Recensioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 20 Oct 2025 22:29:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tremate, uomini, tremate… le streghe non se ne sono mai andate! https://www.carmillaonline.com/2025/10/15/tremate-uomini-tremate-perche-le-streghe-non-se-ne-sono-mai-andate/ Wed, 15 Oct 2025 19:50:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90684 di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, [...]]]> di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, una confidente. Lei era zia Zsusi, e aveva una soluzione per tutto.» (Sabrina Zuccato)

Il romanzo “storico” di Sabrina Zuccato, pubblicato da Marsilio all’inizio di quest’anno, offre l’opportunità di sviluppare una riflessione sulla pratica dell’autodifesa e della violenza delle donne, separando gli avvenimenti reali e storicamente comprovati da una narrazione falsamente femminile e femminista in cui le donne sarebbero solo e sempre vittime indifese della violenza maschile o altra. Incapaci di difendersi autonomamente e, spesso, in maniera estremamente originale e “creativa” dalle ingiustizia e dai soprusi che le circondano e le opprimono, se non affidandosi alla protezione delle istituzioni. Una concezione, quest’ultima, che, volente o nolente, non fa altro che riportare l’iniziativa delle donne sotto la grande ala dei sistema patriarcale, dello Stato e delle sue leggi.

Come ha infatti affermato Anna De Biasio, ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università di Bergamo:

Pochi temi sono terreno di silenzi e di tabù come la violenza femminile. Che le donne possano essere attori della violenza e non solo vittime è sembrato a lungo un ossimoro: parte integrante dei sistemi permanenti e impliciti del pensiero, la rappresentazione del femminile è ancorata a un’immagine di dolcezza e di rifiuto del male che trova espressione nel classico cliché della donna angelo o nell’icona della madre. A questa ritrosia si aggiunge il timore che trattare la violenza agita o immaginata dalle madri, sorelle e figlie possa sviare l’attenzione dal drammatico problema della violenza subita, dagli abusi domestici agli stupri di guerra. Eppure storia e letteratura sono popolate di donne capaci di opporsi al dominio maschile con il ricorso alla forza e persino a rivestire ruoli di rilievo nell’ambito virile per eccellenza, quello della guerra. [Ma] non ovunque, nei contesti nazionali, queste (anti)icone di genere hanno trovato la stessa visibilità1.

E proprio da questo cono d’ombra occorre ripartire per sviluppare non soltanto la recensione del romanzo della Zuccato, ma anche, e soprattutto, una riflessione su cosa significhi avere o non avere rimosso l’azione violenta delle donne dalla narrazione di una Storia che si vorrebbe “al femminile”, ma che ancora non lo è, poiché troppo spesso destinata a ricalcare ancora l’immaginario maschile imposto alla figura e alla funzione della donna.

Sabrina Zuccato (Padova, 1992) è giornalista pubblicista e si occupa prevalentemente di cultura, critica cinematografica e attualità; come ci informa nell’Appendice, il suo romanzo si ispira a fatti realmente accaduti, tra il 1919 e il 1929, nella regione ungherese del Tiszazug, un episodio che sconvolse l’Europa non solo per l’efferatezza dei crimini, ma anche per un inedito capovolgimento dei ruoli: donne che uccidevano gli uomini e che si vendicavano.

Al centro delle vicende narrate si stagliano due figure, una maschile e una femminile.
La prima è quella del capitano Zsigmond Danielovitz, mentre la seconda è quella della levatrice Zsuzsanna Fazekas, entrambe realmente esistite.

Il capitano, un uomo indebolito dalla guerra, ma vigile, viene incaricato di indagare sul cadavere di un’anziana contadina, ma ci mette poco a scorgere, dietro gli occhi degli abitanti del villaggio di Nagyrév qualcosa di sinistro. Rendendosi ben presto conto che quella morte di una donna sulle sponde del fiume Tibisco, in quella ristretta comunità rurale in cui il benessere non è mai arrivato, non è che l’anello di una lunga catena di scomparse e incidenti che da tempo coinvolgono il piccolo villaggio, sperduto nella pianura ungherese. Dove superstizione, violenze, miseria e soprusi sono i protagonisti delle vite che si incrociano in questo affresco rurale, in cui a fare le spese di appetiti e frustrazioni sono sempre le donne, mentre le regole patriarcali della comunità magiara e le meschinità dell’animo umano creano situazioni insostenibili e sofferenze ingiustificabili per mogli e figlie, anziane e ragazze.

L’altro personaggio chiave, intorno al quale ruotano le storie di Nagyrév, è la misteriosa, levatrice dal passato nebuloso, spesso etichettata come «strega» dai suoi concittadini, temuta e, ogni tanto, rispettata, una figura carismatica, rarissimo esempio di donna emancipata, cui molte «sorelle» chiedono aiuto per risolvere i guai che hanno dentro casa. Gravate da inganni, stupri e sottomissioni, le vittime hanno infatti deciso di alzare la testa. Mentre i due personaggi principali, nella trama del romanzo, vedranno intrecciarsi i loro destini anche da un punto di vista sentimentale, in un momento fragile e breve prima della catastrofe finale.

Gli avvenimenti che ebbero luogo a Nagyrév, mostrando gli orrori di cui è capace la vita domestica e, allo stesso tempo, le forme di resistenza alle sopraffazioni di genere, possono costituire però anche una finestra sul presente. In cui i soprusi famigliari possono ancora incrociare le vie della guerra e delle sue conseguenze sugli uomini, le donne e le famiglie.

Mescolando drammaticamente desideri femminili inconfessabili, follia, rabbia e impotenza di uomini tornati inabili o gravemente menomati dalla guerra e per questo trasformati soltanto in inutili bocche da sfamare; vendette e ritorsioni per le violenze subite o minacciate dalle donne e nei loro confronti. Per le quali un parto in più spesso, oltre ad un’ulteriore esperienza dolorosa e traumatica, poteva costituire il motore per la soppressione dei figli o dei neonati che sapevano di non poter sfamare.

Ed è proprio da questa palude di necessità, rancori e paure che si svilupparono i fatti che sconvolsero tra il 1919 e il 1929, ma come afferma l’autrice forse anche già da prima, la regione del Tiszazug con l’avvelenamento di più di cento persone. Una catena di omicidi che sembrerebbe trovare nella levatrice di Nagyrév, Zsuzsanna Fazekas, la maggiore responsabile. Sulle cui responsabilità indagarono il capitano della gendarmeria Zsigmond Danielovitz e ll crudele magistrato inquirente Janos Kronberg. Mentre persino la descrizione contenuta nel romanzo degli abusi condotti sulle donne arrestate all’interno delle istituzioni carcerarie in cui vennero rinchiuse prende spunto dalla realtà dell’epoca.

La maggior parte dei giornali dell’epoca tendeva ad attribuire ogni colpa alla mancanza di moralità delle imputate, tornando a fornire un’immagine della donna schiava delle tentazioni del demonio che già aveva nutrito le fantasie perverse ed erotiche degli inquisitori nei confronti del sabba, ma che affondava le proprie origini nelle prime pagine dell’Antico Testamento e nella figura insaziabile di Eva.

Ma quelle donne non erano mai vissute nel giardino dell’Eden e nemmeno lontanamente in prossimità dello stesso, visto che, come si è accennato prima, molte di loro avevano dovuto subire a lungo le angherie di mariti e parenti alcolizzati e violenti. In un contesto di arretratezza culturale in cui il divorzio, pur possibile, non rappresentava una scelta socialmente tollerabile, soprattutto se a richiederlo era una donna.
Donne e ragazze che, a causa delle tradizioni patriarcali di quella stessa società, spesso dovevano sottostare alla volontà del capofamiglia che poteva disporre chi dovessero sposare. Condizione che faceva sì che le donne, prima come figlie e poi come mogli, non potessero godere di alcuna indipendenza economica.

Durante i primi anni del Novecento, nei villaggi del Tsizazug, la base del sostentamento era costituito ancora dai poderi a conduzione familiare, che determinavano la vita quotidiana e i valori della comunità. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, e la conseguente chiamata alle armi degli uomini più giovani e sani, la cura della casa e della famiglia ricadde interamente sulle spalle delle donne, che poi, terminato il conflitto, si trovarono in maniera del tutto inaspettata a dover provvedere a mariti e figli resi invalidi dalla guerra, spesso mutilati o compromessi a livello psicologico2.

Più di quaranta furono le donne arrestate con l’accusa di essere coinvolte in quella catena di omicidi, quasi tutti diretti contro mariti, padri o altri uomini che ne avevano in qualche modo guastata la vita e che furono, per questo, ripagati con dosi letali di arsenico.
A conseguenza di ciò, nel corso delle udienze dei processi tenutisi presso il tribunale di Szolnok tra il 1929 e il 1931:

due imputate furono assolte in primo grado per mancanza di prove attendibili, altre sei ricevettero pene detentive pesanti per aver avvelenato i loro parenti, otto furono condannate all’ergastolo perché si erano rese complici di omicidi di cui avevano beneficiato in maniera diretta. Infine, sei vennero condannate a morte; a tre di queste, la Corte suprema, durante l’ultimo grado di giudizio, ridusse la pena all’ergastolo.
Il metodo con cui queste donne ricavarono l’arsenico non è mai stato completamente chiarito […] Secondo la documentazione consultata, corrisponde al vero che l’arsenico fosse ottenuto attraverso l’ebollizione di carta moschicida, anche se il procedimento preciso non è mai stato esplicitato3.

Qui vale ancora la pena di ricordare le parole usate da una condannata per omicidio, Maria Papai, per confessare alla corte del tribunale il proprio crimine: «Non mi sento affatto in colpa, perché mio marito era un uomo molto cattivo, che mi picchiava e mi torturava. Da quando è morto, ho trovato la pace.»4.

Come ancora ci ricorda l’autrice: la levatrice di Nagyrév, la guaritrice, l’istigatrice, la strega. Zsuzsanna Fazekas è stata chiamata in molti modi diversi ed è stata appurata la sua responsabilità negli avvelenamenti del Tsizazug.

Alcune fonti la citano con il nome di Mária Lakatos, molte altre ancora con quello di Julia Oláh, e talvolta viene indicata come Gyuláné Fazekas. Le più numerose, tuttavia, la identificano proprio come Zsuzsanna Fazekas, ed è logico pensare che quest’ultimo fosse il suo nome da coniugata. […] La sua prima vittima fu probabilmente un veterano di guerra cieco, da lei usato come “cavia” per provare l’effetto dell’arsenico ricavato dalla carta moschicida.
Le sue riconosciute doti di guaritrice e le basse tariffe richieste per i suoi servizi le garantivano la fiducia dei concittadini, e infatti era molto popolare nel villaggio, benché spesso fosse guardata con soggezione [perché] le comunità rurali erano permeate di credenze e superstizioni. Si riteneva che le levatrici, figure da sempre ammantate di mistero, acquisissero le loro abilità uccidendo qualcuno – di solito i propri figli – e divorandone la carne.
Nel 1929 una donna denunciò l’ostetrica alle autorità, presumibilmente perché le aveva negato i suoi servizi. Le indagini si strinsero presto attorno alla levatrice, che però negò le proprie responsabilità. Durante la mattina del 19 luglio 1929, tuttavia, appena i gendarmi la dichiararono in arresto, si suicidò bevendo lo stesso veleno che molto spesso aveva elargito agli altri5.

Ora, però, si rende necessario sospendere il riassunto dei fatti che costituiscono la base storica su cui si fonda il romanzo della Zuccato, aggiungendo soltanto che a Seghedino, posta alla confluenza tra il fiume Tibisco e il Maros, nel 1728 avvenne la più grande caccia alle streghe della storia ungherese, quando oltre venti persone furono accusate di stregoneria in quella città e dodici persone, tra uomini e donne, furono bruciate sul rogo. Dietro molti processi alle streghe non c’erano solo superstizioni e leggi religiose, ma anche tensioni sociali, paura dell’ignoto, gelosia e malizia, e tra gli accusati c’erano spesso ostetriche, guaritrici e donne che sfidavano le norme sociali o disponevano di conoscenze insolite.

Osservazioni, queste ultime che ci rinviano sia al contenuto del romanzo che alla riflessione cui occorre ricollegarsi per sottolineare come, al di là di una narrazione fin troppo ammansita delle conoscenze e pratiche femminili in età pre-moderna, le streghe, ovvero le donne capaci di interagire diversamente con la natura e con i corpi, sia femminili che maschili, un po’ di timore, soprattutto negli individui di sesso maschile, dovevano effettivamente suscitarlo.

Occorre comprendere ciò per capire a fondo la persecuzione che a lungo fu condotta contro le donne, i loro saperi, le loro “magie”, non solo a titolo religioso, come accadde con l’Inquisizione e ancor prima con la repressione violenta di ogni forma di eresia durante il medioevo, ma, e forse soprattutto, anche politico intendendo la politica nel suo senso più ampio di governo della società. La famiglia, le pratiche sessuali, gli obblighi riservati alle donne in quanto madri, mogli e figlie ancor prima che elementi di controllo morale hanno sempre costituito, fin dal loro apparire, aspetti concreti del dominio politico, patriarcale e di classe6.

Come ha affermato Michela Zucca, storica e antropologa, specializzata in cultura popolare, storia delle donne e analisi dell’immaginario, in una sua ricerca:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia.7.

Motivo per il quale, in un tempo in cui il pensiero unico dominante liberal-borghese tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come la lotta delle donne non sia mai finita. Ad ogni latitudine e in ogni periodo storico declinabile sotto le vesti del dominio di classe. Età contemporanea compresa, in cui, forse a causa dello stesso declino delle forme e valori che ne hanno permesso l’avvento, la lotta si è fatta ancor più visibilmente “politica”.

Una lotta, però, che affonda le sue radici, più di qualunque altra, in tempi storici apparentemente molto lontani, eppure ancora così vicini.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cappuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labbra non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se […] tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità [allora è per questo motivo che] la dea Venere, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua8.

Il poeta e ribelle tedesco Heinrich Heine, nella prima metà dell’Ottocento, riusciva a comprendere come la memoria di altri tempi, più felici, potesse continuare ad esistere nello sguardo e nella memoria più recondita delle donne.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.9.

Una memoria che oggi inizia a ritornare alla luce della coscienza collettiva e obbliga a ripensare tutta la narrazione storica condotta fino ad ora da penne troppo spesso esclusivamente maschili, anche se, proprio a causa di questa “tradizione storiografica”:

È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Un popolo che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinto, distrutto con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti […] era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Un groviglio intricato, ma non inestricabile, di rapporti di genere, di classe, di etnie, sociali ed economici, religiosi e politici che i drammi della storia “femminile”, di ieri e di oggi, non possono far altro che rendere evidenti nella loro funzione repressiva e ordinativa. Tutti elementi che una volta tanto non sgorgano soltanto dall’interno della cultura occidentale, ma che sono drammaticamente presenti anche nella storia, nelle società e nell’immaginario di altri continenti11.

Certo, esiste da tempo una narrazione, soprattutto cinematografica, che pone le donne protagoniste sullo stesso piano dell’uomo per l’abilità nell’uso della violenza, avvicinandole però più a un modello di gusto maschile che non alla realtà della Storia passata. Come afferma ancora Anna De Biasio, nel suo testo già precedentemente citato, sottolineando come tale prospettiva della violenza al femminile sia inestricabilmente compromessa:

con il sistema delle rappresentazioni patriarcali, vuoi in quanto esteriorizzazione erotizzata delle angosce degli uomini di fronte alla trasformazione in atto dei ruoli di genere, vuoi in quanto replicazione di meccanismi ideologici identificati come tipicamente maschili, a cominciare dal ruolo fondativo giocato dalla violenza nei generi letterari e cinematografici in cui più frequentemente appaiono […] Lo stesso tipo di polarizzazione si può osservare nel dibattito critico sulla diffusione della figura della femme fatale nella letteratura e nelle arti dell’Ottocento. Per certi versi quest’ultima appare come un’antesignana delle eroine implacabili che popolano l’immaginario contemporaneo. Anche allora, come oggi, le rappresentazioni di personaggi femminili seducenti e pericolosi, spesso letali, si pongono in un rapporto attivo con i contesti storici e culturali di riferimento; si fanno cioè veicolo, in modo più o meno esplicito, più o meno consapevole, delle tensioni legate al processo di modernizzazione, uno dei quali è la richiesta di maggior capacità d’azione, accesso alle professioni, e in generale di partecipazione allo spazio pubblico da parte delle donne12.

