Antonio Gramsci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Giù le mani da Antonio Gramsci https://www.carmillaonline.com/2024/08/11/giu-le-mani-da-antonio-gramsci/ Sun, 11 Aug 2024 21:55:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83871 di Francisco Soriano

In Italia negli ultimi mesi dopo la vittoria elettorale delle destre e, in parte, anche per quanto avvenuto da tempo in altri contesti geografici con un allargamento della sfera di influenza di un pensiero che si basa su modelli in prevalenza autoritari, assistiamo a un’importante operazione da parte delle nuove élite al governo di un infiltrante impossessamento di alcuni valori culturali tradizionalmente legati alla sfera di influenza politica della sinistra storica italiana. A questo processo articolato si aggiunge, quasi simmetricamente, e solo apparentemente in contraddizione, quello, con radici più profonde e lontane, che consiste nell’azione di depauperamento di [...]]]> di Francisco Soriano

In Italia negli ultimi mesi dopo la vittoria elettorale delle destre e, in parte, anche per quanto avvenuto da tempo in altri contesti geografici con un allargamento della sfera di influenza di un pensiero che si basa su modelli in prevalenza autoritari, assistiamo a un’importante operazione da parte delle nuove élite al governo di un infiltrante impossessamento di alcuni valori culturali tradizionalmente legati alla sfera di influenza politica della sinistra storica italiana. A questo processo articolato si aggiunge, quasi simmetricamente, e solo apparentemente in contraddizione, quello, con radici più profonde e lontane, che consiste nell’azione di depauperamento di ogni capacità propulsiva della sinistra italiana. Questa azione si è imposta non solo per l’affermazione delle destre in alcune congiunture elettorali avvenute negli anni del populismo berlusconiano, che ha eroso con capillare progettualità conquiste e valori fondanti la cultura e la coesione sociale, ma si è rafforzata anche per l’incapacità delle forze progressiste di opporsi allo sradicamento delle radici fondanti la democrazia del nostro Paese.

Le attenzioni oggi rivolte all’opera di Antonio Gramsci si sono concentrate sullo spazio e sulle modalità in cui egli operava come intellettuale, filosofo, uomo politico, critico letterario e pedagogo, soprattutto per essere stato il valore assoluto e un punto di riferimento ineludibile per la cultura e la dottrina politica internazionale. Per quanti hanno studiato e accolto la genialità delle intuizioni di questo straordinario intellettuale, infatti, la domanda ricorrente è sul perché le sue opere e i suoi contributi anche letterari non siano mai stati inseriti in programmazioni didattiche della scuola pubblica italiana in modo strutturale e organizzato. È il primo quesito che si potrebbe porre oggi a quanti vorrebbero appropriarsi del pensiero e dell’opera dell’intellettuale sardo in salsa destrorsa. Molti intellettuali che cercano di veicolare una linea culturale e politica della nuova destra italiana appartengono, tuttavia, a un’area ideologica che nelle diverse epoche storiche ha spesso ostracizzato e impedito che le idee di Gramsci potessero diffondersi copiosamente. La questione dell’egemonia culturale come struttura, azione politica sistemica e progetto pedagogico, elemento più di tutti caratterizzante l’ideologia gramsciana, riemerge oggi in una serie di azioni convergenti che consistono nella rilettura e nel tentativo di ripristino strumentale del pensiero di Gramsci verso le nuove esigenze di un potere per ideologia agli antipodi del filosofo sardo. I nuovi maîtres à penser della destra cercano strumenti e modalità per la costruzione di un’impalcatura ideologica forte e propulsiva per le politiche di un’intera area ideologica che non si libera, in Italia, dalle incrostazioni di un passato decisamente compromettente. Il tentativo tuttavia appare categorico e ben orchestrato, con una modalità di sostituzione-sovrapposizione dell’architettura ideologica gramsciana attraverso una sorta di restyling funzionale e strategico.

Come prova di questo sforzo si alternano articoli, dissertazioni, incontri, pubblicazioni che denotano una sublimazione del pensiero gramsciano pur da una prospettiva ideologica diametralmente opposta, nell’asserzione convinta dell’attualità delle sue idee, come ad esempio: Gramsci è vivo (Rizzoli 2024) di Alessandro Giuli, oppure Antonio Gramsci – L’egemonia culturale (Historica 2022) a cura di Francesco Giubilei. Per capire il punto della questione bisogna innanzitutto risalire e sottolineare il complesso storico subìto dalla cosiddetta destra sociale italiana, cioè il suo sentirsi subalterna in termini culturali alla mastodontica elaborazione filosofica, politica, sociale ed economica della sinistra italiana: elaborazione che ha prodotto complessità e differenze anche sostanziali, le quali hanno contribuito ad arricchire il quadro dello spazio in cui agivano le forze politiche. Il secondo punto cruciale è ricordare che egli fu il fautore incontrastato di una nuova teoria generale del marxismo, interpretandolo con meravigliosa creatività e incisività, senza abiurare a molti dei suoi aspetti fondanti e dotandolo di strumenti culturali strutturati attraverso un’opera di contaminazione proficua nell’aspirazione di costruire una società migliore.

La lettura delle dinamiche e delle contraddizioni sociali che Gramsci fornisce ancor oggi, non solo alla riflessione della sinistra italiana (seppur quest’ultima sia consapevole-colpevole di una svariata serie di fallimenti macroscopici), ci induce a ricordare che la lotta politica pensata dal filosofo deve espletarsi in uno spazio di diritti universalmente riconosciuti e non relativizzabili in nessuna regione del mondo, né in un tempo specificamente circoscritto. Ciò avviene, ad esempio, quando si tratta di diritti umani ed eguaglianza, due corollari spesso aggirati o relegati in un angolo dalla parte politica di chi oggi vorrebbe Antonio Gramsci sottoposto a revisione: punti irrinunciabili che però appaiono scomparsi totalmente dal vocabolario politico delle forze di governo e, purtroppo, anche di quelle all’opposizione.

Si afferma dunque in uno dei quotidiani che si è occupato qualche settimana fa della novità editoriale riguardante il libro su Antonio Gramsci di Alessandro Giuli, che esso rivisita il concetto di egemonia culturale dalla prospettiva della destra al potere in Italia. Dalla celebrazione della Costituzione italiana alla vocazione sociale delle arti; dalla critica alla cultura woke al superamento del sovranismo. Ma anche dal ritorno della politica come “fatica dello spirito”, alla ricerca di un nuovo umanesimo digitale e comunitario; dalla missione euro-mediterranea dell’Italia, alla costruzione di una narrativa dinamica dell’identità nazionale. È bene ricordare con forza che l’identità nazionale si è costruita non con la storia di una dittatura feroce e razzista in un Paese sempre orfano di un padre autoritario o di un uomo designato dal destino, ma con la costruzione di valori costituzionali democratici egualitari. Neppure è possibile risolvere retoricamente una fantomatica trasformazione della destra italiana con semplici affermazioni di buona volontà che alluderebbero alla morte del fascismo e del sovranismo: questi ultimi pericolosi aspetti ci appaiono oggi addirittura più che vivi e vegeti. La realtà invece vorrebbe che il cambiamento venisse espresso in forma intellettualmente onesta, comprovato nel quotidiano da azioni reali e incisive, come ad esempio la messa al bando una volta per tutte delle formazioni nazi-fasciste che imperversano liberamente contro le leggi dello Stato e, soprattutto, la cancellazione come atto etico e morale di una relazione e continuità storica con gli ideali del periodo storico più buio del Paese: una contiguità con quel passato ad oggi mai debellata. Inoltre il nostro esistere come entità-identità nazionale proviene da una storia tragica che appartiene alla lotta di affrancamento dal giogo dittatoriale per un’utopia di eguaglianza e libertà realizzata in parte nella nostra Costituzione, che si fonda sui principi della liberazione dal nazi-fascismo. La resistenza al riconoscimento di questo punto blocca il progresso collettivo della nazione e non consente una dialettica completamente democratica fra le parti opposte. Oggi la base sulla quale doveva poggiarsi il dialogo e il leale consenso al confronto su cui si sarebbe dovuta costruire la rinascita del nostro Paese appare in serio pericolo. Sia perché chi detiene il potere si affida ancora a logiche e retoriche vuote, sia perché non ha interrotto il filo rosso che lo lega alla fonte di un’idea del passato caratterizzato da chi ha perpetrato crimini liberticidi e razzismo contro gli ebrei, etnie ed oppositori politici nelle modalità più ripugnanti della nostra storia politica.

Per questi motivi la destra italiana non potrà mai assurgere a un’egemonia culturale in stile gramsciano se non mistificandone totalmente i contenuti. Anche il tentativo, in altri contesti critici, di far passare il pensiero gramsciano sull’egemonia culturale come la strutturazione di una dittatura inflessibile verso il dissenso non può essere così semplicisticamente accettato. Tutte le forze attive di una società pregna di volontà e vitalità immaginativa devono concorrere al suo miglioramento sulla base di una elaborazione culturale, politica, letteraria, filosofica, artistica ed economica che consenta la formazione strutturale di una identità, una forma, una sostanza, una idea di libertà protesa verso i valori di giustizia ed eguaglianza, una unicità che tenga insieme tutte le componenti sociali in una singola idea di società. L’elaborazione e lo studio del concetto di egemonia da parte di esponenti della destra italiana deve dunque porli in condizione di comprendere che il disegno di Gramsci, soprattutto pedagogico e politico, non può essere utile neppure in una ridefinizione teoricamente ben congegnata, perché la sua forma non può essere scissa dai contenuti diametralmente opposti a tutti quelli che hanno ereditato dalla loro storia.

Il cosiddetto predominio di un sistema di valori che è orientato in modo unilaterale viene giustificato in base al raggiungimento di un obiettivo utopico, che consiste nella visione di una società totalmente libera ed egualitaria sotto ogni punto di vista. La società immaginata da qualsiasi gruppo conservatore di destra non è invece mai orientata in una tensione utopica, ad esempio all’idea di una totale eguaglianza di diritti fra gli uomini, né è naturalmente diretta alla formazione di progetti che aspirino a una qualsivoglia forma di potere orizzontale. Il pragmatismo e il verticismo caotico della destra è molto più funzionale, attivo e realizzabile che nelle società improntate secondo un modello di organizzazione sociale collettivo e solidale, comunista, che nelle esperienze storiche ha fallito comunque l’obiettivo soprattutto per aver ceduto alle tentazioni del potere assoluto con l’intervento di fattori autoritari e repressivi.

I valori della destra sociale populista, in particolare, sono da sempre anche strategicamente e dolosamente confusi con quelli della difesa di una eguaglianza agognata dal proletariato, dal sottoproletariato, da vaste aree di popolazione ai margini delle società, vivendo nella realtà contraddizioni perenni: essi non hanno mai inteso proteggere né lontanamente salvare dal giogo dell’asservimento alla produzione capitalista le classi subalterne, che oggi hanno assunto forme e dinamiche socio-politiche ed economiche molto diverse dal passato. La destra ha valori e obiettivi ontologicamente opposti alla conformazione genetica del concetto di egemonia culturale così come fu strutturato da Antonio Gramsci. L’egemonia pensata dal filosofo sardo non era solo un metodo, un sistema, un ordine, un percorso, ma un contenuto progettuale in cui ogni individuo con il consenso della giusta causa forniva, secondo le proprie qualità, l’emersione e la condivisione del proprio contributo nella società in cui operava, in un quadro di collettivismo solidale. L’egemonia culturale di Gramsci non era quindi fenomeno elitario, ma strumento nelle mani di tutti seppur nel riconoscimento delle proprie funzioni e nelle condizioni in cui si agisce, non precludendo a nessuno il contributo per una società migliore: Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali (così, perché può capitare che ognuno in qualche momento si frigga due uova o si cucisca uno strappo della giacca, non si dirà che tutti sono cuochi e sarti). Gramsci asseriva in questo modo che tutti gli uomini sono intellettuali perché, anche se inconsapevolmente, contribuiscono a modificare la realtà in cui vivono secondo la concezione del mondo di cui sono portatori. Il punto nodale risiede nella consapevolezza, nel senso che solo pochi possiedono una coscienza critica. In questo solco Gramsci distingue e rilegge la teoria marxista della relazione fra struttura e sovrastruttura, in rapporto all’analisi della centralità della prassi umana. In questo senso se struttura e sovrastruttura hanno un collegamento indissolubile, quest’ultima deve essere analizzata con una sua dimensione specifica e non semplicemente come dominata dalla struttura economica. Entra in gioco il ruolo centrale della società civile come comprensiva di funzioni ed istituzioni complesse, come partiti, associazioni, giornali, ecc., e questa centralità non si può ridurre a qualcosa di deterministico o derivante completamente dalla struttura economica. In questo Gramsci rilegge il marxismo e non autorizza a una interpretazione autoritaria del suo concetto di egemonia culturale. Infatti, a differenza di quanto sostengono i critici del suo pensiero, egli ipotizza alleanze fra i diversi ceti sociali interessati a processi di trasformazione del capitalismo, elemento quest’ultimo molto diverso, tra l’altro, dal marxismo tradizionale.

Da questo postulato si comprende che l’egemonia culturale è un concetto nuovo e diverso dalla dittatura del proletariato, perché egemonia non è dominio e classe egemone non significa classe dominante. La classe egemone agisce secondo i tempi e le circostanze cercando autorevolezza in un sistema politico e sociale che preveda alleanze di forze sociali. Per questo il consenso come paradigma della gestione intellettuale e morale va ricercato anche all’interno di contesti politici differenti, tra quelli progressisti e disponibili alla costruzione del progetto comune. Questa modernità di approccio e di analisi non può avere nulla a che fare con la buona volontà di chi vorrebbe appropriarsi del suo ragionamento, perché non esistono punti di approdo per chi intravede forme autoritarie e non collettive della gestione del potere.

Se dunque si vuole costruire una nuova identità culturale con un metodo e una forma strutturati e armonici alle esigenze della contemporaneità, il sistema gramsciano rimane pienamente in vita e fortemente propulsivo, ma nella sua cornice e nella sua orbita di valori intangibili. Le parole e i termini egemonia, cultura, intellettuale organico, ecc., devono essere ben compresi nella loro profondità ontologica e nella funzione per essi immaginata: Intellettuale in senso specifico è colui che produce la consapevolezza critica e dà omogeneità a un gruppo sociale: sono gli agenti dell’egemonia, fanno da cerniera fra struttura e sovrastruttura.

La differenza macroscopica che rimane in vita ancora oggi fra destra e sinistra da un punto di vista teorico risiede nell’immaginazione, nella visione utopica, nella funzione pedagogica all’interno di una società, nel confronto senza flessioni sui diritti umani e di genere, nell’idea di un consenso su forme collettive e di condivisione del progetto di una identità che non sia mai prevaricazione ed esclusione. Gli interventi del governo di destra in Italia su aspetti fondanti la comunità che hanno riguardato la inderogabile questione della lingua, l’arte, la gestione dei beni culturali, il sentimento di appartenenza a modelli umanistici fondamentali sono stati approcciati con retorica, superficialità e ricerca di consensi elettorali. È l’utopia di una nuova società fondata sui contenuti della libertà e dell’eguaglianza che la riscatta e migliora.

 

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L’Italia ha ancora qualcosa da dire? https://www.carmillaonline.com/2023/01/26/litalia-ha-ancora-qualcosa-da-dire/ Thu, 26 Jan 2023 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75780 di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere [...]]]> di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere insieme, stretti alla Brigata Sinigaglia, ma non c’è neanche da festeggiare la sconfitta dei cecchini, i terroristi del gerarca Pavolini tirati giù dai tetti a fucilate. Anzi, solo a parlare di combattimento a mano armata si rischiano accuse di odio, perché adesso, fra gli ammennicoli di una società rigidamente classista, c’è un accessorio da psicopolizia: l’accusa di malanimo. Un po’ è nipote dei sospetti di stregoneria e malocchio, un po’ è figliastra di certi reati d’opinione evanescenti, quelli nel codice penale che porta la firma di Mussolini, e che la mano del nuovo quadro politico potrebbe persino peggiorare.

