in forma distopica e non, con la tematica dell’essere umano alle prese con una natura ostile segnata dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, di seguito si riporta un breve estratto dall’introduzione alla prima parte, La natura ostile eco-distopica e post-apocalittica ringraziando l’editore per la gentile concessione]

Nei romanzi che analizzeremo, negli scenari post-apocalittici che vengono rappresentati, potremo incontrare degli elementi distopici nell’affrescare, ad esempio, delle organizzazioni sociali del futuro sopravvissute alla catastrofe ma declinate in negativo. Infatti, non ci troveremo di fronte al vuoto schema narrativo che prevede la lotta dei sopravvissuti per la sopravvivenza in un mondo devastato e disseminato di bande violente. Nei mondi post-apocalittici che incontreremo ci saranno, in alcuni casi, delle organizzazioni sociali e dei modi di vita che non potremmo definire altrimenti che distopici1. Ecco che, a questa distopia post-apocalittica affrescata nei romanzi che ci apprestiamo ad analizzare, si addice probabilmente meglio la definizione di “eco-distopia”. La natura ostile che, spesso, si frappone come una barriera quasi insormontabile negli spostamenti dei personaggi, è strettamente legata agli scenari distopici e post-apocalittici rappresentati. È a causa di una catastrofe di tipo ecologico che ha lasciato dietro di sé una scia di devastazione e una ferita profonda nello stesso paesaggio naturale che si sono modellati i mondi eco-distopici e post-apocalittici in cui si muovono dei personaggi che, sempre di più, assomigliano a futuri migranti climatici2.

Di recente Niccolò Scaffai ha curato un’antologia dal titolo Racconti del pianeta Terra, all’interno della quale sono raccolti soprattutto racconti, ma anche saggi, di diversi autori che rientrano nell’ambito tematico della “letteratura e ecologia” (per usare il titolo del suo studio uscito nel 2017). Al suo interno, una sezione, dal titolo Il senso della fine. Apocalissi, estinzioni, distopie, è dedicata proprio a racconti declinati in chiave eco-distopica e post-apocalittica. Accanto al racconto che costituisce il primo nucleo di un romanzo che sarà oggetto della nostra indagine, Bambini bonsai di Paolo Zanotti, incontriamo prove narrative di autori considerati ormai come dei classici del genere: Martin Amis, Ursula Le Guin, Annie Proulx, James Ballard.

Nei romanzi che verranno qui analizzati la rappresentazione del ‘dopo-catastrofe’ si presta bene ad essere analizzata da un’ottica, se così si può dire, ecocritica. Per mezzo, cioè, dell’approccio offerto dall’ecocriticism, la quale, secondo una definizione di Serenella Iovino, “vuole proporre una lettura delle opere letterarie che possa essere il veicolo di una «educazione a vedere» le tensioni ecologiche del presente”3. L’ecocriticism, come già notato in sede introduttiva, sempre secondo Iovino, intende essere una vera e propria “forma di attivismo culturale”, mirata a sondare, tramite appunto la cultura, i cambiamenti della società contemporanea4. Né si deve dimenticare che ci troviamo in un’epoca conosciuta col nome di Antropocene, secondo una definizione offerta dapprima dal biologo Eugene Stoermer e, successivamente, dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen5. Un’epoca in cui la presenza umana ha inesorabilmente mutato il pianeta, e sta continuando a farlo. Secondo Scaffai, “l’Antropocene coincide con una prospettiva più che con un’estensione temporale, ed è correlato alla coscienza di uno stato di crisi. Come ogni crisi, e come ogni cambiamento, l’Antropocene ha bisogno di racconti”6. Come già aveva notato Matteo Meschiari in un suo pamphlet dal titolo Antropocene fantastico, il romanzo, ora più che mai, deve fare i conti con “le scienze dure e le scienze sociali”7. Perché “vivere in un pianeta che può essere distrutto per davvero, che si riscalda, che vede i suoi ultimi anni di clima stabile è una cosa nuova che la fiction deve esplorare e che in parte sta esplorando”8. Nuovi territori narrativi che un romanzo dell’Antropocene non può esimersi dall’attraversare, secondo quanto aveva già osservato Amitav Ghosh ne La grande cecità (la cui edizione originale è del 2016), scrittore e antropologo indiano tra i più autorevoli, sul quale torneremo. D’altra parte, come scrive Serenella Iovino in un suo intervento, i geologi non hanno ancora riconosciuto ufficialmente l’Antropocene perché stanno ancora raccogliendo prove: che altre prove occorrerebbero – osserva la studiosa – dal momento che “molti abitanti del pianeta, umani e non, nell’Antropocene della plastica e degli scarti ci sono già da decenni”9?

