Andre Agassi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le ombre del Padre: l’Infinite Jest dell’Imago paterna https://www.carmillaonline.com/2014/06/10/ombre-padre-linfinite-jest-dellimago-paterna/ Tue, 10 Jun 2014 21:45:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15302 Yes_Im_Paranoiddi Girolamo De Michele

[Questo testo è stato pubblicato sul n. 9, maggio 2014 della “nuova rivista letteraria”; le immagini sono tratte dai siti Poor Yorick Entertainment e Tegamini.it.]

Ti rendi conto, vero, che Dio non assomiglia affatto a tuo padre? Lo sai, sì? [Andre Agassi, Open] Lege, quaeso [David Foster Wallace (scritto di propria mano in esergo a una copia di IJ)]

Una delle molte chiavi interpretative di quella multiforme macchina narrativa che è Infinite Jest Yes_Im_Paranoiddi Girolamo De Michele

[Questo testo è stato pubblicato sul n. 9, maggio 2014 della “nuova rivista letteraria”; le immagini sono tratte dai siti Poor Yorick Entertainment e Tegamini.it.]

Ti rendi conto, vero, che Dio non assomiglia affatto a tuo padre? Lo sai, sì? [Andre Agassi, Open]
Lege, quaeso [David Foster Wallace (scritto di propria mano in esergo a una copia di IJ)]

Una delle molte chiavi interpretative di quella multiforme macchina narrativa che è Infinite Jest1 di David Foster Wallace è il rapporto tra padre e figlio – o meglio: tra l’orfano Hal Incandenza e l’ombra del Padre (Padre-padrone? Padre-eroe?) James O. Incandenza.

Il romanzo è ambientato in un futuro prossimo venturo rispetto all’anno di pubblicazione (1996), in buona parte nel 2009-2010, con un inquietante spiazzamento rispetto al 2014 in cui state leggendo questo articolo. In verità, dovremmo dire che il romanzo è ambientato in prevalenza nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend (A.P.A.D.) e nell’Anno di Glad, secondo la cronologia del Tempo Sponsorizzato istituito a partire dal 2002. Il padre di Hal, un regista di film sperimentali, si è suicidato in modo spettacolare inserendo la testa in un formo a microonde2, lasciando il figlio Hal in una condizione dalla quale non si riprenderà, e che anzi sfocerà nella progressiva caduta in una sorta di catatonia: qualcosa tipo la condizione depressiva in cui scivola Amleto dopo l’incontro col fantasma del padre e la scoperta della verità sulla sua (del padre) morte. Del resto, che la verità renda liberi, ma solo quando avrà finito con te«The truth will set you free. But not until it is finished with you» (p. 468) – è una delle sentenze che DFW ha disseminato nel suo romanzo.
Altri indizi fanno pensare al dramma shakespeareano. Ad es., titolo del libro si riferisce al misterioso film Infinite Jest prodotto dalla Poor Yorick Entertainment, una evidente citazione dal quinto atto di Hamlet: «Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio; a fellow of infinite jest…». Ad es., lo spettro che affligge l’ex ladro tossicodipendente Gately raccontandogli la propria triste storia di figlio fallito di un padre fallito, e padre (lo spettro) a sua volta di un figlio fallito – il che fa sospettare che potrebbe trattarsi dello spettro di J.O. Incandenza:

«Dice Immaginati l’orrore di passare tutta la tua adolescenza solitaria e itinerante a tentare invano di convincere tuo padre che esisti, a cercare di fare qualcosa abbastanza bene da poter essere ascoltata o vista ma non così bene da diventare uno schermo per le sue (del padre) proiezioni del suo fallimento e del suo odio per se stesso […] solo per scoprire poi, verso la fine, che anche tuo figlio si è spento, si è rinchiuso in se stesso, non parla, ti terrorizza, è muto. Cioè che suo figlio era diventato ciò che lui (lo spettro) aveva temuto di essere quando era bambino» (p. 1007).

L’ombra oscura del padre – che si concretizza allegoricamente nella cartuccia del film IJ, la cui visione fa piombare lo spettatore in uno stato di catatonia permanente – si distendeva con pesantezza su Hal e i suoi fratelli: «Il defunto padre di Orin, Mario e Hal era considerato un genio nella sua professione originale, senza che nessuno, neppure lui stesso, avesse mai capito in cosa fosse un genio, il che è tragico ma anche giusto in un certo senso» (p. 184). Del figlio maggiore Orin, sappiamo che «Ha studiato per quasi diciotto anni ai piedi del più abile fotti-cervello che abbia mai incontrato, e anche ora è così confuso da pensare che il solo modo per sfuggire all’influenza di quella persona sia rifiutarla e odiarla, quella persona» (p. 1249 n. 269). Negli anni dell’A.P.A.D. e di Glad il padre e la cartuccia del film sono sepolti insieme; ma copie letali del film continuano a circolare. Circolano anche copie del Padre?
Il gioco di specchi tra le relazioni familiari interne alla famiglia Incandenza – caratterizzate dall’incomunicabilità, dall’alienazione, in una parola dall’impossibilità del legame come forma essenziale della relazione – e la società del Tempo Sponsorizzato, contrassegnata dalle patologie del panico sociale, dell’alienazione e della dipendenza sembra rimandare a quella che Recalcati, sulla scorta di Lacan, ha definito l’epoca della «evaporazione del padre», caratterizzata da «una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere»3. «Il nostro tempo, sostiene Recalcati, si caratterizza per il tramonto definitivo della figura edipica del padre che rendeva possibile il sodalizio tra Legge e desiderio a partire dal valore ideale che l’immagine del pater familias deteneva in famiglia e nella società»4. L’erranza del soggetto orfano del rifugio nell’Imago paterna e nel suo potere simbolico sarebbe esemplificata dalla figura di Telemaco: «la condizione dei giovani-Telemaco di oggi è quella dei diseredati: assenza di futuro, distruzione dell’esperienza, caduta del desiderio, schiavitù del godimento mortale, disoccupazione, precarietà. I nostri figli popolano la scura “notte dei Proci”? Quale padre li potrà salvare se il nostro tempo è quello del suo tramonto irreversibile?»5.