Il buon uso delle rovine, alla Franco Fortini, ha fatto poca scuola, e se si dovesse guardare a Firenze si avrebbe un bel campionario: la città vetrina, coi negozi tirati a spolvero, con le luci giuste e il diffusore di profumo, non è quella in Mara di Blasetti (ma da Vasco Pratolini), con Yves Montand, nel 1954. Nel senso che la devastazione, a Firenze come nelle altre città italiane, passa dagli occhi, dalle mani, dai cellulari, c’è chi la trova divertente e c’è chi l’ha trasformata in spettacolo senza intervallo, monolocale nei contenuti e tascabile nei terminali. È il trionfo di un affarismo estrattivo, a spese dell’ambiente naturale, umano, culturale. Persino a spese di qualcosa che si potrebbe chiamare anima, se il concetto non fosse stato prima abusato nelle sacrestie, ma adesso, con più furbizia, accaparrato dalla pubblicità dei prodotti per animali da compagnia.

Bolton King, nel suo Fascism in Italy del 1931, bollava Mussolini come «cattivo europeo» e denunciava: «Odia il “malsano internazionalismo” ed è stato amaro contro le “parole di pace, di umanità, di fratellanza tra i popoli”; accetta la Società delle Nazioni solo in quanto vi è obbligato». Le parentele di questo col sovranismo del XXI secolo sono carsiche e alterate da convitati di pietra: una massa di denaro europeo da spartire, uno sciame di investitori che si sposta secondo le convenienze, un ceto di mediatori che ci fa la cresta con le provvigioni. Di Fascism in Italy, libro asciutto e molto british, stampato clandestinamente da Giustizia e libertà, Lauro De Bosis gettò un po’ di copie, in volo su Roma, prima di inabissarsi nel Mar Tirreno col suo piccolo aeroplano. Oggi De Bosis sembrerebbe un Icaro in vestaglia, un esteta balordo con le paturnie, perché fra le cose che ci hanno rubato c’è il senso profondo di santità civile. È stato sostituito da una italica levitas immutabile, tornata su dai tempi dei cicisbei, degli abatini e delle accademie, come le blatte, inesorabilmente, tornano su dall’acquaio, a dispetto di tutti i disinfettanti.

Anche Cesare Zavattini aveva fiutato la trappola, aveva capito che ci sono molti modi per dire, e molti di più per mettere a tacere: «Per la verità la censura è come Proteo, si trasforma continuamente»; l’autore di Totò il buono vedeva lontano: «Insomma è un modo di vita, un modo di governo». Lo scriveva a proposito di cinema: censura attraverso i finanziamenti, i suggerimenti politici, i premi; ma vale per tutto. Le sue parole riemergono in la Pace. Scritti di lotta contro la guerra (La nave di Teseo, 2021), e il titolo è proprio così, comincia con la minuscola e poi s’ingrossa. Somiglia a lui. Me lo ricordo nel suo studio, coi fiaschi di vino sugli scaffali, insieme ai libri. Adesso il Proteo piglia la forma di una memoria ingessata, innocua, imprigionata in una pappa di chiacchiere, come certi insetti di milioni di anni fa, che non pungono più perché sono avvolti in una goccia d’ambra, mutati in gioielli. La memoria diventata soprammobile: un fermacarte chiamato memoria. Un accompagnamento indispensabile nelle case perbene, come quei fiori da niente in cui Raffaello Giolli vedeva il sunto atroce della sconfitta del Risorgimento, fin nel privato, nella prostituzione degli intellettuali: la conservazione era già riuscita a impadronirsi di ogni cosa; «ma non della storia, che è un’altra cosa. Tutt’al più, s’è detto, dei libri degli storici: ma anche questi non erano che oggetti deperibili, un illuso ornamento dell’ora, altri fiori di carta». Così scriveva, quel grande, prima di essere deportato a Mauthausen Gusen, da cui non avrebbe fatto ritorno.

In questo momento l’Italia non ha nulla da dire perché si parla nell’ombelico, perché non ha niente da dire agli altri, perché è un paese rattrappito.
Gli avvertimenti non erano mancati, e presto. Nell’Antologia della Resistenza, ideata nel 1950 a Torino, al congresso nazionale dei centri del libro popolare, c’è un’introduzione di Augusto Monti, che ci tiene a far sapere di averla scritta a Cavour:

Oggi, a cinque anni soli dalla Liberazione, in Italia c’è di nuovo il fascismo, nella Europa occidentale e centrale c’è di nuovo il nazifascismo, in America è spuntato e s’espande il fascismo. E si voleva, di nuovo, dare l’allarme: ricordare che il fascismo è come la gramigna, che finché non s’è fatto tutto per estirparla non s’è fatto niente; e un campo dove alligni anche una piccola radice di tale zizzania non può portar nulla di buono. Il fascismo è il fior del male. È il grido della civetta, segna la morte. È come la stella cometa che viene ad annunciare la guerra: oggi il fascismo, domani il peggio.

Ma nel 1950 l’unità del fronte antifascista era già quasi un ricordo. Tutti si sentivano più furbi di quell’arnese superato, troppo corto per una rivoluzione e troppo lungo per il quieto vivere, come l’abito smesso di un fratello a cui si rimproverano oscure colpe, per nascondere la propria inadeguatezza. Tutti avevano priorità urgenti, escatologie formidabili, promesse dell’avvenire, di qua o di là dalla morte. Qualcuno voleva imparare da Machiavelli i trucchi per giocare d’astuzia il papato, mentre il Vaticano si leccava ancora le labbra per il buon boccone concordatario, incassato nel 1929 ed entrato nella nuova Costituzione, nel 1947, a dispetto della Repubblica.

Le promesse al di qua della morte, prima della fine del secolo si sarebbero rivelate più facili da mettere alla berlina: sarebbe bastato prendere a picconate un muro. Le altre, si sa, si prestano meglio a differimenti controllati, a indulgenze, a compravendite di anime del Purgatorio, al «vi faremo sapere». Questo spiega perché la morte di un tedesco coi modi zuccherini dell’Omino di burro di Collodi, un bavarese che nel 1950 era un giovane chierico, ma che pochi anni prima aveva fatto parte della Hitlerjugend, della Wehrmacht e della Flak, combattendo per Hitler, nel 2023 attira folle a Roma, e si sente gridare «santo subito» come per il suo predecessore polacco, che lui stesso canonizzò a furor di popolino.

Il secolo breve che comincia a Sarajevo, finisce a Sarajevo, nota Eric Hobsbawm in The Present as History, uno scritto vertiginoso pubblicato come «Creighton Lecture», perciò rispettabile come una bombetta londinese. Le questioni nazionali si ripresentano, ombre col corpo, false perché hanno qualche verità fra parentesi. Le insiemistiche umane che le solidarietà di classe perdono di vista, tornano a braccetto delle sorellastre identitarie e viscerali, e finisce l’incantesimo: Cenerentola si ritrova nei cenci di serva, la carrozza d’oro torna a essere una misera zucca.
L’Italia, un po’, aveva provato a fare chiarezza, soprattutto quando era stata chiarezza di parte. Raffaello Ramat, nel melmoso clima badogliano dell’agosto 1943:

Di questo avvilimento generale una classe sopra tutte è responsabile: quella degli scrittori. Gli scrittori hanno il compito di educare. Non si venga fuori con l’autonomia dell’arte: quello è un altro discorso, e chi lo incominciasse ora, vorrebbe imbrogliare le carte. […] In ispecie agli scrittori dei giornali, si deve la situazione che si era stabilita in Italia, per cui ciascuno mentiva e chi l’ascoltava fingeva di crederlo in buona fede perché gli altri fingessero di crederlo in buona fede quando fosse arrivato il suo turno di mentire.

Si vede che non era stato ascoltato, molto tempo prima, Giuseppe Mazzini: «Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale con gli scritti poiché il politico non potete; scotete le menti, mutando il punto di mossa e la linea di direzione, scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari; ma sempre colla mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col cuore alla patria». Patria. Si ascolta male, questa parola, se a ripeterla adesso è un governo che vuole togliere ai poveri un misero sussidio, persino diversificare i diritti sociali secondo le regioni, chiamando l’inganno «autonomia differenziata». Si ascolta male, mentre ragazzini imberbi cadono sul lavoro, in omicidi chiamati «incidenti». Ma il senso del discorso era forte, in Mazzini: l’Italia e l’unificazione nazionale, o sono per l’umanità, o non sono. Pericoloso o inconfessabile?

Renzo Renzi, che era stato fascista, che si era chiarito le idee in guerra, e che nel 1953 finì in galera per il progetto di un film imbarazzante, L’armata s’agapò, mise in guardia: «Il fascismo era la patria. Com’era possibile rovesciare il fascismo senza rovesciare anche la patria, religiosa comunità degli italiani? (Simili giochetti sono di moda anche oggi da parte di chi si identifica con la patria, quindi esige il massimo rispetto)». Ma neanche negli anni Cinquanta, un partito si sarebbe cucito un nome sforbiciando le prime parole dell’inno nazionale.

Quando il progetto fu continentale, invece, patria si poté dire con altri sensi. Una fotografia, a Montefiorino. Due partigiane armate ne affiancano una terza, raggiante, che srotola da un pennone una bella bandiera. Guardi meglio, cerchi il punto alla Roland Barthes, e vedi che il pennone è un mattarello, la bandiera è una sfoglia di farina: forse serve per una grossa piadina, forse è la base per ritagliarci i tortellini. Una frugale abbondanza armata, una padronanza del proprio destino che sprizzano gioia. Allora, l’Italia ebbe qualcosa da dire, affidando l’orazione a una pagina appetitosa e a grosse biro d’acciaio, di quelle col manico e la cinghia a tracolla. Ma il volume era un’opera aperta, che sotto raspava la terra e intorno la sognava tutta quanta, come il trattore della famiglia Cervi, col mappamondo montato sopra il motore.

Antonio Gramsci, ricordando il primato italiano riconosciuto proprio da Mazzini, come da Gioberti, lo considera retorico ma salva la sostanza: c’è un cosmopolitismo italiano, non perché romano né perché cattolico, ma come produttore di civiltà: «La tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale o nell’intellettuale tradizionale». È il «popolo lavoratore», cosmopolita per vocazione storica, che non sfrutta ma coopera alla costruzione del mondo, perché «si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione». Di questo non c’è una migliore spiegazione, ma quel che conta è che Gramsci finisca per salvare un primato. Eppure, persino lo storico Cesare Balbo aveva messo in guardia dalla pretesa di imitare l’impero romano: «Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti», aveva scritto nel Sommario della storia d’Italia, lettura d’uso dell’Ottocento. E Benedetto Croce, in La storia come pensiero e come azione, ha buon gioco a chiarire che gli italiani non sono gli antichi romani, insomma a spiegare:

Un popolo nuovo col nostro male e col nostro bene, strettamente legato al mondo tutto del nostro momento storico, un popolo che si ricongiunge, ma solo idealmente, agli altri che vissero sulla medesima terra (medesima a un dipresso), quando compie nella vita civile cose grandi come le compierono quelli.

Una continuità in funzione del merito, ma non quello che nel 2023 dà il nome a un ministero. E poi: cose grandi, ma non si sa come. Tutto questo non ricorda il barone di Münchhausen e il suo gesto salvifico, quando si solleva da un fosso, lui e il cavallo, tirandosi per il codino? In ambito marxista, c’è un ruolo messianico della classe operaia, specialmente quella tedesca. Secondo Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, negli «Annali franco-tedeschi», il proletariato che è vittima dell’ingiustizia assoluta può riscattare l’uomo e tutta la società, e questa è l’emancipazione tedesca; l’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo, filosofia e proletariato possono realizzarsi ed emanciparsi solo insieme, «il giorno della resurrezione tedesca sarà annunziato dal canto del gallo francese». Negli stessi «Annali», però, ci sono i versi di Georg Herwegh, un poeta oggi trascurato:

Su un altare arroventato,
com’è l’uso dei tedeschi,
ci indoraste le catene
per non farle arrugginire.
Tirapiedi dei Borboni –
puah! che storia fastidiosa!
Quale mai, fra le nazioni
la Germania non tradi? […]
Testimone, quella morta
Repubblica italiana.

Un secolo dopo gli «Annali franco-tedeschi» il gallo francese, servo dell’aquila con la svastica, produrrà il mostro di Vichy agli ordini di Berlino. Ma contemporaneamente un altro poeta, stavolta italiano, Pier Paolo Pasolini, si sottrarrà alla divisa della Rsi, e in seguito darà il titolo al primo romanzo prendendolo proprio da Marx, da una lettera del 1843, negli stessi «Annali»:

Riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente.

Come si sia potuto, partendo da questo sogno e da questa liberazione, mettere sugli altari il diamat, materialismo dialettico in confezione staliniana, è un’opera al nero che può sorprendere chi non considera altre imbalsamazioni: partendo dalla presa della Bastiglia, si è arrivati a incoronare Napoleone e consorte, imperatore e imperatrice, direttamente in una cattedrale; partendo dal Discorso della montagna, si è arrivati allo Ior e ai patriarchi ortodossi che benedicono le armi russe e ucraine, magari litigando sul calendario del Natale.

Ha qualcosa da dire, chi fa e dice per gli altri. Per questo, l’Italia incapricciata d’un padrone, o al limite d’una padroncina, può tutt’al più borbottare.
L’ultima lettera dell’austriaco Rudolf Fischer alla figlia ce la consegna la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Malvezzi e Pirelli, con prefazione di Thomas Mann: «Credimi: chi vive solo per sé, chi solo per sé cerca la felicità, non vive bene e nemmeno felice. L’uomo ha bisogno di qualcosa che sia superiore alla cornice del proprio io, dico di più, che sia sopra al suo stesso io». Fischer è decapitato dai nazisti il 28 gennaio 1943.

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Razzismo: falsa coscienza della modernità occidentale https://www.carmillaonline.com/2020/09/11/razzismo-falsa-coscienza-della-modernita-occidentale/ Fri, 11 Sep 2020 20:30:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62718 di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle [...]]]> di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.

Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.

In altri termini, Burgio esprime il bisogno di un’azione di comprensione “teoretica” del razzismo, che possa fungere da cornice di conoscenza complessiva della sua storia, dalla sua genesi fino alla contemporaneità. Si tratta allora di cogliere le strutture fondanti di quella che Burgio definisce come una «insaziabile fame di discriminazione» (p. 15) che turba la civiltà e la società moderne dal Cinquecento ad oggi, da quando l’Occidente non riesce a «fare a meno di inventare “razze” inferiori e parti infette dei corpi sociali che meritano di essere isolate o amputate». (p. 15)

Una delle tesi portanti di tutto il discorso di Burgio è che tra modernità e razzismo vi siano, per dir così, consustanzialità e consequenzialità: il razzismo è una malattia congenita della modernità e della nostra civiltà. Pertanto, esso va inteso come un fenomeno storico, vale a dire storicamente determinato e la sua storicità coincide con la modernità occidentale. L’autore critica le interpretazioni “metastoriche” del razzismo, che leggendolo come un aspetto congenito della “natura” umana e considerandolo avulso dalla concreta e determinata cornice storica della sua genesi e del suo sviluppo, lo trasformano di fatto in un fenomeno “naturale” e pertanto in qualcosa non solo di inevitabile, ma, alla fine, anche di giustificabile. Lo stesso deve dirsi delle interpretazioni “teologiche”, che, ancora una volta in maniera astorica e “metafisica”, lo leggono come la realizzazione del male assoluto, precludendosi così la possibilità di comprenderlo per ciò che è: un fenomeno storico, prodotto della storia della civiltà umana, insomma un fatto di cultura, non di natura. In quanto fenomeno culturale, il razzismo – spiega Burgio – si configura invece come a) un’organica e specifica struttura discorsiva; b) basata su antropologie di tipo essenzialistico; c) nata tra Sette e Ottocento sullo sfondo dei processi di modernizzazione (definitiva affermazione degli Stati-Nazione, urbanesimo, colonialismo e adozione di politiche imperialistiche, sviluppo dell’economia manifatturiera capitalistica, divisione sociale ed internazionale del lavoro); d) con potenti capacità performative, cioè di produzione di comportamenti collettivi.