La natura è ostile perché è stata devastata dalla civiltà umana10 e, in alcuni casi, cerca di riprendere il sopravvento sulle costruzioni antropiche. In altri casi, invece, appare totalmente annullata in un inaridimento che, a sua volta, risulta ostile per la presenza degli uomini. In altri ancora, la dimensione post-apocalittica si palesa in una cancellazione totale della terra a causa dell’innalzamento del livello dei mari.

Anche la rappresentazione dei protagonisti di queste narrazioni può essere analizzata con uno sguardo ecocritico che racchiuda in sé anche la dimensione politica e sociale: coloro che sono sopravvissuti ai disastri, infatti, appaiono come dei veri e propri migranti climatici, in fuga dall’inaridimento del loro territorio, o da una distruzione dello stesso, causata da apocalittiche alluvioni. Ci troveremo perciò di fronte due tipi di natura ostile: terre desolate, inaridite oppure caratterizzate da una ricrescita ‘malata’ e inarrestabile della natura, sulle quali i protagonisti, nel loro viaggio, devono vedersela con pericolosi nemici di ogni sorta; terre sommerse, in cui i sopravvissuti potranno muoversi solo su barche e navi o condurre la propria vita in nuove città subacquee11.

Un tratto abbastanza comune a questo tipo di narrazioni è poi quello della presenza della struttura narrativa del viaggio. Quest’ultimo, abbandonata qualsiasi velleità di ‘liberazione’ e di ‘formazione’ tipica della letteratura americana on the road12 si riveste invece di toni lividi e cupi, senza però assumere i tratti tipici del viaggio picaresco, caratterizzato da una libera peregrinazione senza meta. Tutti i personaggi che incontreremo una meta ce l’hanno, reale o sognata, vera o utopistica, un lembo di mondo forse sopravvissuto alla catastrofe dove probabilmente è possibile, pure se a costo di immani sofferenze, ricostruire una nuova vita. E poi, forse, non è del tutto vero che in questi viaggi non sono presenti elementi di ‘formazione’: il viaggio post-apocalittico dei sopravvissuti segna nel profondo, cambia, ferisce. Non si tratta della classica formazione ‘in positivo’ ma di una formazione quasi ‘in negativo’, che giunge dalle sfere più irrazionali e notturne della mente umana, costretta a percepire con sofferenza indicibile un mondo devastato che non si riconosce più, in cui le normali condizioni di esistenza vengono meno.


  1. Cfr. N. Scaffai, Mondi sconosciuti: ecologia e letteratura, in Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, a cura di N. Turi, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 23. 

  2. Per un’analisi dei personaggi dei romanzi di Zanotti, Arpaia, Bertante e Montag in chiave di migranti climatici rimando al mio Migranti climatici nella geopoetica del disastro: Zanotti, Arpaia, Bertante, Montag, in “Tellūs | Quaderni di letteratura, ecologia, paesaggio”, 1, 2020, pp. 23-49, consultabile su https://www.zestletteraturasostenibile.com/tellus1/ 

  3. S. Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2015. 

  4. Ivi, p. 17. 

  5. Cfr. N. Scaffai, Introduzione, in Racconti del pianeta Terra, a cura di Id., Einaudi, Torino, 2022, p. VI. 

  6. Ivi, p. X. 

  7. M. Meschiari, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, Armillaria, Milano, 2020, p. 23. 

  8. Ivi, pp. 23-24. 

  9. S. Iovino, Il Codice antropocene, in “La repubblica”, 1 luglio 2022. 

  10. Cfr. S. Micali, I bambini dell’apocalisse. Racconti della fine e di nuovi inizi nella fantascienza italiana degli anni Duemila, in La fantascienza nelle narrazioni italiane ipercontemporanee, “Narrativa”, 43, 2021, p. 99: “Anche perché l’apocalisse letteraria postmoderna procede raramente da disastri naturali o agenti esterni, bensì è quasi immancabilmente un prodotto della civiltà stessa, dell’arroganza e dell’avidità della specie nel suo complesso”. 

