Recensioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 8 – Os Cangaceiros: storia di vite in fuga, sabotaggi, carte false e rock’n’roll https://www.carmillaonline.com/2025/12/14/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-8-os-cangaceiros-storia-di-vite-in-fuga-sabotaggi-carte-false-e-rocknroll/ Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91792 di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente [...]]]> di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente rubato ad una scritta comparsa su un muro di Marsiglia agli inizi degli anni ’80, per comprendere appieno il significato di un testo straordinario, provocatorio, irridente e unico come l’esperienza di cui traccia il percorso e la storia, sia collettiva che individuale. Un’autentica, e spesso esilarante, storia di vite fuggiasche per scelta e di rivolte sociali spontanee e imprevedibili.

Storie in cui la tradizione millenarista si sposa con uno sguardo disincantato, maturo e attualissimo sulle contraddizioni del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e del contemporaneo disfacimento della classe operaia europea, delle sue ultime lotte e delle sue sconfitte. Lotte e sconfitte, come nel caso di quelle dei minatori inglesi in epoca tatcheriana, che mescolavano tra loro forti tradizioni identitarie frammiste ad una fiducia nel ruolo dei sindacati che avrebbe contribuito a bruciarle. Sia sul fronte del lavoro che su quello politico.

Una storia, quella del collettivo francese Os Cangaceiros, di cui l’autore è stato a lungo uno degli esponenti, in cui la scelta della fuga è dettata, ancor prima che dalle finali indagini poliziesche, da una voglia di vivere tesa a superare tutti gli ostacoli che gli attuali rapporti di produzione sociali ed economici frappongono alla realizzazione di un’esistenza libera, totale e felice.

In questa scelta si è manifestata apertamente una passione politica non dettata dall’ideologia e dai racket politici e sindacali che se ne sono fatti portavoce, ma da una necessità autenticamente biologica e collettiva che il termine fin troppo abusato di biopolitica non è sufficiente per riassumerne tutte le sue implicazioni sociali, culturali, economiche e, soprattutto, di vita, lotta e rivolta.

Una necessità di allontanamento dalle leggi del Capitale e dei suoi servi, anche quando apparentemente schierati su “posizioni di classe”, che si manifesta non in comportamenti codificati una volta per tutte, come le regole dell’”impegno politico” vorrebbero imporre attraverso il “racket partito” o le sue emanazioni aspiranti marxiste, ma in esplosioni improvvise, individuali e collettive, con un’energia che per decenni ha trovato la sua pubblica e più facilmente identificabile manifestazione nel rock’n’roll e nella musica che affonda le sue radici nel delta del Mississippi: il blues.

«Abbiamo sempre vissuto più o meno in fuga», afferma Alessi mentre racconta le disavventure e le indagini poliziesche che sul finire degli anni Ottanta pesarono sui membri attivi del gruppo. Ma rifiutando le logiche utilitaristiche, spesso messe in atto dai latitanti delle organizzazioni armate, che finivano, pur «mantenendo tutte le dovute proporzioni, nella logica puramente militare di una truppa che vive a spese del paese e dei suoi abitanti», Os Cangaceiros scelsero una particolare forma di fuga che:

invece, deve essere pensata in una prospettiva rivoluzionaria, non in una prospettiva utilitarista che rischia di farci diventare sordi nei confronti del mondo. Il che presuppone anche che la fuga non sia vissuta come un dato contingente (una volta nel mirino degli sbirri, bisogna scappare in fretta e furia e trovare un rifugio costi quel che costi), ma come l’elemento stesso in cui ci si muove, come un rapporto al mondo che si costruisce con pazienza e ostinazione. Allora la fuga non viene vissuta come una conseguenza fastidiosa, ma come l’essenza stessa del proprio agire. Hegel ha detto che essere liberi significa muoversi nel proprio elemento. La fuga era il nostro elemento1.

Una fuga che, anche se rivisitata nelle pagine finali del testo di Dell’Umbria, non faceva altro che sottolineare come per il capitale e i suoi servi, di ogni colore politico, sia proprio la libertà collettiva di coloro che dovrebbero invece solo e sempre adeguarsi alle loro leggi a costituire il crimine fondamentale, cosa che fa sì che siano la repressione e la carcerazione gli unici strumenti con cui lo Stato risponde a tale innata necessità della specie2. Strumenti che Os Cangaceiros, nel periodo intercorso tra la formazione del gruppo nel 1984 e la scelta di sciogliersi nei primi anni Novanta, sempre denunciarono e contribuirono a sabotare con mezzi alla portata di tutti.

Una scelta che, nonostante il tentativo dello Stato francese e dei suoi governi di accomunarli alle formazioni armate, fece in modo che i suoi appartenenti, spesso nomadi per scelta o per necessità, rifiutassero sempre non tanto la logica delle armi quanto piuttosto le logiche politiche imposte dall’uso delle armi alle formazioni clandestine militarizzate.