Dinanzi ai cambiamenti profondi e sconvolgenti dell’età moderna, l’uomo occidentale ha avvertito il bisogno di nuove granitiche certezze e la ha trovate nel razzismo e nella convinzione incrollabile della propria superiorità essenziale. Molti sono gli intellettuali e numerose sono le opere che hanno posto l’accento sul legame tra modernità e violenza e tra i più significativi Burgio annovera i francofortesi Adorno e Horkheimer con la Dialettica dell’Illuminismo e Zygmunt Bauman con Modernità e Olocausto. Le tesi e le argomentazioni dei due scritti sono troppo note perché occorra qui ripercorrerle, ma entrambe le analisi sono da Burgio giudicate inadeguate, in quanto unilaterali, perciò riduttive e deterministiche. Individuano un solo aspetto della modernità, quasi che fosse l’unica epoca storica ad avere l’esclusiva della violenza e non, al contrario, proprio quella che ha dato il contributo essenziale e decisivo all’elaborazione di principi quali il rispetto della dignità umana, il riconoscimento dei diritti, la ricerca della giustizia, la libertà dell’individuo, insomma proprio quei valori “moderni” che fungono da criteri su cui si fondano i giudizi negativi espressi dai francofortesi e da Bauman sulla “modernità”. La tesi avanzata da Burgio è, potremmo dire, uguale e contraria: uguale, per l’individuazione dello stretto legame che unisce modernità e razzismo (e quindi violenza); contraria, in quanto l’autore ritiene che il razzismo sia nato «proprio perché la modernità non si è mai conciliata con la violenza che la pervade, e che per questa ragione – perché fonte di irrisolti conflitti etici – esige giustificazioni» (pp. 21-22): il razzismo è esattamente questa giustificazione, che permette alla civiltà occidentale moderna di trovare una conciliazione tra il piano intellettuale e teorico dei valori e dei principi che è andata elaborando e quello materiale, concreto, delle forme di violenza, sfruttamento e ingiustizia che ha sprigionato a seguito dei propri processi di sviluppo e di affermazione mondiale. Il razzismo è il lato oscuro della modernizzazione, il prodotto, l’espressione e l’esplicitazione delle sue contraddizioni strutturali.

È sul piano dell’etica, quindi, che l’analisi teoretica dei fondamenti e delle condizioni di possibilità della ragione razzista avanzata da Burgio rintraccia il cuore del problema: il razzismo ha risolto il dilemma etico prodotto dalla natura critica, ossia contraddittoria, della modernità, dalla divergenza tra quanto teorizzato e quanto praticato, tra il piano strutturale dei processi materiali di sviluppo e riproduzione economica e sociale (che hanno causato disuguaglianza, violenza, sopraffazione e sfruttamento) e quello intellettuale e valoriale di una cultura che parallelamente andava codificando i principi di libertà dell’individuo, di uguaglianza tra gli uomini e di fraternità universale. Per reggere il peso di questa palese contraddizione serviva una giustificazione autoassolutoria, un’ideologia adatta allo scopo: il razzismo.

La modernità ha una natura critica (cioè vive di lacerazioni e contrasti) ed è all’interno della contraddizione della modernità che occorre rintracciare la genesi del razzismo. Tra il Cinquecento e il Settecento la cultura moderna ha elaborato e diffuso il principio della “libertà” dell’uomo, inteso come uno di quei diritti inalienabili che tali sono perché naturali, ossia posseduti da tutti gli uomini, propri della sua natura e che pertanto rendono tutti gli uomini uguali; “uguaglianza” che ha senso solo se declinata in termini universali ed estesa a tutti gli esseri umani. Uguaglianza e universalità – dice Burgio – sono «cardini dell’ethos moderno» (p. 23), non di epoche storiche precedenti, fondate su distinzioni e gerarchie sociali essenzialistiche e quindi inattaccabili poiché pensate come – per esempio – parte dell’ordine divino. Con l’Ottocento e il Novecento, poi, la diffusione degli ideali e dei sistemi politici democratici ha ulteriormente sviluppato questo processo. È nella collisione tra principi etici (universalistici ed egualitari) e processi materiali di sopraffazione e sfruttamento che si consuma la tragedia della modernità che ha prodotto il razzismo come soluzione ideologica e come razionalizzazione autoassolutoria.

È la cultura illuministica che fissa definitivamente il binomio «libertà-uguaglianza definito sullo sfondo universalistico, cosmopolitico, dell’universalità» – in sostanza i “principi dell’89” – come cardine della tavola dei valori della civiltà occidentale, ma, al tempo stesso, le modalità della realizzazione materiale del principio della libertà all’interno delle relazioni e dei processi economico-sociali concreti e le dinamiche dei rapporti economico-politici tra l’Occidente e il resto del mondo hanno palesemente contraddetto quella stessa tavola assiologica egualitaria. La libertà è andata realmente configurandosi in termini esclusivamente individuali, particolaristici e privati: essa è la libertà economica dell’individuo della società borghese e capitalistica, che non riesce a trovare un punto di convergenza con il principio dell’uguaglianza. Se la libertà borghese, a seguito delle dinamiche della sua attuazione capitalistica si manifesta come libertà di iniziativa privata, di appropriazione, di imposizione di sé e subordinazione dell’altro, allora essa ripudia ed esclude l’uguaglianza, perché produce disuguaglianze, rinnovate forme di sfruttamento e di esclusione, nuove gerarchie sociali e conseguenti pratiche di sfruttamento e violenza. Se lo slancio e il pieno sviluppo dell’economia capitalistica moderna, mercantile e manifatturiera, determinano sul piano internazionale la corsa imperialistica dell’Occidente alla conquista coloniale e allo sfruttamento di risorse e di popoli lontani, allora il valore universalistico della fraternità si riduce ad una nobile ed elegante parola svuotata di senso.

Sono gli sviluppi stessi del progresso e dell’affermazione dell’Occidente moderno, quindi, che lo conducono di fronte ad una lacerante contraddizione, tutta interna alla modernità stessa: la divergenza tra l’idealità dei valori e la concretezza dei processi materiali, economico-sociali. La libertà borghese si riduce ad essere una libertà formale e giuridica che si regge su nuove disuguaglianze ed ingiustizie, che essa stessa produce, nonostante fosse stata elaborata, sul piano ideale, per sovvertire le disuguaglianze e le ingiustizie feudali dell’antico regime. Si tratta di una contraddizione palese tra ideale e reale, tra valori diffusi e condivisi dal senso comune e comportamenti altrettanto correnti nelle relazioni sociali in genere; un conflitto che ingenera nell’uomo occidentale un disagio morale ed un equivoco etico che richiedono di essere risolti. La disuguaglianza e l’ingiustizia praticate de facto necessitano di una giustificazione de jure, che salvaguardi la tavola dei valori ideali. Il razzismo risponde perfettamente a questa necessità e il caso dello schiavismo coloniale (della tratta dei neri africani, ecc.) è quello più emblematico: trasformare i popoli conquistati o i neri africani deportati in “razze”, renderli diversi ed inferiori in base a teorie (pseudo)scientifiche comporta la loro espulsione dal terreno di applicazione del valore dell’uguaglianza, che può così essere idealmente ribadito e al contempo concretamente e palesemente tradito. Il razzismo, osserva pertanto Burgio, è un potentissimo dispositivo ideologico di giustificazione e di riconciliazione dell’Occidente moderno con se stesso. E per elaborare questo apparato ideologico, la cultura moderna si serve di un altro dei suoi pilastri fondamentali, cioè della razionalità scientifica, ricorrendo ai saperi e alle scienze della vita o inventando nuove discipline, come la craniologia o l’eugenetica e così facendo, attribuisce oggettività, attendibilità e rigore a politiche, metodi e pratiche di sfruttamento, di discriminazione e di violenza.

Insomma, il razzismo è un processo di “razionalizzazione”, intendendo il concetto nel suo significato psicanalitico: è un meccanismo inconscio di difesa che consente la giustificazione e quindi l’accettazione di comportamenti altrimenti psicologicamente traumatici, disturbanti o angoscianti. Tale fenomeno di razionalizzazione viene conseguito attraverso la stesura di una narrazione ideologica (le teorie della razza) che funge da “falsa coscienza” dell’Occidente.

Burgio di seguito si occupa della morfologia e della fenomenologia del razzismo, analizzandone le forme fondamentali e le particolari manifestazioni storiche. Una prima tipologia di razzismo, detta poligenetica e sorta principalmente nell’ambito delle relazioni commerciali coloniali con il Nuovo mondo, nega l’esistenza di un’unica specie umana, teorizzando la compresenza di una pluralità di esse, tra di loro incommensurabilmente differenti (e che pertanto dovrebbero evitare ogni tipo di ibridazione o meticciato). Tale forma poligenetica è detta anche (secondo la categorizzazione di Pierre-André Taguieff, a cui più volte Burgio si riferisce) “differenzialistica” e conosce la propria manifestazione storica paradigmatica nell’antisemitismo moderno pseudosceintifico, erede di quello religioso antico e medievale, che ha condotto allo sterminio nazista degli ebrei d’Europa, considerati non tanto e non solo una “razza” non ariana “inferiore” da schiavizzare (al pari di slavi e latini), ma propriamente una razza “diversa”, di fatto disumana, la cui distruzione non comporta quindi l’insorgenza di alcuna resistenza etica.

La seconda fondamentale forma di razzismo è detta monogenetica e gerarchica: essa non nega l’appartenenza all’unica specie umana delle differenti razze, ma le colloca in una rigida gerarchia antropologica che sentenzia l’inferiorità delle une e la superiorità (per intelligenza, sensibilità, capacità, ecc.) delle altre, che possono così sentirsi legittimate a discriminare, segregare, asservire, sfruttare e infine anche sterminare le razze inferiori. Nel linguaggio di Taguieff, si tratta del razzismo “inegualitario”, che conosce la propria manifestazione paradigmatica nello schiavismo coloniale e nella tratta dei neri.

Va per prima cosa sottolineato come, nonostante le differenze, i due modelli possano intrecciarsi e sovrapporsi e come, in secondo luogo, la logica e la sintassi del discorso razzista si articolino secondo le medesime strutture in entrambi i casi e che sostanzialmente uguali sono anche gli effetti, ovverosia la giustificazione teorica di atti e comportamenti crudeli, che dalla discriminazione procedono fino alla possibile eliminazione fisica del gruppo che subisce il processo di trasformazione in “razza”. In linea di principio il razzismo “inegualitario” tende soprattutto a giustificare il dominio e lo sfruttamento, mentre quello “differenzialista” teorizza e prepara il terreno per l’esclusione e lo sterminio. Ma – rileva efficacemente Burgio – «l’ebreo, il non-uomo, può anche servire egregiamente come schiavo» – prima di essere eliminato – e «il nero e il proletario, “schiavi naturali”, possono ben essere sfruttati sino allo sfinimento in quanto, in definitiva, non pienamente umani» (p. 53) perché inferiori.

Per quanto riguarda la struttura logica della narrazione razzista, Burgio individua i seguenti elementi essenziali: la stereotipizzazione olistica, essenzialistica, riduzionistica e fissistica del gruppo che viene definito “razza”. Qualsiasi discorso razzista si regge sulla creazione di uno “stereotipo” fatto di presunti tratti fisici e psichici propri ed esclusivi di quel gruppo, che risulta in tal modo delineato e circoscritto. Fondamentale è il vincolo psico-somatico (in questo senso “olistico”), stretto e necessario, che il razzismo pone tra gli aspetti esteriori del corpo e le attitudini intellettuali, spirituali e morali della persona, che forzatamente ne conseguono. I tratti che connotano una razza vengono ipostatizzati, in sostanza vengono intesi come “essenze” naturali e non più come caratteristiche storicamente determinate di un gruppo umano, vale a dire caratteri culturali. In quanto tali, le proprietà di una razza diventano eterne ed immutabili, permangono “fisse” ed immodificabili nel tempo, vincolando in modo totale ed assoluto l’individuo alla razza di appartenenza. Si tratta di un tratto deterministico e totalitario del razzismo in forza del quale il singolo uomo è “ridotto” ad identificarsi totalmente con il gruppo, perdendo ogni aspetto o tratto individuale e particolare e finendo per essere considerato identico ad ogni altro.

«Lungi dall’essere entità naturali» – riflette Burgio – «le “razze umane” sono il prodotto (artificiale, simbolico) di tale articolato dispositivo. Per ciò stesso […] deve considerarsi oggetto di razzismo (“razzizzato”) qualsiasi gruppo umano nei confronti del quale venga impiegato questo dispositivo». (p. 54)
In altre parole «è oggettivamente razzista ogni discorso che proietti su un qualunque gruppo umano stereotipi olistici, essenzialistici, riduzionistici e fissistici». (p. 53) Pertanto, a nostro parere opportunamente, Burgio sottolinea come le forme di discriminazione e violenza che possono e che devono essere riconosciute come declinazioni particolari del dispositivo razzista siano molto più numerose di quelle “classicamente” considerate tali in riferimento al passato storico o al presente, ma in quanto ricollegabili o eredi di quelle passate. Perché il razzismo, si è visto, è un sistema ideologico di giustificazione e razionalizzazione della violenza dinamico e adattabile a contesti e oggetti differenti, ai quali applica lo stesso dispositivo di procedure. E allora nel corso del Settecento, nel momento della ascesa e dell’affermazione della borghesia europea e del sistema di produzione capitalistico, il sistema logico del razzismo si è rivelato arma potente nelle mani della borghesia nel conflitto sociale che ha condotto alla “razzizzazione” della classe operaia. E medesima sorte è toccata alle donne, ai poveri e alle altre categorie di “asociali” e refrattari all’ordine vigente, ai “delinquenti nati” dell’antropologia criminale lombrosiana e così via.

Osserva Burgio che per un lungo periodo «le classi lavoratrici e le donne sono state escluse dalla cittadinanza e integrate nella popolazione in funzione subordinata. E il discorso razzista ha costituito una risorsa ideologica fondamentale nella gestione di questa dinamica. Per secoli e ancora nella prima metà del Novecento servi, lavoratori salariati e donne furono rappresentati come “razze” a sé stanti, afflitte da specifiche tare fisiche e da insormontabili limiti intellettivi, caratterizzate da odori particolari e dall’insopprimibile vocazione a trasgredire i valori morali della classe media. […] Nei confronti delle componenti più povere delle comunità civili europee fu impiegato lo stesso schema sperimentato tra Sette e Ottocento sugli schiavi “negri” delle colonie» (p. 105). La stessa sorte che oggi tocca a chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale, ai reietti delle nostre società di inizio XXI secolo, non più gli operai delle fabbriche, ma i migranti che si avvicinano alle porte dell’Occidente e i nuovi schiavi del capitalismo contemporaneo globalizzato.

Non è possibile in questa sede affrontare in maniera esaustiva la presentazione e il commento dell’intero contenuto del lavoro di Burgio, un libro rigoroso e profondo nell’analisi dell’argomento studiato e molto ricco ed articolato, per la capacità di affrontare i numerosissimi aspetti della storia del razzismo, come la complessa questione dell’antisemitismo, delle sue relazioni con l’antigiudaismo cristiano, che vengono esposte in modo puntuale ed incisivo, seppur necessariamente riassuntivo, nelle pagine centrali del libro, che si conclude con il sesto capitolo dedicato ad un aspetto dell’argomento di grande interesse e che più volte è stato da noi affrontato: il caso del razzismo italiano e della sua quasi totale rimozione dalla coscienza collettiva del nostro paese.