  11. Probabilmente l’archetipo narrativo di questi due scenari va ricercato in due romanzi di James Ballard: rispettivamente, Terra bruciata (Burning World, 1964) e Il mondo sommerso (The Drowned World, 1962). 

  12. Cfr. G. Panella, Il disastro prossimo venturo in Ecosistemi letterari, cit. p. 231. 

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La lunga notte del capitale: Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2021/12/15/leopardi-la-natura-il-capitale-e-la-lotta-di-classe/ Wed, 15 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69556 di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che [...]]]> di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.
Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.
Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…

Pur facendo sua l’interpretazione poetico-romantica della Natura, in cui questa assume una posizione centrale nell’interpretazione simbolica del mondo e dei paesaggi interiori dell’individuo, Leopardi contribuisce a oggettivarne l’essenza reale in due tra le sue opere più significative: Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), tratto dalle Operette Morali, e La Ginestra o il fiore del deserto (1836), tratta dai Canti e composta nel corso dell’ultimo anno di vita del poeta.

Nella prima delle due opere, di fronte alle lamentele avanzate sulla condizione umana dall’infelice Islandese, che è fuggito dall’ambiente aspro in cui è nato soltanto per finire tra le braccia della stessa Natura nel cuore dell’Africa, ove si è rifugiato, la Natura risponde, senza batter ciglio:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E’ una risposta secca, priva di malevolenza, che indica esattamente la posizione che la “matrigna” ha riservato per la creatura anzi, meglio, per tutte le creature del cui destino non intende assolutamente farsi carico. Di cui, però, l’Islandese non si accontenta, poiché domanda ancora:

Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo?

Cui la Natura non può far altro che rispondere:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

L’indifferenza, la necessità della produzione e distruzione di ogni essere vivente e della materia stessa dominano la logica con cui il povero ed illuso Islandese deve fare i conti. Senza alcuna via d’uscita, come dimostra il finale dell’operetta.
Ancor più vasto è lo sguardo proposto nella Ginestra sulla condizione umana, ma in questo caso, poiché la visione leopardiana è maturata socialmente, all’interno della sua ultima poesia l’autore propone anche una possibile soluzione, senza chiedere alcunché alla matrigna.

Dopo aver descritto il paesaggio lunare e di rovina delle pendici del Vesuvio, su cui sorgevano un tempo le ville dei patrizi romani e pascolavano gli armenti, tutti e tutto spazzato via dall’eruzione del vulcano nel 79 d.C., l’autore dirige immediatamente i suoi strali contro le illusioni che gli uomini, e soprattutto i filosofi fiduciosi nel progresso del suo secolo, hanno contribuito a creare.

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Per poi proseguire, con lo stesso tono:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
[…] Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci dié. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

L’idealismo del secolo sembra voler cacciare, agli occhi di Leopardi, il materialismo degli antichi, riscoperto nell’età della ragione, dall’orizzonte politico-culturale dell’epoca e nel fare ciò illude se stesso e gli uomini tutti di essere in possesso di conoscenze e abilità destinate a far affermare la volontà del singolo sulla Natura e su tutti coloro che allo stesso non vogliono piegarsi.

Superbo e sciocco, sogna e promette la Libertà, ma in realtà vuole solo allontanare da sé la paura di essere scoperto nella sua viltà e debolezza, schernendo e ignorando coloro che si oppongono alle sue vacue ed irrealizzabili promesse.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor […]
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

In quest’ultima parte il poeta delinea quale deve essere il compito di una nobile natura, ovvero quello di rivelare le superbe fole-menzogne che impediscono agli uomini di riunirsi in social catena per ridare vita alla comunità umana, sempre in lotta per evitare di essere dispersa in nome dell’egoismo individuale e dalla propria fragile condizione, nascoste sotto un mare di parole inneggianti (inutilmente e falsamente) alla possibilità, per la miriade di individui in cui la comunità è stata dispersa e frantumata, di raggiungere una personale libertà dal bisogno e dal legame sociale.