Hal Incandenza sarebbe dunque l’Amleto-Telemaco, figlio di un Ulisse che non tornerà?
Qualcosa lascia sospettare che Infinite Jest sia una Telemachia senza Nóstos. Il padre viene quasi sempre appellato come “Himself” (Lui in persona): perché? Nella Poetica di Aristotele – testo che è ben difficile potesse mancare nel curriculum di studi di DFW – ci viene dato, come esemplificazione del logos narrativo, questo riassunto “strutturalista” dell’Odissea: «Un “tis” [qualcuno] resta lontano dalla sua terra per molto tempo […]; poi, quando le cose di casa sua giungono al punto che le sue ricchezze sono saccheggiate dai Pretendenti e il figlio oggetto di insidie, ecco che lui in persona [autòs], scampato a un naufragio, fa ritorno […] e distrugge i suoi nemici»6. Autòs, himself è il nome di Ulisse, il padre che Telemaco attende.
Infinite_Jest_tegaminiC’è però una figura che fa ostacolo a una interpretazione unicamente psicoanalitica del mondo di Infinite Jest: Avril Incandenza, la “Mami” che dopo la morte del marito ha preso in consegna non solo la famiglia, ma anche della Enfield Tennis Academy fondata da J.O. Incandenza. Affetta da un disturbo ossessivo-compulsivo, la Mami esercita il proprio controllo tanto sulla famiglia quanto sull’ETA: non è per caso che Orin, l’unico a sfuggire al controllo della Mami, ha abbandonato sia la casa che il tennis. La Mami è lo spazio di intersezione tra due istituzioni disciplinari: ma se è banale che la famiglia lo sia, meno lo è che tale sia un’accademia tennistica. Potremmo dire che quando DFW, in IJ prima, e poi in diversi altri scritti, ha raccontato il mondo del tennis come un sistema che assorbe in modo totale il tennista in erba, attuando un processo di disciplinamento fondato sulla coazione a ripetere7, la cosa poteva sorprendere: dopo l’autobiografia di André Agassi Open8, non più. Come recita un annuncio su un cartello davanti a una chiesa,

LA VITA È COME IL TENNIS
VINCE CHI SERVE MEGLIO

Sembra, leggendo DFW o Agassi, che il padre-padrone “evaporato” nell’epoca del capitalismo tardomoderno si sia risolidificato nella figura dell’istruttore dell’Accademia.
Ma famiglia e accademia non sono le uniche istituzioni disciplinari. Accanto alla ETA, c’è la Casa di Recupero da Droghe e Alcol, la Ennet House, fondata nel primo anno del Tempo Sponsorizzato, nella quale viene applicato il metodo di cura degli Alcolisti Anonimi:

«Gli Aa di Boston “Qui Dentro” che ti proteggono contro un tuo ritorno “Là Fuori” non vogliono sapere qual è stata la causa del tuo Disagio. Ti prescrivono una ricetta semplice e pratica per ricordarsi ogni giorno che hai il Disagio e come devi fare a curarlo tutti i giorni, e come devi fare per sfuggire il più lontano possibile dal fantasma di un piacere che ti vuole adescare e uncinare e ti vuole trascinare Fuori e vuole mangiare il tuo cuore crudo e (se sei fortunato) vuole farti fuori per sempre. Così non sono permessi i perché e i per come. In altre parole lascia la testa fuori dalla porta prima di entrare. Anche se non può essere fatto rispettare in modo convenzionale, questo assioma, che è l’assioma di base degli Aa, ha un carattere molto autoritario, forse quasi protofascista» (p. 450).