La riflessione di Burgio prende le mosse da una considerazione di Enzo Collotti, che nel suo libro del 2003 – Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza – avanzava l’ipotesi che gli italiani, nell’immediato secondo dopoguerra, avessero rimosso le leggi razziali del 1938 e l’antisemitismo fascista per l’incapacità di affrontare e di elaborare fino in fondo l’enorme responsabilità di quanto accaduto e che per queste ragioni la voce “disturbante” dei testimoni, dei sopravvissuti, fosse rimasta per lo più inascoltata. L’autore opportunamente rileva che se il ragionamento dello storico e tra i massimi studiosi italiani del nazismo può essere considerato valido e pertinente per gli anni di poco successivi alla tragedia della guerra, lo stesso non si può dire per le generazioni di italiani successive e per i nostri giorni, per i quali si rende necessario comprendere come, perché e con quali conseguenze sia stato elaborato il mito collettivo del “bravo italiano”, che mostra una capacità di resistenza nel tempo e di pervasività tali da essere diventato parte essenziale ed inamovibile della coscienza collettiva italiana.

Per ricostruire la genesi e lo sviluppo del processo che ha condotto all’elaborazione dell’inossidabile immagine dell’italiano per indole e natura buono e quindi mai razzista, Burgio risale al lavoro storiografico di De Felice, che già a partire dagli anni Sessanta del XX secolo poneva le fondamenta dell’interpretazione sostanzialmente assolutoria della politica razziale fascista, che presentava le leggi del ’38 come una dettatura di Berlino, recepita e subita da Roma al fine di consolidare l’alleanza italo-tedesca e che non avrebbero però mai trovato un terreno adatto in cui attecchire, essendo il popolo italiano non ostile verso gli ebrei e in generale immune, a differenza di altri popoli e paesi europei, dalla malattia del razzismo; estraneità tra il carattere italiano e le dottrine della razza che sarebbe stata corroborata dalla tradizione cattolica del paese e dall’operato della Chiesa. Si trattava – è facile comprenderlo – di una rappresentazione “riduzionistica” di una delle pagine peggiori della storia della dittatura italiana, che si prestava ad un utilizzo ideologico, teso a diffondere un’immagine bonaria del fascismo e di Mussolini e che consentiva agli italiani di deresponsabilizzarsi e di concepirsi come “buoni” ed incapaci di quegli orrori che venivano imputati completamente ai “cattivi tedeschi”.

Sulla scorta dei risultati a cui, da molti anni ormai, è giunta la storiografia italiana antidefeliciana, Burgio ricorda come le leggi razziali del 1938 abbiano avuto una genesi ed uno sviluppo autonomi ed indipendenti dalle leggi di Norimberga e che i loro presupposti siano da ricercarsi nella legislazione di discriminazione e segregazione razziale in Africa e nelle brutali politiche di polizia coloniale, attuate in Libia e in AOI sia prima sia dopo la guerra d’Etiopia. Come, ben lungi dall’essere per indole estraneo ad ogni forma di razzismo, il popolo italiano abbia recepito la propaganda e la politica razziali volute dal regime, salutando positivamente l’emanazione delle leggi del ’38 ed avvantaggiandosene a scapito dei connazionali ebrei e come, infine, il tutto sia potuto accadere anche grazie ad una robusta e lunga tradizione di antigiudaismo cattolico, teorizzato, predicato e praticato dalla Chiesa e da molti suoi organi ed influenti esponenti.

A questo si aggiunga che ben prima del fascismo la pianta venefica del razzismo aveva messo radici in Italia, già a fine Ottocento nell’Italia liberale che si lanciò nelle imprese coloniali in Africa orientale e poi a inizio Novecento in Libia e, prima ancora, anche l’”epopea” risorgimentale del processo di unificazione nazionale non può dirsi esente da evidenti tratti di razzismo, un razzismo tutto interno al paese e diretto nei confronti della sua metà meridionale.

Di grande interesse sono le considerazioni di Napoleone Colajanni, a fine Ottocento, e di Antonio Gramsci, trent’anni dopo, che mostrano come fosse ben chiaro nella mente di entrambi il funzionamento di quel dispositivo di razzizzazione di un gruppo umano, da Burgio descritto nelle pagine e nei capitoli del nostro libro. Per celare la natura “coloniale” del Risorgimento italiano nel Meridione e le vere responsabilità dell’arretratezza del Sud e della sua sottomissione al Nord, furono attuati, nei confronti dei meridionali in genere e delle plebi in particolare, i medesimi processi di codificazione di una “razza”, da considerare inferiore e perciò da sottomettere e sfruttare, già ampiamente praticati da tutto l’Occidente in Africa, nei confronti dei neri.

Negli ultimi anni dell’Ottocento il mondo scientifico italiano fu messo a rumore da una raffica di pubblicazioni di argomento antropologico che prospettavano una precisa interpretazione delle cause del forte divario economico che già separava il nord e il sud del paese. […] La tesi sostenuta da questi autori era chiara, non lasciava margini al dubbio. Il Meridione era arretrato perché i meridionali – i “sudici” – sono un’altra “razza”: renitenti al lavoro; indisciplinati e inadatti a cooperare; propensi a forme brutali di violenza e criminalità. E tali sono perché, come le donne e i selvaggi, prodotti di un arresto evolutivo. (p. 243)

Gramsci constatava che le stesse masse lavoratrici del Nord avevano fatto proprio tale punto di vista razzista e anziché comprendere le reali dinamiche dell’arretratezza del Meridione «il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico[…] non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica [A. Gramsci, Quaderni dal carcere]». (pp. 249-250)

Pertanto, conclude Burgio, «La storia del nostro paese tra il XIX e il XX secolo non si discostò in nulla di sostanziale da quella degli altri paesi europei, Germania compresa. Di questa storia il razzismo fu parte integrante e questa circostanza contribuisce a spiegare l’avvento del fascismo col suo carico di ferocia, di brutalità criminale e di atrocità». (p. 250)

Consideriamo questo bel libro di Alberto Burgio un lavoro fondamentale di uno dei più importanti studiosi italiani del razzismo; un volume prezioso, che merita di essere letto con attenzione da chi voglia avere del razzismo una conoscenza approfondita circa i fondamenti, i presupposti e le condizioni storiche determinate che lo hanno generato, che continuano a renderlo possibile e a conservarlo, purtroppo, in ottima salute. Un contributo, quindi, ad un lavoro di studio del razzismo che più che altrove sarebbe urgentemente necessario promuovere e soprattutto divulgare – affinché si estenda oltre l’ambito comunque ristretto degli addetti ai lavori – proprio in Italia; un passaggio indispensabile per uscire dalle pastoie di quell’approccio opportunisticamente riduzionistico che contraddistingue il modo distorto e falso con cui la coscienza collettiva italiana si rapporta col proprio passato prossimo.

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Estetiche inquiete. Tribù e bande giovanili catalane, messicane e transnazionali https://www.carmillaonline.com/2020/07/24/estetiche-inquiete-tribu-e-bande-giovanili-catalane-messicane-e-transnazionali/ Fri, 24 Jul 2020 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61319 di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a [...]]]> di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a pieni giri, il libro viene tradotto in italiano nei primi anni Ottanta incontrando una scena punk nazionale vitale e, almeno in alcuni suoi settori, attiva in ambito antagonista.

Nell’edizione edita da Meltemi nel 2017 tradotta da Pierluigi Tazzi e revisionata da Massimiliano Guareschi, scrive a tal proposito quest’ultimo nell’introduzione al volume:

In quel frangente, Sottocultura forniva preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza politica. Anche nell’autocomprensione delle stesse sottoculture, nonostante il rifiuto di principio che le componenti più oltranziste potevano opporre a qualsiasi sguardo esterno o alle oggettivazioni del sapere accademico, il libro svolse un ruolo non trascurabile.1

L’uscita del libro nei primi anni Ottanta ha rappresentato probabilmente anche una delle prime occasioni per gli studiosi italiani di familiarizzare con i cultural studies successivi alla

assunzione da parte di Stuart Hall della direzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il riorientamento della precedente vocazione prevalentemente storico-letteraria in direzione sia di una focalizzazione su tematiche quali la resistenza attraverso i rituali, la guerriglia semiotica messa in scena dai comportamenti giovanili, la risignificazione dal basso dei consumi, l’interazione fra pubblico e media aggirando le ipoteche delle letture unidirezionali in termini di meccanico travaso di contenuti dall’emittente al destinatario o di moralistica stigmatizzazione dell’abbrutimento delle masse nell’era del consumismo e della massificazione.2

Si può riconoscere al volume di Hebdige il merito di aver indotto in questo paese non solo gli ambienti accademici ma anche settori di quell’universo underground da lui chiamato in causa a guardare con occhi nuovi al mondo delle sottoculture giovanili e ad ampliare l’interesse verso gli studi sulle culture subalterne portati avanti da tempo da autori come Ernesto De Martino e, prima ancora, dallo stesso Antonio Gramsci.

A questi due ultimi studiosi, De Martino e Gramsci, è debitore, come ha modo di ribadire egli stesso nel volume, lo spagnolo Carles Feixa che, con il suo Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili (DeriveApprodi 2020), ha recentemente inaugurato Anomalie Urbane di DeriveApprodi, collana intenzionata a proporre tanto contributi originali che traduzioni e riedizioni di classici dedicati alle culture metropolitiane prendendone in esame, sia da un punto di vista teorico che empirico, linguaggi, spazi e condotte conflittuali.

Lontano dai pregiudizi e dalle etichettature di comodo della politica istituzionale e dei media, la collana, curata da Luca Benvenga, intende dunque affrontare le culture giovanili, siano esse sub o contro-culturali, nelle loro contraddizioni, nei loro splendori e nelle loro miserie. Ad essere indagati sono pertanto, tra gli altri, i processi di soggettivazione prodotti da tali realtà, il ricorso alla violenza e alla mascolinità come strumenti di affermazione del sé sociale, le modalità di convivenza cooperanti e solidali, le questioni etniche, di genere e di classe, la dimensione popolare degli sport nelle comunità…

Il volume di Feixa, docente di antropologia sociale presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, raccoglie cinque saggi sulle culture giovanili stesi negli ultimi decenni in cui vengono riportati i risultati di un’analisi sul campo relativa alle tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani del decennio successivo, alle bandas latinas della prima metà degli anni Duemila e alle bande transnazionali come “agenti di mediazione” tra Europa, Nordafrica e America.

Nell’impossibilità di prendere in rassegna tutta la casistica affrontata dal libro, in questo scritto ci si limiterà a tratteggiare le differenze principali tra due tipi di bande giovanili: le tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani degli anni Novanta.

Sin dalla sua prima immersione all’interno delle bande giovanili spagnole, lo studioso nota come alcuni interlocutori rispondessero a

identità etniche e di classe precedenti (i pijos, giovani della classe media, in genere studenti, ossessionati dal consumismo e dalla moda, si contrapponevano ai golfos, immigrati della periferia, generalmente disoccupati). Altre classificazioni riconducevano a modelli più universali: reminiscenze del passato (hippies), revivals (mods) e nuove creazioni subculturali (punk, posmodernos). Modelli provenienti da altri tempi e luoghi (la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta) e non introiettati in maniera passiva o puramente esteriore, si adattavano a nuove funzioni e bisogni e si mescolavano con le influenze autoctone (la cultura gitana e il nazionalismo catalano).3

Nelle sue prime indagini sul campo nella Spagna degli anni Ottanta, Feixa nota come curiosamente le tribù urbane tendono a essere indicate come fenomeno generazionale nonostante risultino composte da un esiguo numero di giovani e come siano lette come metafora della crisi, un sorta di rielaborazione simbolica del disincanto politico postfranchista, una risposta alla mancanza di lavoro e di futuro per i giovani.

Se in Spagna per i giovani della generazione del dopoguerra lo svago tende a ridursi, salvo qualche festa privata, alle passeggiate lungo la via principale della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta le nascenti sale da ballo offrono ai giovani un luogo alternativo in cui impiegare il tempo libero. È però con la morte di Franco, nel 1975, che la gioventù inizia davvero a ritagliarsi uno spazio proprio, regolato da leggi e valori altri, all’interno delle città.

La prima analisi proposta dallo studioso riguarda il formarsi delle tribù giovanili nella città catalana di Lleida ove, nel corso degli anni Ottanta, nella parte antica della città, nella cosiddetta “zona dei vini”, diversi vecchi bar a buon mercato, in cui è possibile ascoltare musica, vestire informalmente e fumare hashish liberamente, si trasformano in uno spazio giovanile frequentato dalle diverse tribù, ognuna connotata dal suo particolare stile. Quim, un interlocutore catalano diciottenne, così spiega la nascita e la diffusione delle bande giovanili: «Senza lavoro, le persone non sono state in grado di adattarsi alla società e hanno creato un gruppo per appartenere a un qualche tipo di società»4.

Il processo di massificazione, sostiene Feixa, ha poi indotto alcuni gruppi giovanili ad abbandonando la “zona dei vini” per differenziarsi. Ad esempio, i progres, studenti di sinistra con influenze controculturali, si spostano nei locali della zona bassa della città, ove si ascolta musica jazz, rock progressivo e cantautori catalani, mentre i pijos optano per la parte borghese della città, ove frequentano locali più costosi caratterizzati da un’estetica più commerciale, un abbigliamento firmato e musica da discoteca. In altre parti della città vengono ricavati da vecchi magazzini grandi locali, detti posmodernos, contraddistinti da un’estetica punk, rockers e musica hard rock. Successivamente, la stessa “zona dei vini” inizia a differenziare nettamente i locali per rispondere a comunità specifiche: hardcores, heavies, rockabillies, acratas, femministe ecc.

Con l’emergere delle tribù urbane, a Lleida si ha una settorializzazione degli spazi urbani dedicati allo svago giovanile. In molti casi, nota Feixa, non si tratta di gruppi con base territoriale, organizzati sul modello della banda; lo spazio di aggregazione tende a concentrarsi nel centro della città ed è lì che i gruppi si ritrovano indipendentemente dalla provenienza territoriale dei membri.

Ogni ragazzo può fare proprio uno stile in modo più o meno radicale, identificarsi in successione con stili diversi o adottarne solo parte degli ornamenti esteriori, o più semplicemente condividere l’amicizia con i componenti del gruppo. Di fatto, la tribù esiste esclusivamente come “mappa mentale” per consentire di orientarsi e interagire quotidianamente con gli altri giovani. I “travestimenti” di solito non vengono indossati a scuola o al lavoro, ma sono prerogativa specifica del fine settimana, quando ci si reca nella zona dei vini al sopraggiungere della sera.5

Nel corso del tempo si sono dati importanti cambiamenti in seno alle diverse tribù e ai loro stili, con non irrilevanti processi di inversione simbolica, come ad esempio l’appropriazione dello stile skinhead, tradizionalmente proprio di frange di proletariato ribelle, da parte di ragazzini di estrazione borghese, spesso di estrema destra e razzisti. Più in generale, sostiene lo studioso, «gli stili maggiormente connessi con la crisi e che hanno come protagonisti giovani operai (punks, heavies) hanno lasciato il posto ad altri stili che, sebbene di origine operaia, riconducono ad altre epoche (gli anni Sessanta) e sono ripresi dai giovani della classe media (mods, skinheads), facendosi interpreti di nuove metafore sociali (il consumismo, il razzismo)»6.

I chavos banda degli anni Novanta presenti in diverse città messicane sono invece composti da giovani disoccupati o attivi nell’economia sommersa dell’ambiente urbano-popolare, tendenzialmente stanziali nei rispettivi quartieri e appassionati di musica rock che si oppongono ai chavos fresa, giovani della classe media, spesso studenti, ossessionati dalla moda e dal consumismo che fanno delle discoteche il loro punt di ritrovo.
Sin dal principio degli anni Ottanta, lo stile chavos banda tende a divenire egemonico tra larghi strati di popolazione giovanile sia maschile che femminile permettendo alla marginalità di fare irruzione sulla scena urbana. Lo studioso, oltre a tratteggiare le esperienze storiche da cui sono derivati i chavos banda, ne indaga l’identità generazionale, etnica, di classe e di genere.