Lo sforzo di oggettivazione della Natura e della condizione umana svolto da Leopardi, in antitesi al vano ottimismo borghese, è di portata rivoluzionaria. Qui, in questi versi e nei brani estratti prima dal Dialogo della Natura e di un Islandese, si rivela il vero motivo per cui il poeta è stato relegato, ormai da quasi duecento anni, al ruolo di pessimista, ingobbito dallo studio e quasi accecato dalle letture notturne a lume di candela.

In effetti, di fronte alla menzogna dell’ottimismo capitalistico e borghese, ogni forma di materialismo antico, illuministico o dialettico, appare come una forma di pessimismo o di pensiero negativo. E, in tal senso, la negazione leopardiana della cultura vacua del suo secolo è quanto di più simile alla negazione dell’esistente che sarebbe esplosa nelle lotte di classe di quegli anni e nel passaggio dal socialismo utopistico a quello di Marx ed Engels (anche se scrisse quasi tutte le sue opere prima che Marx avesse raggiunto la maggior età, mentre il Manifesto del Partito Comunista sarebbe stato scritto nel 1848, undici anni dopo la sua morte).

Per questo motivo il suo messaggio, indirizzato per forza di cose ai posteri, ha “dovuto” essere distorto, anche in grazia di una filosofia e cultura cattolicheggiante con cui il filosofo e poeta di Recanati si trovò già in aperta polemica mentre era in vita. Riscoprirlo, pertanto, non significa far opera di restauro di un monumento poetico del passato, ma ritrovare alcuni passaggi fondamentali della critica dell’esistente.

Traslare il discorso leopardiano da quello oggettivante la Natura a quello sul capitalismo odierno significa, infatti, acquisire coscienza del fatto che la fiducia che sembra accompagnare ogni discorso sulla possibilità di miglioramento generalizzato dell’attuale sistema di sfruttamento e accumulazione delle ricchezze private assomiglia sempre più alle promesse del cristianesimo (di vita eterna nell’aldilà) e del positivismo borghese (di crescita illimitata dei benefici effetti dello sviluppo). Promesse che come solo intento hanno quello di far perdere di vista l’essenza ultima e reale dell’attuale modo di produzione dominante.

Sì, perché il capitalismo non ha due facce, una buona e una cattiva.
Anzi, il suo vero volto non corrisponde affatto a uno dei due aggettivi usati.
Come la Natura, il Capitalismo è indifferente alle sorti dell’uomo e del pianeta che abita e che ha contribuito a trasformare. Indifferente non soltanto alle sorti di coloro che subiscono le sue angherie e il suo sfruttamento, ma anche a quelle di coloro che agli occhi dei più sembrano essere i veri profittatori del suo funzionamento: gli imprenditori, i finanzieri, i rentier, i politici e i governanti di ogni grado, risma e latitudine. Null’altro che funzioni, ancor più che funzionari, destinati ad essere travolti anch’essi alla prima crisi economica oppure a causa di una guerra perduta o di un errato calcolo personale e/o politico.

Crisi, guerre, epidemie non sono il frutto di calcoli strategici ben o male eseguiti, di raffinati progetti o di un Great Complotto. No, sono i terremoti, le eruzioni vulcaniche, il manifestarsi dei movimenti geologici e profondi dell’enorme tettonica a zolle costituita dalla corsa continua, ed inesorabile (per nessun altro modo di produzione il detto chi si ferma è perduto è stato così vero) al profitto e alla concentrazione proprietaria. Fin dalle sue origini.