Puntare un’arma può effettivamente semplificare una situazione, ma al prezzo di altre complicazioni molto spesso più pesanti da assumere… In ogni caso, negli anni Settanta abbiamo visto troppe sbandate finite nel sangue per non sapere che dal momento in cui si prendono le armi, l’improvvisazione e il dilettantismo si pagano sempre cari. I combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che uscivano allo scoperto all’inizio del 1994, si erano invece preparati metodicamente per anni prima di fare irruzione armati nelle città del Chiapas. Ma di queste armi, hanno sempre cercato di farne un uso strategico, ovvero meditato.
Non avevamo una posizione di principio riguardo il ricorso alle armi. Ciò che rifiutavamo in modo assoluto, era l’avanguardismo militante delle organizzazioni impegnate nella lotta armata. Se gente così diversa, – come per esempio Jacques Mesrine, i tre di Nantes, e più tardi l’EZLN, – ha fatto ricorso alle armi, tutti agivano a proprio nome e non a nome degli altri. Visto che alcune azioni contro la costruzione dei 13.000 avrebbero potuto richiedere l’uso delle armi, a causa soprattutto della presenza di vigilanti, avevamo affrontato la questione in occasione di una riunione nel 1989. Ma è bastata una mezz’ora di discussione affinché prevalesse l’unanimità: una decisione favorevole ci avrebbe trascinati rapidamente in una spirale impossibile da controllare, soprattutto in un contesto in cui gli sbirri non aspettavano altro. Nella nostra posizione, avevamo altre possibilità per agire. Appropriarsi di competenze e abilità in diversi campi ci sembrava molto più cruciale. Perché le questioni cosiddette “tecniche” ponevano anche questioni sociali e politiche3.

Il riferimento all’Esercito Zapatista di Liberazione non è affatto casuale, poiché proprio quell’esperienza agli occhi dei Cangaceiros francesi mostrava come l’azione politica, e militare, non fosse possibile lontana dalle radici su cui si appoggiava e, allo stesso tempo, dimostrava come le rivolte un tempo ritenute millenaristiche, arretrate e comunitarie, alle quali alcuni membri del gruppo avevano già dedicato nel 1987 una vastissima ricerca4, siano sempre state sottovalutate e sottostimate nella loro reale portata dagli “oggettivisti” della tradizione marxista e leninista.

Era il controfuoco che avevamo voluto accendere prima della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese. Così, risalendo il tempo delle rivolte e delle insurrezioni schiacciate, ma non squalificate, andavamo controcorrente rispetto all’evoluzionismo storico. Alcuni di noi avevano letto anche il libro di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania. Il problema era che quella stessa visione progressiva della storia che aveva impedito a Engels e a Marx di cogliere il cuore razionale della rivolta luddista, aveva impedito loro di cogliere anche quello del millenarismo, che restava ai loro occhi una forma di rivolta arcaica. Era d’altronde la vulgata che riprendeva Eric Hobsbawm ne I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. In pratica, tutte queste rivolte che nel sud della Spagna, così come in Italia, assumevano carattere di imminenza radicale, venivano considerate come delle forme immature, fatalmente condannate dall’evoluzione generale della società verso la modernità. Tale visione, che si ritrova anche nel suo libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, aveva la capacità di farci innervosire ancora di più visto che millenarismo e messianismo vi si ritrovavano oltraggiati in nome del partito staliniano, che agli occhi di Hobsbawm era la realizzazione della Ragione e dei Lumi. Solo il libro di Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, scoperto mentre redigevamo L’incendio millenarista, metteva in primo piano lo spirito rivoluzionario millenarista della guerra dei contadini in Germania.
Si trattava, in fondo, di rendere giustizia a tutta una serie di movimenti e di sedizioni che avevano attraversato l’Europa per un periodo di cinque secoli… Attraverso il gesto di tornare a prima della Rivoluzione francese, intendevamo proiettarci oltre quest’ultima, oltre quell’orizzonte insuperabile di cui gli stalinisti così rispettosi delle istituzioni repubblicane e i socialdemocratici convertiti al liberalismo si apprestavano a cantare le lodi. Ma le rivolte millenariste esprimevano esigenze anti-borghesi totali, immediate e senza compromessi, laddove invece la Rivoluzione francese consacrava il regno della borghesia5.

Non solo, poiché di quelle rivolte spesso la ricerca storica, anche di parte, ha sottolineato solo le contraddizioni e le aspirazioni apparentemente utopiche e/o religiose, senza peraltro considerare che proprio la soltanto apparente utopia della libertà e dell’autogestione comunitaria delle terra, del lavoro e dei suoi frutti costituiva la più radicale e intransigente rivendicazione materiale del bisogno di comunismo.
Non nella teoria di qualche gruppo o racket politico che si pretende in grado di dirigere le “masse”, ma nell’azione diretta e collettiva delle comunità in rivolta che finivano con l’andare ben oltre i temi sventolati inizialmente dai loro capi e promotori. Così come afferma Marco Natalizi in un suo studio sulla rivolta di Pugačëv nella Russia governata dall’imperatrice Caterina II nel XVIII secolo:

Di per sé, rilevare che le decisioni prese dalle guide di un movimento sono spesso foriere di conseguenze inattese non è certo una scoperta; ma il punto da evidenziare qui è che i ribelli incaricati di redigere i primi proclami […] non erano affatto consapevoli di introdurre novità sostanziali sul piano “politico” e che furono piuttosto l’impossibilità di gestire la rivolta come una scorreria e la necessità dell’assedio e della guerra di posizione a far sì che la loro azione si trasformasse in un esperimento di ingegneria sociale in cui le diverse istanze politiche e culturali confluirono, in un dialogo tra culture, sino a dar vita alla “visione” dei ribelli. E ciò per dire di una “folla” di uomini – costretta a fermarsi, a darsi un’organizzazione, a motivare i nuovi venuti – le cui credenze, sotto la spinta delle circostanze, vennero a poco a poco trasformandosi, nei diversi proclami e manifesti, in un’autonoma e peculiare concezione – secondo il punto di vista popolare – esercizio del potere: la storia di uomini che per sopravvivere e combattere dovettero pensare un’organizzazione […] e nel farlo, ripensarsi6.