Un discorso che, allargato anche alle dark lady che hanno popolato e popolano le pagine e le immagini di tanta letteratura e di tanto cinema noir, rischia però di nascondere la “tradizione passata” della violenza femminile per ricollegarla quasi esclusivamente alle condizioni derivate dall’esplodere della modernità. Dimenticando quell’immagine paurosa, per gli uomini, che la strega, la dark lady per antonomasia del passato, ovvero la donna libera e cosciente della sua forza e delle sue reali potenzialità non represse dall’organizzazione sociale patriarcale, porta con sé.

Timore reverenziale, si potrebbe quasi dire, che si è tramesso fino ai nostri giorni anche nel linguaggio: esser stregati da qualcosa o da qualcuno, occhi stregati, stregare e così via. Tanto da far pensare, come sostiene ancora la De Biasio che tali figure di “donne forti”, e il linguaggio che le richiama, costituiscano fondamentalmente «incarnazioni di fantasie maschili, sia nel senso di una masochistica fascinazione per la donna sessualmente aggressiva, sia nel senso dei timori dai contorni misogini nei confronti del suo potenziale dominio». Anche perché la femme fatale non solo non può essere ridotta a una semplice maschera di contenuti eterodiretti ma può e deve essere «rivendicata come emanazione di un desiderio femminile attivo, riconosciuta come dotata di una soggettività autonoma in grado di scompaginare le tradizionali definizioni di genere»13.

Ma a questo punto bisogna ancora ricordare, anche se già anticipati, altri due aspetti rimossi della resistenza o dell’uso femminile della violenza. Il primo è quello della pratica delle armi che risale a tempi immemori, non tanto per il mito delle Amazzoni rimasto all’interno della cultura occidentale, ma soprattutto per la pratica militare che spesso le donne esercitarono nelle società pre-statuali, anche in posizione di comando, spesso condiviso con il ruolo di sciamane, e che ha trovato la sua continuità non tanto nell’arruolamento negli eserciti moderni quanto piuttosto in tutte le lotte di liberazione nazionali e in gran parte delle battaglie internazionaliste in cui le donne si sono sempre distinte. Sottolineando poi come, nel caso italiano, sia nella Resistenza al nazi-fascismo che durante la successiva esperienza della lotta armata condotta in Italia a cavallo tra la seconda metà degli anni Settanta e i successivi primi anni Ottanta del secolo passato, sia stato rilevante e cospicuo il contributo fornito da militanti donne sia nella conduzione militare delle azioni che nella loro preparazione14.

Mentre l’altro punto rimasto in ombra afferisce, se così vogliamo dire, al mito, tragico di Medea ovvero alla soppressione dei figli da parte delle madri stesse. Soprattutto in condizione di miseria o schiavitù e là dove la pratica dell’aborto era, e rimane ancora troppo spesso osteggiata moralmente e dal punto di vista giuridico da un regime sociale che, nonostante l’esaltazione del ruolo della donna-madre e della famiglia come focolare e base dell’amore e della nazione, poco o nulla faccia per non lasciare le donne sole di fronte alle difficoltà psicologiche, lavorative ed economiche seguite alla maternità15.

Delle cosiddette streghe di Nagyrév, chiamate talvolta anche fabbricanti di angeli, rimangono soltanto poche foto ingiallite e quasi cancellate dal tempo. Ma il loro ricordo, o perlomeno quello della loro battaglia, per sopravvivere in un mondo che non meritavano a causa della sua intrinseca miseria, ha continuato a manifestarsi fino ad oggi nei modi e nei luoghi più impensati.

Come in quel gennaio del 1976 quando tante giovani streghe tentarono un assalto al Duomo di Milano che il papa Paolo VI condannò come atto «indecente e sacrilego».

N. B.
Questa recensione e i suoi contenuti sono da ritenersi frutto del confronto sugli stessi argomenti tenuto nel corso degli anni tra l’autore e Cosetta, una di quelle giovani streghe.


  1. A. De Biasio, Le implacabili. Violenza al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento, Donzelli Editore, Roma 2016.  

  2. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», Appendice a La levatrice di Nagyrév, Marsilio Editore, Verona 2025, p. 441.  

  3. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», cit., pp. 431-432.  

  4. S. Zuccato, cit., pp. 35-36.  

  5. Ivi, pp. 432-433.  

  6. Si veda il sempre valido F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: alla luce delle ricerche di Lewis H. Morgan, un trattato sul materialismo storico scritto e pubblicato nel 1884 che si basava in parte sulle note di Karl Marx al libro The Ancient Society, dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan.  

  7. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29.  

  8. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46.  

  9. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 12.  

  10. Ivi, pp. 17-19.  

  11. A solo titolo di esempio si pensi alla tradizione sciamanica e ribelle delle donne giapponesi affrontata in: R. Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025; M. Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine, 2024; R. Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese, Mimesis, 2023 e F. Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018. Tutti i testi citati sono stati in precedenza recensiti da Gioacchino Toni su Carmillaonline.  

  12. A. De Biasio, Le implacabili, op. cit., pp. IX-X.  

  13. Ivi, p. XI.  

  14. Si consultino in proposito: A. Cantaluppi, M. Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani”. Antifasciste italiane alla guerra cvile spagnola 1936-1939, WWW. AIVACS. ORG., Milano 2014; I. Faré, F. Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interviste, riflessioni, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1979 e P. Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma 2015.  

  15. Si veda in proposito S. Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016 – recensito qui.  

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Un mitomane a Parigi, in un noir https://www.carmillaonline.com/2025/10/14/un-mitomane-a-parigi-in-un-noir/ Tue, 14 Oct 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90970 di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana [...]]]> di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana delle vicende messe in scena dai grandi scrittori francesi: Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Ad affiancare quest’ultimo, nella più recente trasposizione italiana del duo francese offerta dall’editore, I vedovi, incontriamo, sotto la veste di traduttore, Ezio Sinigaglia, che è anche un bravissimo romanziere e poeta, fine facitore di intrecci assolutamente non banali nonché di un intrigante linguaggio a pastiche.

I vedovi, uscito in versione originale nel 1970, si ambienta in un’estate parigina dalle tinte fosche con sullo sfondo un solleone che si tinge di noir. Il protagonista è un giovane aspirante scrittore, Serge Mirkin il quale, oltre a presentarsi come un vero e proprio “mitomane”, è anche tremendamente geloso della bellissima moglie Mathilde, disposto persino ad uccidere a sangue freddo per eliminare ogni possibile rivale. Innanzitutto, chiarisco cosa intendo qui per “mitomane”: si tratta di una definizione utilizzata da Gian Biagio Conte per definire il protagonista io narrante del Satyricon di Petronio (I sec. d. C.), Encolpio, il quale si presenta come un narratore continuamente ingannato dal mito e dalla letteratura alta. Dal momento che si tratta di un colto studente e intellettuale catapultato in un ambiente misero e meschino, non può che vivere ogni situazione frapponendo un filtro fra sé e la realtà, un filtro che gli deriva dalle sue letture ‘elevate’: mito, poesia epica, poesia elegiaca. Fino a credersi, in alcuni momenti, un nuovo Achille o un nuovo Ulisse1. Ebbene, anche Mirkin, come Encolpio, sembra frapporre un filtro letterario fra sé e la realtà. È innanzitutto la gelosia a fargliela vedere completamente stravolta, frutto quasi di un delirio onirico, ma anche la letteratura e il cinema hanno una parte considerevole. All’inizio del romanzo lo vediamo intento a procurarsi una pistola in un sordido bar e così si esprime il personaggio che, esattamente come Encolpio, è l’io narrante dell’intera storia: “Tutto fin troppo facile! Avevo l’impressione di guardare un film di gangster. Anzi, mi muovevo in un film di gangster” (p. 9). L’immaginazione di Mirkin, forse, corre allora a un film come Grisbì (Touchez pas au grisbì) di Jacques Becker, del 1954, che, in quella fine anni Sessanta in cui molto probabilmente si svolge la storia, doveva essere già un classico (tra l’altro, con un attore iconico come Jean Gabin).

Se a Mirkin sembra di muoversi in un film di gangster, è anche vero che egli è completamente separato dalla realtà, come “un pesce nell’acquario”: “Non pensavo più a niente. Ero oltre il confine. Il viale, le auto luccicanti, la luminosità untuosa del tramonto, Mathilde, tutto era lontano; era altrove. Un pesce nell’acquario. Nuota: guarda, un occhio per volta, ora a destra ora a sinistra. Vede delle sagome, le sfiora, immerso nell’indefinito; si dissolve in un sogno liquido; è mostruosamente solo. Ecco. Tutto qui” (p. 10). Lo stesso sfondo parigino assume un aspetto vitreo e indefinito, come avvolto da una perenne nebbia nonostante il caldo estivo. È come se Mirkin si muovesse in una realtà virtuale, in una Parigi da incubo onirico, un universo in cui nemmeno lontanamente si sente l’eco di quel Sessantotto che, pure, doveva essere ben vicino. Per sbarcare il lunario, presta poi la sua voce a personaggi di radiodrammi e sceneggiati ma, in virtù della sua “mitomania”, si trova a pronunciare una frase come questa: “Il vero sceneggiato era quello che stavo vivendo in prima persona” (p. 65). Ma di che sceneggiato si tratta? Naturalmente, qui, non posso svelare più di tanto sulla trama: basti sapere che c’è di mezzo la gelosia e un omicidio compiuto da Mirkin (questo lo posso dire, c’è anche nella seconda di copertina…) spinto proprio da quest’ultima. Il personaggio, frapponendo un filtro letterario fra sé e la realtà, la trasforma come più gli aggrada; gli autori sono abilissimi nel creare questo sfondo di cartapesta allestito apposta per i movimenti scenici di Mirkin: oscuri bar e bistrot, ristoranti di periferia, eleganti palazzi di città e ville di campagna, un appartamento oscuro e livido – quello in cui abita assieme alla moglie – in cui si condensano il suo senso di insoddisfazione e la sua lancinante gelosia, la sua “follia” che “si è trasformata in dolore” (p. 99), il suo sguardo obnubilato sulla realtà circostante, sulle strade che sembrano, appunto, frutto di un “sogno liquido”. Certi angoli, certi interni, certe strade paiono uscite da un romanzo russo, da Le anime morte di Gogol’ o, meglio, da certi romanzi di Dostoevskij. Anche se il nome Mirkin possiede una certa assonanza col Myškin de L’idiota, mi viene in mente soprattutto Delitto e castigo: Mirkin, come un nuovo Raskol’nikov, si muove per le vie di Parigi (che si sostituisce a San Pietroburgo) in preda a un delirio febbrile, a una dolorosa e lancinante angoscia perdendosi in sordidi vicoli e bassifondi.

Nel romanzo di Boileau e Narcejac ha un grande spazio anche la fama letteraria nonché i più meschini sotterfugi cui un individuo può essere disposto per ottenerla: Mirkin è uno scrittore che vorrebbe sfondare a tutti i costi ma, ovviamente, in virtù della sua mitomania, è già convinto di essere bravissimo e geniale (“Sapevo di avere talento! Lo sapevo…”, p. 73). E anche il suo antagonista (ma su questo altrettanto importante personaggio davvero non posso dire di più), il ricco Patrice Garavan, appare intriso di mitomania letteraria: durante una discussione con Mirkin fa riferimento, come se niente fosse, a un personaggio di un romanzo di William Somerset Maugham, “quel funzionario che indossa ogni sera lo smoking per cenare sotto la tenda” (p. 156). Lo stesso Garavan coinvolgerà Mirkin nel lavoro di una trasposizione cinematografica di un romanzo, un lavoro da condurre assieme nella sua isolata villa di campagna, in una situazione molto simile a quella inscenata dalla serie TV Les papillons noir (2022), in cui uno scrittore accetta l’offerta di un misterioso individuo di scrivere un romanzo ispirato alla sua vita altrettanto misteriosa.

Se, nell’universo finzionale de I vedoviquei diabolici anni Settanta che vediamo nella serie TV, intrisi di violenza gratuita, sono ancora di là da venire, ne percepiamo già le prime avvisaglie: una Parigi spettrale, specchio oscuro di un film di gangster, di un radiodramma o di uno sceneggiato altrettanto oscuro e violento, in cui niente lascia intuire le proteste del vicino maggio francese e in cui si muove un personaggio vittima di una mitomania letteraria e cinematografica, separato dalla realtà, truce epigono e imitatore di vecchi gangster ma unicamente interessato alla sua sfera privata fatta di presunta fama letteraria e gelosia. E se la sfera intima e privata si sostituisce alla realtà e ne prende il posto, in un ribaltamento, una violenza che non guarda in faccia a niente e a nessuno invaderà le strade. I tempi dei veri gangster e del codice d’onore della vecchia malavita sono davvero lontani.


  1. Cfr. G. B. Conte, L’autore nascosto. Un’interpretazione del «Satyricon», Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 11-105. 

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Dept. Q – Sezione casi irrisolti (2025) – Eterotopie claustrofobiche https://www.carmillaonline.com/2025/10/12/dept-q-sezione-casi-irrisolti-2025-eterotopie-claustrofobiche/ Sun, 12 Oct 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89848 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva britannica in nove episodi Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix), realizzata da Scott Frank e Chandni Lakhani, deriva da La donna in gabbia (Kvinden i buret, 2007), il primo dei romanzi del danese Jussi Adler-Olsen incentrati attorno alla Sezione Q guidata dall’ispettore Carl Mørck della polizia di Copenaghen. Il ciclo di romanzi si apre con il protagonista che, dopo un periodo di convalescenza in seguito a una ferita subita mentre compie un intervento sul luogo di un delitto, rientra in servizio accolto con diffidenza, quando non con evidente [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva britannica in nove episodi Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix), realizzata da Scott Frank e Chandni Lakhani, deriva da La donna in gabbia (Kvinden i buret, 2007), il primo dei romanzi del danese Jussi Adler-Olsen incentrati attorno alla Sezione Q guidata dall’ispettore Carl Mørck della polizia di Copenaghen. Il ciclo di romanzi si apre con il protagonista che, dopo un periodo di convalescenza in seguito a una ferita subita mentre compie un intervento sul luogo di un delitto, rientra in servizio accolto con diffidenza, quando non con evidente ostilità, dai colleghi in quanto ritenuto responsabile, per la sua condotta sulla scena del crimine, della morte di un agente e delle lesioni alla spina dorsale di un secondo a cui è particolarmente legato. L’avversione dei colleghi ed il senso di colpa provato dall’ispettore per l’accaduto, rendono difficili i rapporti all’interno della Centrale di polizia, tanto da indurre i dirigenti a isolarlo affidandogli la nascente squadre anticrimine, la Sezione Q, destinata ad occuparsi di crimini irrisolti, collocata nei sotterranei.

Dal ciclo di romanzi di Adler-Olsen sono stati tratti diversi film: Carl Mørck – 87 minuti per non morire (Kvinden i buret, 2013) di Mikkel Nørgaard, che si rifà al primo romanzo a cui si riferisce anche la serie televisiva; The Absent One – Battuta di caccia (Fasandræberne, 2014) di Mikkel Nørgaard; A Conspiracy of Faith – Il messaggio nella bottiglia (Flaskepost fra P, 2016) di Hans Petter Molan; Paziente 64 – Il giallo dell’isola dimenticata (Journal 64, 2018) di Christoffer Boe.