Solo in tal senso e alla luce di ciò è possibile comprendere come per il capitale e i suoi funzionari ogni occasione possa essere buona per estrarre pluslavoro, plusvalore e rendita. Le cieche ruote dell’oriuolo, oggi affiancate da ancor più ciechi algoritmi decisionali e profilativi, girano in una sola direzione, scandendo implacabilmente il tempo di rotazione del capitale, della produzione e se necessario della distruzione di ciò che è già stato prodotto o accumulato (insieme ai suoi momentanei detentori) e ad ogni scatto di lancetta qualcosa può e deve avvenire.

Come affermano Carla Filosa, Gianfranco Pala e Francesco Schettino nella Premessa al loro recente Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione (Lad, 2021), la “realtà” del capitale è indissolubilmente legata

al perseguimento del fine “miserabile” e contraddittorio della produzione di plusvalore, quale unico fine di questo sistema. La involontarietà poi, quella che invece viene moralisticamente scambiata per crudeltà od anche brutalità, sta a significare qui la incapacità, non individuale ma proprio del sistema, a far emergere una responsabilità umana cioè razionale delle azioni impiantate, unicamente soggette invece alle leggi di sviluppo precipue della produzione di merce in quanto valore, e indipendentemente dal valore d’uso, che viene così a costituire uno scarto da non considerare. Ѐ chiaro che i comportamenti individuali degli operatori possano essere repellenti od anche riprovevoli, ma il problema non concerne i molti singoli resi subalterni, bensì la centralizzazione sempre crescente del comando sulla forza-lavoro e la classe che ne gestisce il pluslavoro, secondo modalità, ritmi, efficienza, comportamenti indotti, anche valutabili come criminali e disumani.
[…] Se dunque l’accumulazione decresce anche per la saturazione dei mercati esistenti, si deve intensificare lo sfruttamento sia delle risorse inorganiche sia di quelle animali e umane, tutte eguagliate nell’unica accezione di merce, cioè veicolo di valore. Per promuovere inoltre tali condizioni che svelerebbero i fini indicibili del sistema, questo deve ammantarsi di rappresentazioni ideologiche rassicuranti in cui si proclamano ed esaltano benefici per tutti, nascondendo i danni che da questi si producono, finché non appaia la contraddizione reale, imponderabile o magari anche messa in conto, ma che non dovrà mai intaccare – al momento – i profitti attesi che si appelleranno all’“emergenza”.

E’ soltanto la lotta di classe ad inceppare talvolta il meccanismo ad orologeria di cui nessuno ha però le chiavi ultime. E il ruolo dei rivoluzionari non potrà mai essere quello dei “buoni” che combattono contro i “cattivi”, ma quello di essere “altri” , portatori di un altro paradigma: Alieni che, dopo migliaia di avvistamenti e dopo essere stati toppo spesso negati, demonizzati o ridicolizzati, si manifesteranno con tutta la potenza di una negazione radicale destinata, più che a migliorarlo e renderlo più umano, ad oggettivarlo completamente nel suo essere, per comprenderne a fondo le leggi di funzionamento, il suo corso catastrofico, e accompagnarlo così, nella maniera più rapida possibile, alla sua inevitabile fine.

Un compito non tanto diverso da quello che Keplero, Galileo, Newton e Einstein, insieme ad una miriade di altri scienziati meno noti, si diedero nel cercare di comprendere le leggi di quella Natura e di quell’Universo con cui la specie deve fare i conti fin dall’alba del suo apparire sul pianeta, e che Marx ha continuato in ambito sociale, senza mai pretendere che ogni scoperta o intuizione potesse essere l’ultima e definitiva1.

Mentre ogni piagnisteo sparso sull’autoritarismo, la repressione e il mancato rispetto dei diritti “fondamentali” non fa altro che rinnovare la credibilità delle promesse del capitale e del suo funzionariato economico, politico e culturale: democrazia rappresentativa parlamentare, libertà, uguaglianza e universalità dei diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto alla vita e condanna della concorrenza “sleale” non costituiscono altro che specchietti per allodole. Anche se, poi, gli stessi creatori e manipolatori del meccanismo produttivo e riproduttivo hanno finito col credervi in prima persona.

«Finora – scriveva Marx in una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871- si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo».
Secol superbo e sciocco… oggi oltre tutto rafforzato dal dilagare dei social e del loro sconsiderato uso individuale.