Ma ancora non basta, poiché per Os Cangaceiros riscoprire il millenarismo oppure la novità costituita dalle rivolte e rivoluzioni indigene, come quella delle popolazioni del Chiapas, significava anche ricollegare il presente e l’attualità ad una storia spesso rimossa che diventava anche rimozione del tempo con cui occorreva ricollegarsi proprio per vivere pienamente e non essere poi costretti a scrivere come Roman Jakobson nel 1930:

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente [motivo per cui] secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto7.

Questa visione è quella che ha fatto sempre in modo che i Cangaceiros, ribaldi ancor prima che rebeldes, di cui ci parla Alessi Dell’Umbria in questo testo a metà strada tra saggio e autobiografia collettiva, prendessero parte a molte delle rivolte e delle manifestazioni, spesso violente, che agitarono le due sponde della Manica negli anni Ottanta, senza però mai aver la pretesa di dare loro ulteriori contenuti o di spingerle oltre i limiti che gli stessi partecipanti si davano di volta in volta. E senza mai dimenticare che la vita deve essere vissuta in ogni suo momento, molto al di là o al di qua delle parole d’ordine politiche.

Non volevano esse avanguardie i compagni e le compagne dell’autore, ma nel vivere una vita libera dalla schiavitù salariale ebbero modo di riflettere sui danni che quelle stesse rischiavano di mettere in moto ogni qualvolta cercavano di mettersi alla testa delle proteste oppure sull’opera di imbonimento che i vari partiti e sindacati di Sinistra svolsero nei confronti delle richieste e delle intenzioni reali che stavano alla base di quei movimenti, spesso inizialmente spontanei.

Tutte azioni e scelte, quelle dei racket estremisti, sindacali o socialdemocratici, che non potevano far altro che portare a cocenti sconfitte e delusioni che, insieme al lento e inesorabile trionfo dello spettacolo della merce e delle illusioni proprietarie, avrebbero finito col far transitare il soggetto un tempo proletario, operaio e ribelle europeo nelle file della destra razzista e nazionalista.

Creando così, allo stesso tempo, un immaginario scontro istituzionalizzato tra Destra e Sinistra con cui lo sviluppo di movimenti come Podemos oppure France Insoumise non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza e la mancanza, oggi, di un reale e condiviso movimento antagonista radicale oppure la sostanziale sottomissione alle esigenze della Nazione e della sua Economia dei gruppi che vorrebbero esserne i rappresentanti formali.

Sono 183 le pagine che compongono questo agile e denso manuale di sovversione e liberazione della vita sociale. Pagine in cui i suggerimenti sul come truffare, un tempo, le banche per vivere senza bisogno di lavorare in maniera coatta si mescolano a quelle per i sabotaggi a ferrovie e cantieri per aiutare i reclusi in lotta oppure a riflessioni fulminanti e importanti sulla composizione di classe, le culture di strada e sul rifiuto delle cariche istituzionali e universitarie così come di un’istruzione classista e di quasi tutta la ricerca prodotta nelle sedi del potere ad essa riconducibili.

Così le impressioni successive agli scontri dei minatori inglesi sotto la Tatcher si mescolano a quelle relative alle rivolte dei giovani immigrati e punk di Brixton, oppure agli scontri degli hooligans con la polizia in ogni angolo d’Europa o dei giovani che si oppongono alla chiusura oraria di un pub o all’apertura di un nuovo e devastante cantiere per una grande e velenosa opera desinata a distruggere vita umana e ambiente. Magari scientificamente motivata dal “progresso”.

Ma ci sono molte altre considerazioni che qui non possono essere tutte affrontate insieme, mentre il Jim Morrison di «We wanti the world and we want it now!» rimane lì come un faro ad illuminare la via tra gioie, sconfitte, amarezza e speranza che nessun progetto carcerario o politico istituzionale potrà mai contribuire a cancellare del tutto perché, come si afferma ancora nel testo, la memoria, per esser davvero tale, è sempre rivolta al futuro.

Note a margine
Per approfondire i temi affrontati in questo libro, si consiglia la visione della video-intervista ad Alèssi Dell’Umbria, realizzata nel marzo 2025 al bar de la Plaine a Marsiglia, dal titolo: L’histoire d’Os Cangaceiros. Banditisme, sabotages et théorie révolutionnaire, disponibile online sul sito lundi.am.

Dello stesso autore oltre al già citato Incendio Millenarista è stato pubblicato in Italia anche Il rogo della vanità, autoproduzioni fenix, Marsiglia Torino Parigi, primavera 2009 (Edizione originale francese: C’est de la racaille? Eh bien j‘en suis!, edizioni L’echappée, Marsiglia, maggio 2006).


  1. A. Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 120-121.  

  2. Si veda in proposito l’opuscolo: Un crimine chiamato libertà, edito in Italia nel 2003 dalle edizioni l’arrembaggio e NN, in cui sono raccolti alcuni testi pubblicati sul secondo numero della rivista «Os Cangaceiros» nel novembre 1985, dedicato alle rivolte dei detenuti francesi del maggio 1985, insieme ad altri sempre prodotti dall’omonimo collettivo francese  

  3. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 169-170.  

  4. Yves Delhoysie – George Lapierre, L’incendio millenarista. Tra apocalisse e rivoluzione, Malamente – Tabor, Urbino – Valsusa, 2024.  

  5. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 97–98. 

