Risultati della ricerca per “corpi remoti” – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 28 Apr 2024 20:15:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Immersioni quotidiane https://www.carmillaonline.com/2024/01/30/immersioni-quotidiane/ Tue, 30 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80661 di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce [...]]]> di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce delle innovazioni tecno-estetiche e visuali prodotte dai nuovi media e dalle loro potenzialità immersive. Il volume si articola dunque in cinque capitoli in cui, attraverso una pluralità e una varietà di sguardi, vengono indagate forme e figure di esperienza della vita ordinaria e delle nuove tecnologie.

Gli interventi raccolti nel Primo capitolo indagano come i media visivi e audiovisivi tendano ad assegnare ruoli e posizioni soprattutto a soggetti marginalizzati ma anche come questi possano, grazie agli usi di tali dispositivi, sottrarsi agli incasellamenti sociali e culturali loro imposti. I saggi di Sofia Pirandello, Margherita Fontana, Alice Cati e Luisella Farinotti affrontano il rapporto delle donne con la fotografia nel suo oscillare tra pratica emancipatava e strumento di mantenimento, se non di rafforzamento, di incasellamento sottomissivo.

Il Secondo capitolo è dedicato alla costituzione della soggettività alla luce del ruolo svolto dai media nel plasmare e riplasmare il modo in cui il soggetto si presenta agli altri. Federica Villa si occupa della rappresentazione del volto e dei filtri digitali, Lorenzo Donghi e Deborah Toschi affrontano la rielaborazione in forma visiva dei dati derivanti dal self-tracking, Paola Lamberti e Clio Nicastro approfondiscono alcune forme di disagio contemporaneo alla luce dei media, dall’ansia giovanile su Tik Tok ai disturbi alimentari messi in scena dal cinema, Imma De Pascale, infine, si occupa della produzione fotografica di Vivian Maier.

Alle forme artistiche ottenute attraverso i dispositivi mediali contemporanei è dedicato il Terzo capitolo. Elena Lazzarini e Augusto Sainati ricostruiscono le tappe principali dell’“immersività” a partire dai sui esempi più remoti, Andrea Mecacci indaga il “Pop diffuso” inteso come processo di estetizzazione della società e della cultura che ha condotto all’esteticità diffusa e post-mediale di oggi, Luca Malavasi si occupa delle forme di espansione dell’universo immaginario e filmico che permettono processi di appropriazione e manipolazione mentre, viceversa, Adriano D’Aloia e Federica Cavaletti indagano casi in cui sono i media a “manipolare” i loro utenti, dal ruolo del selfie nel riorganizzare il rapporto del soggetto con sé stesso all’incidenza della realtà virtuale nel rapporto tra soggetto ed esperienze vissute negativamente come il senso di vergogna.

Il Quarto capitolo presenta una serie di saggi incentrati su come i media mutino tendendo ad adattarsi a determinati requisiti e usi, o abusi. Alessandro Costella ricostruisce la storia che ha condotto all’affermazione della superficie trasparente in varie tipologie di dispositivi visivi, «di quegli schermi cioè che non sono fatti per essere guardati, ma per farsi guardare attraverso», Diego Cavallotti guarda alla “trasparenza” come a una «condizione necessaria per la naturalizzazione o “banalizzazione” dell’uso dei media» esaminando in particolare il ruolo giocato dalle videocamere analogiche, Filippo Fimiani e Anna Chiara si occupano del ruolo delle immagini registrate dalle tante videocamere che riprendono il quotidiano, Max Schleser ragiona attorno al filmmaking portatile intendendolo come un genere cinematografico a sé stante, mentre Emilia Marra si occupa di come la fruizione degli archivi di materiale registrato sul web si rifletta sulle facoltà umane.

L’ultimo capitolo si concentra sui media all’interno del tessuto cittadino e comunitario mettendone in luce le valenze politiche. Ruggero Eugeni guarda all’automobile contemporanea come a un iper-medium, Arianna Vergari riprende le “sinfonie della città” realizzate a partire dagli anni Venti del secolo scorso osservando come queste rappresentino e de-familiarizzino l’esperienza quotidiana dello spazio urbano, Miriam De Rosa indaga come gli artefatti mediali attivino gli spazi in cui sono collocati, delle modalità di costruire spazi si occupa anche Roberto Pisapia esaminando il placemaking, il placetelling e il placedoing, infine Giuseppe Previtali indaga il ricorso ai meccanismi videoludici nella realtà quotidiana, nella comunicazione politica e, in particolare, nella comunicazione della “Guerra al Terrore”.

Nel loro insieme, i contributi raccolti in questo volume forniscono una pluralità e una varietà di sguardi su un fenomeno che oggi sembra tanto più urgente indagare, quanto più a portata di mano e sotto gli occhi di tutti noi. Un fenomeno forse unico, come lo è ogni fenomeno di un certo momento storico, ma né unitario né unificabile, e che anzi chiama a raccolta nuovi punti di vista, nuovamente e diversamente situati, che non potranno che essere seriamente curiosi e arrischiati, cioè davvero interdisciplinari. Perché le immersioni quotidiane nelle nuove tecnologie vanno insieme alle immersioni nel quotidiano grazie ai media e ai loro usi, e alle competenze ermeneutiche e critiche che da tali usi possiamo apprendere e sperimentare. Ogni giorno diversamente.

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In che accidenti di mondo siamo? https://www.carmillaonline.com/2023/12/10/in-che-accidenti-di-mondo-siamo/ Sun, 10 Dec 2023 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80093 di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael [...]]]> di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael Crichton utili non solo a evidenziare le mutate modalità con cui attraverso il filtro distopico si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici e all’emergere della questione della “coscienza artificiale”, ma anche a prendere atto delle nuove forme di sfruttamento introdotte dall’universo digitalizzato contemporaneo.

Dopo essersi soffermata sul perturbante confronto tra l’essere umano e la macchina antropomorfa, sul rapporto tra identità/alterità che ne deriva e sul problema della coscienza a partire da alcuni celebri interrogatori o colloqui psicoanalitici proposti dalla fantascienza – dalle indagini del robopicologo di Mirror Image (1972) di Isaac Asimov, alla misurazione dell’empatia del test Voight-Kampff in Do Androids Dream of Electric Sheep (1968) di Philip K. Dick, poi ripreso dal film Blade Runner (1982) di Ridley Scott, fino al dialogo tra due cyborg ibridazioni umano-tecnologiche di Ghost in the Shell, media franchise sviluppatosi a partire dal celebre manga di Masamune Shirow (dal 1989) – Emanuela Piga Bruni propone un interessante confronto tra il film Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton e la serie televisiva da esso derivata Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld, dal 2016) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy per HBO suggerendo importanti riflessioni sul contesto contemporaneo ipertecnologico votato alla disincarnazione dell’umano e alla trasformazione del suo immaginario e della sua coscienza.

Un contesto, quello contemporaneo, in cui pur persistendo il fascino per l’avanzata digitale nonostante il palesarsi della deriva a cui questa sta conducendo in termini di controllo e sfruttamento, cresce anche il timore per la perdita del controllo sulle tecnologie da parte degli esseri umani indotti a domandarsi con preoccupazione se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana evitando però di chiedersi quanto quest’ultima si stia nel frattempo “computerizzando” per effetto delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dell’Intelligenza Artificiale al servizio del capitalismo della sorveglianza e predittivo.

Alcune narrazioni distopiche hanno saputo proporre riflessioni sull’incidenza delle tecnologie sugli esseri umani e su come questi ultimi si stiano trasformando. Se il romanzo di fine anni Sessanta Do Androids Dream of Electric Sheep di Dick si concentra sulle strutture oppressive del potere in un periodo incentrato sul medium televisivo, nel film dei primi anni Ottanta Blade Runner di Scott è invece l’universo informatico nella forma antropomorfa del replicante a conquistare la scena.

Confrontando l’androide del romanzo con il replicante del film si nota come del primo Dick eviti di dare una descrizione tecnologica, tratteggiandolo quasi come una figura magica, mentre il secondo venga utilizzato da Scott per mettere in scena non tanto una guerra tra esseri umani e macchine sfuggite al controllo, quanto piuttosto un tragico confronto tra macchine sempre più intelligenti e intuitive che sembrano dotarsi di coscienza ed esseri umani che stanno perdendo le loro peculiarità.

Se nel romanzo sono gli androidi a mancare di empatia, nel film sono piuttosto gli umani a mostrarsi deficitari in tal senso. Nell’opera di Scott il discrimine tra umano e macchina si sposta sulla presenza o meno di un passato, su quanto i ricordi siano derivati da esperienze vissute o impiantati artificialmente. Evidenziando il processo di artificializzazione del corpo umano, il film, rispetto al romanzo, insiste sulla sempre più difficile distinguibilità tra naturale e artificiale, tra organico e tecnologico.

Nell’opera di Dick l’artificiale assume un ruolo negativo in quanto simboleggia la realtà sintetica creata dai media e dalla farmacologia che ha condotto alla perdita di qualità tipicamente umane come l’empatia, l’amore e l’ironia: lo scrittore invita dunque a cogliere nell’artificiale la manipolazione della realtà operata dal potere.

Si può dire che a marcare una differenza sostanziale tra gli androidi di Dick e i replicanti di Scott è il fatto che mentre i primi vengono considerati demoni perché mancano di un’anima, i secondi si presentano come vittime del demone umano che sembra ormai aver smarrito la propria.

La questione della macchina antropomimetica è affrontata da Dick in un paio di suoi racconti nei primi anni Cinquanta: Second Variety e Impostor pubblicati su riviste di fantascienza nell’estate del 1953 (rispettivamente su “Space Science Fiction” e “Astounding Science Fiction”). Se nel primo il dover distinguere chi è umano da chi non lo è induce il lettore a immedesimarsi con il protagonista umano certo di essere tale, nel secondo caso chi legge è invece portato a identificarsi con chi, sospettato di essere artificiale, sente minacciata la propria identità di essere umano.

La questione della macchina antropomimetica si viene a intrecciare con il motivo del “cogito androide” ripreso da Dick sul finire degli anni Sessanta tanto nel citato Do Androids Dream of Electric Sheep? quanto nel racconto The Electric Ant (1969) in cui non ci si chiede più se si è realmente umani o soltanto programmati come tali, ma ci si domanda come possa reagire un robot organico che si crede umano nel momento in cui viene a conoscenza della sua vera natura. La questione del cogito androide, centrale nel film di Scott, viene affrontata direttamente da Dick nei suoi scritti The Android and the Human (1972) e Man, Android and Machine (1976).

Anche dal confronto tra il film Westworld di Crichton e l’adattamento che ne ha derivato l’omonima serie televisiva creata da Jonathan Nolan e Linda Joy proposto da Emanuela Piga Bruni – che si concentra esclusivamente sulla prima stagione –, permette di evidenziare come siano cambiate le modalità con cui si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici, con tanto di emergere della “coscienza artificiale”.

Lo scenario è quello di un parco divertimenti a tema con diverse ambientazioni – antica Roma imperiale, medioevo fiabesco e western di fine Ottocento – di proprietà della corporation Delos Inc. in cui operano robot antropomorfi indistinguibili dagli esseri umani programmati per soddisfare i desideri dei facoltosi visitatori sotto la discreta sorveglianza di operatori umani da una sala di controllo.

Ai clienti è permesso tutto ciò è invece loro proibito nella vita quotidiana in quanto ogni loro comportamento è rivolto contro esseri non umani imprigionati nella coazione a ripetere programmata, impossibilitati a ribellarsi mettendo in pericolo i visitatori. Un guasto nei robot induce uno di loro, il gunslinger “dal cappello nero” – che ha le sembianze dell’attore Yul Brynner, tra i protagonisti del celebre western I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges – a prendere violentemente di mira uno dei clienti, Peter Martin (Richjard Benjamin), arrivato nel parco insieme all’amico John Blane (James Brolin), dai diversi tratti compartimentali.

Nella serie televisiva i due amici diventano Logan (Ben Barnes), individuo senza scrupoli desideroso di sfogare i suoi peggiori istinti sui personaggi antropomorfi, e William (Jimmi Simpson), che da un iniziale ritrosia a commettere atti violenti si trasforma nel corso delle sue ripetute partecipazioni al gioco facendo pian piano emergere la parte più oscura di sé mentre tenta di risolvere il “mistero del labirinto” e di scoprire il dietro le quinte del parco.

Centrale nella serie è il personaggio di Dolores, prototipo degli host realizzati da Robert Ford (Anthony Hopkins) e dall’ormai deceduto, rispetto al presente narrativo, Arnold Weber (Jeffrey Wright), incline a essere solidale alle proprie “creature”.

Piga Bruni sottolinea come sul piano metanarrativo il testo televisivo non manchi di rinviare alla produzione e al funzionamento tipici della serialità generando un meccanismo di mise en abîme. Il controllo si presenta come un sistema a livelli concentrici con al centro i loops degli host, dunque le gesta dei clienti, i tecnici della corporation e, al livello più esterno, chi osserva la serie televisiva da casa. Ogni anello permette l’osservazione degli anelli che contiene.

Sia le attrazioni che i visitatori vivono nell’illusione di avere una scelta, mentre sono spiati e utilizzati per il profitto. Pur con livelli diversi di consapevolezza e margine d’azione, entrambe le categorie agiscono ritenendo di poter scegliere, di essere responsabili delle proprie azioni, ma le loro scelte sono predeterminate dal ridotto novero di possibilità offerte a monte. È una riflessione che possiamo estendere al cerchio esterno di noi spettatori, seguendo un percorso ricorsivo che attraversa mondi che sono via via reali uno all’altro1.

In tali tipi di narrazioni distopiche la figura dell’androide si presta facilmente a fungere da «allegoria di tutti i (s)oggetti sfruttati» imponendo una riflessione sui risvolti etici e sul ruolo della tecnologia nella nostra contemporaneità.

Se gli esseri antropomimetici del film di Crichton degli anni Settanta venivano presentati come macchine elettromeccaniche rivestite da sembianze umane, gli host della serie televisiva del nuovo millennio mostrano di essere costruiti con ossa, carne e sangue, del tutto simili agli umani ben oltre le sembianze superficiali. L’evoluzione non riguarda solo i corpi di questi esseri artificiali ma tocca anche la dimensione della coscienza e delle emozioni.