L’ambientazione danese dei romanzi, e dei film che ne sono derivati, lascia il posto nella serie televisiva ai brumosi paesaggi scozzesi di Edimburgo mentre il detective Carl Mørck muta leggermente la grafia del nome divenendo Carl Morck (Matthew Goode). Al fine di rendere ulteriormente conflittuale il rapporto tra quest’ultimo ed i colleghi, nella serie viene presentato come forestiero: un burbero e sarcastico inglese alle prese con colleghi scozzesi non particolarmente ben disposti nei suoi confronti, così da accentuare le reciproche diffidenze.

Al protagonista viene affiancato un altro straniero, il siriano dal passato misterioso Akram Salim (Alexej Manvelov) che, nonostante si mostri inizialmente impacciato, catapultato com’è in una realtà che non conosce, darà prova di sagacia e persino di inattese abilità nel corpo a corpo. Nelle indagini ai due forestieri si aggiunge poi Rose Dickson (Leah Byrne), una giovane agente investigativa alle prese con i postumi di un crollo nervoso in cerca di un’opportunità per dimostrare il suo valore e, a distanza, James Hardy (Jamie Sives), l’amico e collega del protagonista che ha subito lesioni alla spina dorsale.

Insomma, la Sezione casi irrisolti di Edimburgo è composta da una serie di figure di scarto, di devianti, che non potevano che essere relegate ai margini dello spazio occupato dai restanti agenti di polizia. La comandante della Centrale di polizia, Moira Jacobson (Kate Dickie), li destina ai tetri sotterranei dell’edificio tra file di fatiscenti orinatoi alla parete e vecchio mobilio accatastato, sotto una luce al neon che sopperisce artificialmente alla mancanza di luce solare.

Il ricorso alla figura del forestiero costretto a fare i conti con un ambiente a lui ostile è un topos ricorrente in questo genere di narrazioni, così come lo sono la figura del detective dal passato ombroso, intrattabile e poco socievole, a cui vengono affiancati collaboratori altrettanto “periferici”, e la “sezione confino”, isolata da tutto e tutti, a cui sono destinati i protagonisti. In ambito letterario tra gli esempi più celebri di sezioni investigative periferiche, come periferico è chi vi lavora, può essere ricordata la Factory dei romanzi di Derek Raymond, una stazione di polizia di Chelsea a cui Scotland Yard affida casi di omicidio di non facile soluzione per la loro insignificanza di cui gli investigatori preferiscono non occuparsi per lo scarso lustro che ne deriverebbero.

Restando invece alle produzioni seriali televisive recenti, ad essere marginalizzata sin dalla collocazione degli uffici in cui lavora è anche la detective Önem (Birce Akalay) protagonista della serie turca Mezarlık (dal 2022 – Netflix), visibile in Italia dal 2025, prodotta da Abdullah Oğuz e scritta da Özden Uçar ed Onur Böber, incentrata sulle indagini di un ristretto gruppo investigativo guidato da Önem che si occupa di crimini (sepolti) contro le donne relegato, anch’esso, nei sotterranei della Stazione di polizia (mezarlık significa cimitero), a sancire come i delitti di cui si occupano la detective e i suoi stravaganti collaboratori non trovino spazio nei piani nobili dell’edificio né interesse sincero nei funzionari (maschi) che occupano i posti di comando.

In comune con Dept. Q, la serie turca ha anche la particolare composizione della piccola unità di investigazione che, anche in questo caso, annovera figure inconsuete: dai detective Serdan Ata (Olgun Toker) e Hasan Duru (Şehsuvar Aktaş), alle prese il primo con un rapporto complesso con il padre in polizia e il secondo ossessionato da non aver saputo risolvere il caso in cui è stata uccisa la figlia, oltre che dagli eccentrici Berk Güleryüz (Baran Güler), esperto in investigazione tecnico-scientifica e dall’informatica Sofia (Berna Öztürk), quest’ultima sostituita nella seconda stagione da Selin Korkmaz (Arbil Tabur).

Lo spazio eterotopico sotterraneo, isolato dal resto del mondo, in cui si è costretti ad immergersi per poter affrontare quanto la luce del sole non vuole vedere è un elemento ricorrente nel crime in tante sue sfaccettature. Può trattarsi degli scantinati delle stazioni di polizia in cui vengono dislocate le sezioni destinate ad occuparsi di crimini irrisolti o che non interessano a nessuno, così come di labirintici spazi nel sottosuolo ove si svolgono attività non permesse in superficie, come nel caso dei tunnel di servizio abbandonati sotto una stazione della metropolitana di Oslo dalla serie norvegese Valkyrien (2017 – NRK1) di Erik Richter Strand, medical crime drama poi ripreso dal britannico Temple (dal 2019 – Sky) realizzato da Mark O’Rowe.

Come nel caso della serie svedese Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) ideata da Camilla Läckberg e diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh, in cui la protagonista, da piccola, viene costretta all’interno di una struttura trasparente così da sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore, anche nel caso di Dept. Q si ha un personaggio femminile rinchiuso in uno spazio angusto, in questo caso una claustrofobica camera iperbarica, in balia dello sguardo dei rapitori che la osservano dai monitor attraverso le telecamere installate nel luogo di prigionia.

Parlando di eterotopie claustrofobiche non possiamo allora non ricordare anche lo spazio del traghetto sul quale si imbarcano Merrit e suo fratello: secondo Foucault, infatti, la nave si configura come “l’eterotopia per eccellenza”. Non a caso, è proprio sul traghetto che avviene la sparizione della ragazza; quest’ultimo si caratterizza come uno spazio oscuro e per certi aspetti mostruoso, un essere meccanico che apre il suo ventre metallico ed è capace di inghiottire i personaggi nelle sue spire, come il pescecane di Pinocchio. Il traghetto è una sorta di terribile mostro marino in navigazione su un mare nordico, scuro e inquietante; d’altra parte, è proprio su un traghetto – che fa la spola fra la Danimarca e l’Islanda – che avviene un efferato omicidio nella serie TV islandese Trapped (Ófærð, dal 2005 – Netflix), : i passeggeri vengono bloccati a bordo e la nave si trasforma in una vera e propria eterotopia dell’incubo. Anche per Merrit e suo fratello affetto da problemi psichici il traghetto appare come un antro mostruoso navigante e semovente: nei suoi interstizi si può celare un orrore terribile proveniente dal passato. È sul traghetto, infatti, che il fratello William (Tom Bulpett) intravede un oscuro individuo che indossa un cappello con il simbolo di un uccello che sarà al centro delle investigazioni di Morck e della sua squadra.

Un altro luogo per certi aspetti eterotopico è la clinica psichiatrica dove William viene rinchiuso: luogo di reclusione e separazione dei ‘diversi’ e dei ‘folli’, spazio deputato al “grande internamento” secondo l’analisi foucaultiana ma anche interstizio malato della società capitalistica perché la direttrice potrebbe rivelarsi unicamente interessata alla ricchezza ereditata dal fratello giovane. D’altra parte, egli giunge dall’oscuro spazio del mare, che ha solcato proprio a bordo del traghetto e la sua follia appare associata ad uno spazio acquoreo e inquietante: infatti, secondo Foucault la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”1. Un altro spazio eterotopico è proprio l’isola che sta al di là del mare, luogo natale di Merrit e del fratello, nel quale i ricordi angosciosi dell’infanzia e dell’adolescenza sono pronti a riemergere e a fagocitarti. Si attraversa il mare per fare ritorno a un luogo segnato dall’angoscia e dal rimorso, un’isola, uno spazio separato dal resto del mondo. Come la protagonista di Glaskupan, Merrit si sta dirigendo verso il luogo di un passato pronta ad aggredirla e a fagocitarla.

Come accennato, Merrit viene rinchiusa in una camera iperbarica, uno spazio nel quale vengono rinchiusi i sommozzatori che rientrano in superficie troppo in fretta. Si tratta di un luogo legato alla profondità del mare; non a caso mentre si trova al suo interno parte spesso una voce meccanica che avvisa sul funzionamento della camera iperbarica per i sommozzatori. È come se Merrit fosse stata ingoiata dal mare che ha solcato a bordo del traghetto oppure fosse discesa in quello stesso mare all’interno dei metallici orpelli della nave, tramutatasi in orribile sommergibile. Il corpo della giovane è rinchiuso in una struttura ferrea e metallica (il contrario – si potrebbe azzardare – della cupola di vetro di Glaskupan), pesante e spessa, ventre incapsulante posizionato a sua volta in una periferia industriale, sulla stessa isola, caratterizzata da vecchie strutture industriali abbandonate intorno alle quali numerosi cartelli avvisano della presenza di rifiuti tossici. È uno spazio liminale, una spazialità marginale e lontana e, appunto per questo, può celare in sé l’orrore come la periferia portuale nella quale si trova ormeggiata la metallica barca abbandonata nella quale troverà la morte Max Renn, protagonista di Videodrome (1983) di David Cronenberg. La profondità alla quale allude la camera iperbarica è anche lontananza nel tempo, limbo amniotico nel quale galleggiano i ricordi pronti a devastare la psiche. È proprio all’interno di essa che Merrit viene sottoposta ad una incessante tortura riguardante il passato, il quale sembra assumere le sembianze di un cupo spettro che avvolge i personaggi.

Non dobbiamo dimenticare, infatti che non solo Merrit è tormentata dal passato, ma anche l’ispettore Morck, attanagliato dai sensi di colpa per l’uccisione del giovane agente e il ferimento del suo amico, nonché l’ispettrice Rose Dickson, tormentata dal rimorso per aver investito un anziano durante un inseguimento in auto e Akram Salim, legato alle sofferenze del suo passato in Siria. E, come un fantasma che sembra la materializzazione fisica di quel terribile passato, grava su tutto il torbido e oscuro paesaggio scozzese, ambientazione ideale di una riuscita crime story che si incunea verso il noir.


  1. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74 

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Noi nella Nebbia https://www.carmillaonline.com/2025/10/10/noi-nella-nebbia/ Fri, 10 Oct 2025 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90584 di Franco Pezzini

Hope Mirrlees, Lud nella Nebbia. Romanzo fantastico, ed. orig. 1926, prefaz. di Neil Gaiman (1999), traduzione di Lucrezia Pei, illustrazioni interne di Gaia Eloe Cairo, pp. 317, € 24, Cliquot, Roma 2024.

“Ho visto edizioni di Lud nella Nebbia che lo definiscono una parabola appena velata della lotta di classe” scrive Gaiman. E prosegue: “Se fosse stato scritto nel 1960 sarebbe stato sicuramente considerato un romanzo sull’espansione mentale. A me sembra che sia soprattutto un libro sulla riconciliazione, sulla ricerca di un equilibrio nell’intreccio tra profano e meraviglioso. Dopo tutto abbiamo bisogno di entrambi. È un piccolo miracolo [...]]]> di Franco Pezzini

Hope Mirrlees, Lud nella Nebbia. Romanzo fantastico, ed. orig. 1926, prefaz. di Neil Gaiman (1999), traduzione di Lucrezia Pei, illustrazioni interne di Gaia Eloe Cairo, pp. 317, € 24, Cliquot, Roma 2024.

“Ho visto edizioni di Lud nella Nebbia che lo definiscono una parabola appena velata della lotta di classe” scrive Gaiman. E prosegue: “Se fosse stato scritto nel 1960 sarebbe stato sicuramente considerato un romanzo sull’espansione mentale. A me sembra che sia soprattutto un libro sulla riconciliazione, sulla ricerca di un equilibrio nell’intreccio tra profano e meraviglioso. Dopo tutto abbiamo bisogno di entrambi.
È un piccolo miracolo dorato, questo libro, adulto, nel senso più alto e, come dovrebbe essere il fantasy migliore, tutt’altro che rassicurante”.
Con l’etichetta “fantasy” è uso catalogare una serie di tipologie narrative nel linguaggio – a dirla con Todorov – del meraviglioso, cioè su mondi e situazioni dove non varrebbero le regole della nostra realtà (va detto che Gaiman utilizza il termine inglese fantasy che ha una sfumatura molto più ampia e si allarga al nostro “fantastico” nell’accezione più generica). Il che non significa, in grazia della letteratura – l’arte che finge e “mente” per parlare di cose verissime con un passo e uno sguardo meglio calibrati – che le opere fantasy  siano superficiali: certo, molte lo sono, frutto di mode scipite legate anche al successo odierno presso un pubblico young adult, ma le testimonianze migliori del genere mantengono una dignità molto alta, e citare l’immenso Tolkien è appena ovvio. Ma – è bene ricordare – non c’è solo Tolkien.
D’altronde esiste un fantasy che appunto apprezziamo maggiormente da adulti, magari un tantino appannati dalla vita, per la sottigliezza di implicazioni e la ricchezza di suggestioni: questo è il caso per esempio del raffinatissimo Lud-in-the-Mist (appunto Lud nella Nebbia, 1926) dell’inglese Hope Mirrlees. Firma scintillante del modernismo, frequentatrice tra Londra e Parigi di intellettuali del calibro di Leonard e Virginia Woolf, Gertrude Stein, Bertrand Russell, Andre Gide, Walter de la Mare, Katherine Mansfield, William Butler Yeats, T.S. Eliot e la classicista Jane Ellen Harrison, con cui convisse e la cui morte (1928) la spingerà a un silenzio quasi totale per il successivo mezzo secolo (fino al 1978, quando a sua volta chiuderà gli occhi). Al tempo di Lud nella Nebbia, Mirrlees ha già pubblicato presso l’Hogarth Press dei Woolf, incantati dal piglio sperimentale dell’ancora sconosciuta e autrice, l’affascinante Paris: A Poem (da poco riscoperto in Italia: Parigi, a cura di Nicoletta Asciuto, Interno Poesia, 2025), appunto un poema modernista in 445 versi fitto di citazioni in latino, francese, greco e russo. In anticipo su The Waste Land di T. S. Eliot, Mirrlees vi produce un piccolo capolavoro visionario e liberissimo, che le garantisce una certa nomea di donna decisa, strana e difficile (Virginia Woolf parlerà di “her own heroine – capricious, exacting, exquisite, very learned, and beautifully dressed”) e mostra il suo febbrile amore per la bellezza e insieme la capacità di cogliere le ombre dietro gli amori sussurrati e le pale d’arte.
Se Paris: A Poem è una Parigi nella Nebbia, non è troppo paradossale che Mirrlees scelga di giocare con l’arte persino in termini molto più provocatoriamente liberi: ed ecco questo gioiello ora in prosa – ma una prosa poeticissima, a cui consente pienamente la straordinaria traduzione di Lucrezia Pei, capace di cogliere l’ironia sorniona e la malinconia, lo sberleffo provocatorio, il tripudio incantato di colori e Bellezza, la pirotecnia dell’invenzione linguistica. Lud nella Nebbia sembra uscito da un arazzo preraffaellita, e una traduzione del genere supporta fedelmente tale spirito dell’opera.
Da qualche parte, da noi separata ma a ben pensarci non così lontana, si allarga il piccolo, Libero Stato di Dorimare (“sostanzialmente inglese, anche se nella trama ci sono fili fiamminghi e olandesi”, chiarisce Gaiman) con la capitale Lud nella Nebbia. A reggerlo, è una classe di uomini del fare – essenzialmente commercianti – dopo che i loro predecessori hanno cacciato l’ultimo, capriccioso duca Alberico (una sorta di Riccardo III sinistro e birichino, garante del mondo britannico del medioevo) e messo al bando come indicibile, offensivo e osceno tutto ciò che è magico: ciò a dispetto del fatto che un confine in fondo labile separi dal Paese delle Fate, oltre le Colline contese, e che in fondo si tratti di una dimensione (inesistente, per la Legge dorimarita) che tende a confondersi con il regno dei morti. Se c’è qualcosa di simile agli oggetti fatati, aveva chiarito il giurista Giosia Cantachiaro, è ciò che li ha sostituiti con la rivoluzione, la Legge, oltrettanto capace di modellare la realtà e altrettanto dotata di potenza illusoria, ma benefica (questi cenni maliziosi distribuiti quasi per inciso meriterebbero da parte dei lettori qualche attenzione aggiuntiva).
Tuttavia ciò che è uscito dalla porta tende a rientrare dalla finestra: e quando i più giovani abitanti prendono a manifestare sintomi di intossicazione da frutta fatata, temutissima sostanza (vietato e oltraggioso persino nominarla) che reca visioni, frenesie, deliri e allegrie incontrollabili, e tra i colpiti è Ranulfo figlio del sindaco Nataniel Cantachiaro (figlio a sua volta di Giosia), si tratta di capire chi stia importando illegalmente tali partite di stupefacenti dal Paese delle Fate. Per fortuna, tra i filistei bon vivant di Lud, il perplesso Nataniel presenta tratti del tutto anomali: per quanto scherzoso e fisicamente tipico dorimarita (rotondo, rubicondo), non basta a se stesso, non si contenta del buon senso corrente e, dai tempi di un episodio giovanile nel cui contesto ha fortuitamente avvertito una certa nota musicale malinconica ed eversiva, percepisce che c’è altro oltre la Legge e l’ordine che si trova a difendere. Come nella fiaba dell’acchiappatopi, i più giovani vengono attratti nell’Altrove fatato, il contrabbando di frutta si intreccia con storie di vecchi omicidi… Certo, si fatica a vedervi una metafora della lotta di classe come la intendiamo noi – se non attraverso un gioco provocatorio con metafore di metafore – anche se certamente l’apologo provoca con ironia e intelligenza il nostro rapporto con la realtà: “nella Nebbia” siamo noi, ogni volta che non diamo spazio all’utopia e al sogno, in nome del realismo asfittico del “è meglio di no” (rinvio all’ultima lettera dell’amico Luca Rastello, dove parla dei realisti, “gente che in segreto ama la schiavitù”). Mentre la prefigurazione dei paradisi acidi (già al tempo dell’autrice molto frequentati, ma qui descritta come una piaga che insidia particolarmente i giovani) risulta più calzante. In compenso, come gli hobbit borghesi di Tolkien, anche il più corpulento Nataniel dovrà scoprire – anzitutto in se stesso – un senso dell’avventura…
L’edizione è bellissima, raffinatamente illustrata, e c’è anche una deliziosa cartina a orizzontare i lettori.