  6. M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 97.  

  7. R. Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 42.  

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Aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi. Le 72 stagioni del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/12/13/aprire-gli-occhi-e-prestare-ascolto-alla-natura-e-ai-suoi-ritmi-le-72-stagioni-del-giappone/ Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91319 di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e della neve, della fioritura delle piante, della maturazione dei frutti e del complesso comportamento degli animali, seguendo con precisione il ritmo regolare della natura, tra periodi di crescita, riposo e trasformazione». Nonostante il passaggio al calendario gregoriano, le tradizioni legate alle 72 stagioni – sostiene Roberta Santagostino nel volume riccamente illustrato che vi ha dedicato – restano ancora oggi radicate nella cultura nipponica.

La sensibilità giapponese nei confronti dei mutamenti della natura affonda le sue radici nella società aristocratica del VII secolo assumendo valenze estetiche ed intime, oltre che pratiche. «Nella ricerca di un equilibrio che potesse mitigare le durezze dell’inverno e i calori estremi dell’estate, si sviluppò un’immagine idealizzata della natura, riflessa in molte forme artistiche: dalla pittura alla poesia, dai giardini paesaggistici alla cerimonia del tè, fino all’arte floreale ikebana. Attraverso i brevi poemi waka e con le poetiche suggestioni haiku, la natura e il ritmo delle stagioni vennero codificate in una serie di immagini e riferimenti condivisi» divenute con il tempo «linguaggio, memoria, credenza locale».

Le 72 stagioni si aprono con i giorni di inizio febbraio in cui termina il grande freddo ed inizia il disgelo proseguendo poi con i primi cinguettii dell’anno degli usignoli che annunciano l’arrivo della primavera. Dunque, con lo scioglimento del ghiaccio, seguono i periodi in cui i pesci iniziano a nuotare più in superficie in attesa del tepore primaverile, l’ammorbidimento del terreno ad opera della pioggia, la foschia che avvolge il paesaggio, lo spuntare dell’erba, il germogliare degli alberi e, con l’avvicinarsi all’equinozio, la ripresa della vita da parte degli insetti, lo spuntare dei fiori di pesco a segnalare il diffondersi della primavera, dunque il mutare dei bruchi in farfalle, la preparazione dei nidi da parte dei passeri e il far capolino dei fiori di ciliegio sul finire di marzo. Seguono poi i giorni dei primi tuoni e con essi l’arrivo dei temporali, il ritorno delle rondini, la partenza delle oche selvatiche per il nord, i giorni degli arcobaleni, lo spuntare delle canne dalle acque, la crescita delle piantine di riso, la fioritura delle peonie, il diffondersi delle rane con i loro gracidii nelle risaie e negli stagni, il riemergere dei lombrichi dal terreno, lo spuntare dei germogli del bambù “moso”, la ricomparsa dei bachi da seta ecc. in un susseguirsi delle 72 stagioni che vanno a terminare, a fine gennaio, con il periodo più freddo dell’anno in cui il ghiaccio ricopre i fiumi mentre sotto di esso la vita continua a manifestarsi e, nei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, con le galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera.

Ognuna di queste microstagioni, come detto, nella cultura nipponica assumono anche valenze estetiche e intime. Il canto dell’usignolo, ad esempio, è spesso presente nella poesia giapponese per rappresentare, oltre l’arrivo della stagione primaverile, «la consapevolezza malinconica della transitorietà delle cose» mentre la carpa, per le sue qualità di forza, vitalità e perseveranza, si ritiene possa portare fortuna, ricchezza e positività. Alla carpa è legata anche l’antica leggenda della “Porta del drago” che la celebra come esempio di forza e perseveranza necessarie al conseguimento degli obiettivi della propria vita.

Nei tempi antichi la foschia primaverile che avvolge i piedi delle montagne veniva paragonata all’orlo del kimono indossato da Sao-hime, la giovane dea della primavera immaginata nella sua veste candida e soffice come la nebbia primaverile. Le suggestioni del paesaggio avvolto nella foschia primaverile, scrive Santagostino, richiamano il termine yūgen che allude al mistero e all’ambiguità delle cose rarefatte, indistinte, incerte di cui è pervasa la natura. «Yūgen è la bellezza che possiamo percepire in un oggetto, anche se non immediatamente riconoscibile e non vista direttamente. Yūgen è suggestione, memoria persistente, retrogusto o implicazione». Nella cultura zen si ricorre a tale termine per il suo «comunicare naturalezza, effimera bellezza e mutevolezza, così come il vento che si sente soffiare ma non si vede e l’acqua che scorrendo cambia continuamente stato e forma. Yūgen è bellezza latente che va scoperta con l’immaginazione». Nel mondo giapponese il concetto di yūgen ha influenzato la letteratura, la pittura, il teatro e l’architettura, finendo per divenire un termine di uso comune nella cultura nipponica.

La microstagione in cui i bruchi iniziano a trasformarsi in farfalle e la comparsa dal nulla di queste ultime è stata vista in Orente, fin dall’antichità, come simbolo di rinascita e come incarnazione dell’anima. In Giappone, ricorda Santagostino, antiche credenze popolari vogliono che gli spiriti dei defunti assumano proprio la forma di una farfalla nel loro viaggio verso l’altro mondo, oppure che gli spiriti dei morti vengano guidati dalle farfalle nel loro percorso. Nella cultura giapponese, per la sua grazia e bellezza, la farfalla è anche associata alla femminilità, e non manca di essere vista come segno di buna fortuna per incontrare l’anima gemella. Il motivo della farfalla lo si ritrova spesso nelle decorazioni per i matrimoni e sugli yukata e sui kimono delle giovani. Nel periodo Edo, il soggetto della farfalla è ricorrente nelle opere degli artisti ukiyo-e come Utagawa Hiroshige, Kubo Shunman, Yanagawa Shigenobu, Totoya Hokkei e Utagawa Toyokuni.