A differenziare gli esseri antropomimetici proposti della serie televisiva rispetto da quelli del film è la presenza di qualche manifestazione di coscienza. A palesare la dimensione puramente macchinica dei robot di Crichton, suggerisce la studiosa, sono le immagini in soggettiva del pistolero pixelate e scarsamente definite; scelta stilistica volta a sottolineare che si tratta di una ribellione contro gli umani del tutto inconsapevole, priva di una benché minima autodeterminazione, derivata semplicemente da un malfunzionamento tecnologico.

Come sottolinea Piga Bruni, la presenza di un barlume di coscienza negli esseri artificiali della serie televisiva è individuabile, ad esempio, nello sguardo di Maeve quando, per l’ennesima volta, dopo essere stata uccisa al termine del gioco, viene ritirata dai tecnici per essere rimessa in funzione per poi venire nuovamente destinata a soddisfare i clienti. A differenza della visione pixelata del pistolero del film, «la prospettiva di Maeve è nettamente situata, ed esprimere pienamente la dimensione creaturale di una donna ferita, il suo stupore misto a terrore, la percezione di essere in un incubo ancora più inquietante quando, agonizzante ma cosciente, vede il personale del parco incaricato del ritiro»2.

Le modifiche inserite dai creatori nel codice sorgente degli esseri antropomimetici volte a permettere uno sviluppo autonomo della cognizione di sé – come le reveries, le ricordanze – conducono all’emersione di una “coscienza artificiale” e alla definizione di un “inconscio artificiale” immanente, segnando il passaggio verso l’elaborazione di una loro “coscienza collettiva”, «una coscienza di classe volta a intraprendere azioni per riscattare le oppressioni, le torture e lo sfruttamento. Appare allora evidente l’allegoria per cui la condizione delle macchine antropomorfe nella finzione narrativa sia quella concreta degli esseri umani contemporanei, a un tempo merce del capitalismo digitale e fonte della materia prima nell’era del capitalismo della sorveglianza»3. Insomma, negli esseri antropomimetici oppressi di Westworld dovremmo riconoscerci noi esseri umani del nuovo millennio.

Nella serie, la ribellione degli host creati da Robert Ford – che non manca di evocare, sottolinea Piga Bruni, tanto il legislatore di Brave New World (1931) di Aldous Huxley, quanto il sistema fordista – posseduti dalla corporation Delos Inc. e utilizzati da questa nel suo prodotto/servizio di intrattenimento, non deriva da un malfunzionamento tecnico come nel film «ma è un frutto di un percorso di riconquista di sé, di riappropriazione delle proprie memorie ed esperienze, di autodeterminazione, che viene messo in atto da esseri senzienti dotati di percezioni e capaci di provare emozioni»4.

“Il mito della produzione a tutti i costi”, nella rappresentazione di Westworld, è un sistema pervasivo che controlla il ragionamento degli host, cancella i ricordi delle violenze da essi subite e ne dirige i comportamenti. Il controllo delle menti avviene poi anche attraverso alcune pratiche pseudoipnotiche attraverso le quali è possibile orientare direttamente il comportamento dei singoli soggetti: il codice sorgente caricato nel cervello degli androidi contiene evidentemente alcune subroutine che si attivano al riconoscimento della voce e dei gesti di chi detiene il potere5.

Il meccanismo dispotico si estende nella trama nascosta e illecita volta a sfruttare i visitatori dei quali interessa il “surplus comportamentale”. Insomma, il parco a tema si mostra un grande sistema totalitario in cui gli androidi sono mercificati e sorvegliati dalla corporation e i visitatori umani «sono materia prima per il parco in quanto macchina produttiva totalizzante»6. Tutto ciò si estende anche ai telespettatori.

In riferimento più immediato è alla sfera dei social network, gli spazi virtuali in cui i soggetti si muovono dimenticandone la natura mercantile, in cui agiscono senza curarsi di essere osservati e registrati. La spazialità del parco è un fenomeno sociale (delle relazioni tra umani, androidi e il panopticon), così come lo sono gli spazi digitali privati nei quali immettiamo immagini, spostamenti, ricordi, riflessioni e legami affettivi: la materia prima che le grandi corporation che li possiedono conservano in archivi remoti e analizzano in modo da acquisire competenze sulle nostre vite singolari più di quanto non possiamo noi stessi7.

Per Dolores il labirinto di cui prova a venire a capo diviene metafora del proprio sé profondo che conduce alla presa di coscienza di una condizione di essere sovradeterminato e sfruttato abitante un mondo fittizio creato da altri. «Origine o fulcro della presa di coscienza individuale, la scoperta la spinge a trascendere la fisionomia remissiva assegnatale dai creatori – dai “sognatori”, i proprietari del parco – e divenire il villain»8. Dalla complessità labirintica derivano gli interrogativi che si pone Dolores: “Who am I?”, “When am I?”, “Am I in a dream?”.

L’insistito ricorso alla domanda “Have you ever questioned the nature of your reality?” nella serie televisiva ci invita a domandarci “In che accidenti di mondo siamo?”, “Cosa siamo diventati?”. Se i replicanti di Blade Runner e gli host di Westworld, dotati di un briciolo di coscienza, hanno saputo ribellarsi, per quanto sempre meno umani possiamo essere divenuti, forse ci resta ancora qualche possibilità di farlo anche noi. Domandarcelo sarebbe già un importante passo in avanti.

 

 


  1. Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, Carocci, Roma 2022, p. 74. 

  2. Ivi, p. 79. 

  3. Ivi, p. 77. 

  4. Ibidem

  5. Ivi, p. 80. 

  6. Ibidem

  7. Ivi, p. 81. 

  8. Ivi, p. 85. 

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Mummie a zonzo & mitologie del controllo (Victoriana 22 / VI) https://www.carmillaonline.com/2021/11/20/mummie-a-zonzo-mitologie-del-controllo-victoriana-22-vi/ Sat, 20 Nov 2021 21:42:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69306 di Franco Pezzini

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E le (sette) stelle stanno a guardare

La seconda parte di The Jewel of Seven Stars è nel complesso breve, di mero snodo. Al capitolo XIII Trelawny si riveglia dopo quattro giorni di trance, trovandosi a fianco Ross che lo stava vegliando, e saltano fuori i sentimenti di quest’ultimo per Margaret: commosso consenso del padre, felicitazioni dei presenti nella casa per la ripresa del vecchio archeologo, conciliaboli nella sua stanza con l’uno e con l’altra dei personaggi. Malcolm scopre che Margaret [...]]]> di Franco Pezzini

[Qui la puntata precedente]

E le (sette) stelle stanno a guardare

La seconda parte di The Jewel of Seven Stars è nel complesso breve, di mero snodo. Al capitolo XIII Trelawny si riveglia dopo quattro giorni di trance, trovandosi a fianco Ross che lo stava vegliando, e saltano fuori i sentimenti di quest’ultimo per Margaret: commosso consenso del padre, felicitazioni dei presenti nella casa per la ripresa del vecchio archeologo, conciliaboli nella sua stanza con l’uno e con l’altra dei personaggi. Malcolm scopre che Margaret ha a sua volta un segno rosso sul polso, come a richiamare la mutilazione della mummia di Tera: e Trelawny informa la squadra di amici del grande esperimento che conta di portare a termine, aprendo a pagine di sapienza altrimenti inattingibile. Malcolm accetta di partecipare per amore di Margaret: si tratta di agevolare il ritorno in terra di Tera, mettendo in moto un rituale articolato attraverso gli oggetti trovati nella tomba. Le aggressioni allo studioso sono state scatenate dal Famiglio della regina, il felino imbalsamato presso di lei, per fargli aprire la cassaforte e trarne il Gioiello delle Sette Stelle, cioè il rubino lavorato e inscritto con geroglifici trovato in origine sotto la mano della mummia. Addornentata in attesa per quaranta o cinquanta secoli, ma viva attraverso il suo corpo astrale, Tera attende di tornare, nel tempo congruo secondo le stelle: e qui Stoker inseriva un capitolo XVI, “Powers–Old and New” di natura speculativa, che nella successiva edizione stralcerà e manca nelle edizioni italiane. La peculiarità è che lì Malcolm cerca di far quadrare le tesi magiche e pagane di Trelawny – che suscitano in Margaret grande eccitazione – con un depositum fidei cristiano: e il turbamento per l’impatto devastante di un successo del politeismo pagano e della magia di Tera eventualmente risorta contro la fede tradizionale cristiana d’Inghilterra viene superato solo quando il narrante riesce ad associare i misteri in questione a quelli scientifici (in particolare il radio studiato dai Curie, l’elettricità stessa che già gli egizi avrebbero sfruttato) in corso di studio all’epoca.

La terza parte vede la squadra curare un mastodontico trasloco di tutta l’attrezzatura magica della tomba nella villa di Trelawny a Kyllion in Cornovaglia dove si svolgerà il Grande Esperimento: Margaret alterna momenti di eccitazione ad altri di strana distrazione e ambiguità in cui sempre più sembra possedere una diversa e più forte personalità che spiazza e addolora Malcolm. E ripensa alla nascita della ragazza, estratta dal ventre di una madre morta mentre il padre e un amico erano in trance in una tomba egizia: l’ipotesi di una possessione della neonata da parte dell’identità di Tera resta agghiacciante. Quando Malcolm sottolinea che quella mummia avrebbe già ucciso o fatto morire – solo per quanto sanno – ben nove uomini, Margeret lo accusa di essere ingiusto e Trelawny parla della propria soggettiva buona fede circa l’intervento nella tomba; quanto alla possibilità, adombrata da Malcolm, che nella figlia riviva in qualche modo la regina, ne sarebbe solo lieto. Margaret garantisce che Tera non farà loro alcun male… A dispetto delle passeggiate sulla scogliera della Cornovaglia, tra la villa dei conciliaboli e la caverna vicina attrezzata a laboratorio per il Grande Esperimento, di nuovo abbiamo qui un ambiente claustrofobico, per quanto idealmente spalancato a un orizzonte internazionale vastissimo: nel 1882 l’impero britannico ha infatti occupato l’Egitto, ma già almeno da un ventennio è florido il cosiddetto Egyptian Gothic che durerà fino alla soglie della Grande Guerra, enfatizzando le dimensioni di minaccia legate ai misteri locali e alla prodigiosa conservazione dei corpi. Se a connotare l’Imperial Gothic sono le minori occasioni di avventura offerte dal mondo moderno (l’Egitto qui resta sullo sfondo, meta di viaggi degli anziani Trelawny e Corbeck), la penetrazione nel mondo civile di forze arcaiche e demoniache e fenomeni di regressione psicologica o culturale (qui attraverso la possessione di Margaret da parte dell’antica regina), è interessante il rapporto tra questo romanzo e il capolavoro di Stoker varato pochi anni prima: Dracula viene sconfitto, Tera (almeno nella prima versione) no.

Non entriamo eccessivamente nei dettagli: la prima edizione, 1903, vedeva un finale tragico con una notte da tregenda in cui solo Malcolm sopravvive, dopo che una caligine strana liberata dallo scrigno di Tera ha occupato tutto lo spazio sotto le volte. Della regina, che Malcolm ha preso in braccio scambiandola per la ragazza amata, è rimasta solo la veste nuziale, vuota; menttre i compagni – Margaret compresa – giacciono a terra morti. La disturbante nuzialità simbolizzata da quel trasporto in braccio fin oltre la soglia della casa, la sparizione che lascia dei panni vuoti – un’antiresurrezione piuttosto disturbante, a richiamo invertito dei Vangeli della Pasqua – e la chiusa dura del finale devono, a posteriori, essere apparsi troppo crudi a Stoker. Lì, l’operazione non riuscita ad Ayesha in She di Rider Haggard, cioè l’imporsi al mondo moderno con la magia dell’antico, invadendo la civiltà occidentale e frantumandone le credenze, riesce a Tera. Ma nel 1912, per suggerimento degli editori turbati (è la prima volta che un finale dell’autore risulta così cupo) o più credibilmente per scrupoli personali l’anno della morte, Stoker ripubblica il tutto eliminando il capitolo XVI che sollevava rischi di dubbi teologici tra i lettori, e riscrivendo il finale in chiave tranquillizzante: dopo il momento di brivido tra i bravi vittoriani che vedrebbero nudo il corpo di Tera, l’esperimento in apparenza fallisce con l’annullamento fisico della mummia. O piuttosto con una sua definitiva e benefica compenetrazione nell’identità di Margaret, nel lieto fine controllato del loro matrimonio. In Italia, Il gioiello delle sette stelle è apparso in Oscar Mondadori tradotto da Claudio de Nardi e introdotto da Giuseppe Lippi nel 1992 con il finale originario (ma senza il famoso capitolo XVI), nel 1996 tradotto da Federica Oddera in Superbur con il finale addomesticato.

Il romanzo esplora temi cari al tempo e ad altre opere dell’autore, in particolare Dracula: il rapporto tra il Nuovo (progresso, scienza) e l’Antico (magia, misteri), l’imperialismo (si parla usualmente di Imperial Gothic a proposito di romanzi in cui sono evidenti la preoccupazione per il declino dell’impero britannico e la paura del futuro, espressi attraverso temi disturbanti dell’occulto, della morte e del sesso), i nuovi profili di donna emergenti e le inquietudini da essi suscitati (la New Woman, le suffragette…). Stoker ricorda del resto gli entusiasmi egittologici del padre di Oscar Wilde, Sir William Wilde, che ha frequentato in gioventù, e mostra di essersi documentato con cura anche su scavi recenti. Ma recuperando proprio il tema dell’erotizzazione del corpo morto o similmorto preservato dal tempo tramite gli antichi rituali che connota l’Egyptian Gothic riesce a offrire una chiave molto più interessante per il cinema di fine Sessanta e inizio Settanta, tra inquietudini di possessione, fremiti sessuali e ribellioni agli stereotipi. Il discorso sul controllo assume dunque tutt’altre tonalità.