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Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie https://www.carmillaonline.com/2025/10/09/il-corpo-agonico-e-agonistico-nel-rape-and-revenge-movie/ Thu, 09 Oct 2025 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90227 di Gioacchino Toni

Tra i saggi che compongono il volume curato da Anna Chiara Corradino e Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica (Mimesis, 2025), dedicato alla rappresentazione moderna delle pratiche BDSM e delle dinamiche di potere ad esse correlate, il contributo di Mirko Lino, Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie. I Spit on Your Grave (1978) e Revenge (2017), affronta la rappresentazione del corpo della final girl nel genere rape-revenge.

Associato ai film di exploitation che hanno conosciuto un certo successo negli anni Settanta del secolo scorso, tale [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra i saggi che compongono il volume curato da Anna Chiara Corradino e Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica (Mimesis, 2025), dedicato alla rappresentazione moderna delle pratiche BDSM e delle dinamiche di potere ad esse correlate, il contributo di Mirko Lino, Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie. I Spit on Your Grave (1978) e Revenge (2017), affronta la rappresentazione del corpo della final girl nel genere rape-revenge.

Associato ai film di exploitation che hanno conosciuto un certo successo negli anni Settanta del secolo scorso, tale genere è solitamente caratterizzato da prodotti di scarsa qualità, da scene di cruda e insistita violenza e dal ricorso a uno schema narrativo di causa-effetto piuttosto semplice: al violento stupro subito da una donna nella parte centrale del film fa seguito un’altrettanto violenta vendetta condotta dalla donna stessa o da una persona ad essa legata.

Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972) di Wes Craven e I Spit on Your Grave (Non violentate Jennifer, 1978) di Meir Zarchi, secondo lo studioso, rappresentano il modello formale su cui si è consolidato il genere rape-revenge. In tali film la visione e la condotta moderna-progressista delle giovani donne entra in collisione con un retrogrado conservatorismo maschilista che giunge a manifestarsi attraverso la violenza sessuale a cui, in alcuni casi, segue l’omicidio. Maggiori sono le violenze e le umiliazioni subite dalla vittima, maggiore sarà agli occhi degli spettatori la legittimazione della violenza a cui potrà ricorrere la sua vendetta.

Se, come nel caso di I Spit on Your Grave, la vendetta è consumata direttamente dalla vittima, così come se fosse attuata da un’altra donna, si può parlare di “rivendicazione femminista”, mentre nel caso, come in Last House on the Left, spetti a un uomo il ruolo di vendicatore, allora si dovrebbe parlare di un’istanza di “riaffermazione maschile/patriarcale”.

A partire da tali modelli, il binomio “stupro-vendetta” è stato costantemente riarticolato nel corso del tempo, come dimostrano i remake delle pellicole degli anni Settanta di Craven e Zarchi, realizzati rispettivamente da Dennis Iliadis nel 2009 e da Steven R. Monroe nel 2010, che hanno proposto attualizzazioni in linea con il torure porn del nuovo millennio che, almeno nel cinema più convenzionale, in linea con l’immaginario statunitense post 11 settembre, tende a proporre una violenza vendicativa amplificata.

Nuove modalità di sviluppo del rape and revenge caratterizzano invece alcuni film associabili al Feminist New Wave Cinema, come Revenge (2017) di Coralie Fargeat e Promising Young Woman (Una donna promettente, 2020) di Emeral Fennel, opere che decostruiscono il modello del genere a partire dai suoi meccanismi voyeuristici. In questi casi, infatti, la rappresentazione violenta dello stupro, spesso sfumata, tende a farsi metafora di una più generale e diffusa propensione allo sfruttamento maschile del corpo e dell’identità femminile oltre l’atto dello stupro.

Al fine di comprendere l’evoluzione narrativa ed estetica del rape and revenge movie, lo studioso indaga la «costruzione del mito cinematografico della vendicatrice femminista» approfondendo la «rappresentazione del corpo agonico della vittima e del suo riscatto agonistico attraverso la vendetta», guardando dunque come l’estetica del martirio nel rape and revenge movie rappresenti «una condizione necessaria per la re-iscrizione sul corpo femminile dei discorsi politici sui generi sessuali» (p. 161).

L’autore propone dunque un’analisi comparata tra I Spit on Your Grave (1978) di Meir Zarchi, come esempio di cruda rappresentazione della violenza carnale anni Settanta, e Revenge (2017) di Coralie Fargeat, primo rape and revenge movie girato da una donna regista collocabile nell’ambito della recente Feminist New Wave Cinema in cui la vendetta prende di mira, oltre gli uomini che hanno materialmente commesso il crimine, la rape culture propria della società patriarcale.

Nonostante i due film appartengano a periodi storici così distanti, entrambi mostrano i corpi delle protagoniste ricoperti di sangue, lividi, ferite e posture che richiamano la simbologia cristologica della passione che però sviluppa una rigenerazione corporea e identitaria della vittima in carnefice.

Il film di Zarchi, nella parte centrale, mette gli spettatori di fronte a una cruda e prolungata sequenza che mostra lo stupro inflitto in un paesaggio agreste a una giovane ed emancipata ragazza proveniente dalla città ad opera di un gruppo di retrogradi abitanti di una comunità rurale, mostrando così come la contrapposizione uomo/donna si carichi, qui, anche dell’opposizione rurale/cittadino, leggibile come scontro tra un immaginario progressista emancipato e uno retrogrado e conservatore.

In generale le scelte stilistiche adottate da Zarchi ribadiscono la crudeltà della violenza esibita piuttosto che indurre a un’identificazione del pubblico con la vittima. «Nonostante le scene di sesso siano caratterizzate dalle pose e dai movimenti innaturali dei violentatori, che non nascondono affatto la simulazione, tutta la sequenza è impregnata di un disturbante eccesso di realismo, dato dall’assenza di artifici filmici» (p. 164). L’assenza di stilizzazione «mostra lo stupro nella sua radicale essenza punitiva, il cui fine è quello di riportare la donna alla più totale passività, di mantenere il potere sessuale attraverso l’umiliazione fisica e zittire la minaccia della sua insubordinazione sociale e culturale» (p. 165).

Una volta subita violenza, in I Spit on Your Grave, la protagonista si trova a dover ricomporre il corpo martoriato per potersi trasformare in vendicatrice: il corpo agonico, messo in scena senza artifici filmici, si trasforma dunque in corpo agonistico votato a una vendetta che invece ricorre ad artifici filmici. «L’esplosione di violenza finale segna dunque il percorso di trasformazione, dalla passività della vittima femminile all’azione castratrice della vendicatrice femminista. La ragazza diventa un’icona modellata sulle aspirazioni e sui discorsi del femminismo della seconda ondata applicati al cinema di exploitation» (pp. 167-168).

Per quanto Revenge riprenda il modello della vendicatrice del film di Zarchi, ne rovescia l’impianto narrativo concedendo maggiore attenzione alla vendetta piuttosto che allo stupro. Quest’ultimo viene decisamente diluito attraverso artifici formali e simbolici sottraendolo all’osservazione voyeuristica dello spettatore conferendo così maggiore importanza alla rinascita corpo-identitaria della vittima.

Tramite una stilizzazione gore del martirio, nel film di Coralie Fargeat la figura della donna «si trasforma radicalmente, assumendo la morfologia di una guerriera femminista, di cui viene esibita tutta l’inesauribile resistenza del corpo» (169). Non più oggetto ipersessualizzato ma soggetto guerriero femminista e così lo schema proposto dalla regista converte lo schema stupro-vendetta in morte-resurrezione.

A riprova di come in Revenge la vendetta della donna, oltre a scatenarsi contro chi ha materialmente commesso lo stupro, prenda di mira più in generale la mentalità maschilista, oltre alla denuncia della complicità tra uomini dei personaggi maschili del film, provvedono simbolicamente la sequenza in cui la protagonista cava letteralmente gli occhi a uno degli aguzzini, come atto di ribellione allo sguardo voyeuristico maschile, e la scena in cui la donna fa saltare le cervella di un altro uomo, che allude evidentemente alla necessità di distruggere l’immaginario con cui gli uomini guardano alle donne.

La protagonista del film, sottolinea lo studioso, non subisce un processo di mascolinizzazione, bensì accetta lo scontro sul territorio della mascolinità per smantellarne il mito. «Ai corpi ipertrofici degli action heroes del passato, alle gonfie geometrie muscolari dei vari ‘Rambo’ e ‘Commando’, Revenge contrappone l’ipersessualizzazione dell’eroina e la sua irriducibile tenacia vendicativa» (p. 171). Non a caso alla reincarnazione della violentata corrisponde la progressiva de-virilizzazione del violentatore.

Mentre in I Spit on Your Grave la vendetta della protagonista «poggia sulla lascivia dell’incontro tra eros e thanatos e insiste su un’iconografia prossima ad alcuni mitologemi classici del femminile», la protagonista del rape-revenge movie del nuovo millennio «infiamma la rivincita del genere femminile portando allo stremo l’inesauribilità dei corpi, ed esibisce con la lente dell’eccesso del gore lo smembramento del machismo intrinseco al cinema action. Questa fantasia sanguinolenta si fa allora portavoce del desiderio di giustizia sociale rispetto allo stupro e a ogni forma di sfruttamento psicologico della vittima femminile» (p. 172).

Appropriandosi dei miti del cinema pop, il film di Coralie Fargeat «riflette una visione critica al modello di empowering postfemminista tipico di quella che Ariel Levy ha definito raunch culture [Female Chauvinist Pigs, Free Press 2005]: la tendenza alla condivisione di atteggiamenti che incentivano l’ipersessualizzazione come strategia di autoaffermazione femminile» (pp. 173-174).

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Elogio dell’eccesso / 9 – Toujours Céline! https://www.carmillaonline.com/2025/10/08/elogio-delleccesso-9-toujours-celine/ Wed, 08 Oct 2025 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90659 di Sandro Moiso

Louis-Ferdinand Céline, Londra. Traduzione a cura di Ottavio Fatica e cura editoriale di Ena Marchi, Adelphi, Milano 2025, pp. 504, 25,00 euro

C’è da chiedersi quanto più povera e insignificante sarebbe stata la letteratura del ‘900, dal noir francese di Léo Malet e André Hèléna ai beat americani fino a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, se non fosse stata sfiorata dall’ala blasfema e insopportabilmente e ferocemente grama di Louis Ferdinand Céline. Un esser gramo che non rinvia soltanto al significato più generale del termine, che già dovrebbe essere maneggiato con proprietà per non sminuirne la portata tragica, [...]]]> di Sandro Moiso

Louis-Ferdinand Céline, Londra. Traduzione a cura di Ottavio Fatica e cura editoriale di Ena Marchi, Adelphi, Milano 2025, pp. 504, 25,00 euro

C’è da chiedersi quanto più povera e insignificante sarebbe stata la letteratura del ‘900, dal noir francese di Léo Malet e André Hèléna ai beat americani fino a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, se non fosse stata sfiorata dall’ala blasfema e insopportabilmente e ferocemente grama di Louis Ferdinand Céline. Un esser gramo che non rinvia soltanto al significato più generale del termine, che già dovrebbe essere maneggiato con proprietà per non sminuirne la portata tragica, ma anche nella sua declinazione nel dialetto piemontese, “gram”, in cui assume il significato di cattivo, corrotto, alterato, guasto.

Sì, perché con Céline non si scherza, nemmeno quando si ride, cosa che capita di fare spesso leggendo tante sue pagine provocatorie, tristi, misogine, nauseanti e comiche allo stesso tempo. E che, come in tanti altri suoi romanzi, arricchiscono la lettura di Londra, sostanzialmente il seguito del precedente Guerra, già pubblicato da Adelphi nel 2023.

“Libro ritrovato” come pochi altri visto che il manoscritto da cui è stato recuperato e che è stato utilizzato per la presente prima edizione italiana faceva parte di quello stock di manoscritti che Louis Ferdinand Auguste Destouches, fin dai giorni di prigionia in Danimarca, dopo la fine della seconda guerra mondiale, aveva denunciato come sequestrati (requisiti?) dai partigiani francesi dal suo appartamento all’epoca della liberazione di Parigi.

Romanzo letteralmente salvato dalle fiamme dei roghi ideologici che, nel secondo dopoguerra, più che cancellare le tracce dell’amministrazione e del governo nazifascista dell’Europa, servirono a cancellare le tracce delle contraddizioni e dei dissensi che si erano manifestati in quel periodo. Soprattutto all’interno della società francese e della sua classe dirigente1.

Contraddizioni e necessità di “rinnovamento di facciata” che pesarono, soltanto per fare un esempio, anche su uno scrittore già da tempo affermato cone Georges Simenon che nell’ottobre del 1945 fu sostanzialmente costretto a fuggire negli Stati Uniti dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante l’occupazione aveva realizzato e distribuito nove film tratti dai suoi romanzi.

Processi agli intenti e costruzione di “mostri collaborazionisti” di cui lo scrittore della lingua dei bassifondi, in maniera degna dei metodi sbrigativi dell’Inquisizione del tardo medio evo e della prima età moderna, divenne uno dei capri espiatori più esposti e demonizzati dalla retorica “democratica” nazionale. Insieme all’editore Robert Denoël, uno dei primi ad aver apprezzato le doti letterarie di Céline avendone pubblicato nel 1932 il romanzo che lo avrebbe reso celebre (Voyage au bout de la nuit), e che fu assassinato il 2 dicembre 1945, colpito alla schiena da un colpo di pistola mentre scendeva dalla sua auto in una via della capitale francese. Altro caso in cui vennero rubate carte di una certa importanza, raccolte in un dossier che stabiliva il comportamento collaborazionista degli editori parigini durante la guerra e un dossier destinato alla sua difesa in una causa intentata contro la sua casa editrice.