Confrontando i chavos banda messicani con le tribus urbanas spagnole, lo Feixa nota come, al di là degli elementi affini, mentre i primi si sono trasformati in un’esperienza di massa duratura nell’ambiente urbano-popolare, nel secondo caso si è trattato di un fenomeno decisamente minoritario e legato a una particolare congiuntura.

Mentre la banda è una struttura collettiva sufficientemente stabile, con capi e rituali costanti che abbraccia gran parte della vita quotidiana e del percorso di vitale dei chavos, le tribù urbane tendono a essere raggruppamenti instabili, solo occasionalmente di massa, discontinui, i cui membri di rado si lasciano coinvolgere totalmente. Mentre i chavos banda si localizzano prevalentemente nelle periferie delle grandi città e conservano vincoli profondi con il territorio (la cui difesa è il motivo di conflitti endemici con altre bande ugualmente territoriali), le tribù urbane hanno mantenuto come scenario soprattutto il centro urbano, con conflitti episodici e determinati prevalentemente da divergenze di stile o rivalità calcistiche, piuttosto che appartenenze territoriali.7

Mentre i chavos ostentano la loro identità di gruppo sempre e ovunque, l’esibizione dell’appartenenza alle bande urbane è assai più circoscritta, inoltre se i primi tendono a rifarsi a circuiti economici informali o autogestiti, i secondi restano sostanzialmente all’interno del circuito di mercato tradizionale. Le stesse risposte del potere nei confronti delle due esperienze sono differenti: decisamente di stampo repressivo nel caso messicano, più tollerante nel caso catalano.

L’identificazione con questi stili è un processo simbolico, tuttavia l’appropriazione produce in ogni luogo manifestazioni culturali completamente diverse, e ciò confuta le teorie che vedono nella cultura dei giovani un processo di omologazione su scala planetaria. L’esperienza dimostra che i ragazzi provenienti da contesti subalterni, sia nelle zone periferiche che in quelle centrali, possono essere emarginati ma non necessariamente marginali. Attraverso l’identificazione con un modello, l’emarginazione da stigma passa a essere un emblema. Emblema che crea una comunicazione col mondo esterno, che offre un linguaggio universale e quindi mette in crisi l’idea tradizionale della cultura della povertà come un’entità chiusa.8

Per quanto riguarda le altre esperienze analizzate da Feixa, relativamente alle bandas latinas barcellonesi della prima metà degli anni Duemila, lo studioso si propone di mostrare come, al di là egli stereotipi di comodo politico-mediatici, esistano differenti modalità di identificazione dei giovani di identità latina con le bande. Nel volume vengono analizzati anche alcuni fenomeni socio-culturali che in ambito catalano si contraddistinguono per la presenza tanto di una dimensione locale che una globale, mentre un saggio rimanda al progetto TRANSGANG – Transnational Gangs as Agents of Mediation: Experiences of Conflict Resolution in Street Youth Organizations in Southern Europe, North Africa and the Americas – che anziché concentrarsi sui fallimenti e sull’esclusione sociale, si occupa dei casi in cui le bande giovanili sono state protagoniste di percorsi di inclusione sociale. Si tratta di un progetto che, focalizzato sulle esperienze di mediazione delle bande giovanili di due comunità transnazionali (latinoamericane e arabe) in tre ambiti geo-culturali (Europa Merdionale, Africa Settentrionale e le Americhe), mira a favorire politiche maggiormente inclusive in cui i protagonisti esercitano un ruolo attivo di primo piano.


  1. D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano 2017, p. 12. Sul volume si veda: G. Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, Il Pickwick, 18 ottobre 2017. 

  2. Ivi, p. 13. 

  3. C. Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 9. 

  4. Ivi, p. 7. 

  5. Ivi, p. .12. 

  6. Ivi, p. 12. 

  7. Ivi, p. 21. 

  8. Ivi. pp. 22-23. 

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Sport e dintorni – Calcio e letteratura in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/sport-e-dintorni-calcio-e-letteratura-in-italia/ Thu, 13 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48612 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, romanzi, racconti e poesie, biografie e autobiografie, saggi di varia natura dedicati al calcio.
Grazie ad una minuziosa e rigorosa ricerca – a partire dalla raccolta di una vastissima gamma di documenti, padroneggiati con notevole competenza – Giuntini riesce pienamente nell’intento di fornire una mappatura ragionata delle relazioni tra dimensione letteraria e fenomeno calcistico che si inserisce nella storia socio-culturale del calcio italiano ovvero della disciplina sportiva che più di ogni altra cattura quotidianamente l’attenzione di milioni di persone.
Oltre a fornire molteplici spunti interpretativi, il saggio si segnala per la qualità della scrittura e per il solido impianto storico di un percorso che si snoda da fine Ottocento ai giorni nostri.

Il volume si apre con un capitolo sui primi manuali e regolamenti, mutuati principalmente dall’Inghilterra, che contribuiscono ad uniformare una pratica calcistica ancora disomogenea e con regole confuse. Nel contempo il football debutta sulle pagine della pubblicistica sportiva nella quale si distinguono testate come “La Gazzetta dello Sport” e il “Guerin Sportivo”. Inizialmente marginale rispetto ad altre discipline, il calcio conquista progressivamente uno spazio nei periodici, mentre nascono le prime riviste specializzate e fogli espressione di alcuni club calcistici.
Il panorama giornalistico si arricchisce anche grazie a due voci critiche: il “Corriere dello Sport Libero” – organo della Unione Libera Italiana del Calcio, sorta nel 1917 in alternativa alla FIGC con l’intento di diffondere il calcio tra le classi popolari – e “Sport e proletariato”, settimanale legato all’area socialista massimalista uscito nel 1923 e subito soppresso dal fascismo.
Giuntini segnala inoltre un episodio poco noto accaduto nel clima del “biennio rosso”. Nell’ottobre del 1920 le maestranze del “Guerin sportivo” occupano per alcuni giorni la sede torinese della rivista e danno alle stampe un’edizione autogestita nella quale denunciano l’autoritarismo del direttore e si propongono di dare al periodico un orientamento di classe. L’evento – unico nella storia della stampa sportiva italiana – si inscrive nel superamento dell’originario “antisportismo” socialista, in un contesto che vede la nascita di un associazionismo sportivo di classe promosso a Milano dai “terzinternazionalisti” vicini a Giacinto Menotti Serrati e a Torino dal gruppo de “L’Ordine Nuovo”. In questo quadro Giuntini dedica alcune pagine alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo.

Una parte rilevante della ricerca riguarda il periodo fascista, sul versante giornalistico e letterario.
Giuntini si sofferma inizialmente sul ruolo di Lando Ferretti e Leandro Arpinati – due personalità di primo piano del fascismo nonché dirigenti dello sport nazionale – nel dare impulso alla carta stampata sportiva e inquadrarla secondo le direttive del regime per la costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Durante il fascismo il giornalismo sportivo cresce dal punto di vista quantitativo con una moltiplicazione delle testate, sempre più “calcistizzate”, e la copertura degli eventi sportivi da parte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio e cinema). Tra i giornalisti che contribuiscono alla trasformazione della scrittura sportiva Giuntini indica in particolare due direttori de “La Gazzetta dello Sport”: Emilio Colombo, a cui si deve la nascita dello “sport epico”, e Bruno Roghi che fa scuola con il suo stile retorico ed enfatico e con il ricorso a metafore di matrice bellica funzionali all’esaltazione dei successi agonistici della nazione “guerriera e sportiva”.

La ricostruzione di Giuntini spazia poi da Massimo Bontempelli, lo scrittore che esalta il «vitalismo tipicamente fascista insito nella modernità dello sport», alle prove di scrittura sportiva di Alessandro Pavolini, uno dei principali «gerarchi-letterati del “calcio e moschetto”», da La prima antologia degli scrittori sportivi (1934) che comprende tra l’altro le Cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, alla narrativa sul calcio nella quale si distingue Novantesimo minuto (1932) di Francesco Ciampitti, «il primo autentico romanzo calcistico italiano», capace di uscire dai canoni dominanti del romanzo sportivo fascista. Nel corso del Ventennio questo genere conosce una notevole fortuna – esemplificata ad esempio da La squadra di stoppa (1941) di Emilio De Martino, un best-seller della letteratura italiana per l’infanzia – anche grazie alle vittorie internazionali conseguite dagli “azzurri” di Vittorio Pozzo e all’attenzione del fascismo per il calcio.

Negli anni della dittatura non mancano posizioni critiche nei confronti dello sport di regime. Antonino Pino Ballotta in Tifo sportivo e i suoi effetti sottolinea «l’esasperata sportivizzazione promossa dal fascismo»; Cesare Zavattini smitizza «la tronfia retorica staraciana dello sport in “camicia nera”» attraverso alcune pagine del suo I poveri sono matti; su “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli denuncia il fanatismo sportivo alimentato dalla dittatura e Carlo Levi interviene con una serie di articoli che rappresentano «un autentico J’accuse nei confronti della politica sportiva fascista».

Venendo al dopoguerra, il saggio analizza il ritrovato interesse per il calcio da parte di scrittori e poeti che se ne erano allontanati, disgustati dalla strumentalizzazione fascista dello sport.
Mentre Italo Calvino scrive di sport su “l’Unità” e Alfonso Gatto e Vasco Pratolini celebrano con i loro scritti «il rito domenicale della partita», «la unica vera “religione laica” degli italiani del secondo dopoguerra», negli anni Cinquanta Gianni Brera – il “Gadda spiegato al popolo” secondo Umberto Eco – si afferma come protagonista di una lunga stagione del giornalismo e della letteratura sportiva. Giuntini analizza puntualmente i passaggi che portano Brera verso la costruzione di un linguaggio straordinariamente originale. La sua scrittura «affabulatoria, gigionesca e straripante» è frutto di «un esercizio di inventività “parolibera” infinito, in un codice linguistico “onomaturgico” impregnato di metafore e neologismi entrati nel parlato comune»: da “centrocampista” a “goleador”, da “incornare” a “libero”, da “melina” a “palla-gol”, da “pretattica” a “rifinitura”, da “Bonimba” (Roberto Bonisegna) al “Barone” (Franco Causio).

In pieno “miracolo economico” esce un importante romanzo di Salvatore Bruno (L’allenatore, 1963), mentre lo juventino Mario Soldati e l’interista Vittorio Sereni fanno filtrare in alcune opere la loro passione per il calcio. Un amore che traspare anche nella narrativa di Luciano Bianciardi chiamato nei primi anni Settanta, alle soglie della morte, da Gianni Brera a collaborare al “Guerin Sportivo” e di Oreste Del Buono, incarnazione dello “scrittore-tifoso” che trova nel tifo una fonte di ispirazione per un capitolo del suo romanzo I peggiori anni della nostra vita (1971).
Tra i grandi intellettuali italiani è poi Pier Paolo Pasolini – tifoso del Bologna, appassionato praticante e attento osservatore del calcio – a scrivere pagine preziose sullo sport e in particolare sul pallone spingendosi fino a tentare una lettura semiologica del fenomeno calcistico con i suoi “elzeviristi”» (Gianni Rivera e Sandro Mazzola) e i suoi poeti e prosatori “realisti” (Giacomo Bulgarelli e Gigi Riva).

Di sport scrive anche Giovanni Arpino cimentandosi in un’attività giornalistica che lo porta tra l’altro a seguire per “La Stampa” diverse edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio. Sarà l’ingloriosa eliminazione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 ad ispirare il suo Azzurro tenebra (1977) – secondo Giuntini «il più importante romanzo, tra il reportage e il pamphlet, di questo scorcio di anni» – nel quale si esprime «una forte requisitoria contro la decadenza materiale e umana del football italiano».
Una denuncia che è al centro di Calci e sputi e colpi di testa (1978) di Paolo Sollier, militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia operaia, uno dei calciatori più “politicamente scorretti” nella ridotta schiera degli “irregolari” del calcio, tra i quali si possono annoverare il calciatore-poeta Enzo Vendrame e Carlo Petrini con i suoi libri, pubblicati vent’anni dopo, su un football sempre più ossessionato da una ricerca esasperata del risultato e condizionato dal doping, dalle scommesse clandestine e dalle partite truccate.

Tra gli anni Ottanta e Novanta un profluvio di titoli e un impoverimento linguistico segnano «la mediatizzazione selvaggia vissuta dal calcio sempre più malato di “biscardismo” e di quel gigantismo sfrenato inaugurato con gli sprechi di “Italia ‘90” e proseguito con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e l’invasione delle pay-tv di Rupert Murdoch». L’antidoto al “biscardismo” è affidato alla penna di autori che tentano l’impresa «quasi folle e utopica di frenarne, con una buona letteratura, la grave decadenza umana e morale».
Ecco allora Dov’è la vittoria? Cronaca e cronache dei Mondiali di Spagna (1982) del dantista Vittorio Sermonti che avverte precocemente gli effetti nefasti della deriva biscardiana e qualche anno dopo, ai tempi del mondiale italiano degli affari e delle speculazioni e della craxiana “Milano da bere”, Il calciatore di Marco Weiss, un romanzo di formazione a sfondo calcistico, e Finale di partita, raccolta di scritti alla quale partecipano autori del calibro di Dario Bellezza, Gianni Celati, Franco Fortini, Cesare Garboli, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Antonio Tabucchi e molti altri.

Tra i tanti autori e titoli citati e commentati da Giuntini nel capitolo sulla scrittura come risposta culturale al “biscardismo” e sulle tendenze più recenti della letteratura a tema calcistico, spiccano per valore letterario e impegno civile La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli, una storia del calcio in versi; alcune poesie di Loi, Giudici, Sanguineti e Roversi; Manlio Cancogni sulle tracce dell’”eretico” Zeman con il suo Il Mister, che Giuntini valuta come uno dei tre romanzi da ricordare nella storia della letteratura italiana sul calcio insieme a Novantesimo Minuto di Ciampitti e Azzurro tenebra di Arpino; Il portiere e lo straniero di Daniele Santi, un’opera tra storia e romanzo intorno alla figura dell’intellettuale-portiere Albert Camus; La farfalla granata, il libro di Nando Dalla Chiesa su Gigi Meroni. E ancora Edmondo Berselli che in Il più mancino dei tiri propone attraverso il calcio una rivisitazione politica, sociale e di costume dell’Italia e delle sue contraddizioni irrisolte, i romanzi sul calcio e i sentimenti di Roberto Perrone, Rembò di Davide Enia, Addio al calcio di Magrelli, Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo, la produzione sportivo-letteraria di Darwin Pastorin e le esperienze di scrittura sul calcio al femminile.

Oltre ad offrire una panoramica sulla ripresa degli studi storici sul calcio e sulle opere sociologiche e letterarie dedicate al tifo ultrà, in chiusura del volume Giuntini dedica due capitoli ad una sintetica rassegna sul calcio nel cinema e nel teatro, suggerendo altri spunti di riflessione e indicazioni per ulteriori approfondimenti.
Utile è anche la bibliografia posta in appendice al volume, mentre è discutibile la scelta editoriale di non avvalersi di un apparato di note, uno strumento che sarebbe stato prezioso per i lettori interessati a risalire puntualmente dalle numerose citazioni alle loro fonti. Un limite che comunque non inficia il notevole valore di una ricerca che rappresenta uno dei più importanti contributi recenti agli studi storici sullo sport.