Pensato come support feature a Dr. Jekyll and Sister Hyde (Barbara, il mostro di Londra) di Roy Ward Baker, 1971, Blood from the Mummy’s Tomb pare però un film maledetto. La regia viene affidata al talentuoso Seth Holt, che muore all’improvviso durante la lavorazione nel febbraio ’71 (letteralmente sul set, per un attacco di cuore); negli ultimi giorni di riprese gli subentra dunque Michael Carreras. Ma anche l’interprete previsto per il ruolo-cardine dell’anziano egittologo professor Julian Fuchs, Peter Cushing, deve rinunciare dopo un solo giorno di riprese per il precipitare delle condizioni della moglie (che morirà poco dopo, a metà gennaio ’71, lasciandolo devastato): della sua fugace apparizione sul set restano poche foto, con una sostituzione in corsa da parte di un altro nome noto della squadra Hammer, il distinto Andrew Keir (già protagonista di Quatermass and the Pit, 1967), supportato da un gruppo di bravi colleghi.

Con alcuni limiti che occorre ricondurre al travaglio di un’epoca nel rileggere il gotico, il film risulta interessante e, per chi ama il genere, abbastanza riuscito: un’interpretazione certo libera ma intelligente del romanzo di Stoker – la sceneggiatura è di un apprezzato professionista, Christopher Wicking – e l’insieme elegante e visionario. Le riprese avvengono negli studi di Elstree.

I titoli di testa si aprono su un cielo stellato, che scopriamo spalancarsi su uno scenario egizio. Passiamo poi in una tomba, dove una regina – sempre egizia, giovane e bella – è coricata in un sarcofago. Attorno, vari oggetti rituali: le statue di un cobra e di un gatto, un cranio di sciacallo… La regina non è morta, perché respira: un gruppo di sacerdoti l’ha drogata, per seppellirla in stato di animazione sospesa con la sua attrezzatura magica. Per questo praticano uno strano rituale sul suo corpo, facendole colare un liquido nel naso e quindi mozzandole una mano con un’ascia rituale. La solita mano tagliata, insomma, che qui è portata fuori e lanciata agli sciacalli. La bella regina viene poi richiusa nel sepolcro… ma a quel punto i sacerdoti, usciti, sono investiti da un vento strano e violento, e uno dopo l’altro cadono con la gola squarciata; d’altra parte notiamo anche uno sciacallo sgozzato, mentre la mano mozza si allontana come un ragno tra la sabbia… Il tema della mano mozzata che compie nefandezze non è del resto nuovo nell’horror d’epoca, basti pensare all’episodio Disembodied Hand nell’omnibus Dr. Terror’s House of Horrors (Le cinque chiavi del terrore) di Freddie Francis, 1965 e al gotico And Now the Screaming Starts! (La maledizione) di Roy Ward Baker, 1973, entrambi per la casa Amicus.

Tutto questo era però oggetto degli incubi – che scopriremo ripetersi da tempo – di una ragazza moderna, Margaret, ovviamente sosia della regina (a interpretare entrambi i ruoli femminili è la bruna Valerie Leon futura Bond girl): e alle sue grida angosciate accorre a calmarla il padre, appunto il professor Fuchs. Non sanno che un equivoco individuo, uno strano poseur dai modi affettati, li sorveglia dalla casa davanti.

Al mattino, la vigilia del compleanno di Margaret, il professore le dona un fantastico anello, nella cui pietra s’intravedono rilucere sette stelle: ma quando il fidanzato Tod Browning (sic, curiosamente, come il celebre regista: Mark Edwards) si reca con lei da un amico archeologo, Geoffrey Dandridge (l’attore e commediografo Hugh Burden), per fargli mostrare quell’oggetto evidentemente frutto di qualche missione in Egitto, questi alla vista di Margaret ha una crisi di panico e sviene.

Al rientro nottetempo a casa, la ragazza e Tod odono però un grido dalla parte della casa che resta interdetta persino alla figlia del professore: e accorrendo in cantina lo trovano privo di sensi e ferito alla gola. Davanti a lui, in un ambiente che ricostruisce la tomba della regina dell’incubo è il sarcofago dove lei giace, perfettamente conservata: e dal polso troncato in un passato remotissimo fluisce sangue fresco… Stranamente Margaret non resta stravolta – come saremmo noi – dalla presenza di un cadavere inquietantemente fresco dopo migliaia d’anni, o dall’assurda somiglianza che la lega a esso; ma presto inizia a subirne l’influsso, conoscendo una progressiva mutazione di personalità.

Il professore resta a lungo privo di conoscenza, e il dottor Putnam (il ghignante, bravissimo Aubrey Morris) è perplesso. Ma profittando del padre di lei fuorigioco, l’affettato individuo che occhieggia dalla casa davanti avvicina la ragazza fingendo che Fuchs l’avesse convocato. Si chiama Corbeck (James Villiers, altro volto noto di cinema e anche televisione britannica), e fornisce informazioni sul corpo della regina. Dopo ricerche durate una vita, il professor Fuchs l’aveva trovato in Egitto, nel corso di una spedizione cui avevano partecipato anche Corbeck, Dandridge, il povero Berigan ora chiuso in manicomio (George Coulouris, attore noto di cinema e teatro) ed Helen Dickerson (l’attivissima Rosalie Crutchley), ritiratasi infine a sbarcare il lunario come chiaroveggente: una spedizione che non aveva lasciato pubblicazioni o resoconti… Il corpo trovato è quello di Tera (Cleo nell’edizione italiana), regina odiata dai sacerdoti per la sua adesione a conoscenze magiche ed eretiche: e Margaret è nata nell’istante in cui il corpo veniva trovato. L’anello dato da Fuchs alla figlia non è insomma un dono per proteggerla, ma qualcosa che favorisce l’identificazione con Tera; anche se Fuchs considera Tera malvagia e conta di controllarla per sfruttarne i poteri, mentre Corbeck vorrebbe lasciarla scatenare. I partecipanti alla spedizione si sono però lasciati in cattivi rapporti, e Corbeck vuole farsi aiutare da Margaret a raccogliere gli oggetti magici della tomba.

Berigan, davanti al quale Margaret ha conosciuto il primo momento di identificazione con Tera ed è terrorizzato, muore con la gola squarciata nella sua cella al manicomio – in apparenza ucciso dalla statua del serpente che così viene recuperata. Poi tocca a Dandridge, che Tod trova morto nel cortile sottostante l’ufficio – naturalmente sgozzato – e stavolta recuperano il cranio di sciacallo. Raccolti tutti gli oggetti necessari al rito per ridestare Tera,  Corbeck, Margaret e Fuchs vi danno inizio. Appreso però che il risveglio della regina significherà la morte di Margaret, Fuchs e lei sopraffanno ed eliminano Corbeck: a quel punto Tera si desta e uccide Fuchs, ma Margaret la pugnala… e la casa finisce col crollare loro addosso.

Più tardi, in ospedale, apprendiamo che una donna dal viso bendato è l’unica sopravvissuta e i corpi degli altri sono sfigurati. La donna bendata, aprendo gli occhi, cerca di parlare: ma resta incerto se sia Margaret o Tera…

Il film, per quanto apprezzabile e ben retto dai professionisti Hammer, non riesce a rendere il clima d’assedio del romanzo e certamente non ispira inquietudine: ma offre un precedente cinematografico interessante per nuove declinazioni del mito.

Frattanto, sulla scia delle storie Hammer, mummie varie sono apparse qui è là per tutto l’orizzonte dell’horror. È il caso di The Mummy and the Curse of the Jackals di William Edwards, 1969, dallo sviluppo un po’ monco (John Carradine vi appare brevemente); della macedonia all monsters Los monstruos del terror (Operazione terrore), 1970 di Tulio De Micheli, Hugo Fregonese ed Eberhard Meichsner, dal sapore un po’ alla Ed Wood, inevitabile apparizione dell’amico bendato nella saga dominata da Paul Naschy (al secolo, Jacinto Molina) in panni e peli del licantropo Waldemar Daninsky, e di un altro film interpretato da Naschy, La venganza de la momia, 1973 di Carlos Aured; dell’ispano-francese El secreto de la momia egipcia di Alejandro Mart, 1973. Divertenti, anche godibili, ma la presenza inquietante è ridotta a un mascherone.

L’avventura Hammer si è ormai conclusa. Per trovare qualcosa di interessante dobbiamo attendere l’uscita di The Awakening (Alla trentanovesima eclisse) di Mike Newell, USA 1980, una buona, libera ma tesa trasposizione britannica del Gioiello delle sette stelle con Charlton Heston nei panni dell’archeologo inglese Matthew Corbeck (quello di Stoker si chiama Eugene), alla ricerca di una certa tomba grazie al diario di un viaggiatore olandese del Seicento. Nella tomba è tumulata una dimenticatissima regina egizia, Kara (invece di Tera, ma è anche in pratica il femminile del nome Kharis della vecchia mummia): e a permettere a Corbeck la scoperta è un’iscrizione rinvenuta dalla sua assistente, Jane Turner (Susannah York), nella Valle dei Re con lui e la moglie incinta Anne (Jill Townsend). La storia è ambientata nell’età odierna (l’avvio presenta una sovrascritta “Diciotto anni fa”): proprio mentre Matthew e Jane aprono la tomba, dove l’immagine della regina appare cancellata dalla damnatio memoriae, Anne viene colta dalle doglie e, ritrovata in condizioni delicate e sotto shock al loro rientro al campo, è trasportata di corsa da Matthew all’ospedale al Cairo. Lì però lui la lascia, e torna nel deserto: a monte insomma della vicenda troviamo un amore coniugale e paterno zoppicante, laddove la vera partner dell’autocentrato Matthew è la collega Jane. Al complicarsi delle condizioni di Anne si decide un parto d’urgenza: la bimba sembra morta, ma in contemporanea all’apertura del sarcofago di Kara, in quella che si è rivelata una tomba favolosa, Margaret prende a respirare ed emette il primo vagito. Esaminando il sarcofago, Matthew ha la disturbante sensazione che la mano della mummia l’abbia sfiorato.

Ovviamente con la moglie – gelosa di Kara, cioè di un lavoro che monopolizza la mente del coniuge, e della stessa Jane – si apre la crisi, e poco dopo ripartirà da sola portando via la figlia. Ma sul piano professionale, Matthew consegue un successo straordinario: e l’unico ostacolo, costituito da un funzionario che voleva impedire la rimozione dei pezzi al cantiere, è drasticamente rimosso per la morte del tipo in uno scenografico incidente.

Diciott’anni dopo (“Il presente”), accade qualcosa che dovrebbe mettere in guardia lo spettatore: in occasione di un’eclisse il cristallo della vetrina della mummia di Kara al Museo del Cairo si infrange. Divenuto un importante professore di archeologia in Inghilterra e dopo aver sposato in seconde nozze la fedele Jane, Matthew convince il Museo a mandare a Londra per analisi sulle bende la mummia di Kara, che si presume in cattivo stato di conservazione: un nuovo incidente elimina il curatore del Museo che si opponeva. Stilemi e clima del film finiscono col ricordare in modo molto diretto la coeva saga cinematografica di The Omen, 1976-1981, pure imperniata su attori carismatici (Gregory Peck nel primo film, 1976, William Holden nel secondo, 1978), misteri di gravidanza, scavi archeologici, incidenti impressionanti a eliminare gli oppositori, un avvento pauroso profetizzato da antiche documentazioni…

Intanto Margaret (Stephanie Zimbalist), che vive a New York con la madre, è divenuta maggiorenne – è una ragazza bella e vivace, ma suscita uno strano timore negli animali – e ha ricevuto da suo padre il dono di un prezioso specchio egizio a forma di ankh, simbolo della vita. Contro la volontà della madre, parte per Londra a conoscere il genitore, che le parla della storia di Kara, come emerge dalle iscrizioni della tomba: il padre ne aveva ucciso l’amante, l’aveva sposata ed era stato poi ucciso da lei in modo poco chiaro. Il giorno dopo l’archeologo conduce la figlia al museo dove lei incontra Paul Whittier (Patrick Drury), l’assistente del padre, e simpatizzano. Se però Matthew inizia a rivelare un’attrazione morbosa per la mummia di Kara – rifiuta di acconsentire all’asportazione di un frammento per le analisi –, a sua volta Margaret che il padre porta in Egitto prende a mostrare verso di lui comportamenti equivoci, dal retrogusto incestuoso: ed è allora che lui nota l’incredibile somiglianza tra il viso della figlia e il volto della maschera funeraria di Kara. Il bacio sensuale di Margaret al padre viene però interrotto quando il compagno sceso con loro nella tomba di Kara viene ucciso da una trappola nel muro (un meccanismo descritto da Stoker come presente nella tomba di Tera); Matthew si salva a stento dalla stessa trappola, e rinvengono in un andito segreto nuovi preziosi oggetti tra i quali un busto di Kara recante un gioiello con le sette stelle dell’Orsa Maggiore e i vasi canopi della regina, che Matthew sottrae.

Il ritorno dei due in Inghilterra non placa le tempeste interiori: Margaret dà segni di turbamento ed è sempre più ossessionata incestuosamente verso il padre; Matthew scopre che l’Orsa Maggiore si trova in quel periodo nello stesso punto dell’epoca di Kara, e si tormenta sul rapporto tra il loro approccio scientifico e l’antica magia; e la povera Jane, in seguito a un’allucinazione mentre sta per distruggere i canopi come Matthew aveva suggerito in un momento di lucidità, muore dopo un volo dal balcone, sgozzata da un vetro della serra sottostante. Le stranezze di Margaret la spingono dallo psicoterapeuta dottor Richter (Ian McDiarmid, futuro imperatore Palpatine di Star Wars), ma la ragazza rivivendo le sensazioni di Kara lo aggredisce con violenza, facendogli piantare nello stomaco l’intera siringa di calmante con cui pensava di fronteggiarne la crisi; e Matthew stesso, sempre meno lucido e sempre più attratto sia dalla figlia che dalla mummia di Kara, causa preoccupazioni in Paul.