In cosa consiste questo protofascismo? Nella cessione della volontà – «Devi essere disposto a consegnare la tua volontà a persone che sanno come affamare il Ragno. Devi essere disposto ad accettare i consigli, devi voler rispettare le tradizioni di anonimia, di umiltà, devi arrenderti alla coscienza del Gruppo» (p. 429) – e nella sua sostituzione con l’efficenza – «Se chiedi ai più vecchi e duri Come Funzionano gli Aa loro ti rispondono con un sorrisino freddo e ti dicono che funzionano Bene. Funzionano, questo è tutto; fine della storia» (p. 419). In un acuto scritto su IJ9, Brook Daverman ha messo in relazione il metodo degli Aa e la funzione narrativa delle confessioni degli Alcolisti: in opposizione alla frammentazione illimitata dei significati e dei soggetti nello sperimentalismo postmoderno, DFW crea, attraverso le narrazioni degli Aa, un pacchetto di limiti e regole in grado di strutturare il significato in maniera funzionale10. Si, o.k. – ma il metodo degli Aa sembra fondarsi su un paradosso: la cessione della volontà individuale e l’ammissione della propria incapacità di uscire dalla dipendenza, e dunque l’accettazione senza riserve di una forma di dipendenza dagli Aa11 non è forse la condizione che ha portato il tossico o l’alcolista a diventare dipendente di una sostanza? E se così è, non è la dipendenza – l’impossibilità di farcela da soli – la condizione esistenziale nella quale siamo gettati tutti quanti?

Abbiamo incontrato alcune istituzioni disciplinari, alle quali potremmo aggiungere l’AFR, l’organizzazione terroristica dei separatisti québechiani, il cui orizzonte politico indipendentista si riassume nell’État protecteur: «scegliete cosa noi vi diciamo di scegliere, ignorate i vostri desideri e le vostre aspettative, i vostri sacrifici. Per il Québec. Per lo Stato» (p. 383).
Al di sotto di questi apparati, una società del controllo nella quale la disseminazione digitale di lavoro, istruzione e divertimento ha trasformato le relazioni sociali in uno «spettacolo privato fatto di schermi personalizzati e guardato dietro le tende tirate nella sognante familiarità della propria casa» (p. 743); nella quale dominano la ricerca della convergenza nella stessa curva di domanda di piacere personale e fatturato lordo (p. 500), e «una specie di idolatria dell’unicità» (p. 724) – qualcosa tipo una generalizzata pan-agorafobia utile «ad aprire enormi nuovi mercati imprenditorializzati teleputerizzati di home-shopping con consegna a domicilio» (p. 179). DFW aveva intuito che nell’età della finanziarizzazione anche desideri, passioni e timori possono essere messi a valore e profitto: «Dire che tutto questo è un male è come dire che il traffico è un male, o che le sovrattasse sulla salute o i rischi della fusione anulare12 sono un male: solo i freak luddisti mangiacereali direbbero che è male una cosa senza la quale non si riesce a vivere» (p. 743). Anni dopo, nel discorso agli studenti del Kenyon College, DFW dirà: «Il cosiddetto “mondo reale” non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perché il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io»13.
All’agorafobia privata della società corrisponde, al di sopra delle istituzioni di controllo disciplinare, la figura del presidente Gentle, il Famoso Cantante Confidenziale asceso al governo di una «nazione murata» (p. 151) «grazie allo spasmo reazionario di un elettorato incattivito» col suo Partito Pulito degli Usa «mentre i Democratici e i Repubblicani rimasero fermi a guardare ammutoliti, come due compagni di doppio che pensano che la palla la prenderà sicuramente l’altro» (p. 460):

«Il Presidente J.G., il Famoso Cantante Confidenziale disse che non ci avrebbe chiesto di fare delle scelte difficili approfittando della sua posizione, perché quelle scelte le avrebbe fatte lui per noi. Voleva soltanto che ci rilassassimo e ci godessimo lo spettacolo. […] Che faceva riferimento a Nuove Fonti di Ricavo ancora intatte che aspettavano solo qualcuno che le scoprisse, e non erano state notate dai suoi predecessori per colpa degli alberi (?). Che prevedeva di tagliare l’adipe budgetaria con un coltello bello grosso. Il Johnny Gentle che insisteva soprattutto – al tempo stesso ci sperava e lo prometteva – sul fatto che gli americani stressati dall’èra atomica dovevano smetterla di incolparsi l’un l’altro per i terribili problemi interni. […] Il Johnny Gentle, Capo del Governo, che […] dichiara che, Cazzo, ci deve essere qualcuno, a parte noi, a cui dare la colpa. Per unirci nell’opposizione a qualcuno. E promette di mangiar e leggero e dormire molto poco finché non li troverà…» (pp. 461-462)

gentle_for_presidentSeguendo Lacan, Recalcati sostiene che l’evaporazione dell’Imago paterna ha trasformato il soggetto in un “turboconsumatore”, il cui individualismo sfrenato non è una forma di disalienazione del soggetto dalla schiavitù nei confronti dei significanti padroni, ma una nuova forma di schiavitù: il discorso del capitalista è una forma non di liberazione, ma di assoggettamento all’ipnosi dell’oggetto-merce. Quello che però Recalcati non coglie è che questo turboconsumatore che riempie il proprio vuoto con la dipendenza è assoggettato a una rinnovata Imago paterna, una riproposizione del padre-padrone in forma di leader politico, di modello dell’Io, di istruttore, di terapeuta. Il vuoto esistenziale viene messo non solo a profitto, ma diventa una macchina per produrre quell’autorità in grado di rassicurarci dall’orrore del vuoto che ne è la causa. Il padre-padrone è la malattia che si presenta come cura: la logica del meccanismo capitalista postindustriale presenta «i beni di scambio come fuga-dalle-ansie-della-mortalità-la-quale-fuga-è-essa-stessa-psicologicamente-fatale, come descritto con abbondanza di dettagli nell’opera postuma L’incesto e la vita della morte nello spettacolo capitalista di M. Gilles Deleuze» (p. 951).