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Sport e dintorni – L’oppio dei popoli. Sport e sinistre in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/11/07/sport-e-dintorni-loppio-dei-popoli-sport-e-sinistre-in-italia/ Tue, 06 Nov 2018 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49442 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Aracne editore, Canterano (RM), 2018, pp. 316,  € 20,00

Secondo un luogo comune consolidato, la storia della sinistra italiana sarebbe segnata da una sostanziale sottovalutazione del fenomeno sportivo: nei partiti come in altre organizzazioni del movimento operaio, tra i dirigenti, i militanti e gli intellettuali, l’approccio allo sport risulterebbe esclusivamente viziato da pregiudizi e chiusure, incomprensioni e giudizi sommari (lo sport come espressione di valori e interessi “borghesi”, mero fenomeno di evasione, “oppio dei popoli”). La ricerca di Sergio [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Aracne editore, Canterano (RM), 2018, pp. 316,  € 20,00

Secondo un luogo comune consolidato, la storia della sinistra italiana sarebbe segnata da una sostanziale sottovalutazione del fenomeno sportivo: nei partiti come in altre organizzazioni del movimento operaio, tra i dirigenti, i militanti e gli intellettuali, l’approccio allo sport risulterebbe esclusivamente viziato da pregiudizi e chiusure, incomprensioni e giudizi sommari (lo sport come espressione di valori e interessi “borghesi”, mero fenomeno di evasione, “oppio dei popoli”).
La ricerca di Sergio Giuntini, uno dei più importanti storici italiani dello sport, mostra invece come le diverse anime della sinistra abbiano espresso valutazioni articolate, in un arco di posizioni che oscillano con diverse sfumature tra la diffidenza o l’aperta ostilità nei confronti del fenomeno sportivo e la piena consapevolezza della sua rilevanza politica e sociale. Avvalendosi di una ricca documentazione e suggerendo molteplici spunti interpretativi, l’autore ricostruisce una vicenda complessa che rappresenta una pagina cruciale della storia dello sport nel suo intreccio con le dinamiche della società italiana tra fine Ottocento e l’ultimo scorcio del Novecento.

Dopo alcune considerazioni sull’interesse per lo sport dei “padri” del movimento comunista (Marx, Engels e Lenin), la prima parte del volume si concentra sul rapporto tra sinistra e sport in Italia fino al primo quarto del Novecento, in un quadro internazionale che vede la nascita dell’Internazionale Sportiva Socialista (1913) e dell’Internazionale Sportiva Rossa (1920).
Giuntini dà conto puntualmente tanto del dibattito teorico quanto delle pratiche politico-organizzative della sinistra in ambito sportivo, analizza il pensiero sullo sport di figure di primo piano del movimento operaio (da Alfredo Bertesi a Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati), si sofferma sulle capitali dello sport di classe (Milano e Torino) e su alcuni casi locali particolarmente significativi.

Il racconto si snoda dall’associazionismo di matrice risorgimentale allo sviluppo della ginnastica promosso dalle Società di mutuo soccorso a fine Ottocento e si concentra poi sul movimento dei “ciclisti rossi” che si diffonde in alcuni centri del Nord Italia. Nel primo Novecento, quando la bicicletta inizia ad affermarsi come strumento di libertà e di emancipazione sociale, i “ciclisti rossi” utilizzano questo mezzo a fini propagandistici e agiscono come reparti di “staffetta” e di autodifesa in occasione degli scioperi dando vita ad un fenomeno che verrà ripreso dalle “Guardie rosse volanti”, a fianco degli Arditi del popolo nel tentativo di contrastare la violenza fascista. Questa tradizione si rinnoverà dopo l’8 settembre del 1943 diventando parte integrante della Resistenza che utilizzerà la bicicletta come mezzo per trasportare documenti e stampa clandestina, mantenere i collegamenti tra i gruppi partigiani e coordinare scioperi e agitazioni.

Gli approcci allo sport della sinistra prima della Grande Guerra sono però segnati anche da una tendenza “antisportista”. In una parte del movimento socialista è diffusa la convinzione che lo sport rappresenti una pratica borghese, un diversivo rispetto alla lotta di classe, un’attività caratterizzata da aspetti alienanti e competitivi propri del capitalismo. Emblematica in questo senso è la posizione della Federazione Giovanile Socialista. Giuntini ricostruisce il dibattito tra i giovani del PSI che, influenzati dalle correnti massimaliste, manifestano un atteggiamento di rigido rifiuto dello sport, riconducibile alla «mancanza d’una accettabile elaborazione specifica»: «Il socialismo italiano del primo Novecento si fermava agli aspetti più eclatanti e degenerativi dello sport di matrice borghese senza enuclearne gli elementi che ne garantivano il successo. Allo stesso modo, non si curava di razionalizzare i motivi che spingevano le masse a riconoscersi in un tale sistema. Da qui l’apparente incompatibilità tra l’essere buoni socialisti e contemporaneamente praticanti o appassionati sportivi».
All’“antisportismo” fanno da contraltare le posizioni di autorevoli dirigenti socialisti della corrente riformista come Ivanoe Bonomi. Sulle pagine dell’“Avanti!” Bonomi richiama severamente i giovani della FGS invitandoli a riconoscere la passione sportiva che coinvolge anche ampie fasce del proletariato e a farsi carico quindi di un discorso politico sullo sport.

Nel saggio vengono poi tratteggiate alcune significative esperienze che maturano dopo la guerra, come l’attività dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica, la più importante società sportiva espressa dalla sinistra italiana nella prima parte del Novecento. Giuntini si sofferma sul “biennio rosso” dello sport, che coinvolge anche l’area “terzinternazionalista” del movimento socialista e il Partito comunista d’Italia, affrontando diverse questioni: dalle considerazioni di Giacinto Menotti Serrati sul valore della dimensione sportiva come strumento di educazione collettiva e di emancipazione umana alle indicazioni della stampa comunista sul lavoro politico da svolgere tra gli sportivi, dai tentativi di creare una Federazione sportiva autonoma del movimento operaio alla nascita della rivista “Sport e proletariato”, subito soffocata dal fascismo.

In questo scenario alcune pagine sono dedicate alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo; ormai divenuto un fenomeno di massa, per l’intellettuale sardo lo sport «andava pertanto studiato come una parte peculiare del processo di “riforma morale intellettuale” necessario alla rinascita italiana». Gli scritti di Gramsci sullo sport iniziano su “l’Avanti!” e proseguono attraverso le note elaborate in carcere negli anni Trenta quando a sinistra si levano altre voci critiche come quelle di Aldo Garosci, Carlo Roselli e Carlo Levi che su “Giustizia e Libertà” denunciano la strumentalizzazione fascista dello sport.

Dopo la Liberazione la sinistra dà vita a varie forme di promozione sportiva grazie all’iniziativa dell’ANPI, della CGIL e soprattutto del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile che aveva dato un significativo contributo alla Resistenza. Nei primi anni del dopoguerra il Fronte aggrega giovani di diversa estrazione politica, prevalentemente di sinistra, promuove un’intensa attività in ambito culturale e sociale e si impegna anche sul terreno dello sport, costituendo società sportive e partecipando a numerose competizioni. Con lo scioglimento del Fronte, a partire dal 1948 è l’Unione Italiana Sport Popolare a rappresentare i valori della sinistra nello spazio dello sport italiano. Tra questi, anzitutto il diritto allo sport e una concezione del fenomeno sportivo come pratica popolare di massa volta a realizzare momenti di partecipazione democratica e a fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale.

Nel frattempo la sinistra si muove con scarsa lungimiranza in due importanti occasioni sottolineate da Giuntini. Nel 1946 il Fronte della Gioventù rifiuta la proposta avanzata dal CLN di acquistare ad un prezzo conveniente “La Gazzetta dello sport”, rinunciando alla possibilità di controllare il più importante organo di informazione sportiva italiano. Nello stesso anno Pietro Nenni sostiene la candidatura di Giulio Onesti alla presidenza del CONI. Accreditato di vaghe simpatie socialiste, con una rapida giravolta Onesti si libera dai vincoli di partito legandosi a Giulio Andreotti, riporta la più importante istituzione sportiva nell’alveo governativo e mette in pratica un programma riassunto così da Giuntini: «Da un lato Onesti sanciva il principio e il diritto alla continuità tra sport fascista e sport post-fascista e, con un frettoloso colpo di spugna, assolveva i gerarchi sportivi fascisti e gli riapriva le porte del CONI e delle federazioni. […] Dall’altro lanciava il suo slogan più classico e sempre ribadito: “lo sport agli sportivi”. Rivendicava l’autonomia che aveva strappato ai partiti, fondando così il suo modello di sport che si proponeva di riprendere e rivitalizzare l’antico “neutralismo” decoubertiniano. Cioè lo sport come un mondo a parte, puro e incontaminato, lontano dalle brutture e dalle strumentalizzazioni della politica».

Giuntini ricostruisce inoltre le tensioni politico-ideologiche che attraversano i primi Giri d’Italia del dopoguerra e le simpatie del popolo di sinistra per il “laico” Coppi contrapposto al “democristiano” Bartali; la vittoria del campione toscano nel Tour de France del 1948, rimasta impressa nell’immaginario collettivo come un’impresa capace di pacificare l’Italia dopo l’attentato a Togliatti; la funzione della programmazione sportiva nelle Feste dell’Unità e il rinnovato interesse per lo sport della stampa comunista, nella quale spiccano i contributi di intellettuali come Italo Calvino e Alfonso Gatto e l’esaltazione dello sport dei paesi socialisti inteso come «modello sportivo sovietico collettivista e di massa contrapposto a quello individualistico e professionistico tipico degli stati capitalisti».
L’atteggiamento del Pci nei confronti dello sport si richiama alla lezione di Togliatti che negli anni Trenta aveva invitato il Partito a superare il ritardo del movimento socialista sul piano delle attività culturali, educative e ricreative di massa, compreso lo sport. Nel dopoguerra lo sport si incardina quindi nel modello del “Partito nuovo” togliattiano e nella sua filosofia volta ad aderire a tutti gli aspetti della società civile e a considerare anche la dimensione sportiva come parte integrante della nuova cultura di massa, terreno di contesa rispetto alle ipoteche reazionarie e alle strutture dell’associazionismo cattolico.

Nei decenni successivi la sinistra sportiva si identifica principalmente con l’UISP. Al percorso dell’associazione collaterale alla sinistra, e in particolare al Partito comunista, il saggio dedica ampio spazio seguendone la traiettoria a partire dagli anni Cinquanta, quando l’UISP è costretta sulla difensiva in un quadro segnato del clima della “guerra fredda” e dall’egemonia democristiana sullo sport. L’“opposizione sportiva” dell’organizzazione si attenua in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Rinunciando ad un atteggiamento critico, l’UISP si spende per la buona riuscita dei Giochi e per garantire un clima di pace sociale, in nome dell’interesse dello sport nazionale e in funzione di una propria legittimazione come forza “responsabile”. Gli anni Sessanta vedono poi un riposizionamento dell’organizzazione, l’elaborazione di nuove proposte politico-sportive e la maturazione di un profilo relativamente autonomo rispetto ai partiti di riferimento.
All’interno dell’associazione si rafforza e radicalizza una visione dello sport come servizio sociale, sottratto alle degenerazioni del professionismo, alla ricerca esasperata della prestazione e alla riduzione del fenomeno sportivo a spettacolo. Su questa lunghezza d’onda avviene l’intreccio tra l’UISP e i movimenti e le teorie critiche che nel ’68 e lungo gli anni Settanta animano anche il mondo dello sport.

Negli anni ’80 del craxismo e della DC di De Mita il Partito socialista e la Democrazia cristiana si lanciano «in una forsennata corsa a tutte le poltrone di governo e sottogoverno disponibili», comprese quelle sportive: «Di fatto la logica dello “scambio politico” applicata a quest’ultimo ambito viaggiava su un doppio binario: la notorietà maturata attraverso gli stadi da campioni, dirigenti, presidenti di club, veniva utilizzata per improbabili candidature regionali, senatoriali, ministeriali ecc. e, per converso, il potere derivante da un’alta responsabilità politica, favoriva l’ascesa di uomini di “Palazzo” verso le strutture direttive del sistema sportivo nazionale».
I mondiali di calcio di Italia ’90, segnati dall’affarismo e dallo sperpero di denaro pubblico, rappresentano poi un punto di svolta che accelera il declino e la fine della prima Repubblica. Come nota Giuntini, «da lì in poi la politica delle “grandi opere” e dei “grandi eventi” passò di scandalo in scandalo, di tangente in tangente, da un appalto truccato all’altro. S’ingigantì un affarismo senza fondo e scrupoli».
A sinistra questa deriva di Italia ’90 vede l’opposizione dell’UISP ed è al centro di un dossier su “Rinascita” dedicato ad una discussione critica sui mondiali. Nel contempo con la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra la principale formazione della sinistra italiana vive una fase drammatica della sua storia che si riverbera sulla dimensione sportiva. Dopo la “svolta” della Bolognina anche l’UISP decide di mutare la propria denominazione abbandonando la storica formula dello “sport popolare” a favore di un più generico e politicamente asettico “sport per tutti”.

Tra disincanto e speranza, “pessimismo della ragione” e “ottimismo della volontà”, nelle conclusioni del suo saggio Giuntini accenna alle più recenti vicende della sinistra – segnate da abiure e perdita di identità, frammentazioni e assunzioni di paradigmi politici estranei ai valori storici del movimento operaio – e ai suoi riflessi in ambito sportivo. Mantenere viva la memoria storica della sinistra anche nel campo dello sport, conclude giustamente l’autore, «non rilancerà la malandata sinistra italiana ma almeno impedirà che si disperda un ulteriore pezzo del suo patrimonio ideale e politico».


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Il dottor Sócrates. Il tacco che la palla chiese a Dio… col vizio del bere e del pugno alzato https://www.carmillaonline.com/2018/07/06/il-dottor-socrates-il-tacco-che-la-palla-chiese-a-dio-col-vizio-del-bere-e-del-pugno-alzato/ Thu, 05 Jul 2018 22:02:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46897 di Gioacchino Toni

Andrew Downie, Il Dottor Socrates. Calciatore, filosofo, leggenda, Le Milieu, Milano, 2018, pp. 319, € 19,90

«Questo libro è un micidiale colpo al cuore: alla nostra nostalgia, alle nostre illusioni. No, non può essere esistito un campione e un uomo come il dottor Sócrates. Downie è il nuovo Platone, un Platone del pallone. E ci racconta, dalla nascita alla morte (nel giorno dell’agognato scudetto al Corinthians), dai primi gol alle delusioni (come quel pomeriggio, triste solitario y final, del 5 luglio 1982 al “Sarrià” di Barcellona: 3-2 per l’Italia del [...]]]> di Gioacchino Toni

Andrew Downie, Il Dottor Socrates. Calciatore, filosofo, leggenda, Le Milieu, Milano, 2018, pp. 319, € 19,90

«Questo libro è un micidiale colpo al cuore: alla nostra nostalgia, alle nostre illusioni. No, non può essere esistito un campione e un uomo come il dottor Sócrates. Downie è il nuovo Platone, un Platone del pallone. E ci racconta, dalla nascita alla morte (nel giorno dell’agognato scudetto al Corinthians), dai primi gol alle delusioni (come quel pomeriggio, triste solitario y final, del 5 luglio 1982 al “Sarrià” di Barcellona: 3-2 per l’Italia del rinato Pablito Rossi, “la morte della bellezza” per i brasiliani), dalla laurea al sogno, realizzato, della Democrazia in una nazione, dal 1964 al 1984, ferita e offesa da una vergognosa dittatura, quel calciatore (quasi) per caso, uno dei protagonisti più limpidi del Novecento brasileiro» (Darwin Pastorin)

Con queste parole Darwin Pastorin introduce il libro che Andrew Downie dedica al “nostro” Sócrates, quello che ha saputo entrare nella leggenda di un popolo che, debordando i confini brasiliani, ha finito col comprendere tutti coloro che anche davanti ad una partita di calcio sanno riconoscere le caratteristiche del ribelle e del sognatore che si muove praticando l’obiettivo della libertà.