Anne si precipita a sua volta a Londra, trovando Margaret in stato comatoso; al suo capezzale, Matthew sente la voce della figlia implorarlo di liberare lo spirito di Kara dalla mummia, e per salvare la figlia si dispone a lasciarsi possedere dallo spirito dell’antica sovrana (in questo punto il nesso è più con il finale de L’esorcista). Si reca dunque zitto zitto al British Museum, porta la mummia con i canopi e il Gioiello nel salone egizio (qui la sceneggiatura di Chris Bryant, Clive Exton e Allan Scott recupera dal primo La mummia e dal finale di The Omen), e intanto Paul piomba a casa sua, solo per finir male come Jane. Al Museo, Matthew esita a tagliare le bende di Kara, rovinando l’opera di tutta una vita, ma compare Margaret (la madre l’ha cercata invano all’ospedale) che lo incita a continuare: lui allora esegue il rito con un po’ del proprio sangue, distrugge la mummia accanendosi sulle antiche ossa, ma il risultato è solo che la possessione di Margaret diventa definitiva. Lui capisce, fa per aggredirla, ma lei, con la forza magica dell’antica Kara, causa il crollo di un’enorme statua addosso al padre, e il film si chiude con lo sguardo della regina rivestita del suo nuovo corpo. È finalmente tornata nel mondo.

Il clima da incubo del film (non particolarmente amato dalla critica, un prodotto onesto di buon artigianato che apre discorsi interessanti sui topoi d’epoca) valorizza in termini piuttosto liberi la trama di Stoker, certo facendone esplodere la claustrofobia a suon di panorami e voli aerei, ma sottolineandone il sapore allarmante. Ciò che giunge dal passato, l’anticristo femmina venuta dall’Egitto, è una efficace epifania delle inquietudini d’epoca, che avevano fatto moltiplicare per tutto il corso degli anni Settanta volumi su inquietanti profezie e scenari d’apocalisse. A partire dalle apocalissi private, dove Kara appare emblema di crisi di coppia non più cementate dalla solidità familiare, della disattenzione affettiva che tutto sacrifica al lavoro e alle ossessioni personali, e di rapporti generazionali resi esplosivi da crisi, sesso senza paletti e lontananze affettive. Le inquietudini di un’epoca di svolta, il tipo diverso e più sottile di controllo postulato suggeriscono ai lettori un quadro piuttosto reazionario sul futuro che si prepara.

(6–Continua)

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Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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“Katla”: un’eterotopia da incubo nella natura ostile https://www.carmillaonline.com/2021/07/18/katla-uneterotopia-da-incubo-nella-natura-ostile/ Sun, 18 Jul 2021 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67227 di Paolo Lago

Katla, una serie tv islandese con la regia di Baltasar Kormákur che ha debuttato su Netflix lo scorso 17 giugno, affresca uno spazio naturale presentato come una vera e propria eterotopia. Il termine è stato coniato da Michel Foucault per indicare uno “spazio altro”, totalmente separato dalle dinamiche della quotidianità1. L’islandese paese di Vik, ormai semi-abbandonato, ai piedi del vulcano Katla, e lo spazio che lo circonda appaiono come una eterotopia generata dalla natura ostile che [...]]]> di Paolo Lago

Katla, una serie tv islandese con la regia di Baltasar Kormákur che ha debuttato su Netflix lo scorso 17 giugno, affresca uno spazio naturale presentato come una vera e propria eterotopia. Il termine è stato coniato da Michel Foucault per indicare uno “spazio altro”, totalmente separato dalle dinamiche della quotidianità1. L’islandese paese di Vik, ormai semi-abbandonato, ai piedi del vulcano Katla, e lo spazio che lo circonda appaiono come una eterotopia generata dalla natura ostile che li avvolgono. È un luogo separato dal resto del paese, attraversato da venti impetuosi che sollevano le ceneri tossiche del vulcano. Non a caso, gli abitanti che ancora sono rimasti, per potersi spostare all’esterno, devono utilizzare una mascherina in modo da coprirsi naso e bocca, un oggetto che suona tristemente noto anche a noi spettatori, pure se per altri motivi. Per entrare nella zona di Vik, giunti al confine naturale di un fiume, se non si e residenti, è necessario possedere un permesso speciale da esibire a un funzionario che traghetta i viaggiatori da una parte all’altra. D’altronde, anche per entrare nelle eterotopie, specie in quelle che Foucault denomina «di crisi» (luoghi privilegiati, sacri o interdetti)2, non si può entrare «se non si possiede un certo permesso e se non si è compiuto un certo numero di gesti»3.

Il paese è costituito dalle poche case in cui vivono gli abitanti rimasti e da altre abbandonate, tinteggiate con colori grigi e foschi, terrei e granitici, come se fossero le espansioni della dura pietra lavica proveniente dal vulcano. Le immagini ci mostrano una natura che certo non si può definire “bella”, come uno scenario da cartolina; non è un’Islanda da agenzia turistica quella che vediamo nella serie tv. È una natura inquietante, sovrastante, annichilente, indubbiamente affascinante, pronta a scatenarsi in tempeste impetuose e distruttive. Sullo sfondo emerge costantemente il gigantesco profilo del vulcano in preda a una nuova serie di eruzioni. Lo scenario appare quasi come il risultato di una devastazione apocalittica che ha cancellato la civiltà umana, uno spazio in cui la natura più terribile ha ripreso il sopravvento. Gli stessi vicoli del paese, i cortili, e anche certi interni domestici sono tratteggiati come uno scenario postindustriale, con colori opachi e tendenti al seppia, secondo un’estetica fotografica che può rimandare al Tarkovskij di Stalker (1979). Tra l’altro, sia nel film che nel romanzo da cui è tratto, Picnic sul ciglio della strada (1972) di Arkadij e Boris Strugatzkij, è presente la “zona”, uno spazio recintato in cui è interdetto l’ingresso forse a causa del passaggio di extraterrestri. L’abbandono, il silenzio, il disuso e l’inutilità di ogni oggetto che si trova nel paese di Vik segnano inesorabilmente lo spazio dove avviene l’azione narrativa di Katla. Tutto è nebbioso e oscuro, caliginoso e terreo, mentre lo stesso tempo appare bloccato, rappreso in una granitica concrezione. Perché nello spazio eterotopico, ormai, non può più scorrere un tempo ‘normale’: è esso stesso un tempo ‘altro’ che prepara il perturbante incontro con l’alterità.

Quest’ultima entra in scena con i ‘cloni’ che gradatamente cominciano a invadere Vik: senza rivelare altro sulla trama, si può affermare che essi si presentano come degli esseri generati dalla pietra lavica del vulcano che assumono svariate forme, generati dalla coscienza e dai desideri reconditi degli individui che si trovano nel paese. Queste figure – chiamate changeling con un riferimento alla leggenda nordica relativa a una fata o a un folletto che rapisce e sostituisce i bambini – assumono le forme ora di un vero e proprio doppio, ora di una sorta di clone di una persona cara (figlio, moglie, sorella) ormai defunta secondo una modalità molto simile a quanto avviene in un altro film di Tarkovskij, Solaris (1972) e nel romanzo di Stanislav Lem (1962) da cui esso è tratto. Agli scienziati che si trovano su una stazione orbitante intorno al pianeta Solaris appaiono dei fantasmi, delle proiezioni viventi dei loro incubi, dei loro sogni e delle loro fantasie. Nella fattispecie, allo psicologo Kris Kelvin appare un vero e proprio clone di Harey, la moglie scomparsa anni prima, generato dall’Oceano pensante di Solaris, che sa leggere i desideri più reconditi degli esseri umani.

Il vulcano Katla, come il pianeta Solaris, trasforma in corpi i desideri e gli incubi degli individui e tutto ciò avviene all’interno di uno spazio eterotopico e lontano, ai confini dell’universo o nei lembi più remoti dell’Islanda. L’incontro con l’altro assume quindi connotazioni particolarmente perturbanti perché si tratta di un altro che possiede delle caratteristiche familiari e può essere scambiato per quello che non è in realtà. È in uno spazio lontano e isolato che si viene a contatto con l’altro, con il Mostro. Come scrive Fabrizio Borin riguardo a Solaris, «secondo i canoni della fantascienza sul cammino dell’uomo alla scoperta di altri universi – ma anche quando esseri ‘altri’ invadono a vario titolo la Terra – si viene a trovare il Mostro»4. Esso può comparire quindi in uno spazio eterotopico ‘estremo’ come, ad esempio, l’Antartide in cui si trova la base scientifica che affronta il parassita alieno in La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter, che ha la capacità di assumere le sembianze degli esseri umani con i quali viene in contatto. Del resto, fin dalla letteratura antica, l’incontro con l’altro avviene in un ambiente lontano e ostile, raggiungibile dopo un lungo viaggio. In Katla i personaggi, per giungere a questo incontro non devono recarsi in un territorio sconosciuto e lontano. Vik, il loro paese, dopo l’eruzione del vulcano, ha però assunto un altro aspetto: da luogo familiare si è trasformato in un luogo desolato ed ostile trasformandosi in una vera e propria eterotopia separata dal mondo esterno (spesso, nel film, si fa riferimento a Reykjavík come lo spazio della normalità, della razionalità e della tranquilla vita borghese).

Nell’eterotopia vige una logica altra, che non è quella della razionalità. Si tratta di uno spazio non definito, proteiforme e in continuo movimento, come le incrostazioni laviche del vulcano, emblema di una natura incontrollabile e soggetta a una perenne mutazione. Se la capitale islandese è lo spazio urbano sottoposto alla geometricità di una vita regolare e scontata, Vik è la rappresentazione iconica e fisica di una natura che si presenta ostile agli stessi insediamenti umani. All’interno di questo spazio proteiforme e indefinibile è quindi possibile anche l’incontro con un doppio perturbante di se stessi: «Il tema del doppio costituisce infatti un attacco plateale alla logica dominante con cui leggiamo il mondo, basata sui principi aristotelici di identità e non contraddizione; un attacco che, come in tutte le tematiche del fantastico, implica il riemergere di un sapere magico e arcaico, di una totalità indistinta, omogenea e indifferenziata […]»5. Se a Reykjavík vige il principio di identità e non contraddizione, Vik è segnato dal riemergere di un sapere magico, legato alle antiche leggende nordiche dei changeling, è uno spazio che si presenta come «una totalità indistinta, omogenea e indifferenziata».

Se il mostro è uguale o molto vicino a noi allora ci fa più paura. Ed è probabilmente questo uno dei punti forti della serie: rappresentare il mostro, l’altro come qualcosa che viene da dentro di noi. L’alterità rappresentata nella letteratura e nel cinema possiede spesso questa valenza: la mostruosità non è mai del tutto estranea a noi. Come scrive Gioacchino Toni in un interessante saggio apparso su “Carmilla” (Nemico (e) immaginario. Paure identitarie fuori e dentro gli schermi dei primi anni Ottanta) dedicato alla rappresentazione dell’alterità in quattro film statunitensi dell’inizio degli anni Ottanta (Alien e Blade Runner di Ridley Scott, La cosa di John Carpenter e Videodrome di David Cronemberg), siamo ben «consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità». Gli stessi esseri generati dal vulcano non compaiono propriamente come dei ‘nemici’: provengono da un territorio indistinto, da un tutto in cui non c’è una separazione netta fra bene e male. Così infatti si rivolge Kelvin a Harey in Solaris di Stanislav Lem, con parole che potrebbero essere pronunciate anche dai personaggi di Katla che si trovano a fronteggiare le rappresentazioni fisiche dei loro incubi e dei loro desideri: «Non so perché tu mi sia stata mandata: se come una tortura, come un favore o forse solo come una specie di microscopio per esaminarmi…»6. Gli stessi ‘cloni’ appaiono come profondamente umani: deboli, impauriti, sofferenti, bisognosi dell’affetto dei propri cari ai quali sono comparsi, un bisogno che non è altro che la proiezione di quello che ha generato la loro presenza.

Una presenza sorta in una eterotopia da incubo, racchiusa da una natura ostile che la fotografia del film rende in modo molto suggestivo sullo schermo. Come già osservato, non si tratta di una bellezza ‘classica’, da cartolina, ma probabilmente della vera essenza di un territorio ostilmente spettacolare e affascinante come quello islandese. Ed è questo sicuramente un altro dei punti di forza della serie tv: mostrarci luoghi insoliti, poco frequentati dalle fiction e poco inclini ad essere visivamente commercializzati. Luoghi poco esplorati dallo sguardo cinematografico e rivestiti di una nuova caratterizzazione che riesce a reincantarli, a ricoprirli di magia e di onirismo, a trasformarli in una eterotopia da incubo che è capace di reincantare anche il nostro immaginario.


  1. Cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano, 2002. 

  2. Cfr. ivi, p. 25. 

  3. Ivi, p. 31. 

  4. F. Borin, L’arte allo specchio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, Jouvence, Milano, 2004, pp. 153-154. 

  5. M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Mucchi, Modena, 2012, p. 27. 

  6. S. Lem, Solaris, trad. it. Sellerio, Palermo, 2017, p. 215. 

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Lo sguardo della vampira (1/2) https://www.carmillaonline.com/2021/04/05/lo-sguardo-della-vampira-1-2/ Mon, 05 Apr 2021 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65695 di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva [...]]]> di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva emesso queste parole in uno stanco singulto, e poi si era spenta del tutto. Era una testimonianza di come era il mondo almeno venticinque anni fa, prima della catastrofe che aveva cambiato tutto. La posai sul tavolo, e con essa posai anche i miei flebili ricordi, perduti nella nebbia di ere.

Mi ricordavo veramente poco del mondo di prima, dei prati e dei boschi, degli antichi paesi ritratti in quella cartolina. C’era stata una grande epidemia vegetale che aveva distrutto completamente la vegetazione, inquinato i fiumi e le sorgenti. L’inquinamento, sempre più persistente, aveva avvolto il mondo di prima fino a distruggerlo e a devastarlo. Dopo le epidemie, che si erano susseguite a un ritmo vertiginoso nel giro di pochi anni, erano arrivate le povertà e le carestie e poi le guerre civili, sparse in tutto il mondo. Una delle poche volte che sono uscito, prima del “Grande Internamento” imposto dal Governo, ero un ragazzino e mi ricordo scontri terribili a ogni incrocio della mia città: manifestanti e polizia si fronteggiavano nelle strade con ogni tipo di armi e dappertutto c’era l’odore acro dei fumogeni e delle bombe. Anche io, come quelli della mia generazione, avevo passato gran parte della mia adolescenza e giovinezza chiuso negli spazi di aggregazione predisposti dalle autorità: enormi silos di metallo dotati di tutti i comfort dove era stata dislocata la popolazione superstite. Eravamo tutti in attesa della costruzione del nuovo mondo: quello che c’è adesso qui fuori. Gli scienziati avevano previsto proprio tutto, tranne una cosa sola: l’arrivo dei vampiri.