Vale forse la pena, qui e per una volta, di non ricostruire le accuse rivolte a Céline di collaborazionismo e antisemitismo che per decenni sono servite a sminuirne, se non a rendere odiosa, la sua figura per ricostruire rapidamente le vicende di un editore che fu tra i primi a pubblicare in Francia le opere di Louis Aragon, Elsa Triolet, Sigmund Freud, Otto Rank, Nathalie Sarraute, Charles Braibant, Pierre Albert-Birot e, come si è già detto, dello stesso Céline.

Robert Denoël fu prima di tutto un gallerista e un mercante d’arte che, nell’aprile del 1929 aveva fondato la “Éditions Robert Denoël – À l’enseign des Trois Magots” con cui iniziò l’edizione degli scrittori legati al surrealismo e alle avanguardie del primo dopoguerra, come Antonin Artaud, Roger Vitrac, Pierre Mac Orlan e Eugène Dabit. Successivamente, nell’aprile del 1930, con l’americano Bernard Steele avrebbe fondato le “ Éditions Denoël et Steele”, facendosi conoscere come un editore di grande talento durante gli anni Trenta, pubblicando autori di destra, di sinistra, appartenenti, come si è detto, alle avanguardie e progressisti. Mentre dal 1937, Steele, che temeva l’ascesa dell’antisemitismo in Francia, partì per gli Stati Uniti con sua madre e vendette le sue azioni a Denoël alla fine del 1938, che continuò così il lavoro sotto il nome di “Denoël editions”.

La sua casa editrice fu sigillata nel giugno 1940 e ventinove opere della sua collezione furono incluse nella lista Otto2, ma in ottobre Robert Denoël riprese la sua attività. Durante l’occupazione e il governo di Vichy fu uno degli editori francesi coinvolti nella collaborazione, come altri editori accusati dello stesso reato dopo la “liberazione”, come Bernard Grasset, Gaston Gallimard, Armand Colin, Baudinière (casa editrice specializzata, si potrebbe dire in testi antisemiti), Fernand Sorlot (che vinse una causa contro Adolf Hitler dopo la pubblicazione non autorizzata in francese, nel 1934, del Mein Kampf che l’autore avrebbe voluto vedere purgata dei contenuti più violenti) e Maurice Girodias (la cui casa editrice pubblicò per prima le opere di Henry Miller e Lolita di Nabokov).

Tutti successivamente assolti dall’accusa, così come fu anche per la casa editrice di Denoël con il caso archiviato nel 1947, mentre l’inchiesta sulla morte dell’editore sarebbe stata chiusa, tre anni dopo, senza che la giustizia francese fosse giunta a individuare alcun responsabile.

Prima di chiudere questo lungo intermezzo va però annotato che Denoël, guarda caso, aveva aperto la sua casa editrice, al capitale tedesco, ottenendo un prestito di due milioni di franchi da un investitore in Germania, l’editore berlinese Wilhelm Andermann, in cambio del quale Denoël gli vendette il 49% delle azioni del suo patrimonio editoriale. Nella primavera del 1944, sentendo il vento girare, fondò le Éditions de la Tour, con cui pubblicò principalmente memorie di soldati che avevano partecipato alla lotta contro i tedeschi in una raccolta intitolata La guerra degli uomini liberi. Inoltre, su consiglio di Aragon, nel novembre 1944 avrebbe pubblicato il primo libro di Elsa Triolet, moglie dello stesso Aragon e prima donna a vincere il premio Goncourt. Ma nell’agosto 1944, i beni tedeschi del suo investitore erano stati posti in amministrazione controllata dal governo provvisorio e per questo Denoël non avrebbe più potuto avere il controllo della casa editrice. Che successivamente Gaston Gallimard (fondatore della Éditions Gallimard, nonché cugino e socio di Michel Gallimard, editore di Camus e altri celebri scrittori), avrebbe preso nelle proprie mani cogliendo al volo l’opportunità di avere a disposizione il ricco catalogo della casa editrice. Céline incluso.

La lunga disquisizione fin qui condotta può essere utile per comprendere che sia la letteratura che l’editoria francese, dopo la parentesi di Vichy e dell’occupazione tedesca, subirono le conseguenze di un “repulisti morale”, al cui centro l’uso giuridico e politico dell’accusa di collaborazionismo e “antisemitismo” fu diversamente calibrato a seconda dei casi (dall’assoluzione, alla condanna e all’esilio oppure, ancora, all’omicidio politico).

Motivo per cui può esser ripreso adesso il discorso sull’opera di uno scrittore che alla sua morte, avvenuta il 1° luglio 1961, un quotidiano italiano definì come un «anarchico che predicò il razzismo» e liquidato come autore di libri dal “successo fugace”, “pieni di oscenità, scetticismo, odio e antisemitismo” e ormai in “squallida decadenza”3. Eppure, ancora una volta, eppure…

Londra è il manoscritto più voluminoso tra gli inediti “sequestrati” di Louis-Ferdinand Céline riemersi durante l’estate del 2021: da solo conta più di un migliaio di fogli. 1161 per l’esattezza, come annota il traduttore, e conferma con forza la potenza, la novità e la “blasfemia” letteraria della sua scrittura. A partire sia dagli ambienti e dai personaggi descritti che, soprattutto, dalla lingua utilizzata che costituisce, più di qualsiasi altro aspetto, il vero tratto distintivo dell’autore francese.

All’inizio del romanzo, Ferdinand, alter ego di Céline, appena sceso dalla nave su cui si era imbarcato alla fine di Guerra4, si ritrova nel mondo della mala londinese, o meglio di quella francese, fuggita in massa per scampare alle trincee. Così il romanzo sembra assumere di volta in volta le forme di un manuale di sopravvivenza a uso dei disertori, di un inno dolente alla prostituzione oppure di un’elegia alla città che i giornali dell’epoca definivano «il più grande mercato di carne umana del mondo».

Un taglio realistico, irriverente e perturbante allo stesso tempo che permette a Céline di squadernare una galleria di personaggi eroici nella turpitudine; alcuni già incontrati in Guerra come la prostituta Angèle e il maggiore Purcell, o il bombarolo Borokrom, i due ruffiani Cantaloup e Tregonet, e il medico ebreo Yugenbitz, paradossalmente l’unico in cui Céline avrebbe forse voluto veramente riconoscersi. Tutti destinati a popolare, prima o poi, grandi arterie e angiporti, androni e locali malfamati, parchi e latrine.

Ma dall’orizzonte della narrazione non scompare mai il fantasma di quella che, tra tutte le attività dell’uomo sembra esser la peggiore e la più crudele: la guerra. Che segna immancabilmente l’esperienza e la vita di chi l’abbia vissuta sulla propria pelle o anche solo sfiorata. Come il protagonista che porta su di sé, e fin dal romanzo precedente, le ferite fisiche e quel “rumore in testa” che lo accompagnerà per il resto della vita. Un trita-tutto, come l’autore la definiva, che compare anche tra le righe delle minacce e delle spacconate di un individuo violento come Julien Tregonet soprannominato, per l’appunto, Ti Stendo.

Alla pensione il Julien Tregonet, Ti stendo, era veramente insopportabile. Per farci vedere che era forte ha rotto la grande poltrona del primo piano che serviva così bene per i clienti, la chiamavamo la pipparola. Una sfuriata. Sapevo che sarebbe finita a schifio. Eppure eravamo lì lì per farci vent’anni da un secondo all’altro. Di questo lui se ne sbatteva. Anzi la cosa lo eccitava e più glielo facevamo notare, più ci coglionava, bistrattava i camerieri della Taverne Royale per via del Picon, non era mai la quantità che aveva detto lui. E poi per la strada intonava pure quel suo inno alla pesca per farsi notare di più. Siccome eravamo sempre più o meno scortati a distanza dai piedipiatti, li vedevo scompisciarsi sul marciapiede di fronte. Lo trovavano divertente.
« Fanculo » diceva lui. « Fanculo, non ho niente da temere, sono mica un magnaccia io, sono un reclutatore, non confondiamo… un occhio!… una medaglia! un uomo!…».
Si rendeva perfettamente conto, la merdaccia, che avevamo strizza soprattutto di finire assegnati alla compagnia di disciplina, sembrava quasi che con le sue stronzate ci teneva a farci acciuffare. Non c’era verso di farlo stare zitto. Non era uomo da tradire, no. Non era il tipo, ma per restare il capo dovunque, avrebbe fatto anche di peggio. E poi insomma una boccaccia che non riuscivi a smorzare.
« Sì, » diceva a tavola « ci andrete tutti, ragazzi miei… Pure tu Ferdinand ci tornerai, orecchio o non orecchio… Non si vede che sei ferito… Ce n’è di più scassati di te che si accollano quindici chili di granate sul parapetto… Tu c’hai la tremarella tutto qui… lo dice il sottoscritto, non sono patriota ma un uomo che ha paura è un uomo che ha paura… »5.

Le compagnie di disciplina, le peggiori dell’esercito, di qualsiasi esercito in termini di rischi e maltrattamenti, in cui i soldati recalcitranti alle regole, al patriottismo e allo spirito di sacrificio venivano spediti se in odor di diserzione o mancato adempimento del dovere, rappresentano dunque l’apice della punizione sventolata davanti ai “reprobi” e il loro incubo peggiore.

Come sempre, la violenza e l’intensità quasi insopportabile della sua prosa dimostrano che il romanzo è giunto fino ai curatori odierni in una versione non purgata, che mai avrebbe potuto vedere la luce negli anni Trenta, e resta, anche per questo motivo, materia incandescente ancora oggi.

Ma parlando di Londra nell’esperienza letteraria e di vita dell’autore, è impossibile non ricollegarlo all’altro romanzo, questo pubblicato in un primo tempo solo in parte, Guignol’s Band6 che vede la città protagonista, oltre che sfondo delle avventure erotico-delinquenziali dei suoi sgangherati protagonisti.

Guignol’s Band che insieme al suo seguito postumo raggiunge all’incirca lo stesso numero di pagine del romanzo “ritrovato” e appena pubblicato, confermando così che i tre romanzi (Enfance, Guerre, Londres) programmati dopo Viaggio al termine della notte (1932), che Céline si era riproposto, in una lettera al suo editore Robert Denoël del 16 luglio 1934, di dare alle stampe l’anno successivo a quello della pubblicazione di Mort à crédit (1936). furono lasciati da parte per essere ripresi, con i dovuti aggiustamenti e cambi di nomi e date, nelle opere successive.

Ma al di là della poesia visionaria che accompagna alcune descrizioni di Londra e del fiume che l’attraversa – «È la notte del mondo che scorre, sotto i ponti. Si alzano come braccia per farla passare» – vi sono numerosi altri aspetti del testo che vanno segnalati. Uno tra tutti, quello del rispetto per il medico ebreo Yugenbitz che indirizzerà Céline verso quella che sarebbe diventata la sua professione ufficiale, quella di medico appunto, che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni, dopo averlo preso sotto la sua ala e avergli prestato dei libri affinché si istruisse e potesse diventare il suo assistente.

Per il Consolato erano almeno tre mesi che dovevo risultare più o meno disertore. Brutta situazione. Mi sono messo pure a tossire, roba da smontarmi la testa e tutt’e due le orecchie. […] la ferita al braccio si era riaperta, mi faceva godere alla minima pressione fino a urlare. Doveva essere una scheggia. Yugenbitz ha controllato, era ancora troppo lontana. Durante la giornata avrei voluto essergli utile a Yugenbitz ma come? Gli ho chiesto cosa potevo fare.
« Legga i miei libri, scelga, si renderà subito conto se capisce. Non è difficile, vedrà ».
Allora sì che mi ha fatto felice. Mai nessuno mi aveva fatto così felice. L’ho guardato ben bene. Non mi stava mica coglionando. Non mi voleva nemmeno inculare. Voleva per davvero che cerco di capire quello che c’era scritto, spiegato nei suoi libri di medicina, che m’istruisco un po’ invece di non fare niente. Sicché non gli interessavo solo in quanto lavoratore, soldato? magnaccia? ladro? disertore? stronzo? buffone? Gli interessavo semplicemente come me, come uomo? Era la prima volta che mi succedeva. Manco ci credevo. Mai nessuno, specie se istruito, aveva fatto attenzione a quello che pensavo o non pensavo. Non è che pensavo cose importanti, ma soltanto per cercare di pensare anch’io con la mia testa. Mi era sempre toccato fare cose ignobili, obbedire a ordini pallosissimi, rispettare unicamente intrallazzi del cazzo dei padroni, servire, roba da vomitare il contenuto delle viscere e della testa a furia di pensare il contrario di quello che uno pensa. La balordaggine schiacciante che tocca adorare a colpi di angoscia, delle duecentomila infamie e angherie arzigogolate. Tutto quello che uno va a cercare per davvero, il fulcro della vita, là dove la vita è sensibile, là dove forse potrebbe parlare finalmente agli uomini, sempre astiosamente atrocemente braccato nel primo mormorio, nel primo accenno di malia, l’orda becera, crescente, infaticabile, servile e baldanzosa. Il gorilla si barcamena, all’eterna caccia delle minime sorgenti della musica, le più discrete, le più segrete. La sola ebbrezza che prova, cacarci dentro fino ai precordi. I mani dell’eroe puzzano di merda e di musica.
I dottori fino a quel momento mi avevano fatto più che altro paura, specie quelli della guerra, dei nemici diciamo. Sono dèi, veri e propri dèi che conoscono la vita nei suoi segreti e anche i miei di conseguenza. Preferivo di gran lunga incontrare cento furfanti come me che un solo medico. I furfanti si pavoneggiano, tromboneggiano, e poi basta una parolina che va a toccare la cosa sensibile, la valvola proprio, e si spampanano in un battibaleno, si sparpagliano e svaporano. Un furfante è più debole di qualunque cosa. Sta in piedi per miracolo. Da medico avrei voluto il potere, intimo, reale, quello attaccato al piccolo nervo del dolore fisico, quello che non mente. Allora non ci sarebbe stato bisogno di ricominciare l’esistenza da un altro pizzo… Ormai c’ero dentro. Comunque sia nessuno mai mi aveva lusingato, la prima lusinga che ho avuto è stato il signor Yugenbitz. Gli avrei leccato le mani, sarei morto per lui, seduta stante, per quello stronzetto di un ebreo. Gliel’ho detto. Si è messo a ridacchiare piano piano com’era sua abitudine7.

Tutto, proprio tutto Céline sembra esser racchiuso in questo brano: odio e amore per l’altro, in cui l’autore si riconosce e da cui allo stesso tempo cerca di tenersi lontano, così come un dottore esperto potrebbe fare con un suo paziente malato o infetto. Uno sguardo sull’altro e sugli uomini che ritroveremo dai tempi di Rabelais, medico egli stesso, fino a quelli più recenti in altri frequentatori degli studi di medicina o della professione medica, come James Ballard, con il suo sguardo da entomologo sulle vicende umane più crude (Crash – 1973), e David Cronenberg, ossessionato dal corpo e dalle sue trasformazioni fino a seguirne, come nell’ultimo film The Shrouds (2024), il definitivo disfacimento nella tomba.

Ma anche la lingua usata è già tutta céliniana; una lingua che per tutto la sua opera servirà a marcare la sua distanza da tanti altri autori dell’epoca e, allo stesso tempo, così vicina al reale che Céline voleva ricreare, raggiungere e riprodurre senza infingardaggini. La petite musique celiniana, come fu definita, fatta di argot, invenzioni linguistiche e grammaticali, neologismi, turpiloquio; sempre tesa alla ricerca non della parola colta o raffinata oppure del merletto letterario, ma di quella più efficace, utile, straziante o insultante per cogliere la realtà materiale e la meschineria della vita, oppressa e priva di qualsiasi forma di coscienza. Che lo allontana efficacemente da una riproposizione borghese del mondo che egli detestò per tutta la vita, insieme alla famiglia, lo Stato, l’esercito e la medicina ufficiale8. Per avvicinarsi e incorporare sempre di più all’interno della sua opera la vita e il gergo della ligera o della lingera9.