Aggrappati alle gabbie arrugginite costruite per preservare, pateticamente, i sacri luoghi dello sport dalla marmaglia che occupa gli spalti della vita di tutti i giorni o davanti agli schermi di una tv, che tutto sommato svolgono la medesima funzione, in tanti hanno riconosciuto in quel magrone sgraziato e barbuto qualcosa in più di un grande calciatore. In tanti hanno visto in lui, continua Pastorin, «la voce alta e vigorosa di un popolo che chiede, anche ai campioni di calcio, di lottare per un bene collettivo, di scendere in campo non solo per la vittoria, ma per le conquiste di chi desidera uscire dal cono d’ombra, per farsi definitivamente luce e libertà, per diventare artefice e non succube del proprio destino» (pp. 7-8).

Chissà, in quest’epoca di calcio da play station, quanti, tra i più giovani, hanno sentito parlare della Democracia Corinthiana. E chissà quanti, tra i più attempati, se ne ricordano ancora dopo che si sono bevuti il cervello a suon di applausi registrati e di sensi di colpa per aver osato sognare in grande.

Il libro di Downie si apre raccontando del Brasile sceso in campo ai mondiali spagnoli del 1982, raccontando di quella seleção capace di esprimere una bellezza di gioco che si è impressa nell’immaginario collettivo degli appassionati di calcio di tutto il mondo. Era la squadra di Zico, Toninho Cerezo, Leandro, Júnior, Serginho e di Sócrates. Era il mondiale in cui questa generazione d’oro brasiliana ha visto interrompersi, inaspettatamente, allo Stadio di Sarrià, contro l’Italia, un cammino che sembrava tracciato e che sarebbe dovuto culminare con l’alzata al cielo del trofeo. Ma il calcio può essere spietato. «Abbiamo perso con l’Italia, abbiamo perso con la fottuta Italia del cazzo», ha ripetuto più volte Paulo Isidoro quel giorno raggiungendo lo spogliatoio. Zico ha parlato di morte del calcio. Secondo Sócrates la seleção «non avrebbe mai più offerto uno spettacolo così scintillante».

«Tuttavia, quella sconfitta non si trasformò in una sorta di alfa e omega per un uomo la cui esistenza andò ben oltre il calcio. Anche quando il Brasile si stava preparando per affrontare l’Italia nell’incontro più importante della sua vita, Sócrates pensava a battaglie più grandi. Aveva già dato vita a quella che sarebbe diventata la Democrazia Corinthiana, la più audace dimostrazione di potere dei calciatori in una squadra di alto livello. I calciatori del Corinthians stavano prendendo il controllo del club ed esigevano di avere voce in capitolo nella sua gestione. Sócrates chiedeva libertà, e non solo per sé. Voleva che tutto il Brasile facesse lo stesso, destituendo la dittatura militare e riappropriandosi del paese. Aveva forza e personalità, e una nazione di centotrenta milioni di persone che osservava ogni sua mossa. Un sogno si era spento in Spagna. Ma non si sarebbe lasciato sfuggire così facilmente anche l’altro: la democrazia» (p. 18).

Sócrates, pur con tutte le sue contraddizioni, è sempre stato diverso. «In un paese dove il melodramma viene sbandierato rumorosamente ad ogni angolo di strada, sugli schermi televisivi e in ogni rapporto umano, Sócrates era l’esatto opposto dei suoi emotivi compatrioti» (p. 19). Non capiva quell’esagerato attaccamento al calcio; per quanto divertente era pur sempre un gioco. «Quando le persone mi chiedono qual è stato il periodo più glorioso che ho vissuto nel calcio, rispondo: “Fanculo, la gloria per me sono stati gli inizi con il Raio de Ouro”, perché viaggiavo sul retro di un camion insieme a un mucchio di ragazzi tutti diversi tra loro […] Ciascuno aveva una vita diversa e bisogni diversi. Cazzo, io a pranzo avevo mangiato, e alcuni di loro no, e stavamo andando a giocare a calcio! È stata un’esperienza che mi ha insegnato cose che a scuola non avevo mai imparato; cose che nessuno a casa mi aveva mai raccontato. Perché mio padre aveva dovuto passare tutto questo. Solo col tempo ho scoperto tutte le difficoltà che ha dovuto superare. Non ha mai voluto che noi lo sapessimo» (p. 24).

Sedicenne Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, entrò a far parte delle giovanili del Botafogo ma se il calcio lo divertiva, il suo vero sogno era quello di diventare medico, tanto da riuscire a strappare alla società la possibilità di saltare qualche allenamento settimanale al fine di seguire una scuola serale che lo preparava al test di ingresso all’università. Trovava semplicemente ridicolo correre intorno al campo o saltellare sul posto; lui voleva soltanto avere il pallone tra i piedi. Una certa libertà rispetto agli allenamenti riuscì a mantenerla anche quando il giovane calciatore, nel 1973, riuscì a firmare un contratto col Botafogo che gli garantiva un, seppur misero, salario.

Passato velocemente dalle giovanili alla prima squadra, Sócrates si accorse di avere una condizione atletica nettamente inferiore rispetto agli avversari e, a suo dire, fu proprio questo deficit a spingerlo a inventarsi movenze e giocate alternative. «Il colpo di tacco divenne il suo marchio di fabbrica e lo identificò come uno dei calciatori più originali ed eccitanti della sua epoca. I tifosi ruggivano di piacere davanti a quelli che sembravano tocchi di ostentazione gratuita, sebbene raramente lo fossero. Era un calciatore pragmatico che si serviva di quel gesto per un fine, non per attirare attenzione. Zico diceva che questo lo rendeva un enigma per i difensori avversari, che non sapevano come comportarsi. Pelé ironizzò sul fatto che fosse più bravo lui voltato di schiena che la maggior parte degli altri giocatori di fronte alla porta» (p. 37). Poi sarà la volta del passaggio al Corinthians, squadra in cui esordì nella partita d’apertura del Campeonato Paulista davanti a più di centomila spettatori e, nel 1979, della prima convocazione in nazionale.

All’epoca la gran parte dei tifosi di calcio era di provenienza popolare e molti di loro non si interessavano alla politica, come d’altra parte gli stessi calciatori. Le cose cambiarono dopo il 1979 quando, «sulla scia dei primi scioperi di massa contro il regime organizzati dai metalmeccanici di San Paolo […], la politica fece la sua comparsa sugli spalti» (p. 82). Dopo la revoca di uno dei decreti più duri dei militari alcuni tifosi del Corinthians presero coraggio e nel corso di una partita esposero uno striscione che chiedeva un’amnistia generalizzata.

«Sócrates non intellettualizzava il calcio. In realtà, non ne parlava nemmeno più di tanto. Riteneva che dovesse essere giocato o guardato, ma che non dovesse essere oggetto di dibattiti. […] In compenso parlava di tutto il resto. La sua immagine pubblica, specie dopo le prime pagine conquistate per il suo attivismo politico e sociale, era quella di un uomo serio con la voce roca, che dispensava con noncuranza parole sagge su argomenti seri. Ma con chi passava del tempo con lui, con la famiglia, gli amici, gli intervistatori, con quelli che ne ascoltarono conversazioni e presentazioni dopo il suo ritiro, era tutt’altro che serioso. Anzi, era spassoso e autoironico, e ogni scusa era buona per prendere in giro, che fossero gli altri o se stesso» (p. 117).

Durante le interviste, dopo aver risposto brevemente alle domande calcistiche, il dottore spostava velocemente la conversazione su questioni politiche ed economiche, sullo stato dell’istruzione e della sanità. «Il suo attivismo coincise con una crescente richiesta di cambiamento in tutti i settori della società brasiliana. Il cambiamento era sulle labbra di tutti, e Sócrates era una delle voci che si spendevano con più veemenza in suo favore. Per la prima volta nella storia brasiliana uno sportivo aveva un megafono, e i tifosi lo ascoltavano» (p. 164). Negli anni Ottanta la stragrande maggioranza dei calciatori brasiliani veniva dagli ambienti più poveri del paese e le élite brasiliane vedevano nel calcio «un rifugio per delinquenti che non avevano alternative per fuggire alla miseria che opprimeva il paese». I compagni di squadra di Sócrates al Corinthians erano giovani con scarsa istruzione che vedevano nel calcio l’unica via di fuga possibile dalla miseria e quando «parlava di teorie politiche o li incitava a migliorarsi da un punto di vista personale, loro gli ridevano in faccia» (p. 168).

Il trionfo del Corinthians coincise con un anno importante per Sócrates non solo dal punto di vista sportivo. Nel corso della finale di andata il dottore celebrò il gol alzando il pugno chiuso al cielo inaugurando così una modalità di festeggiare che sarebbe divenuta ricorrente. «Aveva visto Reinaldo festeggiare le reti in quel modo, e nutriva un grande rispetto per il sostegno mostrato dall’attaccante dell’Atlético Mineiro nei confronti di neri, omosessuali e indigeni. In seguito avrebbe menzionato le Black Panthers di Città del Messico del 1968, di cui conosceva sicuramente la storia anti-fascista. Non era la prima volta che lo faceva – aveva festeggiato alcuni gol in quel modo già nel 1978 – ma era perfetto per la marcia progressista che aveva sposato e cominciò a ripeterlo con più frequenza» (pp. 173-174).

«Forse la decisione più memorabile degli ultimi mesi del 1982 fu presa in un’università, e non da un calciatore, da un allenatore o da un dirigente. Sebbene esistesse da quasi un anno, il movimento non aveva ancora un nome. La gente ne parlava utilizzando l’espressione “giocatori al potere”, o chiamava il Corinthians “La Squadra Democratica” e le vicende che lo riguardavano “Rivoluzione Corinthiana”. La svolta avvenne a novembre, dopo un dibattito tenutosi alla Pontificia Universidade Católica de São Paulo. Quel giorno, Olivetto, Sócrates e Adilson sedevano su un palco davanti a centinaia di studenti e tifosi per discutere del movimento e dei suoi obiettivi, accompagnati nel ruolo di animatore dell’incontro da Juca Kfouri, che a un certo punto con tono sarcastico riassunse i temi affrontati nel corso della serata: “Quindi, se i calciatori continueranno a prendere parte alle decisioni del club, se i dirigenti non li fermeranno e se la stampa illuminata non smetterà di supportarli, quella che vedremo sarà una democrazia, una Democrazia Corinthiana”» (p. 174).

L’esperienza della Democrazia Corinthiana cambiò la vita quotidiana del club. I giocatori decidevano collettivamente le strategie in campo e la vita fuori da esso. La stampa brasiliana era inevitabilmente divisa a proposito di tale scelta autogestionaria. Se alcuni giornalisti appoggiavano l’esperienza, la stragrande maggioranza palesava ostilità nei suoi confronti. «La gente comune, nel frattempo, osservava con attenzione e discuteva della sua importanza in una fase storica che somigliava sempre più a uno spartiacque. Il Brasile nel 1983 era ormai sul filo del rasoio, e gli ultimi effetti del boom economico stavano scemando. All’inizio dell’anno la moneta si svalutò del 30%, l’inflazione toccò i livelli mensili più alti degli ultimi due decenni e il governo introdusse una politica di controllo dei prezzi nel tentativo di sostenere l’economia. La disoccupazione non cessava di crescere, così come il debito pubblico, e le tensioni si riversarono per le strade, dove scioperi e saccheggi divennero la normalità» (p. 179).

Dopo la delusione del mondiale spagnolo, nel 1984 il calciatore passò dal Corinthians, ove aveva realizzato 172 gol in 298 incontri, alla Fiorentina. «Il primo giorno ufficiale nel suo nuovo club, Sócrates si aggregò ai compagni per una serie di visite mediche. Mentre aspettava il suo turno per salire sul tapis roulant per i test cardiaci e respiratori, con nonchalance si accese una sigaretta. Quando il dottore entrò nella stanza non voleva credere ai suoi occhi. «Ma che sta facendo, fuma? Stiamo per fare la spirometria!» gridò. “Appunto, dottore, mi sto scaldando i polmoni” rispose lui impassibile. I compagni scoppiarono a ridere e il medico uscì disgustato dalla stanza» (p. 207).
«È stato come passare dal carnevale di Salvador de Bahia a un convento benedettino», affermò il dottore giunto nel campionato italiano. «Gli allenamenti in altura e una preparazione intensa non erano il suo forte. Durante la prima corsa svenne, mentre nella seconda gettò la spugna dopo dieci minuti. Quando i compagni terminarono la mezz’ora di jogging, ad attenderli trovarono l’infelice brasiliano e una delle sue tipiche domande socratiche. “Perché devo correre su e giù per le colline? Io voglio correre con la palla”» (p. 208).

Se al Corinthians i compagni correvano per lui e lo ammiravano non solo per le doti calcistiche ma anche per il carisma dell’uomo, in Italia i calciatori non giocavano per divertimento e faticavano a sopportare la sua mancanza di professionalità e il suo scansare continuamente i sacrifici. Certo il suo atteggiamente palesava qualche contraddizione rispetto ai proclami collettivisti. «La riluttanza degli italiani a socializzare era un problema serio per chi come lui considerava fondamentali l’amicizia e il cameratismo, e la freddezza mostrata nei suoi confronti accrebbe il suo senso di solitudine» (p. 212).

Sócrates si presentò ai tifosi fiorentini in visibilio per il suo arrivo salutandoli col pungo chiuso e la cosa mandò su tutte le furie i proprietari del club, i democristiani Pontello. L’esperienza della Democrazia Corinthiana era nota ai dirigenti viola: «Eravamo preparati e sapevamo cosa aspettarci da lui. Ricordatevi che Firenze è una città storicamente di sinistra, e anche i tifosi della sua squadra lo sono. Per noi non era un problema. Eravamo più interessati alle sue prestazioni sul terreno di gioco. Ma era così diverso e sui generis che i compagni lo trovavano strano. Se sei diverso e fai vincere la squadra, allora i problemi svaniscono. Ma se i risultati non arrivano, tutto si complica. Era un buon giocatore, ma non era sufficiente. I motivi per cui non ha fatto bene non sono né tattici né tecnici. Semplicemente non si è adattato alla vita italiana. Non si è mai integrato. Abbiamo tentato di parlare con i suoi amici per aiutarlo, ma non è cambiato nulla» (p. 215).

Nella breve esperienza italiana il rapporto con i compagni e con la proprietà non decollò mai. «Alla terz’ultima di campionato la Fiorentina affrontava in casa l’Udinese, e l’infortunato Sócrates assistette alla gara in pantaloncini e infradito. Arrivò in ritardo, e invece che dirigersi in tribuna autorità, si prese una birra e si mise dietro alle recinzioni a pochi metri dalla linea laterale. Ignorò i gesti dei dirigenti che lo invitavano a sedersi al suo posto. A un certo punto venne raggiunto da un amico, un comico locale, a cui all’intervallo propose di andare a seguire il secondo tempo in Curva Fiesole, tra gli ultrà. I due furono accolti come eroi, e l’esperienza di passare quarantacinque minuti accanto ai veri tifosi è rimasta per sempre uno dei ricordi più vividi della sua esperienza italiana. Tuttavia, la bravata servì soltanto a inasprire i rapporti con dirigenti e compagni di squadra. I Pontello erano furiosi per essere stati snobbati e i calciatori pensavano fosse fuori di testa. Le distanze tra le parti ormai erano incolmabili» (p. 217).

In occasione del carnevale Sócrates organizzò, insieme ad altri brasiliani, una grande festa: «passò settimane a registrare cassette con le sue canzoni di samba preferite, comprò duecento litri di birra, antipasti sufficienti per nutrire uno stadio pieno e un maialino da latte per fare una grigliata all’aperto nonostante le temperature sotto lo zero» (p. 218). Alla festa invitò anche la squadra. «I compagni si presentarono tutti in giacca e cravatta, mettendo in mostra la tipica eleganza italiana, e lui, nella sua solita divisa fatta di vestiti spiegazzati e scarpe da ginnastica fatiscenti, non perse tempo a rendere la festa più brasiliana. Prese un paio di cesoie da giardinaggio e ridacchiando si mise a tagliuzzare le cravatte di Armani e Dolce & Gabbana dei suoi ospiti. Oriali, Massaro, Galli e Gentile furono solo alcuni di quelli a finire tra le sue grinfie, e non poterono far altro che arrendersi di fronte a quello scherzo. Passarella si mise in ginocchio implorandolo di risparmiare il suo costosissimo accessorio. Antognoni dichiarò sull’orlo delle lacrime che la sua cravatta era un regalo della mamma. Ma Sócrates li ignorò e le tagliò con fare scherzoso una dopo l’altra, prima di stringerli in un abbraccio […] “Ora siamo una vera squadra di calcio” disse. “Ora, possiamo davvero lasciare che lo spirito della Democrazia Corinthiana prenda piede”» (pp. 218-219).