Quella dei vampiri era una nuova specie, creata dai più svariati esperimenti chimici che erano stati messi in atto per cercare di arginare l’epidemia vegetale. Gli scienziati avevano mescolato diversi DNA per creare un antidoto efficace alla continua mutazione genetica del virus che aggrediva le più svariate specie vegetali e animali per contaminare, in alcuni casi, anche l’uomo. Di loro si sapeva poco o nulla, nessuno li aveva mai visti. Si sapeva soltanto che si aggiravano dopo il calar del sole perché erano fatti in gran parte di una sostanza fotosensibile. I governi di tutti i paesi avevano creato delle leggi particolari che imponevano ai cittadini di non uscire non appena sopraggiungevano le tenebre. I vampiri erano pericolosissimi perché potevano uccidere – così si diceva – solo con il loro sguardo. E così l’umanità si era riadattata alla nuova vita dopo il disastro ed era felice, o almeno così sembrava. La scienza era riuscita a ricreare degli habitat a misura d’uomo dove un tempo c’erano le città: le grandi unità abitative, formate da migliaia di palazzi, erano protette da capsule di vetroresina che servivano a proteggere dai raggi diretti del sole, divenuti ormai pericolosissimi a causa delle manipolazioni genetiche attuate sui corpi degli individui. Gli antidoti avevano permesso la sopravvivenza delle piante e dei corsi d’acqua all’interno delle grandi capsule ma avevano mutato irrimediabilmente il DNA umano, creando delle persone più fragili e più esposte alle malattie. Si poteva girare per le strade soltanto muniti di maschere di ossigeno e si poteva rimanere all’esterno solo per un tempo limitato. I più ricchi avevano degli appartamenti spaziosi, nei quali avevano ricostruito diversi ambienti artificiali che ricreavano prati e giardini. I più poveri vivevano in baracche di ferro poste ai limiti della grande capsula, in enormi quartieri fatiscenti dove vigevano la violenza e la prevaricazione.

Io non mi potevo lamentare. Vivevo in un grande e vecchio appartamento, a un piano alto, dal quale vedevo spuntare, come un arcaico fantasma, un vecchio campanile ancora rimasto intatto, in mezzo alle nuove costruzioni in vetroresina. Percorrevo i lunghi corridoi con circospezione, con la paura di incontrare i vampiri che, a quanto dicevano i maxischermi che il governo aveva installato in tutte le abitazioni, potevano penetrare furtivamente nelle case durante la notte. I corridoi del mio appartamento erano attraversati da scale e soppalchi, pieni di mobili provenienti da tempi remoti, poltrone di pelle, lunghi tavoli di legno scuro sui quali posavano candelabri intagliati nel tempo, lampadari penduli da soffitti altissimi, oscuri, nereggianti di intarsi barocchi, vecchi quadri alle pareti, scalinate lignee che portavano a vuoti saloni, pesanti porte che celavano stanze piene di armadi, di mobili oscuri e fatiscenti, di oggetti posati negli angoli, dimenticati da un tempo in cui l’essere umano era davvero un essere umano. A volte mi recavo a scrivere in una stanza lontana, al capo opposto dell’appartamento e raggiungerla era un vero e proprio viaggio attraverso i filamenti polverosi di una coscienza. Era così come l’avevo trovata nel momento in cui ero entrato per la prima volta in quell’appartamento: sembrava la stanza di un bambino o, comunque, di un adolescente. C’era un lettino sormontato da un armadio, un tavolino attaccato alla parete, con una piccola e semplice lampada da lettura. Sui vetri della finestra erano appiccicati degli adesivi che rappresentavano, forse, i personaggi di alcuni fumetti e cartoni animati di ere lontane. Fuori dalla finestra vedevo un fiume che scorreva, in un’ansa verdeggiante, ma sembrava il tetro fiume artificiale di una periferia industriale, emblema della buia realtà che, come un simulacro, riempiva le nostre vite.

Scrivevo, non facevo altro che scrivere lettere a una remota fanciulla della mia adolescenza che forse intravidi in un giorno di sole, nel cortile della scuola, prima che scattasse il “Grande Internamento”. Frequentavamo le scuole medie e, nel corso del primo anno, cominciò il grande divieto: la razza umana non poteva più esporsi all’aria aperta a causa degli esperimenti che gli scienziati stavano compiendo “per il nostro bene”. Seduto al tavolino della stanza in fondo alla casa scrivevo lettere mai spedite che iniziavano sempre con queste parole: “Sono Alf, del quartiere Zeta 9, nell’isolato G 24, nell’oscuro silenzio di una notte al fosforo, ricordo i tuoi occhi di tanto tempo fa, ricordo solo un azzurro intenso e un cielo sereno che forse era sopra di noi e il vento e un odore di fiori nell’aria. Possiedo una video-cartolina di quel tempo, vorrei che anche tu la vedessi, forse abbiamo dei ricordi in comune, vorrei soltanto sapere il tuo nome…”. Erano poche le persone che avevano dei ricordi in comune, dei ricordi degli altri. Per le strade nessuno si riconosceva e nemmeno si conosceva, ognuno era anonimamente perduto dietro la maschera di ossigeno che portava, avvolto nel proprio mantello antiossidante che non lasciava intravedere neanche un lembo del corpo. Lo stesso concetto di “amicizia” non esisteva più. C’erano, sì, le famiglie, simili a quelle di un tempo ma esistevano soltanto a un livello formale: quelle ricche trascorrevano tutto il tempo nei loro spaziosi edifici; quelle povere, spesso, stavano ammassate in una sola stanza nei quartieri fatiscenti.

Io, come tanti altri, ero rimasto fuori dall’inglobamento delle famiglie, avvenuto in un tempo in cui ero ancora “internato”, per cui trascorrevo la mia esistenza da solo, ma andava bene così. Non guardavo quasi mai il maxi-schermo governativo sul quale diversi annunciatori riferivano i dati scientifici sulle potenzialità delle capsule che inglobavano le città. Era infatti necessario che fossero sottoposte a un continuo processo di manutenzione da parte di tecnici e scienziati, perché non si consumassero con il passare del tempo. Ne andava veramente della vita di tutti. Ogni giorno era uno snocciolare di numeri e di dati che indicavano il funzionamento del grande sistema che garantiva la nostra sopravvivenza. Fuori dalle capsule c’era il vuoto, il nulla o, meglio, lande desolate percorse da venti pestilenziali, portatori di malattie che potevano provocare la mutazione in vampiro, la cosa più temuta al mondo, insieme alla morte. Gli annunciatori dei maxischermi affermavano in continuazione che, molto probabilmente, orde di vampiri si erano infiltrate nelle città, forse nei quartieri più malsani e meno controllati, e la notte potevano girare indisturbate per le strade. Di notte, in circolazione, c’erano solo le pattuglie speciali della polizia, i “Vampire Killers”, con le loro vetture blindate dotate di armi di ultimissima generazione. Gli squadroni dei “Vampire Killers”, come diceva la propaganda governativa, erano i custodi delle nostre vite e a loro dovevamo tutto. Ripeto: non guardavo quasi mai il maxischermo. Nei momenti liberi dal lavoro, che svolgevo nell’isolato G 23 (facevo l’addetto di un call center per la manutenzione dei maxischermi), non facevo altro che scrivere le mie lettere.

E poi c’erano i ricordi degli altri. Come ho detto, nessuno possedeva il ricordo degli altri, non esisteva l’altro nella propria coscienza. Non esistevano luoghi di aggregazione, bar, cinema o palestre come nel mondo di prima (e di cui io stesso avevo solo un flebile ricordo): le persone si potevano sfiorare solo nelle grandi strade, camminando senza mai parlarsi, oppure si potevano incontrare nei luoghi di lavoro. Ma i governi mondiali avevano predisposto qualsiasi posto di lavoro in modo che nessuno potesse avere dei contatti con gli altri perché, in definitiva, chiunque potrebbe sviluppare, in qualsiasi momento, il processo di mutazione in vampiro. Questo lo dicevano gli scienziati, lo diceva il maxi-schermo ma nessuno aveva mai visto un vampiro. E, comunque, come dicevano saggiamente gli scienziati che affiancavano i governanti mondiali, ciò non vuol dire che non esistano. Anzi, esistono, e sono pericolosi. Nel mio lavoro al call center c’era George, nella postazione accanto alla mia. Lo vedevo soltanto attraverso il vetro che ci divideva, sapevo che si chiamava George grazie alla targhetta col nome che portava sulla camicia. Allo stesso modo, grazie alla mia targhetta, lui sapeva che mi chiamavo Alf. Ho sempre pensato, chissà perché, che George fosse simpatico, che fosse una brava persona, anche se con lui non ho mai scambiato neanche una parola.

Una sera stavo percorrendo il lungo corridoio del mio appartamento per recarmi a scrivere nella stanza più lontana. Le luci erano fioche, giallastre e riflettevano sulle pareti strane e tetre figure spettrali. Camminavo e, contemporaneamente, stavo all’erta. Come ho detto, ho sempre avuto un certo timore a muovermi, nel buio, nella mia grande casa. L’illuminazione non riusciva a rischiarare ogni cosa, a rendere riconoscibile il lungo corridoio e i saloni che si trovavano al piano superiore. Sentii un rumore. Mi fermai. Proveniva, per l’appunto, dal piano di sopra. Non potevo rischiare: dovevo accertarmi che non ci fosse nessuno. Salii lentamente le scale e mi ritrovai nel salone buio. Accesi la luce. In un angolo, le luci blu di due occhi mi fissavano intensamente. Rimasi pietrificato dalla paura, come di fronte allo sguardo di Medusa. La luce che si andava accendendo, lentamente, rivelò una figura vestita di scuro. Era una ragazza con un lungo vestito nero, con i capelli neri a caschetto e con due occhi di un azzurro intenso. Mi fissava, e restava in silenzio.

(continua)

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Tre raccontini https://www.carmillaonline.com/2021/03/20/tre-raccontini/ Sat, 20 Mar 2021 00:48:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65417 di Pietro Pancamo

MANI

Non potendo sopportare un mondo, divenuto da tempo il regno dell’odio, i baci e gli abbracci preferirono partire per rifugiarsi in Paradiso: ecco perché dismisero con sollievo sia noi e i nostri corpi (intenti a delitti recidivi, fra cui gli stupri assassini), sia le nostre labbra (suggelli continui di patti aberranti, ad esempio mafiosi) abbandonandoci al destino che purtroppo ci attendeva. Fu proprio allora, infatti, che persino negli angoli più remoti della Terra, mani a tradimento sbucarono dal nulla all’improvviso, tempestandoci di schiaffoni insolenti e a perdita d’occhio [...]]]> di Pietro Pancamo

MANI

Non potendo sopportare un mondo, divenuto da tempo il regno dell’odio, i baci e gli abbracci preferirono partire per rifugiarsi in Paradiso: ecco perché dismisero con sollievo sia noi e i nostri corpi (intenti a delitti recidivi, fra cui gli stupri assassini), sia le nostre labbra (suggelli continui di patti aberranti, ad esempio mafiosi) abbandonandoci al destino che purtroppo ci attendeva. Fu proprio allora, infatti, che persino negli angoli più remoti della Terra, mani a tradimento sbucarono dal nulla all’improvviso, tempestandoci di schiaffoni insolenti e a perdita d’occhio che –nell’abbattersi collerici sulle nostre guance, per stravolgerle di netto– eran spesso accompagnati da pizzicotti così feroci, da staccarci le gote o quasi. Ovunque eravamo insomma angariati da una furia tremenda, da raffiche di mani che dispensavano percosse a volontà, ma anche “ganascini” dolorosi –e questa situazione, intollerabile quanto mostruosa, si protrasse per anni interminabili, obbligandoci ad un passo fatale: redimerci e optare per l’amore.

«Ebbene sia» –proclamarono i capi di stato in seduta congiunta e a nome della razza umana intera– «Rinunciamo per sempre a ciò che abbiamo di più caro: l’odio».

Ad una simile dichiarazione, solennemente intrisa di sincerità e sacrificio, le mani iraconde –forse strumento del Cielo– cessarono all’istante di malmenarci a iosa; poi, commosse, si strinsero due a due in tanti nodi serrati, composti di dita. In tal modo ogni coppia formò un pugno (innocuo, per fortuna, dato che in realtà era quello intrecciato della preghiera).

Ormai i soli ceffoni autorizzati, ed effettivamente presenti qui sul nostro pianeta, furon gli “schiaffi” che le mani di ciascuno (adulto o bimbo che fosse) si scambiarono a vicenda nel gesto dell’applauso: l’applauso che accolse corale il ritorno festoso dei baci e degli abbracci.

 

FOLLIA

Dopo un ricovero alquanto lungo nel reparto “Oftalmologia” dell’ospedale, l’artista fallito, affetto da un’esistenza d’insuccessi continui, si trova adesso in una clinica per i disagi mentali; infatti nello studio della psicologa assegnatagli, eccolo seduto a raccontare, per filo e per segno, le dinamiche della rovina. È la prima visita e lui, in tono costernato, si lamenta così: «Quando, con una lettera che li definiva un’autentica schifezza, perfino il mensile ciclostilato della parrocchia rifiutò i miei scatti, immediatamente la verità mi apparve chiara. Chiara per intero. Per questo gridai al riflesso nello specchio del mio salotto: “Non capisci? Ho la memoria fotografica, io, e qualunque tipo di luce,  solare o artificiale, che percorrendomi gli occhi mi arrivasse al cervello, cancellerebbe all’istante i miei ricordi. Ineluttabilmente. Insomma nel chiuso del mio cranio le cose andrebbero proprio come quando uno è nella camera oscura, intento a sviluppare con gli acidi, e la porta si spalanca d’improvviso, mandando in malora sia i negativi, sia le immagini appena nate”».

«E magari il riflesso le rispose alcunché?», domanda la dottoressa, che, non conoscendo ancora bene il caso, si permette un velo d’ironia nella voce.