L’Imago confidenziale del Presidente, dell’Istruttore, del Terapeuta sono manifestazioni della ri-creazione di un nuovo Edipo disciplinante, il cui benevolo sorriso rassicura dal sospetto che se un qualche dio c’è, è un dio crudele: «Perché cosa succede se Dio è davvero quel figurante crudele e vendicativo che gli Aa di Boston giurano e spergiurano che non sia, e ti aiuta a smettere solo perché tu possa sentire al massimo tutti gli spigoli e le lame delle punizioni speciali che ha preparato per te?» (p. 1074).
Il mondo dei falsi padri-padroni «sembra più una pistola puntata alla testa che una scelta» (p. 938): l’inconsapevolezza, modalità predefinita, corsa sfrenata al successo la fanno da padrone. La vera libertà è imparare a pensare, «e richiede la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro. […] So che questa roba non vi sembrerà divertente […]. Per come la vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche». La vera libertà «riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano»14.

Appendice
Altri interventi davidfosterwallaceani di Girolamo De Michele su carmilla:

recensione di: Carlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata (2 ottobre 2013)
Una cosa sinistra che non dovremmo fare mai più (25 gennaio 2012)
Il genio dello scrittore David Foster Wallace come lacerazione del velo di Maya su un sacco di cose tipo l’apprendimento degli adolescenti, l’uso dei dialetti, l’inutilità di certi critici, la libertà, l’alienazione, Roger Federer, il corpo, la bellezza, l’arte di chiedere scusa, la difficoltà di essere spinoziani e altre cose ancora che qui non mi vengono in mente ma vi assicuro che ci sono (17 gennaio 2011)
Tutto ciò, per quanto esatto, non era il punto – ovvero: David Foster Wallace è una pietro d’inciampo per George Steiner? (6 luglio 2010)
New Italian Epic e allegoria (29 gennaio 2009)


  1. David Foster Wallace, Infinite Jest (1996), tr. it. di E. Nesi, A. Villoresi e G. Giua, Einaudi, Torino 2006. 

  2. Difficile non pensare al rovescio del leitmotiv del Videodrome di David Cronemberg. 

  3. Jacques Lacan, Nota sul padre e l’universalismo, tr. it. in “La psicoanalisi”, n. 33, 2003, p. 9; per l’interpretazione di questa breve nota da parte di Massimo Recalcati: L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Milano, Editore, 2010. 

  4. Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, p. 21. 

  5. Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, p. 14. 

  6. Poetica 1455 b20; cito dalla traduzione di Claudio Cazzola nel suo raffinato L’enigma di Omero, Este Edition, Ferrara 2013, p. 95. 

  7. «La cosa più importante è la ripetizione. Dall’inizio alla fine, sempre. È ascoltare le stesse storie motivazionali all’infinito finché il loro puro peso ripetitivo le fa sprofondare nelle budella. […] Non state a pensare se c’è un senso. Certo che non c’è un senso. Il senso della ripetizione è che non c’è un senso. Aspettate fino a quando imbeve il vostro hardware, poi vedrete come vi si libera la testa», pp. 139-140. 

  8. André Agassi, Open. La mia storia (2009), tr. it. G. Lupi, Einaudi, Torino 2011 [ qui la recensione di Filippo Casaccia. 

  9. Brook Daverman, The Limits of the Infinite: The Use of Alcoholics Anonymous in Infinite Jest as a Narrative Solution after Postmodernism, 2001, qui

  10. «Both postmodern and AA narratives are responses to disordered and fragmented subjects of the kind that Wallace describes in his party metaphor. But where postmodern texts respond with fragmented narratives, AA life stories are master narratives that make fragmented subjects coherent»

  11. «Alla fine viene fuori che questa rassegnata, miserabile disperazione tipo fatemi-il-lavaggio-del-cervello-e-sfruttatemi-pure-se-questo-è-quello-che-ci-vuole sia stato il punto di partenza per quasi tutti quelli che si incontrano negli Aa», p. 418. 

  12. catapult_zoneIl processo di trasformazione dei rifiuti in energia, che comporta la produzione di scorie tossiche in grado di produrre incontrollate alterazioni nell’ecosistema: nel mondo di IJ queste scorie sono catapultate nella parte settentrionale del Nord-Est (la Grande Concavità), trasformata in una gigantesca discarica e “ceduta” dagli Stati Uniti al Québec canadese. 

  13. David Foster Wallace, Questa è l’acqua, tr. it. G. Granato, Einaudi, Torino 2009, p. 154. 

  14. David Foster Wallace, Questa è l’acqua, pp. 154-155. 

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Game, set, match! https://www.carmillaonline.com/2013/08/18/game-set-match-2/ Sat, 17 Aug 2013 22:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7153 di Filippo Casaccia

Batti! …batti lei! (Fantozzi)

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Andre Agassi, Open, Einaudi, 2011, pp.502, € 20; Adriano Panatta, Più dritti che rovesci, Rizzoli, 2009, pp. 221, € 17; John McEnroe e James Kaplan, Serious, Sphere, 2003, pp. 325, £ 9,99; e altre cosine en passant.