Se la comparsa primaverile dei fiori di ciliegio si lega all’antica tradizione hanami (visione dei fiori di ciliegio), è nel periodo Heian (794-1185) che, negli ambienti aristocratici, si iniziò a guardare ad essi come simbolo dei fiori primaverili, tanto da venire celebrati attraverso poesie waka e feste dedicate alla fioritura che avrebbero poi condotto, nel corso della società dei samurai, alla “visione dei fiori di ciliegio” che, nel periodo Edo, sarebbe poi divenuta parte della cultura popolare. «Ciò che i giapponesi ammirano dei fiori di ciliegio», sottolinea Santagostino, «non è solo la bellezza, ma anche la loro transitorietà, per questo l’hanami porta con sé un vago senso di malinconia e rimpianto per la fugacità della vita, per il passare inesorabile del tempo e per l’impermanenza di ogni cosa».

Per ognuna delle 72 stagioni, la studiosa si sofferma sulle cerimonie, le feste popolari e le rappresentazioni artistiche che le caratterizzano e per i colori che in qualche modo le caratterizzano, segnalando non solo gli aspetti simbolici, ma anche le pratiche per ottenerli in modo da poter essere utilizzati nei dipinti e nei tessuti. Con riferimento alla quarantaduesima stagione (Nogi sunawachi minoru), tra il 2 ed il 7 settembre, ad esempio, quando si giunge alla maturazione del riso e ci si avvicina al raccolto, e i campi si colorano di giallo, la studiosa si sofferma sul colore azzurro dei fiori mattutini della tsuyukusa, o “erba della rugiada” che compare a chiazze sulle rive dei torrenti e ai lati delle strade, utilizzati in passato per tingere la stoffa e per ottenere il pigmento blu che si ritrova in numerose xilografie Ukiyo-e del XVIII e XIX secolo.

A proposito della cinquantasettesima stagione (Kinsenka saku), tra il 17 ed il 21 novembre, caratterizzata dalla fioritura del narciso, il “fiore nella neve” elegante e dalla tenue fragranza, che compare all’inizio dell’inverno, apprezzato nell’arte dell’ikebana, Santagostino si sofferma sul colore delle “foglie verdi marcite” (Aokuchiba), «una sfumatura tra verde opaco e marrone giallastro, molto usata nei tessuti e nelle pitture tradizionali», spesso presente nelle vesti di corte del periodo Heian, «considerato un colore elegante e malinconico citato negli antichi elenchi cromatici per la stratificazione dei colori nei kimono di corte».

Riferendosi alla sessantaseiesima stagione (Yuki watarite mugi nobiru), 1-4 gennaio, caratterizzata dal germogliare del grano sotto a neve, l’autrice del volume si sofferma sulla prima raccolta di illustrazioni dedicata all’osservazione dei fiocchi di neve (Sekka Zusetsu) sul finire del periodo Edo, realizzata da Toshitsura Doi. «Il metodo che utilizzava per osservare la neve era sorprendentemente raffinato per l’epoca. La notte prima di una prevista nevicata, faceva raffreddare all’esterno un telo di stoffa nera. Durante la caduta della neve, i fiocchi si adagiavano delicatamente su questa superficie scura. Poi, con estrema cura, Toshitsura li prelevava con una pinzetta e li disponeva su una tavoletta nera laccata per aumentarne il contrasto. L’osservazione avveniva tramite uno strumento importato dai Paesi Bassi: il “Lan Mirror”, un microscopio occidentale che permetteva di ammirare i minimi dettagli delle strutture cristalline». La catalogazione di Toshitsura, “il Signore dei fiori di neve”, oltre che rivelarsi un’attenta opera di osservazione scientifica, mostra anche «come la bellezza della natura abbia influenzato profondamente il gusto estetico e la moda del Giappone premoderno».

Affrontando l’ultima delle 72 stagioni (Niwatori hajimete toya ni tsuku), tra il 30 gennaio ed il 3 di febbraio, caratterizzata dalle galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera, Santagostino ricorda come, prima dell’industrializzazione dell’avicoltura, in condizioni naturali le galline tendessero a rallentare, quando non a sospendere, la deposizione di uova in inverno, dunque le poche uova raccolte nei mesi più freddi fossero considerate particolarmente preziose. In particolare, le uova deposte il primo giorno del “Freddo maggiore” venivano considerate di buon auspicio. «Fin dall’antichità, le galline sono state considerate uccelli sacri perché annunciano l’alba, segnando il passaggio dalla notte, tempo degli dèi e degli spiriti, al giorno, in cui l’attività umana riprende. Proprio per questo motivo, sono simbolicamente perfette per annunciare anche la fine del lungo inverno».

Per quanto i cambiamenti climatici abbiano scombussolato i ritmi naturali su cui era stato pensato, l’antico calendario delle 72 stagioni ha ancora oggi molto da dirci e il volume di Roberta Santagostino, impreziosito da una miriade di illustrazioni, ha il merito non solo di esporre al lettore occidentale un universo culturale lontano e poco conosciuto, ma anche quello di suggerire la necessità impellente di un approccio alla natura altro rispetto a quello dello sfruttamento sconsiderato e (auto)distruttivo contemporaneo. Il calendario tradizionale scandito in attimi della tradizione nipponica suggerisce la necessità di imparare nuovamente ad aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi, oltre le distese di asfalto, di cemento armato e di schermi in cui si è finiti a vivere.