Rincorrere l’emergenza-capitale equivale, soltanto e sempre, a riproporre all’infinito la promessa del miglioramento universale insito nel discorso capitalistico, continuando l’esperienza della socialdemocrazia, e del revisionismo in essa insito, che uno dei suoi principali teorici, il tedesco Eduard Bernstein (1850 – 1932), riassunse in un unico principio: «il movimento è tutto, il fine nulla», poiché l’importante era costituito, a suo avviso, dall’iniziare a riformare e migliorare poco a poco il sistema. Discorso che è continuato fino ad oggi, inficiando di sé, purtroppo, anche tanto “antagonismo riformistico” attuale. Di cui le attuali suggestioni sul tema no green pass costituiscono, oggi, l’aspetto più contraddittorio.

Per contribuire al superamento della prassi e della mentalità immediatista e riformista, è necessario ribadire che la futura rivoluzione dovrà basarsi su un radicale rifiuto del paradigma capitalista ed esprimerne in pieno la negazione. Tema che però, riapre la vecchia diatriba con tutti coloro che ritengono che la semplice negazione dell’esistente non basti e occorra invece proporre iniziative da realizzare subito. Ovvero ancora la riforma dell’esistente per contribuire a mantenerlo ancora in vita.

E’ difficile, per coloro che sentono la necessità di “fare qualcosa subito”, comprendere come la negazione sia già di per sé nucleo programmatico. Se nego, a titolo di esempio, la merce e il denaro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato già introduco, con il loro rovesciamento, il programma di una società altra. Se nego la necessità di continuare a cementificare e plastificare il mondo oppure quella di sviluppare ancor di più la produzione industriale di beni inutili e dannosi, pongo seriamente il tema della transizione ecologica e ambientale. Ma per realizzare tali programmi occorrerà passare attraverso un processo rivoluzionario che distrugga e non rovesci soltanto il paradigma capitalistico e i suoi apparati.

Certo ottenere qualche accordo locale, qualche diritto momentaneo (condito da qualche bella frase fatta) è più semplice. Così come ammantare i discorsi di contenuti politically correct o liberal; motivo per cui continua a trionfare, anche là dove meno lo si aspetterebbe, il conformismo, mentre sarebbe, invece, l’ora di affermare che «il movimento senza il fine non è nulla» e che separare l’azione politica dal fine non fa altro che indebolirla e annullarne l’utilità.

Certo, questa seconda ipotesi è più faticosa, meno immediata e meno soddisfacente sul piano dell’ego. Soprattutto, la negazione, obbliga a prendere atto che i settori che lottano non possono rivendicare soltanto per sé, come propri, i risultati acquisiti. E questa potrebbe nell’immediato rivelarsi un’amara sorpresa per coloro che rincorrono la faciloneria del risultato immediato.

Se gli uomini, come specie, devono riunirsi in social catena, non possono farlo in nome di uno specifico diritto, di classe, genere, generazionale, etnia o nazionalità. Banale errore in cui continuano a cadere tutti i rappresentanti di una singola causa, quasi sempre ritenuta universale, qualunque essa sia.

Errore fortemente rimarcato dal fallimento di tante (tutte?) rivoluzioni “nazionali” che, pur richiamandosi al socialismo sul modello sovietico-stalinista, non hanno fatto altro, in mancanza di un allargamento internazionale dei moti, che portare al potere una classe, un partito o una élite non tanto diversa da quella che governava in precedenza e che, come quella, ha finito col perseguire il proprio arricchimento o quello di una parte del capitale internazionale.

Insomma, se ho subito dei soprusi, violenze e discriminazioni oltre che lo sfruttamento economico e lavorativo da parte del sistema in cui vivo, non posso immaginare di ricreare un sistema a mia immagina e somiglianza che faccia poi pagare ad altri gli errori e i soprusi subiti in precedenza.