Era odioso. Ed era odiato. Un odio condiviso anche da se stesso, Andre Agassi, per il personaggio che i media gli avevano attribuito. “L’immagine è tutto”, diceva di lui una funesta pubblicità. E il campioncino – tirato su da un padre tirannico e bambino prodigio già a 7 anni, quando scambiava colpi a Las Vegas coi [...]]]> di Filippo Casaccia

Batti! …batti lei! (Fantozzi)

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Andre Agassi, Open, Einaudi, 2011, pp.502, € 20; Adriano Panatta, Più dritti che rovesci, Rizzoli, 2009, pp. 221, € 17; John McEnroe e James Kaplan, Serious, Sphere, 2003, pp. 325, £ 9,99; e altre cosine en passant.

Era odioso. Ed era odiato.
Un odio condiviso anche da se stesso, Andre Agassi, per il personaggio che i media gli avevano attribuito.
“L’immagine è tutto”, diceva di lui una funesta pubblicità. E il campioncino – tirato su da un padre tirannico e bambino prodigio già a 7 anni, quando scambiava colpi a Las Vegas coi campioni di passaggio, gente come Connors, Borg o Nastase – era rimasto sotto questa etichetta. E io un po’ ci avevo creduto.
Il tennis era ancora sulla tivù pubblica e i palinsesti rispettavano le durate degli incontri, non il contrario. Poi a inizio ‘90 è arrivata la pay-tv e addio scambi interminabili, il pomeridiano piacere ipnotico di quel toc toc delle pallettate, specie sulla terra. Magari di Parigi (ricordo un Vilas – Wilander durato 4 ore e mezza!).
Sul finire di quella magica stagione mi era capitato di vedere un giovane punk, in calzoncini di jeans e coi capelli come uno scoiattolo, dare una stracciata al povero Barazzutti nel primo turno di un torneo che ho dimenticato. Punk, dicevano i giornalisti, perché lo aveva sentenziato McEnroe, uno che di ribellione sul campo se ne intendeva eccome. Ma ad Agassi piaceva il pop, con una funesta predisposizione per Barry Manilow.
E questa è una confessione minima, tra le tante che emergono nello straordinario Open, un’autobiografia di 500 pagine che va giù liscia come una Bud Ice (la preferita del coach Brad Gilbert), facendoti sperare che duri ancora un po’, che ci sia ancora qualche piccolo aneddoto e qualche grande verità da leggere in più.

Perché Open è uno straordinario romanzo in prima persona, scritto da Agassi con l’aiuto del premio Pulitzer J.R. Moehringer, ma attribuito al solo tennista per preciso rifiuto del giornalista di apparire sulla front cover: “questa storia è tua”. E se il professionista avrà dato una patina splendente al racconto, è indubbio che qui ci sono i ricordi, le riflessioni e l’amarezza di un uomo che non ha paura di aprirsi, come da titolo, e rivelare tutto il travaglio interiore che lo ha perseguitato fino a fine carriera, quando – complice l’amore con Steffi Graf e perché venuto a capo dei tanti demoni che lo perseguitavano – ha saputo chiuderla in maniera grandiosa. O perlomeno così ha saputo raccontarcela.
L’odio di cui si diceva più sopra, Agassi se l’è portato dietro anche dopo il ritiro dai campi da tennis. Quando Open è uscito in USA subito son rimbalzate da noi le prime anticipazioni, frutto evidentemente di un aggressivo ufficio stampa. Prima la banalità pop (Agassi usava il parrucchino!), poi quella che dà il frisson proibito (usava le metamfetamine!) e infine la stoccata finale: Andre Agassi, 8 volte vincitore di Slam, odiava il tennis con tutte le sue forze.
E subito, da più parti, condanne e scomuniche: “Come si permette?”, “Sputa dove ha mangiato!” e altri moralismi d’accatto, cui purtroppo hanno abboccato giornalisti che hanno pur dato dignità al mestiere: “Cosa vi aspettate da uno che viene da Las Vegas?”. Tutti improvvidi commenti smentiti dalla lettura di Open, un autoritratto disarmante, dove non puoi che voler bene a un autore che racconta la sua storia senza sconti per nessuno, soprattutto per se stesso.
Io giocavo come un piede (e per quel che ve ne può importare ero innamorato di Gabriela Sabatini e Manuela Maleeva) e che Agassi insulti lo sport dei “gesti bianchi” (Gianni Clerici ©) mi importa assai. Non mi offende. Né che usasse droghe, parrucche e odiasse un padre infame. Perché il libro è bello, ma veramente, e di questo dovremmo parlare, perché ci fa scoprire le motivazioni interiori di tutte quelle azioni esteriori che invece abbiamo visto in tivù, sui campi da tennis più importanti della terra, dal 1986 in poi: i dolori occultati, la fragilità del corpo umano e della psiche, perché il tennis è lo sport dell’autoanalisi continua.
E che lo sport uccida – e non lo dice soltanto Maurizio Costanzo – è vero. Pensate ai calciatori della vostra infanzia, quando la preparazione atletica era ancora improvvisata: erano dei vecchi a trent’anni. Tirati, rugosi, pelati. Lo sport professionistico porta il tuo corpo a fare cose che normalmente non farebbe. E Agassi è stato allenato e costruito per primeggiare sin dalla più tenera età, preda di un padre orco che aveva costruito un lanciapalle meccanico (il “drago”) che faceva colpire al piccolo Andre fino a mille palle al giorno.
Il memoir ci racconta il tentativo, frustrato all’inizio ma infine vincente, di riprendersi la vita, di sfuggire al genitore cercando nuovi padri putativi e magari finendo dalla padella alla brace (come nella scuderia di Bollettieri, un collegio definito “Il signore delle mosche con colpi di diritto”). C’è l’amore ingenuo e disastroso per Brooke Shields (e i rapporti col mondo vacuo di Hollywood, pure peggio di Las Vegas) e poi il lungo inseguimento di Steffi Graf, ennesima ragazza prodigio. E c’è l’ostinazione che porta Andre a giocare ai massimi livelli fino al 2006, quando è il corpo a dire basta perché ogni match è diventata una via crucis. L’ultimo incontro (in realtà penultimo) con Baghdatis è un’autentica Passione laica, e apre e chiude questa straordinaria autobiografia dove seguiamo dal miglior punto di visto possibile (piazzati avanti alla linea di fondo, per colpire sempre in anticipo e di controbalzo) vent’anni di tennis professionistico, 20 anni!, in cui Agassi termina la generazione di McEnroe e Connors e vede nascere quella che si sta estinguendo solo ora, quella di Federer.
Il piacere della lettura non è inficiato da una traduzione che rende il ritmo secco della limpida scrittura originale. Va però anche detto che ci sono smarroni colossali, come la confusione tra football americano e calcio (ancora?!) o la traduzione dei titoli di canzoni (We’ll Be Together che diventa inopinatamente Noi staremo assieme, manco fossimo ai tempi dell’autarchia e de Il lato aprico della strada). Vabbeh.