Forse, proprio per questo motivo l’autore di Londra avrebbe continuato ad inseguire e a vivere le condizioni di vita di quella parte di popolazione che il mondo borghese, anche di sinistra, troppo spesso respingeva ai margini, fino alla fine dei suoi giorni, dando vita nelle sue pagine ad un’autentica e miserevole epica lumpenproletaria, certo non meno degna di esser cantata o narrata di quella degli eroi del progresso, della guerra, della cultura, del denaro e della normalità borghese.

Infine, last but not least, la contraddittoria valutazione dell’altro, dell’”ebreo” che si impone non in quanto razza o essere moralmente inferiore oppure superiore e meritevole di ogni attenzione, ma in quanto uomo, umano con gli esseri umani, per differenti o abominevoli che questi possano essere. Paradossalmente una lezione che ci viene da Céline più che da tanti altri discorsi intenti a tacciare di antisemitismo chiunque critichi le politiche del massacro del sionismo imperiale attuale.

Céline, per altri versi, avrebbe dato anche voce ad un antisemitismo che, certamente, non aveva contribuito ad inventare, nella Francia dell’affare Dreyfus, del razzismo colonialista, della collaborazione generalizzata della sua classe dirigente e di una parte non secondaria della sua popolazione con il nazismo una volta accettata la resa nella guerre drôle, la guerra strana, nell’estate del 1940.

Ci resta, comunque, un autore grande ma indigeribile per coloro che professano pacifismo e diritti nei salotti televisivi per poi andare a braccetto con la violenza desacralizzata e post—moderna del Quentin Tarantino di turno che, in fin dei conti, non fa male a nessuno, soprattutto allo spettatore. Va bene tutto, infatti, purché non si entri nella carne, nel dolore e nella miseria reale. Proprio là dove invece Céline, autore indisciplinato, scomodo e ingombrante oltre misura, ci ha sempre voluto condurre. Mentre la sua ghigna sembra ancora fissarci spietatamente negli occhi.


  1. Si veda a titolo di esempio il controverso articolo di Michel Lefebvre, Quand le PCF négociait avec les nazis, comparso sul quotidiano «Le Monde» nei giorni 10 e 11 dicembre 2006.  

  2. La “lista Otto” è il nome dato al documento di 12 pagine intitolato “Libri ritirati dalla vendita dagli editori o vietati dalle autorità tedesche”, pubblicato il 28 settembre 1940, che elencava i libri vietati durante l’occupazione tedesca. Mentre la “lista Mathias” elencava le opere da promuovere, principalmente classici della letteratura tedesca e opere di propaganda nazista.  

  3. S. Volta, La morte dello scrittore Céline, «La Stampa», 2 luglio 1961.  

  4. A proposito di questo romanzo si veda qui  

  5. L-F. Céline, Londra, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 298-299.  

  6. Pubblicato dalle edizioni Gallimard nel 1951 e poi, in Italia, da Giulio Einaudi Editore nel 1982 con il medesimo titolo. Seguito poi da Guignol’s Band II, pubblicato postumo nel 1964, su permesso della moglie dell’autore, sempre da Gallimard, e in Italia ancora da Giulio Einaudi Editore nel 1971 con il titolo, assai poco céliniano, Il ponte di Londra.  

  7. L-F. Céline, Londra, op. cit., pp. 143-145.  

  8. Basti ricordare, per sottolineare quest’ultimo punto, la sua tesi sul dottor Semmelwis destinato alla solitudine, prima, e ad esser rinchiuso, poi, per aver contestato e condannato a ragione le pratiche antigieniche dei medici nei confronti delle puerpere. L-F. Céline, Il Dottor Semmelweis, Adelphi Edizioni, Milano 1975.  

  9. A proposito della leggera o lingera si veda D. Montaldi, Autobiografie della Leggera, Giulio Einaudi Editore, Torino 1961.  

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Contro il militarismo e la logica del nemico, la nostra parte non è già data https://www.carmillaonline.com/2025/10/08/contro-il-militarismo-e-la-logica-del-nemico-la-nostra-parte-non-e-gia-data/ Tue, 07 Oct 2025 22:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90044 di Fabio Ciabatti

∫connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00

Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”.  Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico [...]]]> di Fabio Ciabatti

connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00

Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”.  Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente”, assumono particolare rilievo in considerazione della tragica scelta che deve affrontare Hamas, insieme alle altre formazioni armate palestinesi, di fronte al cosiddetto piano di pace di Trump: continuare la lotta armata facendo proseguire l’immane carneficina o arrendersi per interrompere il supplizio che comunque proseguirà, anche se, presumibilmente, con tempi più lunghi e modalità meno feroci. La resistenza palestinese sembra davvero trovarsi di fronte a una drammatica impasse. E allora, per non lasciarsi bloccare in questo vicolo cieco può essere utile adottare uno sguardo diverso nei confronti della coraggiosa lotta della popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) con l’obiettivo di prefigurare possibili via di fuga dal tragico stallo a cui sembra destinata. Anche perché bisognerà in qualche modo approfittare delle condizioni tutt’altro che ideali in cui si trova oggi lo stato sionista, lacerato da profonde contraddizioni interne e investito da una diffusa condanna internazionale.
Certo, di fronte a un genocidio, ci si può legittimamente chiedere se sia possibile mantenere uno sguardo lucido sugli aspetti critici della resistenza palestinese senza divenire complici dei carnefici israeliani. O senza scadere in un eurocentrismo che solidarizza con i popoli oppressi solo finché non si ribellano perché, con i mezzi a loro disposizione, raramente lo possono fare rispettando il preteso bon ton occidentale. Sicuramente, non teme di andare controcorrente rispetto all’opinione diffusa nella sinistra, compresa quella radicale, l’autore collettivo che ha dato alle stampe il testo qui recensito. Si tratta di ∫connessioni precarie, un’area politica che assume come obiettivo centrale della sua analisi e della sua attività pratica la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo che è sottoposto all’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo. Benché Nella Terza guerra mondiale non sia un testo dedicato alla questione palestinese, come si può facilmente capire dal titolo, crediamo valga la pena partire da ciò che sta accadendo in Medio Oriente perché, dato il suo carattere estremo, può rappresentare un’utile cartina di tornasole per valutare le tesi di questo agile ma densa pubblicazione. Ebbene, la risposta dell’autore collettivo è che si possono criticare i movimenti di resistenza, compreso quello palestinese, anche se questo non significa minimamente praticare una facile equidistanza tra oppresso e oppressore. Significa, invece, non farsi risucchiare nella logica che costruisce nemici esistenziali al di fuori di ogni considerazione dei rapporti sociali, sessuali e storici all’interno dei quali maturano i conflitti.

Spesso si sente dire che gli occidentali, in qualità di alleati della lotta palestinese, possono solo ascoltare e sostenere “l’unica parola autentica, e quindi giusta e incontrovertibile”:1 la parola pronunciata dai palestinesi. Ovviamente per l’autore non si tratta di mettere in dubbio il dato di fatto che ciascun popolo oppresso sceglie autonomamente le sue forme di lotta e le sue opzioni politiche. In fin dei conti la resistenza e la necessità di stringere i ranghi per combattere l’oppressore sono prima di tutto determinate dalle condizioni materiali. Ma c’è un altro dato di fatto di cui bisogna tener conto: ogni movimento di liberazione è sempre attraversato da differenti opzioni ideologiche perché qualsiasi popolo oppresso, compresi i palestinesi, non costituisce un corpo omogeneo che vive al di fuori della storia e dei rapporti sociali.
Questa complessità, secondo l’autore, è sostanzialmente ignorata dal pensiero decoloniale che, per certi versi, rappresenta l’opposto speculare rispetto alla pretesa del capitale e degli Stati di stabilire fronti interni omogenei e compatti neutralizzando i rapporti sociali a sostegno del loro posizionamento nell’ambito della Terza guerra mondiale in corso (sulla natura di questa guerra, ovviamente, ci torneremo). Ma è proprio il lessico della decolonialità che ha finito per saturare l’intero discorso sull’attuale conflitto bellico globale per ridurlo a un episodio della secolare guerra dell’Occidente coloniale contro l’Altro resistente e rivoluzionario. Questo approccio si concretizza in una “re-esistenza” finalizzata alla ricostituzione di forme di esistenza precoloniali presuntamente sopravvissute al dominio coloniale. In questo modo la miseria del presente viene rifiutata in nome di un passato mitico, depotenziando la capacità  delle lotte nel sud globale di rappresentare un evento sovversivo e imprevisto della storia, potenzialmente foriero di un’alterità che può essere coniugata solo al futuro.
Il discorso decoloniale, in altri termini, mette capo a conflitti articolati soprattutto sul livello della resistenza che, avendo un carattere sostanzialmente reattivo, si concretizzano in un’azione di contrasto in un campo di forze stabilito dalla controparte, incarnata di volta in volta da un governo, uno Stato, un regime, una piattaforma capitalistica. Di conseguenza la resistenza non è di per sé garanzia di una politica partigiana volta all’emancipazione dallo sfruttamento e dall’oppressione. La flessibilità del discorso decoloniale, infatti, gli consente di prestarsi perfino a curvature etno-nazionaliste che, ancor più della resistenza genericamente intesa, si rafforzano nella logica della guerra, a sua volta rafforzata dalla riproposizione di un intrascendibile dualismo. 

Se l’appello alla resistenza ha contribuito alla riproduzione di una logica di guerra, questo non significa, secondo l’autore, che bisogna abbandonare del tutto il suo linguaggio, a patto di riuscire a riattivare la connessione tra resistenza e trasformazione sociale. Allo stesso modo non bisogna fare a meno delle rotture e delle crepe aperte dalla decolonialità che, come sottolinea il testo, figurano al principio dell’attuale movimento transnazionale del lavoro vivo grazie alla insubordinazioni dei popoli indigeni ecuadoregni, boliviani e chiapanechi, vere e proprie irruzioni del margine nel centro dove regnavano solo libero commercio, proprietà privata, diritti umani e Fukuyama. Ciò significa che, come accaduto più volte in passato, la resistenza può innestarsi dentro momenti organizzativi e progettuali contro lo sfruttamento e l’oppressione riuscendo a trasformare lo stesso campo di lotta e a politicizzare soggetti che non sono già determinati a priori.

Ora, tutto il discorso che abbiamo sommariamente sintetizzato sarebbe difficilmente comprensibile se staccato dalle considerazioni sulla terza guerra mondiale. Essa coincide con la manifestazione più violenta di quello che l’autore definisce il transnazionale, cioè l’attuale configurazione del sistema mondiale caratterizzato dall’impossibilità di imporre un ordine globale stabile e continuativo. In altri termini, siamo di fronte a un disordine non ricomponibile perché la valorizzazione del capitale oggi può avvenire solo a livello globale che, però, allo stato attuale, non è governabile secondo logiche politico-statuali. E ciò vale tanto per la retorica dei dazi trumpiana, indebolita dall’impossibilità del totale disaccoppiamento tra Cina e USA, quanto per l’idea di una moneta comune dei Brics che è impedita dal fatto che l’80% delle transazioni mondiali avviene attraverso il dollaro, sottolinea il testo. Questa tensione si scarica sui singoli stati che sono al tempo stesso necessari e non sufficienti a garantire la disponibilità di risorse umane e materiali per la valorizzazione dei capitali di riferimento. In questo contesto, la guerra rappresenta un salto di qualità decisivo nel disallineamento tra dimensione politica, istituzionale e territoriale dello Stato e dimensione spazio-temporale della valorizzazione nonostante ogni tentativo di rinazionalizzazione o regionalizzazione della produzione.
Assistiamo quindi all’ultimo capitolo in ordine di tempo della crisi della sovranità che però, per quanto monca, rimane lo strumento migliore per affermare regole decise da una governance allargata e mobile costituita da governi, frazioni di capitale, società di investimento multinazionali, thanks thank, centri di ricerca e produzione della conoscenza.
Allo stesso tempo, crisi della sovranità significa incapacità dello Stato di produrre unità nella società attraverso la creazione e la trasmissione di valori comuni. Viene meno la capacità di integrazione sociale e politica sperimentata attraverso i processi di mediazione democratica e, in particolare, per mezzo della mediazione politica e istituzionale tra capitale e lavoro sedimentata nel Novecento. Anche nei paesi capitalisticamente sviluppati elementi autoritari si innestano all’interno di un framework istituzionale che rimane formalmente democratico.

Il tutto si concretizza in un militarismo che si impone anche al di fuori dei teatri propriamente bellici. Un militarismo che bisogna distinguere dalla militarizzazione in senso stretto, cioè dalla mobilitazione totale propria di un’economia di guerra. Si tratta, di fatto, della riproposizione in armi del mantra neoliberale “non c’è alternativa” con un’intensificazione dei suoi contenuti autoritari, patriarcali e razzisti, funzionali alla ridefinizione complessiva delle condizioni dell’accumulazione e dello sfruttamento. Il militarismo, dunque, rilegittima lo Stato non in quanto garante della riproduzione sociale dei suoi cittadini, ma nella sua qualità di attore in grado di esercitare il disciplinamento sociale e la sottomissione della forza lavoro.
Con la cittadinanza svuotata di ogni contenuto sociale e di ogni valenza universalistica, però, resta ben poco dell’imperativo patriottico novecentesco. La logica militarista, in sostanza, è in grado di ricompattare solo retoricamente la nazione attraverso la guerra contro un nemico esterno e interno che può essere di volta in volta diverso. Ciò che rimane è essenzialmente la normalizzazione della violenza come risposta a ogni forma di insubordinazione. Una violenza preparata da decenni di militarizzazione dei confini contro la presunta invasione dei migranti. Non a caso la mobilità di questi ultimi (insieme a quella del capitale) continua a sfidare gli Stati impegnati a impedire che la scelta di migrare si trasformi nella permanenza nelle società di arrivo dove gli stessi cittadini devono fare i conti con il venir meno di garanzie, diritti sociali e tutele.
In ogni caso, il potere sempre più arbitrario nei confronti dei migranti non mira a sigillare le frontiere e fare a meno di loro, ma a regolare e irreggimentare la mobilità della manodopera che deve essere valorizzata come strumento di precarizzazione, frammentazione e coazione, con un effetto disciplinante va ben oltre il lavoro degli stranieri. Insomma gli Stati devono governare una dinamica contraddittoria di attrazione e repulsione che può essere precariamente gestita attraverso il razzismo soltanto fino a quando non emerge una soggettività dei migranti. La violenza degli Stati opera, infatti, per limitare la visibilità delle loro  lotte per depotenziare quelle pratiche organizzative e di conflitto, in primo luogo lo sciopero, con le quali negli anni il lavoro migrante è riuscito a rappresentarsi come forza collettiva.

L’incapacità degli Stati di affrontare i problemi più urgenti del nostro tempo si manifesta anche di fronte alla crisi climatica che, pure, in un primo momento era stata utilizzata come occasione per rilanciare l’accumulazione. La cancellazione dell’ecologia come problema indifferibile in nome dell’emergenza bellica mostra l’impossibilità di Stati e capitale di affrontare questa crisi tramite un’accumulazione capitalistica pianificata. Sta di fatto che il mancato riconoscimento della crisi climatica come questione di classe, a cominciare dal fatto che i suoi effetti colpiscono principalmente i lavoratori e le lavoratrici povere, e la conseguente incapacità di connettere in modo strutturale le lotte ecologiche con quello del mondo del lavoro ha facilitato l’ascesa al potere della destra scettica o negazionista in grado di fare leva sul fondato timore di proletari e proletarie di dover pagare i costi della transizione green.
Dovrebbe essere oramai chiaro che non è più possibile pensare i conflitti climatici al di fuori di un orizzonte di opposizione di classe alla guerra. Questo tipo di opposizione, in realtà, emerge in tutto il libro come l’unica possibile risposta alla crisi del nostro mondo che si concretizza nella terza guerra mondiale. La domanda che ci si pone è dunque la seguente: come è possibile porre fine a questa guerra sottraendola al monopolio geopolitico che fa degli Stati e dei regimi parastatali gli unici attori rilevanti? 