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Agonie di vivi e desolazioni di spettri (Victoriana 60) https://www.carmillaonline.com/2025/12/12/agonie-di-vivi-e-desolazioni-di-spettri-victoriana-60/ Fri, 12 Dec 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91285 di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della [...]]]> di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della scrittura l’appannamento dei fantasmi. Un concerto incerto e ambiguo in cui alla visione si contrappone più frequentemente il suono, la voce, il sussurro o l’urlo.
Sostanzialmente ignota al grande pubblico italiano e del resto talora maltrattata anche da critici anglosassoni, Gertrude Atherton (1857-1948) è stata in realtà una notevolissima testimone del suo tempo – offrendo tra la valanga della sua produzione anche pregevoli prove nel genere oggi noto come weird.
Idealmente collocabile per fantasie e scrittura tra Bierce ed Henry James con un tocco di Dickens, questa signora dalla lunga vita vede cambiare il volto degli USA dov’è nata – a San Francisco, da famiglia abbiente – e il mondo dove ha modo di viaggiare, soprattutto a Londra e nello Yorkshire, in Bretagna e altri luoghi della Francia, a Monaco. Mai a proprio agio nel ruolo di madre e neppure in quello di moglie – né di amante – ha idee radicali nel condannare l’istituzione matrimoniale, nel rivendicare una propria indipendenza come scrittrice, nel supportare il suffragio femminile. Scrive forse troppo e di fretta ma con un buon successo: prevalentemente romanzi di costume – soprattutto vividi quelli di ambiente californiano –, ma anche politici e storici, con fascinazioni nietzschiane e darwinistiche magari non particolarmente originali ma che nel contesto non stupiscono. Comunque sarebbe ingiusto sottostimare una produzione di trentotto romanzi, tre raccolte di racconti, un’autobiografia e parecchie opere saggistiche, lascito di una personalità straordinaria: e lo stile è vivido, interessante. Meritevole, da parte di Hypnos, aver riscoperto l’autrice.
Atherton sopravvive a terremoto e incendio di San Francisco del 1906, e dopo un iniziale disinteresse per le cause della Grande Guerra abbraccia con forza la causa antitedesca a seguito dell’affondamento del Lusitania (1915). Aperta alle nuove arti, scrive persino una sceneggiatura per il cinema a richiesta di Samuel Goldwyn. Ultrasessantenne, sentendosi indebolita si sottopone a pionieristiche (e in seguito screditate) pratiche di ringiovanimento, con raggi X di basso livello sulle ovaie per stimolare la produzione di ormoni – e in apparenza non ne trae svantaggi. A seguito di dialoghi con l’occultista Cora Potter, giunge a ipotizzare di essere la reincarnazione di Aspasia, l’amata di Pericle, e ne trae spunto per romanzi storici di ambientazione anticogreca. A dispetto di una reciproca svalutazione come scrittrici, avvia anche un rapporto di piacevole frequentazione con Gertrude Stein. Scrive quasi fino alla fine e muore dopo la conclusione del Secondo conflitto mondiale, testimone inquieta del mutare dei mondi.
Che i suoi racconti weird rivelino dei nervi scoperti non è strano: la morte della nonna che è costretta a baciare cadavere, la morte di un figlio bambino (a seguito della quale prende a scrivere), e quella del marito su una nave verso Valparaiso (con l’impressionante conseguenza del corpo riportato a San Francisco in una botte di rum) sono solo tre degli eventi traumatici della sua vita. A seguito della lettura del macabro “Il guardiano dei morti” di Bierce (1889) gli scrive indignata per l’effetto scioccante recatole, evidentemente a traino di fatti vissuti.
Del suo canone weird, di cui Joshi valorizza nove titoli, l’edizione italiana propone sette racconti: tutti, appunto, dipanati attorno alla soglia ultima. Senso del macabro, orrore del trapasso, speculazioni sul rapporto sfuggente tra anima e corpo, miserie di età e di patologie: un orrore inscenato con spiegata eleganza. Troviamo così storie quasi bierciane di agonie, come nei racconti di orrore psicologico “La morte e la donna” (1992), che schiude a una potenziale sovrannaturalità solo in termini ambigui e ipotetici, “Una tragedia” (1893) dove a morire sono anzitutto – inaccettabilmente – le speranze di una vita, “La cosa migliore per tutti” (1900, 1905) in cui coscienza e approccio darwinistico vengono a collidere con intensità quasi intollerabile. In altri casi la morte erompe con la sua “tragica impersonalità”, come nel raggelante “Acque assassine” (1896, 1900), o ristagna nel dubbio (anche qui, nessuna certezza nel palpitare d’un fantastico alla Todorov) di possibili reincarnazioni, come nel bel “La campana nella nebbia” (1903), dove la presenza perturbante di una bimba incantevole strania un protagonista sosia di Henry James.
In questi casi il racconto mette in primo piano coppie di persone diversamente assortite, mentre un paio di testi evocano dimensioni corali: in particolare i due dove l’autrice, quasi a eco dei propri viaggi attraverso gli USA e nel Vecchio Mondo, lavora sul tema del lungo convoglio di morti o di vivi. Il topos è antico, ma la resa è molto originale. Ne “Le caverne della morte” (1886) al filtro del sogno di una notte di vigilia natalizia corrono veicoli dalla natura incerta che paiono prefigurare il bianco e nero del muto Il carretto fantasma di Victor Sjöström (1921): conducono a un Ade in cui permangono e ristagnano le follie e le vanità degli uomini – un’allegoria onirica, in tutta evidenza, che parla più del mondo dei vivi che di credenze (dubbie, nel caso di Atherton) in un aldilà. Mentre struggente è “Un cimitero inquieto” (1902) che incuriosirebbe Bernanos, morto per inciso lo stesso anno della Nostra: dove in un angolo del Finistère bretone il passaggio dei nuovi lunghi e fragorosi treni risveglia penosamente i morti, tra il dolente imbarazzo del vecchio prete e l’insoddisfazione di una giovane contessa morente (l’ennesima agonia), già “sepolta” socialmente in quella zona isolata.