gsm02Finisci un libro così e sei orfano. Ne vuoi ancora. Altro tennis, altri scambi, altri ace.
Su Carmilla, ho ripescato una vecchia segnalazione di Giuseppe Genna a proposito dello scriba Gianni Clerici, esegeta del tennis mondiale e raffinatissimo narratore (anche se l’Erba rossa consigliata mi ha annoiato, nonostante la preziosità stilistica). Allora mi son comprato Non avrei mai vinto Wimbledon, firmato proprio da lui, Giuseppe. Perché preso dall’entusiasmo tennistico volevo leggerlo e poi chiamarlo e chiacchierare di questa comune passione. Solo che il romanzo non era suo. Cioè: era di Giuseppe Genna, ma di un altro Giuseppe Genna, un avvocato bolognese… e d’accordo che Giuseppe, il mio Giuseppe, ha personalità cangiante e proteiforme, ma mai avrei potuto credere a un omonimo Genna che non ha neanche la buona creanza, lui o il suo editore, di aggiungere magari una lettera puntata, un secondo cognome, uno pseudonimo per non essere scambiato per Genna I (come i calciatori, tipo Sentimenti IV). Comunque ‘sto benedetto Non avrei mai vinto Wimbledon alla fine l’ho affrontato, perché sono di Genova e una volta preso un libro me lo leggo eccome, fosse anche una porcata. E non lo è, ma non è neanche ‘sta gran cosa e alla fine della faccenda ho pensato che questo Genna 2.0 mi aveva fregato due volte. Amen.

gsm03Ansioso di altre letture a base di racchettate ho polverizzato le 56 pagine di Roger Federer come esperienza religiosa (leggine qui, grazie a Girolamo De Michele), ennesima e geniale incursione di David Foster Wallace nel mondo del tennis e della bellezza, spiegata anche con l’ausilio di formule matematiche. Poi ho rinunciato a leggere la storia di Nadal (Rafa, che va bene tutto, ma in canottiera, no. Scusate, ma in canottiera ci potrà giocare Bossi, non il primo al mondo, eh), così come ho declinato l’acquisto delle recentissime bio della Schiavone e della Pennetta (ragazze mie: non ci si racconta a carriera in corso!). Ho tentennato, invece, su C’era una volta il tennis, scritto da Lea Pericoli sulla carriera di Nicola Pietrangeli, ma lì il problema è che, con tutta la simpatia per la testa vaporosa della Lea e per le sue evocative telecronache seventies, ho poca simpatia per Pietrangeli, che oltre ad avere le idee un po’ confuse su Pinochet e altre faccende politiche, è stato pure compagno di Licia Colò, mio impossibile amore adolescenziale. Per cui niente.