Questa domanda sembrerebbe aprire a scenari irrealisticamente ambiziosi se non si tenesse conto del fatto che è “oltremodo improbabile, e in fondo nemmeno auspicabile, che questa guerra finisca con uno stato vincitore in grado di assurgere a guardiano di un nuovo equilibrio mondiale”2. Il suo esito è ancora aperto.

La guerra mondiale può essere letta tanto come una risposta all’esigenza di un comando sul lavoro vivo a livello mondiale, quanto come evento all’interno del quale si creano inaspettate condizioni affinché si affermi una potenza collettiva del lavoro vivo che è l’unica concreta forza di pace che possiamo aspirare a sostenere.3 

Questa seconda lettura è possibile solo tenendo in considerazione il fatto che nel transnazionale il lavoro vivo è ancora in cerca di organizzazione perché ha una conformazione diversa dal passato:

la classe non è più un’identità operaia data dalla produzione, né può essere superata dalle molteplici identità di razza, sesso e cultura nella riproduzione, ma indica la possibilità della costituzione di un soggetto in azione tra produzione e riproduzione che metta in movimento differenze e contraddizioni caratterizzanti il lavoro vivo di operai, precari, donne e migranti nel mercato mondiale.4

Si possono superare gli attuali rapporti di forza favorevoli al capitale a patto di non immaginare la lotta di classe come scontro tra fronti compatti, come se il paradigma delle nostre lotte dovesse essere ricalcato sulla logica bellica. Oggi, infatti, bisogna fare i conti

con soggetti frammentati, con movimenti transnazionali diversi e molteplici che hanno fatto letteralmente esplodere i presupposti organizzativi e la concezione omogenea della classe dell’internazionalismo storico. Il problema è come approntare processi organizzativi che riescano a dare spazio, voce e continuità al movimento del lavoro vivo attraversando le differenze che lo compongono.5

Un problema che è possibile affrontare solo se siamo in grado  di combattere il capitale sul terreno su cui si costituisce il suo dominio. 

La dimensione transnazionale è l’unica in cui fare delle differenze che ci dividono, contro lo scacco del campismo, il punto di forza di un lavoro organizzativo che si pone come esplicito obiettivo quello di costruire la nostra parte dentro e contro la guerra: fare, in altre parole, della nostra politica di pace la guida pratica per preparare le condizioni di uno sciopero sociale transnazionale contro la guerra e il suo mondo.6 

In sede di commento, possiamo sottolineare che il testo si può sottrarre alle tentazioni del campismo, cioè all’attitudine di schiacciare le lotte sociali sul sostegno a uno specifico campo geopolitico, mettendo in evidenza il concetto di transnazionale, vale a dire l’idea di un ordine mondiale oramai compromesso e non ricomponibile in forza delle attuali logiche della valorizzazione capitalistica. Un’idea tutto sommato condivisibile anche se forse portata all’estremo. In particolare, non è da escludere del tutto la possibilità di una ricostruzione, sulle macerie fumanti una parte cospicua del globo, di nuove gerarchie globali, ben più oppressive di quelle precedenti, qualora nella terza guerra mondiale prevalesse il polo statunitense. In questo senso potrebbe non essere indifferente rispetto allo scontro di classe quale sia l’esito del conflitto geopolitico. Questo non perché si debba ricercare qualche nuovo stato guida, ma solo e soltanto perché la mancata sconfitta del polo cinese e di quello dei Brics lascerebbe lo scenario maggiormente aperto, impedendo il consolidarsi di una nuova gerarchia a livello globale, anche in considerazione dell’estrema improbabilità che si affermi un nuovo e stabile ordine multipolare, dati gli attuali rapporti di forza nell’ambito della presente conformazione del capitalismo transnazionale.  

Ma l’aspetto su cui vorrei maggiormente soffermarmi è quello della costruzione di una soggettività antagonista transnazionale, alla luce di quello che sta accadendo in Palestina. A tal proposito vale la pena citare quanto sosteneva Mahmoud Darwish dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982. A seguito di quelle tragiche vicende, il poeta palestinese affermava che ogni suo compatriota 

è ingombrato dall’incedere incessante della morte e impegnato nella difesa di ciò che rimane della sua carne e del suo sogno… le sue spalle sono contro il muro, ma i suoi occhi rimangono fissi sul suo paese. Non riesce più a urlare, non riesce più a comprendere la ragione del silenzio arabo e dell’apatia occidentale. Può solo fare una cosa, diventare ancora più palestinese… perché non ha altra scelta.7 

Questa scelta sembrerebbe ancora più obbligata oggi, di fronte all’attuale violenza genocida che rappresenta un salto qualitativo anche rispetto alle già efferate vicende del 1982. D’altra parte, questo salto non è il frutto di un singolo stato criminale perché vede l’attiva complicità dei governi e dei capitali nord occidentali (e la sostanziale passività di quelli arabi) a testimonianza di un disordine internazionale di fronte al quale soggetti fino a poco tempo fa capaci di esprimere egemonia provano a rimettere insieme i pezzi a forza, attraverso una violenza fuori scala rispetto ad ogni recente  parametro. La perdita di qualsivoglia limite alla ferocia bellica, come indica l’estrema crudeltà ostentata via social, sembra condannare la resistenza palestinese, sostanzialmente osteggiata dagli attori geopolitici che più contano in Medio Oriente. Rimane da chiedersi se, nelle tragiche condizioni attuali, sia possibile un salto di scala, nel senso auspicato dal testo, che vada al di là della pur legittima rivendicazione di una patria, facendo leva sull’ampia solidarietà ricevuta dai movimenti sociali a livello globale e sulle contraddizioni interne della società israeliana. Queste ultime si sono certamente manifestate con forza, cosa certamente positiva per la sorte dei palestinesi, ma fino ad oggi la solidarietà o la semplice empatia nei confronti della popolazione di Gaza è stata decisamente estranea alla grande maggioranza degli israeliani che si sono mobilitati.

Tutto ciò per dire che l’opzione per un’opposizione transnazionale appare comprensibile anche se non proprio all’ordine del giorno. Il che non significa che non si darà qualcosa di simile. Ma in questo processo di organizzazione di un soggetto strutturalmente molteplice e frammentato potrebbe esserci anche lo spazio per un’identità palestinese (o ecuadoregna, boliviana, chiapaneca, per riprendere gli esempi del libro), intesa non come rivendicazione etno-nazionalista, ma come riappropriazione di una specifica tradizione di lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento da mettere in connessione con altre tradizioni con obiettivi convergenti. Perché, riprendendo ancora Darwish, per rispondere alla domanda cosa significa patria non è sufficiente mostrare una cartina geografica o rievocare la tomba del proprio nonno. “La lotta è la risposta. Se combatti appartieni a qualcosa. La patria è lotta”.8

In ogni caso, quello che sembra difficilmente contestabile è il ragionamento di fondo che si trova nel testo di ∫connessioni precarie: “Rifiutare il militarismo e la logica del nemico significa che la nostra parte non è già data, ma che può costruirsi proprio attraverso l’opposizione alla guerra”.9 


  1. connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 82. 

  2. Ivi p. 20. 

  3. Ivi, p. 101. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, p. 102. 

  6. Ivi, p. 103. 

  7. cit. in Ruba Salih, Gaza e Israele. Ripensare l’umano tra guerra, violenza e trauma coloniale, https://www.globalproject.info/it/mondi/gaza-e-israele-ripensare-lumano-tra-guerra-violenza-e-trauma-coloniale/24664

  8. Mahmoud Darwish, Diario di ordinaria tristezza, in Id, Una trilogia palestinese,  Feltrinelli, Milano 2017, p. 48, edizione Kindle. 

  9. connessioni precarieNella Terza guerra mondiale, cit., p. 54. 

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Il labirinto che ci hai donato https://www.carmillaonline.com/2025/10/04/il-labirinto-che-ci-hai-donato/ Sat, 04 Oct 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90152 di Franco Pezzini

Piero Salabè, Mortacci mia, pp. 384, € 20, La nave di Teseo, Milano 2025

– Come è possibile! – Cosa, Aič? – Che il nostro mondo sia già finito se la nostra vita non è neppure iniziata?

La ricerca di un padre perduto, morto o comunque scomparso, da parte di un figlio maschio più o meno fratto dentro, è un topos fertile di declinazioni – idealmente, potremmo dire, dall’Eneide a Dancing Paradise di Pupi Avati, fino a questo bel romanzo. Perché cercare il padre? Per i motivi, come intuibile, più vari: per recuperare la propria adultità o per [...]]]> di Franco Pezzini

Piero Salabè, Mortacci mia, pp. 384, € 20, La nave di Teseo, Milano 2025

– Come è possibile!
– Cosa, Aič?
– Che il nostro mondo sia già finito se la nostra vita non è neppure iniziata?

La ricerca di un padre perduto, morto o comunque scomparso, da parte di un figlio maschio più o meno fratto dentro, è un topos fertile di declinazioni – idealmente, potremmo dire, dall’Eneide a Dancing Paradise di Pupi Avati, fino a questo bel romanzo. Perché cercare il padre? Per i motivi, come intuibile, più vari: per recuperare la propria adultità o per sanare nodi mai sciolti d’un rapporto, per riprendere il filo del proprio passato, per cercare un amore la cui manifestazione nel tempo sia stata difettosa per mancanze del genitore o del figlio, per loro latenze, distanze o incomunicabilità. Tutto ciò, in qualche modo, è presente anche qui.
Come tutti i figli maschi, ho anch’io dovuto “ritrovare” mio padre, e i dettagli non interessano i lettori: ma è per dire che del vorticoso, appassionato, malinconico, ironico romanzo di Piero Salabè, Mortacci mia – titolo da intendere più come gioco affettuoso sui nostri morti che come sorpresa esclamazione d’uso locale – ha poco senso domandarsi quanto vi sia d’autobiografico, al di là della dedica “Alla memoria di mio padre”. Uno scrittore – e Salabè lo è indubbiamente, con una solida consapevolezza letteraria – non affida alla forma romanzo una mera memoria fattuale: a prescindere dai materiali con cui è costruito, un romanzo è sempre fictio, tanto più come in questo caso dove gioca vorticosamente con registri surreali o persino fantastici. Ma in questa fictio – che, potere della letteratura, è deputata a dire cose veridiche – si respira una verità dolente e spudorata, onesta e beffarda, ossessiva e conflittuale che restituisce vita davvero vissuta. Il pigro, in apparenza disincantato Fabio, voce narrante che vive all’estero da tanto tempo, letterato tra le incomprensioni degli altri familiari, di tanto in tanto torna a Roma: e delle città trasfigurata fantasiosamente (fino a trovate come l’Università degli Studi “La Brillanza”), tra figure caratteristiche e luoghi dei tempi andati coglie aspetti lirici e sordidi meditando sul proprio passato. Che ci stiano frammenti di un’autobiografia reale è abbastanza inevitabile ma non è così importante discettarne.
Il romanzo si struttura idealmente in tre parti (attenzione, seguono spoiler). Anzitutto la presa d’atto da parte di Fabio della scomparsa dalla casa di riposo, dov’era ricoverato per sopraggiunta demenza, del padre Luigi Pintor: già luminare della ricerca medica e insieme brav’uomo frustrato dagli scarsi riconoscimenti e dai sogni abortiti, in un impasto strano e malinconico, buffo e tenero di idealismo e fragilità, dedizione alla scienza e coscienza di limiti anche nei rapporti coi figli, conflitto eroico contro poteri forti (lottizzazioni partitiche, abusi di baroni) e sostanziale lucidità su un finale ritrarsi dal mondo. Messo a riposo per età dopo una vita al Policlinico – ufficialmente Policlinico Felisberto II, istituzione labirintica e colossale nel cuore dell’Urbe dove paiono essersi consumate tutte le ruberie, corruzioni e malversazioni dell’orbe –, Luigi potrebbe essersi suicidato tuffandosi in uno degli insondabili pozzi artesiani sparsi nei campi: “Ma perché allora mancava la borsa da medico che si era fatto portare nella casa di riposo?”. Così, mentre una parte della famiglia si rassegna, anche per chiudere la pratica che lascia comunque presumere un decesso, il figlio Fabio da cui l’ha sempre marcato una certa distanza (“Forse noi non ci siamo mai detti niente. Tutto ciò che c’è stato e che ci è mancato, non erano parole”) inizia a cercarlo trascinato dall’attivissima sorella Lara detta Aič. Ricordando l’uomo che aveva elaborato con esemplare discrezione strategie di pace interiore e coi familiari. Del resto,

A Roma era scomparsa tutta una serie di professori estromessi dall’università per raggiunti limiti di età. Era davvero assurdo pensare che si fossero rifugiati nel Policlinico chiuso, in una terra di nessuno, per portare a compimento le loro ricerche in santa pace, senza essere perseguitati dai detrattori di un tempo? Aič ha ragione, e anch’io sono sempre più convinto che papà stia lì, e che non fidandosi ormai di nessuno, avesse messo in scena la demenza per preparare meglio la fuga.

La seconda parte del romanzo narra la febbricitante, sfinente e visionaria catabasi nel grembo ctonio del Policlinico, una Wonderland nera ufficialmente chiusa per far sorgere al suo posto il complesso termale di San (sic) Samael: ma, con le conoscenze giuste, c’è sempre modo di entrarvi di straforo. Come il regno dei morti per Enea alla ricerca di Anchise, insomma, perché il Policlinico così descritto ha molto di infero: luogo di misteriose frequenze sonore, di mutazioni dei corpi, di empatie e abbrutimenti paradigmatici. I due vi inseguono dunque le tracce del padre che potrebbe esservisi nascosto, probabilmente coinvolto nella faida lì celebrata tra due progetti filosofico-sanitari di scuole opposte: quella del collega Castellari, detto il “medico della morte”, contro l’accanimento terapeutico e “la fede irrazionale nella scienza”, e la Nuova Scuola di Fulcani e Semprebene con le tecnologie del Progetto Eternità – “Lo scopo è stabilire una relazione fra l’orgasmo, la cosiddetta ‘piccola morte’, e l’ultimo spasmo, il trapasso. Se le mie tesi dovessero essere corroborate, ci avvicineremmo alla chiave della vita umana” – scuole che si smaltiscono per esperimenti partite di anziani dal Belgio… La provocazione permette di sollevare riflessioni profonde sul rapporto con la sofferenza e con la morte in un mondo dallo scientismo aggressivo. Peccato che, a differenza che nel caso di Enea, la discesa si risolva in un fallimento, perché a dispetto delle piste e di testimonianze (quanto affidabili?) Luigi non si trova. La ricerca del padre negli inferi diventa ricerca di senso e di identità alla propria vita, per Aič in chiave di affetti e forse di sicurezza, per il protagonista a un livello di razionalità e dialogo con le perplessità e provocazioni del reale, per entrambi qualcosa che svela radici. Se infatti infero è il Policlinico, a un livello più ampio lo è l’intera Roma-Wonderland altrettanto ctonia e surreale, teatro d’un passato in cui si sono forgiate le categorie esistenziali, affettive e razionali, dei due esploratori.
Mentre la terza parte (almeno su questo evitiamo spoiler) vede una chiusura almeno temporanea della quest, un’ideale ricollocazione dei tasselli al loro posto: almeno quelli di una provocazione sulle domande fondamentali. La morte è stata ufficializzata, vi crediamo o no, la neghiamo o no – e questo metterla tra parentesi come un’ipotesi da considerare per rifiutarla, come una mera illusione che c’è qualche buon motivo per denunciare (buon motivo in noi e per noi, per quest’unica volta che siamo al mondo) è in fondo una chiave forte di tutto il romanzo.

– Cosa succede quando una persona muore?
– Non muore.
– Ma come è possibile morire e non morire?
– Non mi chiedere cose difficili, Aič.