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Il nuovo disordine mondiale / 31 – Le guerre del Nord e il futuro degli equilibri geopolitici ed economici mondiali https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/il-nuovo-disordine-mondiale-31-le-guerre-del-nord-e-il-futuro-degli-equilibri-geopolitici-ed-economici-mondiali/ Wed, 10 Dec 2025 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91754 di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal [...]]]> di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal mare di ghiaccio che corrisponde al nome di Artico ricorda per più di un motivo la saga della corsa all’oro del Grande Nord che l’autore americano narrò oppure utilizzò come sfondo in molti dei suoi romanzi e racconti.

Un Nord gelido, al limite della sopravvivenza umana, che nasconde grandi tesori verso cui uomini (un tempo) e governi avidi di ricchezze e risorse (in quello attuale) indirizzano i propri sforzi e la propria forza muscolare oppure militare al fine di appropriarsene. In questo facilitati e stimolati, oggi, dal generale riscaldamento climatico che ha definitivamente reso possibili tali iniziative o perlomeno i tentativi di realizzarle.

Infatti, secondo le più recenti analisi del Copernicus Climate Change Service, il 2025 è destinato a classificarsi come il secondo anno più caldo mai registrato insieme al 2023, subito dopo il 2024. Analisi che hanno evidenziato come la media triennale 2023-2025 stia per superare la soglia critica di 1,5 gradi. Un risultato che non rappresenta un semplice dato statistico, ma la conferma di un riscaldamento globale sempre più veloce. Cosa che ha contribuito a far rilevare come il mese di novembre abbia visto registrare anomalie di caldo particolarmente marcate in Canada settentrionale e lungo l’Oceano Artico, dove il ghiaccio marino artico ha mostrato una riduzione del 12% rispetto alla media di riferimento, il secondo valore più basso mai osservato per lo stesso mese1.

Così i buoni e i cattivi di oggi, nel nuovo grande romanzo della conquista del Nord polare, non sono più i desperados, i nativi americani, i violenti e i famelici, ma spesso sfortunati, cercatori d’oro che hanno animato le pagine e le vicende vissute in prima persona e poi narrate romanzescamente da London tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. No, i protagonisti di La legge del Nord sono prima di tutto gli Stati Uniti con i loro attuali interessi globali insieme a Canada, Islanda, Groenlandia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Russia e, in una più ampia e dinamica prospettiva, la Cina.

Tutti stati che si affacciano sull’Artico e la cui estensione territoriale potrebbe definire le dimensioni delle fette di torta, proporzionali alle parti di territorio di ognuno degli stessi compreso al di là del circolo polare artico, destinate a spartire le ricchezze di quel continente. E anche se la Cina non confina con l’area interessata, sicuramente è enormemente interessata alle nuove rotte marittime che il riscaldamento globale già permette e sempre più permetterà di aprire nel prossimo futuro.

Rotte che abbrevieranno di parecchie settimane il trasporto delle merci da un capo all’altro del mondo, così come già è successo con l’utilizzo delle rotte tracciate sul settentrione del pianeta per il traffico aereo destinato al trasporto di merci e passeggeri. Una autentica rivoluzione marittima che potrebbe avere gli stessi effetti sull’Europa, in particolare mediterranea, che già ebbe quasi sei secoli fa l’apertura delle rotte atlantiche per i traffici e i commerci intercontinentali.

L’autrice, Mary Thompson-Jones, è tra le massime esperte mondiali di sicurezza nazionale, con esperienza nel campo della marina militare e della geopolitica delle rotte oceaniche. Già Foreign Service Officer ha ricevuto incarichi diplomatici in Canada, Guatemala e Spagna. Professoressa in Sicurezza nazionale presso l’U.S. Naval War College, e il testo appena pubblicato dalla Luiss University Press è il suo primo libro tradotto in italiano.

Il curriculum professionale dell’autrice indica già di per sé che lo sguardo sulla questione è impostato a partire dagli interessi nazionali, economici e militari, degli USA, ma questo non inficia affatto la lettura che la relatrice dà delle forze e delle contraddizioni in atto in quell’area che, da marginale quale poteva essere considerata dalla politica internazionale, si è trasformata in uno dei possibili epicentri dei conflitti, anche militari, a venire.

Infatti, il rapido scioglimento dei ghiacci artici sta riscrivendo la geografia del potere globale. Sotto questo punto di vista il Grande Nord non è più quello remoto e impenetrabile dei romanzi d’avventura, ma la nuova frontiera della geopolitica contemporanea: una scacchiera dove si intrecciano rotte commerciali, ambizioni militari e crisi climatica. Il disgelo impone una diversa geografia del pianeta, apre passaggi tra continenti e porta alla luce giacimenti di gas e terre rare.