gsm04E alla fine – non trovando nulla su Gianni Ocleppo, ach! – mi son buttato sul titolo più ovvio, Più dritti che rovesci, autobiografia del Panattone nazionale, dal quale mi aveva respinto fino a quel momento una copertina stilosa ma incongruente: Adriano che colpisce in volée bassa da fondo campo, grazie ai prodigi di photoshop e all’ignoranza di chi lo utilizza (ma del resto la cover della Pericoli su Pietrangeli è un fotomontaggio dei due che hanno appena colpito contemporaneamente la palla: talvolta la sciattezza editoriale sa essere deprimente).
Dunque: la storia di Adriano Panatta è carina, gradevole, ma senza sorprese. Ben scritta, equilibrata, ma che, tutto sommato, lascia un senso di incompiutezza. Un libro così si costruisce con uno scrittore di professione, un giornalista (in questo caso l’esperto Daniele Azzolini) che deve diventare il coach dei tuoi ricordi, quello che ti cava fuori i sentimenti, le sensazioni, anche le curiosità, le cose – insomma – che vale la pena leggere perché qualificano una vita. E invece qui senti un’avarizia mnemonica: ti manca sempre qualcosa, qualcosa che ancora non hai letto nelle tante interviste concesse a ogni ricorrenza della vittoria in Davis. Per cui Più dritti che rovesci intrattiene e va via veloce, ma risulta un’occasione persa. Ti rimangono delle domande dentro e il racconto così distaccato e distante fa anche perdere importanza ai fatti narrati.
Poi, certo, fare un paragone con la scientificità di Agassi e del suo manifestissimo ghost Moehringer è ingiusto (e c’è proprio della sapienza nell’aver organizzato il testo di Open: il dono, l’ascesa, le sfide, la caduta, il riscatto e il premio finale: la famiglia felice), perché l’indolenza della biografia di Panatta, riflette probabilmente il carattere di Adriano stesso, campione senza sforzi, dotato di classe naturale, in un’epoca in cui sembrava tutto molto improvvisato, senza manager e senza coach.
Lo chiamavano Ascenzietto ed era il figlio del custode del circolo tennistico dei Parioli, Ascenzio. Umile di origine, socialista, beneducato, sornione, Adriano cresce sotto le cure del maestro Belardinelli, della scuola di Formia, colui che aveva insegnato al Duce i rudimenti del tennis (invano, direi, vedendo i film Luce). E il compagno Adriano, per provocarlo affettuosamente, si faceva crescere i capelli e andava agli allenamenti col Manifesto bene in vista fuori dal borsone delle racchette. Il libro ha il suo nucleo centrale nel racconto dell’anno mirabile 1976: Adriano scala la classifica ATP fino al quarto posto vincendo gli Internazionali di Roma e il suo unico Slam, il Roland Garros di Parigi (superando incredibili sfighe il giorno della finale), e infine conquistando anche la Davis, in Cile, con contorno di tipiche polemiche italiote: si va o non si va, in casa di Pinochet? Si va e gli si dà una lisciata, giocando pure – su idea di Adriano – il doppio decisivo in maglietta rossa, così, tanto per rompere le balle ai fascisti cileni.
In Più dritti che rovesci ci sono gli amorazzi (Mita Medici e Loredana Berté, che poi Panatta farà conoscere al grande amico Bjorn Borg, accendendo la miccia della coppia più deflagrante degli anni Ottanta), la frequentazione del nostro jet set (i tennisti della domenica Tognazzi, Gassman e Villaggio), la finale di Davis rubataci in Cecoslovacchia (quando esisteva un paese chiamato così…), alcune felici invenzioni linguistiche (il pallettaro “che sembrava di caucciù”) e tanti nomi che in me evocano memorie commoventi: Guido Oddo, Bitti Bergamo, Tonino Zugarelli, Wojciech Fibak, Balázs Taróczy, Manuel Orantes, José Higueras, Ilie Nastase e pure Roscoe Tanner, l’uomo che arrivò a battere ai 240 orari. Un mondo di racchette di legno che non esiste più e che Panatta aveva contribuito a creare: oggi il tennis è scomparso dai campi, più lucrosamente riconvertiti e affittati per il calcetto a 5.
Nel racconto di Agassi trovate dolore ed espiazione, qui divertimento, leggerezza, scaramanzia e bella vita, affrontate da impunito sorridente, sempre, nonostante tutto. Perché – di nuovo come da titolo – non sono state sempre rose e fiori, ma Panatta sorvola con eleganza e ritrosia, anche se sarebbe questa la polpa del dramma che manca al libro.
(Nota: pure qui, la cura editoriale lascia sconcertati… Nei ricordi della finale di Davis del 1979, a San Francisco, salta fuori un supertifoso ciccione che indossava la maglietta di… Roberto Baggio. Avete capito bene: Roberto Baggio. Nel 1979).

gsm05Bene, soddisfatto? Non ancora. Ho surfato in Rete e non ho resistito: a questo punto volevo e dovevo leggermi anche le bio di Nastase e McEnroe. Quella del primo si presentava benissimo, solo che – estrema beffa, involontariamente in linea con quelle dell’estroso agonista rumeno – Amazon mi ha mandato una copia fallata di Mr Nastase: all’esterno tutto okay, dentro, giuro, The Summer Tree, primo capitolo della saga fantasy The Fionavan Tapestry di tale Guy Gavriel Kay. Che non ho letto, perché – genovese o meno – tutto ha un limite, eh (peraltro Ilie nel 1986 ha scritto un poliziesco pubblicato da “Il Giallo Mondadori”, pensa te!).