Per chiarirere ulteriormente il concetto: la classe operaia non dovrà riprodurre un mondo operaio, in cui le macchine e gli strumenti di produzione saranno esclusivamente nelle sue mani. Dovrà fracassare quel modello e quel sistema di produzione, per liberarsi e liberare la specie insieme a lei, negando, prima di tutto se stessa. Il proletariato nel suo insieme non potrà accontentarsi di riprodurre un mondo “proletario”, ma dovrà autodistruggersi, distruggendo il modo di produzione attuale, come affermano Marx ed Engels in un testo mai abbastanza apprezzato:

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, “nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione”, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da se stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile.2.

E’ importante, oggi come non mai, vista l’immensa ristrutturazione sociale in corso, legata all’impoverimento diffuso su scala globale, l’utilizzo del termine proletariato, perché al suo interno sono racchiuse e comprese tutte le contraddizioni reali; anche se il suo essere dovrà, per forza di cose, passare attraverso una riorganizzazione “politica” interna lunga e, probabilmente, dolorosa.

Infatti, ogni separazione identitaria mina, inevitabilmente, l’unità del colosso e se questa affermazione offenderà la sensibilità di alcuni o molti, pazienza, poiché nel suo essere proletariato lo stesso racchiude in sé tutte le forme dell’emarginazione, della repressione, dello sfruttamento e della discriminazione, che contribuiscono a trasformarlo nella classe universale destinata a seppellire il capitalismo, le sue malattie sociali e pandemiche, il suo Stato e i suoi infiniti ed iniqui apparati, in nome della Gemeinwesen o comunità umana.

La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l’impronta dell’individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto tale stadio da rendere necessario una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l’insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza (Marx).
L’egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante), una morale di tipo egoista, tracciata di quell’umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell’educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica3.

Individualismo dei diritti e delle libertà singole che è prodotto, oltre tutto, dal sistema mercantile che è proprio del modo di produzione e distribuzione capitalistico e che illude costantemente i singoli proponendo loro, e sempre più oggi per mezzo della rete e dei suoi giganti, oggetti del desiderio indirizzati al soddisfacimento illusorio di ogni loro “specifico bisogno”. Come scriveva già Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. […] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari.
[…] E’ così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto prodotta ad arte e di cui, pertanto, il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno4.

E’ dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza, è dall’estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali per problemi che personali non sono affatto. Ed è dall’individualismo di stampo liberale, e dalla sua rivendicazione di un’impossibile privacy nell’era della pervasività dei social, che sorge ogni ulteriore alienazione dalle attività e dalle necessità della specie; ogni ulteriore, illusoria e menzognera spiegazione delle contraddizioni dell’esistente. Perché, in fin dei conti, complottismo e riformismo non sono altro che le due facce di una medesima, fasulla medaglia, che racchiudono entrambe la speranza di cambiare qualcosa, magari soltanto a vantaggio di pochi, affinché nulla cambi.

Con tutto ciò non si vuol affermare che momenti in cui lotte specifiche non possano rendersi necessari e inevitabili, e nemmeno che da tali lotte non possano sorgere movimenti più ampi e vasti, ma soltanto ribadire che il senso ultimo della lotta di classe non può essere riconducibile a specifici diritti, ma soltanto a quello di tutti gli oppressi di farla finita, una volta per tutte, con un modo di produzione iniquo, dannoso e superato. In nome di una Gemeinwesen che non rappresenta altro che la capacità di tornare a riunire la maggioranza dell’umanità nella social catena tanto cara a Leopardi.

Così mentre certuni si attardano a cercar di cavalcare tematiche irrimediabilmente azzoppate, dissertando ancora di diritti costituzionali e libertà individuali, questo intervento è anche dedicato a tutti coloro che, vittime delle stragi sul lavoro o dei licenziamenti dovuti alla delocalizzazione produttiva messa in atto dalle aziende, vivono davvero, quotidianamente e sulla propria pelle, la lunga “notte del capitale”.


  1. Per Marx stesso le riflessioni contenute nel Capitale non dovevano costituire l’immagine definitiva della realtà, ma un modello per meglio comprenderla e contribuire al suo ribaltamento rivoluzionario  

  2. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  3. Amadeo Bordiga, La nostra missione, «L’Avanguardia» n. 273 del 2 febbraio 1913  

  4. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968, pp. 127-134  

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