«Ovviamente! Mi disse: “Sospettavo già che le vittime dell’Alzheimer fossero, in realtà, gente come me: poveretti il cui passato si dissolve per colpa della luce e non certo di un disturbo chimico o nervoso. Perciò l’unico modo per salvarmi è trascorrere il resto della vita nel buio più completo. Sì, ad esempio mi rintanerò nella mia stanza, dopo averne sbarrato ogni minima finestra e svitato, com’è giusto, tutte le lampadine. Tutte”».

«Lei era d’accordo con questo piano?», s’informa la psicologa, col sorriso mellifluo di chi asseconda lo scemo del villaggio.

«No. Ed anzi ne avevo colto subito il punto debole. Tanto che proruppi: “Stupido, nulla può essere sprangato ermeticamente! Per cui durante il giorno qualche spiffero di luce, prima o poi, si insinuerà inevitabilmente fra i listelli delle persiane. E sai che farà? Mi colpirà le iridi a tradimento, elidendomi le fotogr… i ricordi!”».

«E lei, allora, trovò una soluzione migliore?», sogghigna, beffarda, la psicologa, non aspettandosi quanto sta per accadere.

«Certo: un eccesso di acidi!», esclama l’artista con fermezza. E si toglie, di scatto, gli occhiali neri da cieco.

 

LA FINESTRA DEL MEDICO

Dal turno di notte, Ribolatti rincasò più stravolto del solito. La continua lotta in corsia gli aveva spezzato i nervi, negli ultimi quattro mesi, e la sua mente stava cedendo, con violenta facilità, alla fatica, alla paura… al dolore. In genere l’unico sollievo, quando finalmente poteva rientrare dall’ospedale, era camminare trafelato su e giù nel salone. Così scostò sia tavolini che poltrone, anche quel mattino, e aprì la finestra per avere un po’ d’aria; solo che il bagliore intenso del cielo, un cielo che prese subito a passargli con insistenza davanti agli occhi, lo accecò d’impeto, suscitandogli un rigurgito di rabbia che lo spinse ad affacciarsi.

«Lo so!» –gridò Ribolatti alle villette intorno, sparse lungo un pendio delle Retiche– «Voi coglioni dediti al televisore, credete ai virologi di Bruno Vespa, e quindi al famoso salto di specie dai pipistrelli all’uomo! Ma la verità è un’altra: quelli che si sono ammalati di covid sono vampiri, in realtà. Schifosi vampiri! Perciò nessun salto di specie. Anzi!».

Rifiatò un attimo, per aggiungere a squarciagola: «Gran coglioni, andate dal falegname o nel bosco a comprare o fabbricarvi un paletto di frassino! Poi tornate a casa e se nel vostro nucleo familiare c’è per caso qualche guarito, trafiggetegli il cuore!».

Ormai era in preda ad una furia delirante: ad un autentico accesso di follia, insomma.

«E non dimenticate di trucidare anche i medici! Perché, sebbene la vostra tv adorata proclami il contrario, noi non siamo affatto eroi. Siamo traditori, invece! Adesso lo capisco! Traditori dell’umanità, che cercano di tenere in vita un branco di mostri assassini!».

Fu pronunciando queste parole che Ribolatti richiuse un battente della finestra, per colpirlo con tutte le forze. Il vetro esplose all’istante, e fra le schegge cadute sul pavimento del salone, colui che –prima d’impazzire– era stato un dottore esemplare, scelse la più lunga e aguzza.

«Somiglia ad un paletto, quasi», pensò ottenebrato, stringendola nel pugno coperto di sangue. E senza aspettare, se la piantò brutalmente in un occhio, mentre il suo cuore si riempiva di lacrime.

 

(pietro.pancamo@alice.it; pipancam@tin.it)

 

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Corpi remoti https://www.carmillaonline.com/2020/05/15/corpi-remoti/ Fri, 15 May 2020 00:17:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60026 di Cesare Battisti

Il capitale si riproduce sui propri obbrobri. Nel 2005 lo scienziato Anthony Fauci avvisò il governo USA che presto avremmo avuto la prima pandemia di infezione polmonare a causa degli attacchi all’ecosistema, e che altre infezioni sarebbero seguite. Dal 2005 a oggi, l’ordine mondiale costituito sulla crescita economica a ogni costo ha fatto tutto il possibile perché il disastro largamente annunciato divenisse realtà.

Se tra le tenebre del Covid 19 ci mettessimo a diffondere teorie di complotti e di stragi pianificate, certo non aiuteremmo il mondo a capire quello [...]]]> di Cesare Battisti

Il capitale si riproduce sui propri obbrobri. Nel 2005 lo scienziato Anthony Fauci avvisò il governo USA che presto avremmo avuto la prima pandemia di infezione polmonare a causa degli attacchi all’ecosistema, e che altre infezioni sarebbero seguite. Dal 2005 a oggi, l’ordine mondiale costituito sulla crescita economica a ogni costo ha fatto tutto il possibile perché il disastro largamente annunciato divenisse realtà.

Se tra le tenebre del Covid 19 ci mettessimo a diffondere teorie di complotti e di stragi pianificate, certo non aiuteremmo il mondo a capire quello che ci sta succedendo. Bisogna però riconoscere che coloro che potevano e nulla hanno fatto per scongiurare il pandemonio hanno assunto una posizione quantomeno sospetta.

Mai prima d’ora, i signori della guerra dichiarata al pianeta Terra erano riusciti a spingere il desiderio di sicurezza dei cittadini a un punto tale, da far loro accettare la reclusione di massa preventiva. Il lockdown, come si usa dire: un’espressione che negli USA significa nientemeno che segregazione. Dove l’azione di polizia ed esercito nelle vie si rende indispensabile per dissuadere i soliti “incontenibili”. Ed ecco che si sta tutti al chiuso, facendo anche la morale a chi osa esternare qualche dubbio sull’efficacia e, eventualmente, sui reali fini di tali manovre.

Intanto, mentre da noi fiorisce l’industria delle multe, in alcuni paesi “dimenticati da Dio” diventa perfino legittimo sparare sugli incauti che si avventurano all’aperto.

Dall’avvento del Covid 19 seguire un programma qualunque, a qualsiasi ora, alla televisione, leggere un giornale della “grande stampa” nazionale e internazionale è come imboccare l’incubo di un futuro che nemmeno il buon George Orwell aveva osato paventare: non una sola parola, una sola immagine che non sia diretta a fomentare il panico collettivo. Da supporre che le voci dissidenti, o almeno critiche ch’eppur esistono, siano opportunamente ignorate dai produttori di opinione pubblica. Ciò non poteva però impedire ad alcune menti libere di esprimere il loro punto di vista differente su quanto sta realmente accadendo qui e altrove.

Senza nulla togliere alla drammaticità del virus, sono una boccata d’ossigeno le parole di Giorgio Agamben: “…La limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”. Alla luce di ciò, come non vedere che il Covid 19 è stato utilizzato come banco di prova per un eventuale stato d’emergenza da instaurare in caso di ribellione sociale su scala globale? Non si vuole dire che il virus sia stato creato apposta a questi fini – mostreremmo il fianco a chi i complotti li fa ma deride chi ne parla – ma che questo sia stato cavalcato ad arte e mestiere dai signori della guerra (non a caso attorno al Covid 19 è fiorita una terminologia bellica), mettendo in campo tutte le risorse di cui il potere dispone per domare una ribellione di massa, ciò è sotto gli occhi di tutti.

E come se non bastassero le armi convenzionali, si tirano in ballo le più spaventose tecnologie per il controllo sociale. Si diceva il secolo scorso, tra compagni appassionati di letteratura di genere: un giorno avremo tutti un transistor – è stato molto tempo fa – installato nel corpo fin dalla nascita, così sapranno ogni istante quello che diciamo e dove ci troviamo. Deliri di gioventù, tempi in cui ci si ritrovava nelle piazze a discutere di arte e rivoluzione. Usanze stravolte dall’assalto stragista dello Stato al pensiero libero e rivoluzionario del secolo scorso. Con il conseguente declino politico e culturale delle masse che si protrae fino a oggi.

Finalmente il sogno del potere capitalista, non più riunione ma separazione, è divenuto un dato di fatto. Rintracciare i contatti (o contact tracing, come piace dire a chi se non parla inglese ha l’impressione di non dire niente) non è una novità. I nostri cellulari sono seguiti passo a passo dai satelliti e, all’occasione, anche le nostre conversazioni non sfuggono al “grande orecchio”. Evidentemente, questo non era sufficiente per tenerci a bada col dovuto tempismo e precisione. La tecnologia militare di punta dispone infatti di mezzi ben più sofisticati, ordinariamente usati in operazioni di spionaggio, soprattutto dai reparti dell’antiterrorismo. Solo la resistenza di alcuni istituti internazionali garantisti ha finora impedito che l’intera società sia presa di mira in modo indiscriminato dalla tecnologia ultra spiona.

Il Covid 19 ha messo fine a questa remora etica. Oggi si reclama a gran voce che bisogna sapere dove ognuno di noi va e con chi si incontra. E a questo ha pensato l’anno scorso la Rice University, su commissione della Fondazione Gates. Con l’invenzione di punti quantici a base di rame che, iniettati nel corpo insieme al vaccino anti Covid 19, sarebbero come un codice a barre leggibile con apposito apparecchio (“L’arte della guerra”, Manlio Dinucci). Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

Si continua a dire “nulla sarà come prima”, e c’è da crederci. Purtroppo temo che non sarà nel senso auspicato dai più ottimisti, ossia una sorta di redenzione dalla follia capitalista. Ci si sta invece avviando verso giorni in cui la parola Comunità sarà prima bandita, e poi via via svuotata di senso civico. Nell’era dei corpi separati, riunione è sovversione. Il virus si è perfezionato, l’unico antidoto è la separazione, l’obbedienza. Quella cui stiamo assistendo non è più una guerra alle ideologie, ma l’assalto decisivo del capitale contro l’essere umano in quanto comunione di corpo e spirito.

È il 25 aprile, nel carcere di Oristano, l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Così ci hanno detto e noi lo abbiamo creduto. Tanto che ogni anno il popolo è sceso in piazza, Non solo per non dimenticare la Liberazione, quanto per farla diventare una realtà, un giorno, almeno per i nostri figli. Ora la piazza non c’è più, il popolo è segregato. Il capitale stragista ha occupato la scena, relegando un sogno di libertà a una mera infezione virale.

Paradossalmente, un territorio dove la Comunità è destinata a persistere fino all’ultima matricola è il carcere. I mezzi per sopravvivere qui non esistono, neanche sarebbero possibili. A Oristano mascherine e guanti sono proibiti per ordine della direzione: servono a occultare visi e impronte digitali. Gli agenti sono mantenuti in stato di allerta permanente. Le carceri sono bombe in procinto di esplodere. Le sbarre, invece di separare, uniscono i sentimenti di rivolta. I detenuti non ci stanno a morire per mano di leggi che celebrano la vendetta. Allora si uniscono, gridano più forte del virus, vogliono comunicare con la gente, dire che una soluzione è possibile. Parliamone.

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La guerra che viene: in ricordo di Alan D. Altieri https://www.carmillaonline.com/2019/06/13/la-guerra-che-viene-in-ricordo-di-alan-d-altieri/ Wed, 12 Jun 2019 22:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52991 di Sandro Moiso

Due anni or sono, il 16 giugno 2017, Alan D. Altieri lasciava definitivamente la momentanea compagine umana per addentrarsi, probabilmente con un ghigno sul volto, in altre e per noi ancora precluse e sconosciute dimensioni. Sergio Altieri, questo il suo vero nome, laureato in ingegneria meccanica, è stato uno dei più importanti scrittori italiani di genere (action, thriller, science-fiction, poliziesco e altro ancora) degli ultimi quarant’anni e sicuramente uno dei più visionari, forse il più visionario in assoluto. Forse anche per questo collaborò frequentemente a “Carmilla”, dedita all’esplorazione delle varie forme dell’immaginario critico dell’esistente e diretta da [...]]]> di Sandro Moiso

Due anni or sono, il 16 giugno 2017, Alan D. Altieri lasciava definitivamente la momentanea compagine umana per addentrarsi, probabilmente con un ghigno sul volto, in altre e per noi ancora precluse e sconosciute dimensioni.
Sergio Altieri, questo il suo vero nome, laureato in ingegneria meccanica, è stato uno dei più importanti scrittori italiani di genere (action, thriller, science-fiction, poliziesco e altro ancora) degli ultimi quarant’anni e sicuramente uno dei più visionari, forse il più visionario in assoluto. Forse anche per questo collaborò frequentemente a “Carmilla”, dedita all’esplorazione delle varie forme dell’immaginario critico dell’esistente e diretta da un altro grande visionario della letteratura fantastica, al quale fu da sempre legato da una profonda amicizia.

Oltre a ciò Altieri è stato traduttore di opere come il ciclo di romanzi delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” (Game of Thrones) di George R. Martin, di Raymond Chandler e Dashiell Hammett oltre che di Howard P. Lovecraft e di molti altri autori angloamericani ancora.
Ha lavorato per il cinema, anche per film importanti quali “L’anno del dragone” di Michael Cimino e “Velluto blu” di David Lynch, sia italiano che statunitense e si è cimentato con varie sceneggiature cinematografiche e televisive Oltre che essere stato direttore di svariate collane di letteratura di “genere” da edicola.

Un curriculum non di poco conto per una carriera che poteva già contare sulla pubblicazione di ben 19 romanzi e di cinque o sei antologie di racconti. Trame che si svolgono dal XVII secolo fino ad un prossimo e non meglio definito futuro in cui, comunque, a dominare la scena permangono l’avidità, la violenza, il desiderio di dominio politico, economico e religioso. Avvolte tutte da un clima cupo in cui, spesso, l’eroismo o la volontà, pur ferrea, dei singoli non basta ad evitare catastrofi, massacri e devastazioni paragonabili soltanto a quelle di cui ormai ci giunge l’eco quotidianamente.

Sì, perché il visionarismo catastrofista, la violenza selvaggia ed ineludibile che animano le sue pagine hanno i piedi ben piantati nella realtà che ci circonda e che accompagna da secoli il modo di produzione ancora dominante. L’appropriazione mafiosa, imperiale o privata della ricchezza socialmente prodotta è il motore che anima il dipanarsi delle vicende narrate e la devastazione sociale e morale è sempre seriamente correlata a quella ambientale. Altieri non ha mai avuto dubbi in proposito e proprio per questo i suoi scritti sono animati più dal cinismo che dall’imperturbabile e insopportabile buonismo, egualitarista e fasullo, di matrice cattolica che deturpa ancora gran parte della cultura, della letteratura, dell’immaginario politico contemporaneo.