Alla morte non riusciamo a rassegnarci, non importa quanto fantastiche, utopiche o francamente oniriche siano le soluzioni con cui intendiamo confutarla: perché in fondo – tale la provocazione – a essere impossibile è la comprensione della verità. Ed emblematica è la citazione d’incipit da Samuel Johnson , “…that immense fear that life could have a sense”, perché allora occorrerebbe comprenderlo.

“La radice della vita è il dubbio,” risuonano in me le parole di mio padre. Ma diffidare stanca, e spesso non si rivela che essere un gioco mentale.

Diffidare stanca, sembra dire malinconico l’autore, e dunque è nel clima di un’esausta sospensione di giudizio che ci lasciamo trascinare da altri alla ricerca. Che pure ci sperde, e sperde il lettore nel dedalo infero. Resta, su tutto, un senso di smarrimento in cui nessuna pista è affidabile e non è mai chiaro chi guidi chi (emblematici gli scambi con Aič all’inizio dei singoli capitoli).
Molto interessante il rapporto tra i due fratelli, liquidati come illusi e “cacciatori di fantasmi” dai due più vecchi (Alessandro e Maddalena), ma legatissimi e insieme in continuo, aspro conflitto. Molto interessante il rapporto dello scomparso con l’istituzione pubblica e le sue arroganze, le baronie, i progetti promossi per gli utili dei soliti: se Pintor ha scelto di nascondersi tra le mura che ben conosceva – seminando sassolini bianchi come in una fiaba in un contesto da incubo, popolato di folli presenze intente a sparlare l’una dell’altra, tra continui inabissamenti e impreviste risalite, caratteristi grotteschi e bizzarrie metapsichiche – non è solo per non farsi trovare. Quel regno dell’assurdo è un’immagine del mondo e di una geografia di potere dove Luigi ritiene forse di avere ancora qualcosa da dire e da dare, o forse l’immagine espiatoria degli incubi dei suoi figli, toccati in ultimo dalle amarezze di lui e per una volta pronti a condividerle. Come in un caleidoscopio, le tracce del vecchio medico si moltiplicano così tra orride putredini e procedure misteriose di iniziati all’abisso: e mentre i figli cercano di non perdere anche quel passato come già l’infanzia, la madre e la casa sgomberata di famiglia (Aič non si rassegna per affetto, il perplesso Fabio si lascia tirare) finiscono con l’imbattersi costantemente in teatrini grotteschi, da farsa. La malinconia non cede mai alla tristezza: la vita – e la morte, in fondo – sono troppo paradossali per evitare di riderne, almeno un po’.

– Hai mai sentito, Aič, di un cervo che bracca i cani?
– No, ma anche la nostra non è la legge del mondo.
– È qual è la nostra legge?
– Restare nel labirinto.

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La storia di un ragazzo insanguinato https://www.carmillaonline.com/2025/10/01/la-storia-di-un-ragazzo-insanguinato/ Wed, 01 Oct 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90632 di Sandro Moiso

China Miéville, Railsea. Un oceano di rotaie, Fanucci Editore, Roma 2025, pp. 363, 18 euro

Non è la prima volta che Moby Dick, l’insuperato capolavoro della letteratura americana dell’Ottocento, viene ripreso in chiave fantastica e ricontestualizzato. L’aveva già fatto, per esempio, Philip José Farmer con The Wind Whales of Ishmael nel 1971, poi pubblicato in Italia nel 1978 con il titolo Pianeta d’aria dallo stesso editore che oggi pubblica Railsea di Miéville.

In quel romanzo l’imprevedibile e originalissimo autore americano ri-immaginava gli eventi narrati dall’Ismaele melvilliano, ambientandoli su un pianeta in cui le balene galleggiavano nel cielo, [...]]]> di Sandro Moiso

China Miéville, Railsea. Un oceano di rotaie, Fanucci Editore, Roma 2025, pp. 363, 18 euro

Non è la prima volta che Moby Dick, l’insuperato capolavoro della letteratura americana dell’Ottocento, viene ripreso in chiave fantastica e ricontestualizzato. L’aveva già fatto, per esempio, Philip José Farmer con The Wind Whales of Ishmael nel 1971, poi pubblicato in Italia nel 1978 con il titolo Pianeta d’aria dallo stesso editore che oggi pubblica Railsea di Miéville.

In quel romanzo l’imprevedibile e originalissimo autore americano ri-immaginava gli eventi narrati dall’Ismaele melvilliano, ambientandoli su un pianeta in cui le balene galleggiavano nel cielo, più leggere dell’aria, mentre i loro cacciatori si aggiravano alla loro ricerca a bordo di mongolfiere. Oggi, però, l’autore inglese China Miéville sposta l’asticella dell’invenzione e della rivisitazione della tradizione letteraria un po’ più in là.

Il suo romanzo, uscito in lingua originale nel 2012, narra infatti le avventure e disavventure di un novello Ismaele, in questo caso Sham o, meglio, Shamus Yyes as Soorap, narrandole in terza persona e ambientandole su un non meglio identificato pianeta su cui gli oceani d’acqua sono stati sostituiti da vasti e pericolosi deserti sui quali corrono, intrecciandosi e incrociandosi, migliaia o forse milioni di chilometri di rotaie ferroviarie.

Un mondo che forse potrebbe essere lo stesso nostro e attuale pianeta una volta che gli oceani si fossero prosciugati e la loro superficie fosse ricoperta dai manufatti, spesso arrugginiti e abbandonati, prodotti e poi perduti dall’età della produzione industriale, del ferro e dell’acciaio.

Un mondo sotto la cui superficie non possono certo celarsi specie marine, ma nascondersi specie sotterranee di ogni genere e dimensione, pericolosissime per gli uomini che non possono minimamente, se non a rischio della loro stessa vita, calpestare anche solo per pochi secondi il suolo del deserto celato e compreso tra le rotaie.

Tra queste specie la più ambita e pericolosa è quella delle talpe, che possono talvolta raggiungere dimensioni colossali e che sono cacciate dai “talpieri” di Rupania, sia per la loro pelliccia che per tutto quanto le loro carcasse, una volta uccise, possano contenere di utile. Anche se, come nel caso di Moby Dick e di Achab, i capitani al comando dei convogli ferroviari talpieri sono guidati più dall’ossessione della perdita di un arto a causa di uno di questi giganti del sottosuolo e dalla volontà di vendicarsi, che dalla necessità di realizzare un profitto di carattere economico.

E’ questo il medesimo obiettivo perseguito dalla capitana del treno su cui si è imbarcato, senza arte né parte, il giovane Sham. Cabacat Naipho, così si chiama la comandante della ciurma di talpieri di cui Sham è giunto a far parte, ha infatti perso un braccio, in seguito sostituito da una complessa protesi meccanica fatta di legno e di acciaio, a causa di una gigantesca talpa bianca o, come altri sostengono, del colore avorio dei denti, durante una passata spedizione di caccia, motivo per cui da allora l’animale ha iniziato a costituire la sua vera e unica ossessione.

Le vicende del romanzo e della formazione del giovane protagonista si sviluppano così tra pericoli, avvistamenti di talpe colossali che corrono appena sotto la superficie per poi, magari, sbucare a “prua” del treno in corsa per devastare i binari sui quali lo stesso corre, ricerca di terre sconosciute e memorie rimosse e dimenticate, ma anche tra banditi, avventurieri ed esploratori che gli faranno conoscere il gusto dell’avventura e del sangue. Da cui, durante il primo smembramento di talpa a cui partecipa nel laboratorio a bordo del convoglio su cui viaggia e lavora, sarà letteralmente ricoperto.

Occorre però a questo punto tralasciare la narrazione degli eventi che caratterizzano la storia sia per non rovinare il piacere del lettore e la sua attesa degli sviluppi conseguenti ad ogni scelta operata sia da Shamus che dalla “sua” capitane e da tutti gli altri personaggi che si incontrano nel corso del romanzo, sia per poter parlare dell’autore che sicuramente può essere definito come uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi decenni.

Di China Miéville (Londra 1972), nonostante sia stato vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premio Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), occorre però dire che è anche convinto militante della sinistra radicale inglese.

Queste due passioni l’hanno portato a dare vita e forma a una letteratura che, soprattutto nella trilogia della città di New Crobuzon (Perdido Street Station, La città delle navi e Il treno degli Dei),1 mescola socialismo utopico, aspetti steampunk, lotta di classe, rivoluzione sociale, orrori di sapore lovecraftiano e avventura. Generando una sorta di anticipazione distopica di un mondo che assomiglia fin troppo al passato dell’industrializzazione e delle rivolte dell’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento. Oppure, come in questo caso, ad un suo possibile ed imprevedibile futuro.

Ma è anche necessario anticipare che, nonostante le etichette fin qui utilizzate per definirlo, Miéville è prima di tutto un grande e originalissimo scrittore. Come affermava lo scomparso Valerio Evangelisti, infatti: «esistono soltanto due generi di letteratura: quella buona e quella cattiva» e lo scrittore britannico va inserito a pieno titolo in quella appartenente alla prima categoria.

Gran parte della qualità letteraria dell’autore e delle sue opere, prima ancora che nell’originalità delle storie, risiede nell’uso spregiudicato e inventivo della lingua. Una lingua che viene piegata e distorta ai fini della narrazione, finendo col diventare l’autentica protagonista della creazione letteraria. Una qualità che sembra porre il logos avanti alla materia che da quest’ultimo è destinata ad essere trasformata e ricreata.

Secondo logiche che vanno ben oltre le formulazioni di quel cognitivismo che ritiene il linguaggio e il suo uso la base fondamentale dello sviluppo dell’individuo sia nella sua fase infantile che in quella della formazione e dell’evoluzione della specie, poiché nel caso di Miéville e dei suoi romanzi la parola e l’invenzione linguistica creano davvero il mondo.

Finendo così col mettere in discussione l’assunto di Italo Calvino, espresso in una conferenza del 1967 e oggi usato fin troppo spesso per giustificare l’uso e la diffusione dell’intelligenza artificiale anche in ambito creativo, secondo cui:

L’uomo sta cominciando a capire come si smonta e si rimonta la più complicata e imprevedibile di tutte le sue macchine: il linguaggio. Avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore, di ideare e comporre poesie e romanzi? Penso a una macchina scrivente che mette in gioco tutti quegli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti d’umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori. Che cosa sono questi se non altrettanti campi linguistici, di cui possiamo benissimo arrivare a stabilire lessico grammatica sintassi e proprietà permutative?2.

In Calvino lo slancio progressista e la volontà di mescolare scienza, tecnica e letteratura in un paese ancora troppo intriso all’epoca, e forse ancora oggi, di classicismo e studi classici, potevano avere qualche giustificazione, ma la successiva evoluzione dello studio della mente umana sulla base del tentativo di riprodurne i meccanismi nelle macchine cosiddette intelligenti ha condotto all’uso sfrenato dell’AI e di strumenti quali ChatGpt che assemblano parole in base a delle regole prestabilite e conosciute dall’algoritmo. Fingendo che lì stia l’intelligenza, ovvero la capacità di intelligere (comprendere e interpretare) la realtà nei suoi infiniti aspetti.

Rispetto a cui il compito dello scrittore di qualità è quello di aggiungere prospettive, problemi, immagini e sogni che non potranno mai essere ricondotti ad un unica grammatica generale di regole e algoritmi.
Chiamasi, questo processo, creatività, cui nessun gioco ricombinatorio, come quelli proposti da Italo Calvino e dal suo amico e sodale Raymond Queneau, potrà dare una forma definitiva e riproducibile dagli algoritmi delle tecniche cibernetiche, anche dai più complessi.

Il lavoro di Miéville continua perciò a stimolare e spingere il lettore in una diversa direzione, in modo da poter forse far esclamare un giorno, come fa la capitana Cabacat Naipho ad un certo punto del romanzo: «Ben scavato, Vecchia Talpa!». Rivelando così anche una delle altre sotterranee metafore di cambiamento e rivolta contenute in Railsea.


  1. Tutti e tre pubblicati in Italia da Fanucci.  

  2. Cit. in F. Ferrazza, P.L.Pisa, L’intelligenza artificiale dallo studio al lavoro, GEDi News Network, Torino 2025, p. 9.  

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Un fare mondo dove le lingue si affievoliscono in mormorii https://www.carmillaonline.com/2025/09/26/un-fare-mondo-dove-le-lingue-si-affievoliscono-in-mormorii/ Fri, 26 Sep 2025 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90709 di Sara Passannanti

Francesca Matteoni, Animali, custodi di storie, pp. 252, € 17,90, Nottetempo, Milano 2025.

Animali, custodi di storie è una mappa celeste poetica con cui l’autrice ci indica un percorso possibile per metterci in ascolto del non umano attraverso costellazioni di storie. Le storie e i miti affondano le radici in un mondo in cui l’incontro tra l’essere umano e l’animale è più frequente e immediato, in cui umano e non umano partecipano di una prossimità che oggi attribuiremmo soltanto a una “vita secondo natura”, caricando questa espressione di uno sguardo antropocentrico che annienta le sfumature e rende netti [...]]]> di Sara Passannanti

Francesca Matteoni, Animali, custodi di storie, pp. 252, € 17,90, Nottetempo, Milano 2025.

Animali, custodi di storie è una mappa celeste poetica con cui l’autrice ci indica un percorso possibile per metterci in ascolto del non umano attraverso costellazioni di storie.
Le storie e i miti affondano le radici in un mondo in cui l’incontro tra l’essere umano e l’animale è più frequente e immediato, in cui umano e non umano partecipano di una prossimità che oggi attribuiremmo soltanto a una “vita secondo natura”, caricando questa espressione di uno sguardo antropocentrico che annienta le sfumature e rende netti i confini tra un’ideale natura pura e la società.
È lo stesso sguardo che ci fa percepire soltanto i limiti imposti dall’umano. Dovremmo invece riconoscere e rispettare le soglie tracciate dagli animali, anche se questo significa “accettare di non essere ospiti graditi nel loro mondo”.
Una tale riflessione, che si allarga verso orizzonti antispecisti, è quanto mai necessaria, tanto più che l’occupazione di ogni luogo da parte degli umani fa sì che la presenza animale, quando non normata, viene vissuta come un’intrusione. Il lupo, l’orsa, sono intrusi pericolosi, che vanno puniti con l’abbattimento perché valicano un confine, salvo dimenticare che siamo noi umani ad aver annientato lo spazio vitale di queste specie con l’estensione dello spazio “nostro” ben oltre il necessario.
È ancora lo stesso sguardo antropocentrico che dovremmo riconoscere quando parliamo di ecosistemi e loro gestione, perdendo di vista il fatto che la nostra è una delle specie all’interno di un ecosistema e che le sfide della sostenibilità (della sopravvivenza ormai) passano non dalla gestione degli ecosistemi, ma dalla gestione della nostra specie dentro gli ecosistemi.
Così come la soglia che separa umano e animale non può essere un limite invalicabile imposto dall’essere umano, anche la forma del libro è ibrida. Matteoni procede infatti costruendo un memoir che parte dal racconto degli incontri con gli animali nei luoghi in cui è vissuta e abita, esperienze ordinarie che assumono lo statuto di straordinario grazie alla postura poetica con cui l’autrice le attraversa. Si tratta di incontri con scoiattoli e ghiri sull’Appennino pistoiese, ma anche con altri animali nelle brughiere del Devon o nella baia di Dublino.
Queste esperienze sono quotidiane. Altre volte, sono esperienze ricercate intraprendendo viaggi con il proposito di raggiungere stazioni di avvistamento e soccorso e santuari. Ognuna è caratterizzata dalla ricerca di modalità per essere accoglienti e non invadenti verso il non umano. Molte volte sono esperienze letterarie, proprio perché gli animali popolano le storie ed è necessario incontrarli anche in esse. “Ogni rivoluzione ecologica deve essere prima di tutto poetica: un fare mondo dove le lingue si flettono le une nelle altre. Si affievoliscono in suoni, mormorii”.

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