gsm06Mi rimaneva, allora, solo Serious, la riedizione in paperback dell’ormai introvabile You Cannot Be Serious (del 2002). Per chi è cresciuto con l’attacco al Palazzo d’Inverno tennistico, quelle due memorabili finali di Wimbledon dove un mancino rossiccio e indisponente sfidava lo strapotere di Borg, questa bio è finalmente la verità dietro al Mito. Ed è una verità agrodolce. McEnroe è simpatico e arguto come pochi, ma sembra non volerti mai dire tutto, troppo impegnato a salvaguardare la sua buona immagine di ora (padre di 6 figli, telecronista, mercante d’arte) e a giustificare i comportamenti di allora. Comportamenti che ovviamente lo hanno fatto amare a una generazione – la sua –, odiare da tutte quelle precedenti e considerare uno stravagante da quelle posteriori.
Anche Nastase urlava all’arbitro. Ma Ilie era un istrione inguaribile, non c’era mai rabbia o cattiveria, solo un’indole cazzona insopprimibile. John McEnroe invece portava in campo le nevrosi del ragazzino cresciuto a Queens, che non sopportava certe regole, che voleva giocare in squadra (da cui l’affezione per la Davis), che era il più giovane tra le prime superstar del tennis e che voleva essere in realtà una rockstar. Cosa che proverà anche a carriera finita con l’improbabile John McEnroe Band di cui ricordo un’infausta (a detta dei giornali ma anche per ammissione dello stesso leader) data al Covo di Nord Est di Santa Margherita. Esito discutibile per chi – appassionato di Led Zeppelin, Black Sabbath e Grand Funk Railroad – aveva preso lezioni di chitarra, in cambio di ore di tennis, da Van Halen, Santana e Joe Walsh… (McEnroe si giustifica asserendo che anche Sinatra, una volta, aveva suonato lì).
John batteva tutto storto. Un movimento che nasceva lentamente, rannicchiandosi verso il basso per poi salire e distendere tutto il corpo, saltare in avanti e battere repentinamente, in un esplosivo movimento unico. Quando l’avversario rispondeva Johnny Mac era già a rete ed era la fine: il serve and volley alla massima potenza.
John colpiva di dritto col polso in avanti, con una naturalezza unica, come se la racchetta fosse il logico proseguimento del braccio. John sfasciava racchette e seggioline, insultava arbitri, incredulo dei loro errori (You can’t be serious!) e litigava col pubblico.
Era quello che ci aveva fatto amare questo gioco nei primi ’80, quando ogni nazione aveva i suoi idoli (Vijay Amritraji per l’India! Victor Pecci per il Paraguay, e con l’orecchino!) e noi ragazzini italiani eravamo ormai orfani.
Il libro ha tutto questo e ripercorre la carriera dello sportivo in maniera abbastanza ovvia, pur partendo la narrazione l’11 settembre, con un’improcrastinabile seduta di analisi cui l’autore non ha rinunciato neanche quel giorno, salvo poi rendersi conto di cosa stesse accadendo. Vorrebbe e potrebbe essere una metafora della vita del protagonista del libro, ma purtroppo, come detto, c’è poco di autoanalitico in Serious e le confessioni sembrano edulcorate. I ricordi poi, certo, son comunque straordinari e la parata di amici e comprimari imperdibile: dall’irreprensibile Borg al sibaritico Gerulaitis, dallo zotico Connors al glaciale Lendl. Il centro della narrazione, però, stavolta non è una vittoria o l’apice di carriera raggiunto a 20 anni (con la domanda senza risposta: “Where I would go now?”), semmai la sconfitta che interruppe il dominio di McEnroe nelle classifiche, una fatidica finale al Roland Garros persa al quinto set col tremendo Ivan. Da quel match e da quello Slam perso e mai più sfiorato, John non seppe più vincere ai massimi livelli. Si sposò con Tatum O’Neal – come successo ad Agassi, un’altra star giovanissima che comprendeva cosa significasse fare quella vita lì – ebbe figli, squalifiche, periodi sabbatici, una separazione acrimoniosa (di cui qui si legge poco o nulla) e ancora tantissimo tennis professionale, ma sempre in posizioni di retroguardia, incalzato dai giovani turchi come Becker o Agassi stesso. La vita dopo è interessante, con la scoperta dell’arte, col proprio talento affabulatorio messo a disposizione del tennis televisivo e con la Davis seguita da capitano del Team USA, ma è tutto giornalistico e per nulla epico: rispetto ad Open, qui non c’è il dramma, ma solo la cronaca. E se anche qui l’amore è la retribuzione finale di tutta questa carriera esistenziale e sportiva, l’unione con la musicista Patty Smyth (sì, proprio così: come Patti Smith, ma con le Y) è riferita quasi in termini burocratici. Peccato. Le 300 pagine scorrono comunque piacevolmente e a libro concluso si conferma la simpatia che questo irlandese cocciuto, polemico e assolutamente ansioso di protagonismo ispirava quando era in campo.
Serious chiude con l’ipotesi di entrare in politica (non è chiaro in che partito) e l’affermazione a effetto: “sono assolutamente serio”.
Non è (ancora) accaduto. E chissà se avrebbe senso.

(Prima che Alessandro Baricco ne sancisse il successo editoriale, avevamo già parlato sulle pagine di Carmilla di Open da quel dì. Come la sponsorizzazione di un Giuliano Ferrara non rovina La versione di Barney, così quella dell’intellettuale torinese non scalfisce la bellezza del libro di Agassi. E perciò vi riproponiamo la nostra recensione sui generis: se non avete ancora letto Open, forse è la stagione giusta).

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