Le cose non andarono così. Il dottore non riuscì mai ad ambientarsi in Italia e, nonostante avesse ancora un anno di contratto, nel 1985 decise di fare le valige per far ritorno in Brasile giocando al Flamengo, al Santos per poi chiudere la carriera nel 1989 al Botafogo. Sócrates non aveva mai amato le partite di addio dei grandi calciatori; «definiva quelle occasioni assurdità sentimentali, e se ne andò alla sua maniera, con meno fanfara possibile. In realtà aveva immaginato un addio che sarebbe rimasto irrealizzato, con birre e amici, e non con una partita di calcio e ancor meno davanti a una folla in adorazione. “Avrei voluto radunare tutte le persone a cui ho voluto bene, e fare scorta di birra e tutto il resto” disse. “La mia gente, ecco cosa mi immaginavo, non certo una partita di calcio. Avrei voluto farlo così, riunire tutti, anche i dirigenti, tutti quelli che avevano recitato un ruolo nella mia vita e con i quali in qualche maniera avevo avuto un buon rapporto. Avrei voluto invitarli per una grigliata, e poi avremmo giocato a calcio. Ecco come me lo immaginavo. Ma un addio? No, non mi piacciono gli addii”. Invece, non potendo concludere la propria carriera con il Corinthians, e dopo aver respinto offerte anche dal Giappone, Sócrates salutò il Santos e tornò al Botafogo per un breve canto del cigno dove tutto era iniziato quasi due decenni prima. […] Il 26 novembre 1989, Sócrates scese in campo per l’ultima volta da professionista nel pareggio per 1-1 contro l’Itumbiara, nello stato di Goiás. Solo mille spettatori lo videro dirigere il centrocampo prima di uscire trotterellando a metà del secondo tempo. Era finita. Non ci furono né clamore né annunci ufficiali per il suo addio. Il dolore era insopportabile, così come le seccature. Dopo diciassette anni, oltre settecento gare e più di trecento gol, uno dei più carismatici calciatori della storia del Brasile diceva basta. Almeno come giocatore» (pp. 269-271).

Terminando la sua introduzione al libro sul calciatore che voleva imparare l’italiano leggendo Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci per l’importanza che il testo aveva avuto nella sua «formazione umana, sociale e filosofica», così scrive Pastorin: «il Dottore è stato entrambe le cose: Sogno e Realtà, Ragione e Fantasia, il senso di una straordinaria “immaginazione al potere”. Un rivoluzionario in tempi difficili, un fuoriclasse nel crepuscolo dell’allegria del calcio. Quel fratello che in tanti abbiamo amato e che ameremo per sempre» (p. 9).

Il dottor Sócrates, il tacco che la palla chiese a Dio… col vizio del bere e del pugno alzato, aveva pronosticato di morire il giorno in cui il Corinthians avrebbe conquistato un titolo. E così andarono le cose. Il 4 dicembre 2011, a soli cinquantasette anni, con il fisico stremato anche a causa degli eccessi alcolici, se ne è andato «il capitano della seleção più forte a non vincere un Mondiale, il leader della Democrazia Corinthiana, il movimento progressista più straordinario che abbia mai scosso l’antiquato mondo del calcio brasiliano». Se ne è andato in sordina come si conviene a chi detesta l’idolatria, mentre il suo Corinthians vinceva, come pronosticato. «Voglio morire di domenica, il giorno in cui il Corinthians vince un titolo». E così sono andate le cose.

 


Sócrates  su Carmilla:

Segnali di fumo: Sócrates – Lorenzo Iervolino
di Nicola Gobbi e Simone Scaffidi
[segnalazione a fumetti del libro L. Iervolino, Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario (2014)]

Sócrates: vita, morte e rivoluzione in un libro
di Simone Scaffidi Lallaro
[recensione del libro L. Iervolino, Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario (2014)]

 

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Estetiche del potere. Sul guardare: note su abbigliamento, egemonia e autonomia https://www.carmillaonline.com/2017/09/07/estetiche-del-potere-sul-guardare-note-abbigliamento-egemonia-ed-autonomia/ Wed, 06 Sep 2017 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40223 di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini [...]]]> di Gioacchino Toni

All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.

L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini che nelle campagne europee hanno potuto indossare tale tipo di abbigliamento, cosa che soltanto qualche decennio prima sarebbe stata loro economicamente preclusa.

Pur trattandosi di un abbigliamento non certo proletario, in Europa occidentale per buona parte del Novecento è abbastanza frequente che i contadini e gli operai indossino abiti scuri completi di panciotto nei giorni di festa o nelle occasioni ritenute speciali. Osservando con attenzione l’immagine, però, secondo Berger, c’è qualcosa che tradisce il ceto sociale di appartenenza dei tre, qualcosa che impedisce loro di essere confusi con appartenenti alla borghesia e non si tratta certo della qualità del tessuto o del taglio sartoriale, poco distinguibili in una fotografia in bianco e nero di questo tipo.

Prendendo in esame anche altre fotografie simili di Sander, è possibile notare, continua lo studioso, come le anatomie, le posture ed i volti dei soggetti contadini non vengano del tutto mascherati dagli abiti borghesi. Solitamente, continua Berger, almeno a queste date, i contadini presentano corpi modellati dal duro lavoro fisico che svolgono e tradiscono un «ritmo corporeo caratteristico […] direttamente collegato all’energia richiesta dalla quantità di lavoro da svolgere in una giornata [ritmo che] si riflette in movimenti e posture del corpo inconfondibili. È un ritmo ampio e prolungato» (p. 54), inoltre tendono ad esibire una «dignità fisica tutta loro» derivata dal mostrasi abituati allo sforzo ed alla fatica.

Il completo maschile prende piede nell’Europa degli ultimi decenni dell’Ottocento «come abito da lavoro della classe dirigente. Anonimo quasi al pari di un’uniforme, fu il primo abito della classe dirigente a consacrare un potere puramente sedentario: il potere dell’amministrazione e del tavolo da conferenza. Fondamentalmente, questo vestito è concepito in funzione dei gesti che accompagnano la parola e il calcolo astratto» (p. 54). Si tratta dunque di un tipo di abbigliamento decisamente differente rispetto a quello utilizzato fino ad allora dai ceti superiori; gli indumenti indossati precedentemente erano stati pensati in funzione di attività come la caccia e l’equitazione, mentre il completo a giacca, lanciato dal gentleman inglese, tende a limitare i movimenti. Dal finire dell’Ottocento, ed in maniera ben più marcata a partire dal termine della Prima guerra mondiale, il completo maschile inizia ad essere prodotto su larga scala tanto per le grandi masse urbane che per i mercati rurali.

Tornando alle fotografie di Sander, risulta stridente, sottolinea Berger, l’abbinamento di corpi strutturati dall’abitudine alla fatica, a movimenti ampi e prolungati, con abiti nati per idealizzare la sedentarietà. L’abbigliamento tradizionale da lavoro o da cerimonia indossato dai contadini tendeva, invece, a rispettare le caratteristiche dei corpi che rivestiva; generalmente si trattava di abiti dai tagli sciolti, volti a permettere una certa libertà di movimento. «Erano l’antitesi degli abiti sartoriali, tagliati per seguire la forma idealizzata di un corpo più o meno statico» (p. 55).

Non solo nessuno obbligava i contadini ad acquistare e indossare completi borghesi ma, stando alle fotografie, questi si mostrano decisamente orgogliosi di vestirli ed è qui che, sottolinea Berger, può essere colto un mirabile esempio di quella che Antonio Gramsci indicava con egemonia di classe. «I contadini – e, se pur in modo diverso, gli operai delle città – furono persuasi a scegliere questo nuovo tipo di abito. Dalla pubblicità. Dalle fotografie. Dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Dai commessi viaggiatori» (p. 56). Berger ricorda anche come in occasione dell’Esposizione Universale parigina del 1900, fossero stati, per la prima volta nella storia, invitati ad un grande banchetto tutti i sindaci francesi, molti dei quali provenienti da piccoli paesi rurali e come per l’occasione la stragrande maggioranza di essi indossasse il completo a tre pezzi a riprova del fatto che, per le occasioni importanti, l’abito completo fosse ormai da intendersi d’obbligo.

Le classi lavoratrici – ma in questo i contadini si mostrarono più semplici e ingenui degli operi – si convinsero a adottare come propri i criteri della classe dirigente, nel caso specifico i criteri di eleganza sartoriale e di gusto. Al tempo stesso, l’accettazione di quegli standard, il conformarsi a quelle norme che nulla avevano a che fare né con la loro tradizione né con la loro esperienza quotidiana, li condannò, all’interno di quel sistema normativo, a essere sempre, e in modo riconoscibile per le classi superiori, mediocri, goffi, ordinari, insicuri. Ed è proprio così che si soccombe all’egemonia culturale (p. 56).

In conclusione lo studioso ama immaginare che, una vota giunti alla festa, magri dopo qualche birra, i tre giovani contadini, abbiano riposto le cravatte ed appese le giacche su qualche sedia per lasciarsi andare più liberamente nelle danze fino all’alba, coincidente però con l’avvio di una nuova e dura giornata di lavoro nei campi.

Le riflessioni di Berger sulle foto di Sanders sono oggettivamente acute e interessanti anche se non mancano di mostrare parzialità e limiti in parte dovuti al fatto che lo scritto in questione è stato steso nei primissimi anni Settanta e in parte addebitabili ad un approccio derivato dal concetto gramsciano di egemonia tendente a sottostimare i livelli di autonomia presenti nelle scelte e nelle pratiche della classe sociale proletaria.

Circa le parzialità determinate dalla data di stesura del pezzo (1972) occorre ricordare che proprio in quel periodo la centralità, anche a livello di immaginario, conquistata a suon di lotte e insorgenze, da parte del proletariato, ribalterà per certi versi i giochi; tanto che sarà la classe borghese a manifestare palesi derivazioni dall’abbigliamento proletario inaugurando un meccanismo di ripresa della moda dei ceti più bassi che non è venuto meno nemmeno con l’affievolirsi dell’offensiva operaia. Ancora oggi, nella smania della moda di proporre sempre più frequentemente novità per sostituire con nuove merci quelle vendute precedentemente, il citazionismo dell’abbigliamento nei confronti del mondo proletario o sottoproletario di certo non manca e gli street style sono da tempo diventati una fonte importante da cui attingere da parte di diverse categorie merciologiche indirizzate a compratori di certo non solo di estrazione popolare.

A proposito dei limiti del concetto di egemonia applicato da Berger, risulta utile rimandare alle riflessioni proposte da James C. Scott nel suo Il dominio e l’arte della resistenza (Elèuthera, 2006) [su Carmilla], tese a denunciare come le tesi basate sul concetto di egemonia gramsciano, soprattutto nella loro forma forte, fatichino a spiegare i sommovimenti sociali provenienti dal basso.

Se le élite controllano la base materiale della produzione cosa che permette loro di estorcere conformità di comportamento, e controllano anche i mezzi della produzione simbolica, assicurando così la legittimazione del proprio potere, il risultato dovrebbe essere un equilibrio che si auto-riproduce, che solo un urto esterno può compromettere. […] Se l’esistenza del conflitto sociale è un problema per le teorie sull’egemonia nelle società contemporanee, diventa una contraddizione insanabile quando le teorie vengono applicate alla realtà storica delle società contadine, o alla schiavitù e al servaggio (p. 109)

Il fatto che i dannati della terra abbiano storicamente avuto difficoltà a immaginare assetti sociali diversi da quelli conosciuti, non ha di certo impedito a questi di immaginare il completo rovesciamento dello status quo, tanto che il tema millenaristico del mondo capovolto, ove i primi e gli ultimi si invertono di ruolo, lo si ritrova nelle principali tradizioni culturali in cui sono state messe in discussione le disuguaglianze di potere, ricchezza e status.

Sul piano storico […] non ci sono prove per accreditare una teoria dell’egemonia, forte o debole che sia. Gli ostacoli alla resistenza, e sono molti, non possono semplicemente essere attribuiti all’incapacità dei gruppi subordinati di immaginare un ordine sociale alternativo. Essi immaginano sia il capovolgimento che la negazione della dominazione cui sono sottoposti e, fatto più che mai importante, hanno agito conformemente a questi valori, per disperazione o in rare occasioni perché le circostanze sembravano favorevoli […] l’immagine del diciassettesimo secolo che rappresenta il signore costretto a servire un villico seduto alla tavola imbandita era destinata a evocare simpatia più tra le classi rurali che tra i loro superiori sociali (p. 113)

Il fatto che i gruppi subordinati abbiano frequentemente immaginato il ribaltamento dei ruoli sociali sta a testimoniare come questi non siano poi così normalizzati dai discorsi delle élite che intendono convincerli dell’immutabilità sociale. Scott si interroga circa il motivo per cui le teorie dell’egemonia e dell’integrazione ideologica siano riuscite ad esercitare così tanto fascino su storici e sociologi.

Nel mondo strutturale-funzionale della sociologia parsoniana, i gruppi subordinati arrivano naturalmente ad accettare i principi normativi dell’ordine sociale, senza i quali la società non potrebbe esistere. Nella critica neo-marxista [tendente a seguire il concetto di egemonia gramsciano] viene ugualmente dato per scontato che i gruppi subordinati abbiano interiorizzato le norme dominanti, con la differenza che tali norme vengono viste come una falsa rappresentazione dei loro interessi oggettivi. In entrambi i casi, l’integrazione ideologica produce stabilità sociale: nel primo questa stabilità è positiva, mentre nel secondo è ciò che permette la continuazione dello sfruttamento di classe (p. 117)

Il motivo per cui questa idea dell’integrazione ideologica ha tale risonanza a livello storico, conclude Scott, deriva forse dal fatto che gli studiosi si sono a lungo ostinati a prendere in considerazione il solo “verbale pubblico” offerto dal potere con l’intenzione di mostrare accettazione e complicità da parte delle classi sociali inferiori. Accanto alla narrazione ufficiale del “verbale pubblico” esiste però anche un “verbale segreto” proprio dei dominati, tenuto segreto per opportunità dettate dai rapporti di forza sfavorevoli e la mancanza di analisi di quest’ultimo verbale comporta un’idea di egemonia totale detenuta dal gruppo dominante.

Tornando alle fotografie di Sander da cui siamo partiti, nel desiderio dei contadini di indossare l’abito borghese nei giorni di festa è ravvisabile esclusivamente la resa dei sottomessi al potere? Chi è obbligato ai movimenti dettati dal lavoro quotidiano, nell’indossare abiti borghesi creati per palesare l’esenzione da un lavoro fisico faticoso, non manifesta forse anche un diritto all’inattività?

La rappresentazione dei sottomessi come classe in totale balia della borghesia rischia di annullare di fatto l’idea che il conflitto, seppure a intensità variabile in base ai rapporti di forza, è pur sempre presente. Accettare l’idea che vuole i subordinati totalmente succubi del potere e delle sue narrazioni significa, per certi versi, negare loro ogni possibilità di autonomia, dunque negarli in quanto classe sociale capace di emanciparsi senza un provvidenziale intervento esterno.

Visto che non si era al superamento delle classi sociali all’epoca della fotografie di Sander e non lo si era nei primi anni Settanta, quando ne scrive Berger, se non si vuole rischiare di scivolare nel mito della fine della storia, sarebbe importante cogliere la presenza di elementi di autonomia anche nelle condotte più contraddittorie di quanti si trovano in una condizione di subalternità.

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