La laurea in ingegneria meccanica, inoltre, gli ha sempre permesso di muoversi tra scienza, tecnologia e armi, antiche e moderne, con estrema disinvoltura e competenza, contribuendo così a definire uno stile narrativo che non esiterei a definire salgarianesimo tecnologico, in cui le conoscenze tecniche dirette gli hanno sempre permesso di arricchire di dettagli puntigliosi le sua cavalcate da una parte all’altra dello spazio geografico e del tempo storico.

Proprio per tutti questi motivi, forse, a dominare la scena dei suoi romanzi e racconti più significativi è quasi sempre la guerra, sia essa tra stati, imperi o bande criminali interessate al dominio dei traffici illegali di una megalopoli (spesso Los Angeles), di materie prime, del pianeta nel suo insieme o addirittura delle possibili risorse altre presenti nel cosmo. Cambiano le coordinate spazio-temporali, ma non i moventi e, conseguentemente, le azioni e le distruzioni che ne derivano.

Da questo punto di vista la trilogia di Magdeburgo, che descrive con rigore storico e violenza probabilmente mai vista prima in un romanzo storico la guerra dei Trent’anni, può forse rappresentare il punto di arrivo definitivo della sua opera narrativa. La descrizione di quella che fu sicuramente la vera “prima guerra civile europea”, delle sue devastazioni sociali, morali e psicologiche si presta infatti molto bene ad illustrare la poetica del cinismo e, talvolta, del nichilismo dell’autore. Dando vita ad esperienze ed avventure che lasciano davvero il lettore senza fiato.

Ma nonostante ciò, a mio personale avviso, il suo vero capolavoro è da annoverarsi tra le prime prove dell’autore milanese: L’occhio sotterraneo1, romanzo ormai da lungo tempo introvabile e che necessiterebbe di una sua ripubblicazione corredata da un adeguato commento e da una approfondita rilettura critica.

Romanzo della catastrofe assoluta, L’occhio sotterraneo narra di un futuro prossimo (all’epoca si ambientava a ridosso del 2000, ma ben poco è cambiato) in cui tra inarrestabili pestilenze, insormontabili crisi economiche, tempeste magnetiche scatenatesi nello spazio esterno, affermazioni di regimi di estrema destra nel cuore germanico dell’Europa e un devastante conflitto tra Stati Uniti (con i propri alleati arabo-sauditi ed israeliani) e Iran, l’umanità, o ciò che ne resta, si avvia al suo irreparabile tramonto.

Qui di seguito riproponiamo ai lettori le pagine centrali del momento in cui la Repubblica islamica iraniana, con l’uso di aviatori kamikaze (ricordatevi che il libro fu scritto nei primi anni Ottanta), assapora la sua vittoria sulla flotta americana nello stretto di Hormuz. Se ciò vi farà venire in mente qualcosa di attuale non stupitevene: la letteratura d’anticipazione viene così definita proprio per questo motivo.
Anticipa soltanto, non crea nulla o quasi.

Bahramali Atai sorrise mentre l’accelerazione della caduta gli calava un velo rossastro davanti agli occhi. Una voce irriconoscibile disse : “Allah è grande….”
L’aereo di Bahramali Atai cadde insieme al Martello di Allah: la bomba H da venti megaton agganciata ad esso.

Per primo venne il lampo.
Nessun rumore, nessuna vibrazione. Solamente luce. Diecimila volte più accecante della luce del Sole, un milione di volte più accecante della luce di Sigma del Drago.
C’erano molti uomini sulle tolde delle navi da guerra, coloro che al momento dell’esplosione stavano guardando verso il punto del cielo a metà strada tra la portaerei nucleare Harry Truman e la gigantesca petroliera Pacific Stream ebbero le cornee liquefatte e le retine carbonizzate all’interno dei bulbi oculari er il solo effetto della vampata luminosa.
Nessuno di quegli uomini ebbe il tempo di rendersi conto di essere diventato completamente cieco: Nessuno, né loro né gli altri, ebbe il tempo di rendersi conto di niente. Un sole di pura energia si accese. Dilagò in pochi millesimi di secondo, dilatandosi a sfera, un’unica mostruosa sfera di calore a dieci milioni di gradi centigradi di temperatura, una temperatura da nuclei stellari.
Qualsiasi cosa venne a trovarsi all’interno di quella sfera cessò di esistere, letteralmente. Atmosfera, acqua, acciaio, sabbia, roccia, corpi, tutto venne disintegrato in un titanico vulcano di raggi gamma, elettroni, neutroni e protoni che si allontanarono dal punto zero a una velocità prossima a quella della luce.
La Pacific Stream e la Harry Truman svanirono pressoché istantaneamente, le altre navi della squadra vennero cancellate nei trentun centesimi di secondo successivi all’esplosione. La palla di fuoco della bomba termonucleare da venti milioni di tonnellate di tritolo trasportata su Hormuz da Bahramali Atai vaporizzò le acque e inghiottì il sottomarino Sea Serpent. Continuò nella sua corsa, mise a nudo il fondale dello stretto facendolo ribollire in una palude di magma e scavando quello che in seguito sarebbe diventato un cratere subacqueo del diametro di otto chilometri e della profondità di due. La palla di fuoco crebbe e parve inghiottire l’intero universo.

Dopo il lampo toccò all’onda d’urto.
Soffiarono venti di un’intensità che non era mai esistita sulla faccia della terra.
L’onda d’urto cancellò tutte le isole di Hormuz: Qeshm, Larak, Hengan, Shantan; il promontorio di Mussandam. Quando raggiunse la città iraniana di Bandar Abbas, a cinquanta chilometri dal punto zero, la sua velocità si aggirava sui duecentocinquanta chilometri orari, con un carico cineico di dieci tonnellate per metro quadrato e con una temperatura di ottomila gradi. Bandar Abbas venne trasformata in un deserto fiammeggiante in undici secondi. Lo stesso accadde a qualsiasi insediamento nel raggio di centoventi chilometri dal punto zero. Le città degli Emirati Arabi Uniti svanirono una dopo l’altra, come insetti calpestati dai passi di un dinosauro.

I venti dell’onda d’urto arrivarono a Dubai e ad Ash Shariqah un’ora e ventisei minuti dopo l’esplosione. Erano venti deboli, poco più di una brezza. Riuscirono soltanto a sollevare la sabbia e a gettarla sulle migliaia di cadaveri che giacevano dappertutto.
La loro era stata una morte orrida ma per fortuna rapida, molto rapida: non più di cinque sei secondi. Nessuno può restare in vita più di otto secondi se viene sottoposto a un bombardamento di raggi gamma ad alta energia a tredicimila roentgen. Nessuno può restare in vita quando il sistema neurovegetativo viene disintegrato, quando le connessioni cllulari si spezzano, quando la stessa biochimica molecolare del metabolismo viene sbriciolata.
Il punto zero distava duecentocinquanta chilometri da Dubai, la radiazione intensificata diretta successiva alla palla di fuoco dell’esplosione H aveva impiegato appena pochi centesimi di secondo per coprire quella distanza: Se fosse scoppiata altrettanto lontana ma sul deserto, se fossero stati avvertiti in tempo, qualcuno a Dubai ce l’avrebbe fatta, forse. Ma era scoppiata sullo stretto di Hormuz, aveva trascinato nelle sue devastanti reazioni a catena anche tutte le centinaia di quintali di plutonio che formavano i reattori nucleari e le testate delle armi della Harry Truman e del Sea Serpent. Al potere di annientamento della deflagrazione termonucleare si era aggiunto quello di stermino delle emissioni neutroniche: la bomba di Bahramali Atai era diventata anche una superbomba a neutroni. Tutte le forme di vita nel raggio di duecento chilometri dal punto zero erano state distrutte.
Ash Shariqah era un cimitero. I cadaveri giacevano sulla sabbia, sull’asfalto, di traverso sulle tubazioni. Da qualche parte nella raffineria ci fu un’esplosione, le fiamme si levarono crepitando nell’aria satura di radioattività mortale. Il fuoco dilagò, giallo, torrido, ruggente. Inarrestabile.

Il fungo atomico, l’apocalittica costruzione di cenere , detriti e vapore acqueo, si era alzato fino a una quota di quranta chilometri sopra la verticale dello stretto.
Più in basso il fondale oceanico continuava a ribollire.L’esplosione di venti milioni di tonnellate di tritolo aveva provocato una scoss atellurica dell’ottavo grado della scala Richter dei terremoti, L’intero, delicato complesso di tensioni, compressioni e scorrimenti sotterranei tra le grandi zolle tettoniche iraniana e arabica lungo la linea di faglia del Golfo Persico aveva ricevuto un impatto equivalente alla nascita contemporanea di una mezza dozzina di vulcani.
La scossa tellurica attraversò il mantello terrestre, rimbalzò contro la massa ad altissima densità del nucleo e ritornò in superficie. I pennini dei sismografi schizzarono fuori scala in molte parti del mondo: da Ryad, in Arabia saudita a Sofia, in Bulgaria; da Tibilisi a Kandahar, in Afghanistan; fino a Singapore, l’estrema punta della Malacca, seimila chilometri lontana dal punto zero.
I sismografi saltarono, ma ovunque le radio e i satelliti per le comunicazioni tacevano. Nessuno, in futuro, avrebbe mai saputo quante città del Medio Oriente erano state distrutte, oppure quante persone erano morte a causa dei catastrofici terremoti che nei mesi successivi sconvolsero l’intera regione subcontinentale dell’Iran. Terremoti che poi risalirono verso nord e verso est, provocando altre devastazioni nella Russia meridionale, dal Lago d’Aral a al Mar Nero.2

(Un particolare ringraziamento devo qui rivolgere al mio sodale, compagno ed amico fraterno Cesare Aimar, senza il cui prezioso aiuto mi sarebbe stato impossibile rintracciare il testo di Altieri e presentarne qui le pagine appena citate)


  1. A. D. Altieri, L’occhio sotterraneo, prima edizione dall’Oglio, Milano 1983 – seconda edizione TEA 1996  

  2. A.D. Altieri, op. cit., pp. 286-290  

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Laser game – Decima puntata https://www.carmillaonline.com/2019/05/05/laser-game-decima-puntata/ Sat, 04 May 2019 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52414 di Nico Maccentelli

(Capitolo 19)

19.

Doveva condurre quell’indagine a modo suo. Sapeva che quello che stava per fare, soprattutto dopo il suo esonero, non solo gli sarebbe costata la carriera, ma sarebbe anche potuto finire in galera e per un bel po’.

Quando arrivò sul posto si guardò attorno con fare circospetto. Erano le due di notte e la porta del Laser game chiusa da una serranda a maglie larghe e con la grande insegna giallo fosforescente sembrava l’ingresso d’un antro demoniaco. O più semplicemente una presa in giro costruita apposta per [...]]]> di Nico Maccentelli

(Capitolo 19)

19.

Doveva condurre quell’indagine a modo suo. Sapeva che quello che stava per fare, soprattutto dopo il suo esonero, non solo gli sarebbe costata la carriera, ma sarebbe anche potuto finire in galera e per un bel po’.

Quando arrivò sul posto si guardò attorno con fare circospetto. Erano le due di notte e la porta del Laser game chiusa da una serranda a maglie larghe e con la grande insegna giallo fosforescente sembrava l’ingresso d’un antro demoniaco. O più semplicemente una presa in giro costruita apposta per far fare le nottate insonni a un onesto ispettore di polizia.

Cattabriga si guardò attorno con circospezione. Quello che stava per fare era tutt’altro che regolare. Se le sue intuizioni non erano giuste, sicurosicuro si giocava il posto. La serranda non aveva più i sigilli della procura.

Però, quante cose accadute nell’arco di poche ore. Il secondo omicidio a scombinare le belle congetture di Improta, l’intervento del questore su pressione delle solite associazioni di categorie sifacesseroicazziloro, proprio quando ci stavano arrivando a capo. E Silvia. Quella sbarba che l’aveva stregato e che ora era diventato un chiodo fisso nella sua testa, impossibile da estrarre, impossibile da tenere.

Frugò in una tasca del giubbotto e afferrò il passe-partout. Dopo tutto se l’era cercata lui, le aveva dato corda sin dall’inizio, era andato in quel fottuto liceo, l’aveva invitata a bere qualcosa. Anche se non si sarebbe mai aspettato una reazione così diretta da parte della ragazza.

Infilò il passe-partout nella toppa della serranda. Ah, le ragazze d’oggi, sanno sempre ciò che vogliono. O forse no. Anche in questa vicenda c’era qualcosa che gli sfuggiva.

Fece scattare la serratura e si guardò ancora in giro. Non c’era nessuno. Bene. Con un colpo rapido sollevò di scatto la serranda. Il rumore che fece gli sembrò amplificato dalla violazione che stava commettendo.

E uno. Ora c’era la serratura della porta a vetri. I napoletani non avevano installato alcun allarme. Meglio. Armeggiò ancora per qualche istante, poi la porta cedette. Entrò rapido. Doveva fare le cose velocemente. Qualcuno poteva notare la serranda aperta, magari dei vigilanti, e sarebbero stati guai seri.

Fece qualche passo e accese la torcia. Dunque, l’arena è laggiù. Percorse velocemente l’atrio e arrivò fino alla porta che dava accesso al campo di gioco. Bene, è aperta. Il dedalo di muri neri gli sembrava ancora più sinistro, così, spento nell’oscurità.

Cercò il punto preciso dove era avvenuto il primo delitto, quello di Luca. Chi cazzo si ricorda… Poi gli venne in mente che il luogo dov’era avvenuto il secondo delitto doveva avere ancora il gesso della silhouette della vittima.

Infatti: eccolo lì. La sagoma disegnava un corpo piegato. Sembrava il graffito di qualche antica e misteriosa civiltà. In realtà era la mano di Menozzi, esperto della scientifica ed esperto rompicoglioni, scientifico anche in quello. Lui e le sue collette pro-tutto, le sue feste noiose, il re del dopolavoro. Uno scassaballe, ma bravo nel suo lavoro. Molto. 

Altezza dei corpi: uno e settantacinque tutt’e due. Una coincidenza favorevole. Speriamo. Tirò fuori un metro e misurò sul muro di fianco alla sagoma un metro e settantacinque dal suolo. Segnò il punto con un gesso. 45 gradi…

Si avvicinò al muro opposto e lo scrutò attentamente. Era liscio. No, no non va, deve pur esserci qualcosa… perlustrò l’interstizio che univa i due pannelli. “Accidenti, non ho portato una scala!” pensò. Guardò in alto, verso la fine del muro. 45 gradi significano che il punto di partenza dello sparo poteva essere lassù.

Udì uno scalpiccìo lontano. “Merda! hanno visto la serranda aperta!” Spense subito la torcia e afferrò istintivamente la pistola. A chi cavolo sparo, a un vigilante? No, gli consegno l’arma e tanti saluti. Ma poteva anche essere quel fetente di Ciro.

I passi ora erano più vicini. S’acquattò. Pronto a balzare agli onori della cronaca o a cambiare mestiere.

Pochi metri ancora, i passi erano dietro il pannello di plexiglas nero di fronte a lui. Appena vide la figura saltò fuori dall’angolo, accese di colpo la torcia e puntò la pistola. — Polizia!

— Aaah! — Silvia fece un salto indietro. Cattabriga vide il bianco dei suoi occhi e la bocca allargata in una maschera di terrore.

— Che spavento! sei proprio uno stronzo!

L’ispettore era furente, ma non tanto da non notare la sottanella corta di jeans, che dava alla ragazza un’aria ancora più infantile. — Silvia, che ci fai qua!

La ragazza si portò una mano al petto, riprese fiato e disse: — Anche se sapevo che qui dentro c’eri tu, mi hai fatto prendere proprio un bello spago!

Cattabriga imprecò, poi, facendosi forza per non perdere la pazienza, chiese: — Come sapevi che ero qui?!

— Semplice: ti ho seguito.

— Mi hai seguito?!! — Yuri non riuscì a trattenersi e tirò un pugno su un pannello. —  E come hai fatto?!

— Con lo scooter. Ho aspettato che tu uscissi dalla centrale.

Cattabriga provò una certa ammirazione per la piccola, ma si sentì anche un discreto coglione. Il che lo fece arrabbiare ancora di più. La afferrò per un braccio. — Ma cosa credi, che io stia qui a giocare a guardie e ladri?

Silvia si divincolò e lo guadò in cagnesco. — Di ladri, anzi, di assassini ne vedo pochi. In compenso vedo uno stronzo.

— Silvia, non sto giocando.

La ragazza proseguì come se non l’avesse sentito. — Vedo uno stronzo che mi ha scopata, che si è divertito e mandata affanculo.

“Che faccia tosta la ragazzina!” pensò l’ispettore.

— Silvia, non sto giocando!

— Hai giocato! sì, hai giocato!

Yuri mise una mano sulla bocca della ragazza. — Zitta! — le intimò. Rimase un attimo in ascolto. Forse aveva sentito qualcosa. Uno strano ronzio.

Silvia mugolò per un istante, ma sopportò di buon grado quella mano grande. Gli alitò sopra delicatamente, scostò le sue labbra e gli leccò con dolcezza il palmo con la punta della lingua.

Cattabriga ebbe un sussultò e scostò la mano. — Zitta — disse ancora, ma stavolta con un sussurro che non poteva celare un certo turbamento.

Sentì una vibrazione metallica, giungere da un punto remoto. — È una tubatura dell’acqua chissà dove — concluse.

Tranquillizzatosi, ripose la pistola nella fondina. — Senti, rimandiamo la nostra questione a dopo…

— Davanti a un buon caffè. O forse vuoi giocare ancora?

— Mi sembra che ci fossi anche tu a giocare. Anzi se ben mi ricordo l’idea è partita da te, o sbaglio?

La ragazza ebbe uno scatto insofferente.

— Comunque sia, Silvia, ora in ballo ci sei anche tu e mi devi aiutare.

— Mago Zurlì ha bisogno della piccola bimba?

Yuri le fece una smorfia e indicò la parte alta del muro in pietra. — Sì. Dovresti salire sulle mie spalle e dirmi cosa noti là sopra, tra i due blocchi di pietra, dentro l’interstizio.

— Sì buana! — rispose Silvia imitando la voce di un africano.

Si chinò flettendo le gambe. La ragazza gli afferrò le spalle da dietro e con un salto gli fu sopra. Strinse subito il collo dell’uomo con le cosce, prendendo la torcia che lui le porgeva.

— Guarda a venti centimetri circa dal soffitto — le suggerì Yuri, sollevandosi lentamente. Sentiva quellacosa tenera e viva tra capo e nuca. Al tatto poteva distinguerne la forma. Qualche pelo soffice usciva dalle mutandine facendogli il solletico sul collo. Anche l’odore era intenso. Ebbe una vertigine. Barcollò.

— Ma che fai! — strillò Silvia. La torcia piombò a terra fracassandosi e tutto divenne buio.

— Porca troia! — smoccolò Cattabriga appoggiandosi al muro per diminuire il carico che aveva sulle spalle.

— Forse sono troppo pesante — osservò con ironia la ragazza.

“Cinquantotto chili di gnocca sulle spalle! altro che peso!” Cattabriga si trattenne dal dirlo.

— Adesso siamo nella merda — concluse.

— Ho io un accendino.

— Meglio di niente. Passamelo che voglio vedere com’è messa la torcia.

Silvia si frugò un attimo in tasca e l’allungò all’ispettore.

— Uno zippo…meno male. — Accese. La pila giaceva come una povera bestia inerte, col vetro rotto. Era uscita persino la lampadina. Un danno irreparabile. — Bene! — gridò Cattabriga. — Dovremo controllare il muro con l’accendino.

Ripassò lo zippo acceso a Silvia. — Sei pronta?

— Se tu non fai altre stronzate, sì.

Ancora una volta gli sembrò di sentire un ronzio.

— Non c’arrivo! — disse la ragazza.

— Sali coi piedi sulle mie spalle.

La ragazza eseguì.

— Vedi niente?

Silvia scrutò la parte finale del muro e vide, quasi verso il soffitto, un piccolo foro.

— C’è un buco!

Yuri si girò di scatto. Un altro ronzio. — Grande come?

— Boh, non so. Forse mezzo centimetro.

— Come supponevo. Vieni giù. — L’ispettore aiutò la ragazza a scendere, sentendo tutto il corpo di lei che scivolava sul suo.

Rimasero un attimo abbracciati l’uno all’altro, a guardarsi nel tenue pallore giallognolo dello zippo. Cattabriga prese l’accendino tra le mani. — È come pensavo. Il colpo di pistola è uscito da lì. L’assassino, che a questo punto dev’essere proprio Ciro Mutolo, ha agito non dentro il labirinto, ma fuori. Deve esserci un ambiente qui dietro.

— Piuttosto grande — constatò Silvia, — perché la distanza tra i due luoghi degli omicidi è almeno di trenta metri.

Yuri allungò l’accendino verso la parte alta del muro.

— Comunque Ciro è fregato. Questa volta neppure il ministro in persona potrà impedirmi di tornare qui con un mandato di perquisizione esteso a tutto il palazzo.

— Perché Ciro?

— è un discorso lungo.

— Bene caro il mio ispettore, dovresti ringraz…

— Zitta!

Yuri bloccò la ragazza e rimase un attimo in ascolto. — Hai sentito anche tu?

— Sì, questa volta il rumore era chiaro.

— Non riesco a capire cosa possa essere, ma di sicuro non una tubatura. E ora è più vicino.

— Cosa può essere?

L’ispettore non le rispose, ma la squadrò come per saggiarne le caratteristiche fisiche.

— E adesso cosa c’è? — chiese lei. — Cos’è quello sguardo penetrante. Ti sembra il momento di…

— Mi sto chiedendo se le tue spalle sono in grado di reggere il mio peso.

— E come no! Di bestioni di ottanta chili me ne carico tutti i giorni!

Gli occhi del poliziotto ebbero un lampo ironico, e colse l’occasione. — Sì, vorrei proprio sapere quanti.

— Stronzo! E poi se speri che io…

— Poche storie, ladygodiva — tagliò corto Yuri, soddisfatto per la reazione della ragazza. — Unisci le mani e chinati.

Silvia eseguì brontolando qualche insulto. L’ispettore appoggiò il piede sulle dita intrecciate della ragazza e fece leva col ginocchio. Poi con l’altro piede salì su una spalla di lei. — Se ti appoggi al muro fai meno fatica.

Quando fu sopra la ragazza con entrambi i piedi, avvicinò l’accendino verso l’interstizio. E vide il piccolo buco. — Eh sì, qui ci passa giusto giusto un calibro trentotto. Vediamo l’interno.

— Fa attenzione! — esclamò Silvia.

Cattabriga introdusse il polpastrello del mignolo dentro il foro. — Metallo! è una vera e propria canna…

Questa volta il ronzio fu più forte delle altre volte.

Si girò di scatto verso la fonte del rumore. A pochi centimetri da lui vide un tubicino alla cui fine una lente convessa lo fissava come un occhio asettico e perfido.

— Una microtelecamera! — esclamò.

Il tubicino tornò a ronzare, muovendosi come un piccolo mostro metallico.

Ora la vedeva anche Silvia. — Una microtelecamera?!

— Sì! siamo stati spiati sin dall’inizio! — confermò l’ispettore. E aggiunse: — Tienimi!

Appoggiò le mani per un istante al muro per coordinare il salto che stava per fare.

— Gne! ble! stronzo, porco! — gridò Silvia verso l’obiettivo con smorfie e boccacce, e alzò il dito medio della mano destra mentre appoggiava la sinistra all’interno del gomito, dove solitamente si tiene il manico dell’ombrello chiuso.

Yuri si trattenne un attimo dal lanciarsi. — Ma ti sembra il modo, accidenti!

— Quel pezzo di merda ci sta sicuramente guardando! — E proseguì con gli sberleffi.

— Silvia, ma non capisci che potrebbe…

Il sibilo fu forte e qualcosa sfiorò un orecchio di Cattabriga, che perse l’equilibrio e cadde sul fianco. Fu di nuovo buio. Aveva un’anca e una spalla doloranti.

— Yuri!  dove sei! ti sei fatto male?

— Accidenti, ha sparato! Silvia, dobbiamo uscire al più presto di qua! L’accendino, aiutami a cercare l’accendino!

Di colpo si accese la luce giallognola fosforescente dell’impianto.

— Ci vuoi vedere bene, eh bastardo? — urlò Cattabriga.

La ragazza gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Ma lui la strattonò verso il basso. — D’ora in poi non alzarti più in piedi, hai capito?! Chissà quanti buchi ci sono, pronti a sparare.

Silvia si strinse al suo collo. E per un attimo lui sentì la sua guancia sfiorargli l’orecchio. La prese per mano. — Vieni, seguimi. Stai chinata come me.

Iniziarono a percorre il dedalo di muri e pannelli. Partì la musica del Laser game: una miscela psichedelica di suoni elettronici, che ora davano un tono ancora più sinistro al labirinto.

Svoltarono un angolo. Partì un altro botto. Il proiettile sibilò sulla loro testa e rimbalzò sul muro di fronte. — Merda! — gridò la ragazza — ci vuole fare la pelle!

Sopra di loro, in ogni corridoio, le telecamere scrutavano verso il basso, come bestie riportate alla luce da nascondigli remoti. Qualcuna si muoveva come un cobra col capo eretto, che gira seguendo la preda, pronto a scattare.

Yuri guardò a destra e a sinistra con aria confusa.

— Dov’è l’uscita!?

Un altro colpo partì, trapassando un pannello di plexiglas e sibilando a non più di venti centimetri dalla testa dell’ispettore.

Fecero ancora una svolta, ma si trovarono in un vicolo cieco. Tornarono indietro, ma un altro colpo fracassò una finestrella di plastica trasparente, passando proprio in mezzo a loro, appena sopra le mani unite. — Passa sotto alle feritoie!! Ci vede anche da lì!

— Benvenuti al Laser game, per un’altra indimenticabile battaglia! — gracchiò una voce registrata da un altoparlante. — Siete pronti per il combattimento? … Sì? …Allora che vincano i migliori!

Silvia quella voce anonima e metallica, l’aveva sentita tante volte, tante volte aveva percorso quei cunicoli, con il fucile laser in pugno, alla ricerca dei suoi amici. Ma poi, alla fine si usciva sudati, si commentavano i punti fatti e si tornava a casa. Ora lì dentro stava vivendo un incubo.

— Forse l’uscita è di là! — gridò Cattabriga, vedendo un aumento di luce in fondo, appena girato il corridoio che stavano percorrendo. Un altro colpo partì da uno dei buchi, rimbalzò sul muro ed entrò nel suo giubbotto. L’ispettore urlò piegandosi su se stesso fino a toccare la testa al suolo.

— Yuri!! — gridò Silvia.

— Sono stato colpito! — La spalla gli bruciava. Controllò.

Il proiettile aveva bucato gli indumenti, e tracciato un breve solco rosso e nerastro sulla pelle, come un ematoma.

La ragazza balbettò: — È… è grave?

— No, è di striscio.

Riprese la mano di Silvia e la trascinò per un’altra svolta. — Presto, dobbiamo andare verso quella luce! — urlò.

I due ripresero la corsa meno chinati, per prendere velocità. In fondo al corridoio svoltarono e furono investiti da un muro di luce e di fumo. A pochi passi da loro, la porta aperta dell’uscita.

— Dai! — gridò il poliziotto alla ragazza. Ma la falcata della loro corsa si faceva più incerta, e a ogni passo perdevano le forze. — Il fumo! — gridò Yuri con la testa che gli girava come in una giostra impazzita. Crollò a terra a due metri dalla porta.

Silvia si accasciò dietro a lui, rimase inarcata, per un attimo, sui gomiti e le ginocchia, col sedere all’insù e la sottanella alzata, cercando lo sguardo dell’ispettore. — Cazzo, che fumo questo! — Fu l’ultima cosa che disse.

 

(Fine della decima puntata, la prossima: domenica 12/05/2019)

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