Non è certo un caso che il primo atto strategico del Cremlino dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022 sia stato il varo della nuova «dottrina marittima» del luglio di quell’anno, il cui punto essenziale non riguardava affatto il Mar Nero, ma l’Artico. Senza quel testo, gli obiettivi che esso esplicita e i rapporti con la Cina che implica, sarebbe più difficile comprendere le insistenti pretese di Donald Trump sulla Groenlandia.

La posta in gioco commerciale è potenzialmente immensa, considerato che ancora nel 2018 si pensava che la via artica aperta dal cambio climatico potesse essere navigabile, al massimo, tre o quattro mesi all’anno, mentre l’accelerarsi del riscaldamento globale permette a Mosca, che ha la più potente flotta di rompighiaccio al mondo, di puntare a tenere quella via sempre aperta.

Per questo Pechino ora mira a consolidare nella regione la relazione con Mosca, considerato che già dal 2018 un «Libro bianco» del governo definisce la Cina «uno Stato quasi-artico» e un’«importante parte in causa» nell’area. L’obiettivo è ottenere dal Cremlino un diritto esclusivo di transito, condiviso solo con i russi e in cambio di contenute commissioni, per trasportare prodotti cinesi verso l’Europa e l’Atlantico a costi più che competitivi nei confronti di tutti gli altri concorrenti commerciali.

Secondo il linguaggio ufficiale del governo cinese si aprirebbe così una «Via della Seta polare» fondata sul rapporto privilegiato fra Xi Jinping e Vladimir Putin. Uno dei vantaggi per la grande potenza asiatica, peraltro, sarebbe in direzione opposta: avere una rotta nordica completamente navigabile significa, per la Repubblica popolare, poter portare gas liquefatto e greggio russi verso Shanghai, Shenzhen o Hong Kong senza temere l’eventuale strangolamento occidentale all’altezza dello Stretto di Malacca. Del resto, era stato proprio il blocco anglo-americano di quello snodo nell’Asia del Sud-Est a indebolire fatalmente il Giappone nella Seconda guerra mondiale2.

Il confine tra cooperazione e conflitto è più sottile del ghiaccio che si frantuma e Thompson-Jones andando oltre la cronaca, intrecciando mito e realtà in un fragile equilibrio tra sicurezza, diplomazia e giustizia climatica, fa sì che La legge del Nord dimostri come, tra i ghiacci che si ritirano, si stia decidendo il vero futuro del dominio mondiale.

Questa impostazione permette di interpretare meglio le affermazioni del «Wall Street Journal» che vede gli accordi possibili tra Trump e Putin sulla questione ucraina ruotare, oltre che sul controllo dei giacimenti minerari ucraini, anche sullo sfruttamento dei giacimenti situati in area polare3, ma anche di andare al di là delle semplicistiche letture filo-europeistiche o monotonamente antimperialiste antiamericane fatte a proposito delle “minacce” trumpiane alla Groenlandia e per il suo controllo. Mentre, allo stesso tempo, può anche aiutare a comprendere la centralità che i paesi dell’Europa del Nord hanno assunto in ambito Nato e nello svolgimento del conflitto ucraino.

In realtà però, per quanto riguarda gli spazi e le rotte marittime, si tratta di questioni che risalgono alle origini delle società imperiali, per le quali il dominio dei mari ha sempre rappresentato un enorme vantaggio, tanto da far parlare gli storici di autentiche talassocrazie a proposito di quelle come Atene, Roma, Portogallo, Spagna, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e magari domani la Cina, considerato il numero e la qualità delle portaerei già varate oppure messe in cantiere dalla marina militare della Repubblica popolare, che in epoche successive hanno fondato e sviluppato la propria espansione e la propria potenza, sia economica che militare, sul controllo e il dominio, prima, del Mediterraneo e, successivamente, degli oceani.

Una questione che fin dagli inizi del Novecento e, successivamente, per tutto il XX secolo si era spesso identificata nella divisione principale tra due grandi aree geopolitiche del continente euroasiatico: l’Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in tre zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

L’ideatore del concetto di Heartland era stato un generale britannico, Sir Halford Mackinder, che lo sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya. Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia.

A “coglierne” in pieno il significato politico fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del Reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, sarebbero poi stati ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco accusato di essere vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale4.

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio The Influence of Sea Power in History, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarebbe poi stata ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarebbe diventato il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder. Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo era formato dalle regioni costiere, che egli definiva “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensava che gli USA, in un modo o nell’altro, dovessero controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica e nulla impedisce di cogliere come tale teoria sia valida ancora oggi per gli Stati Uniti, dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea.

Ma è chiaro che la situazione cui si accennava più sopra, venutasi a creare con lo scioglimento dei ghiacci polari artici, richieda una sorta di cambio di strategia transcontinentale e marittima da parte degli USA. Motivo per cui le apparenti “smargiassate” di Donald Trump, sul Canada come 51° stato dell’Unione o dell’occupazione della Groenlandia a discapito della Danimarca, rispondono in realtà alla necessità di una nuova strategia difensiva-offensiva.

Sicuramente uno degli elementi che spingono in tale direzione è costituito dal riscaldamento delle acque settentrionali della Russia, cosa che ha fatto sì che Putin e i suoi strateghi, nonostante le sanzioni imposte ai suoi commerci successivamente all’invasione dei territori ucraini, abbiano potuto ipotizzare e sperimentare:

una rotta che permette di navigare dall’Asia all’Europa risparmiando tempo e denaro, la rotta marina artica russa (o rotta del Nord – Northern Sea Route, Nsr). La Nsr va dallo stretto di Bering al mare di Barents, per una distanza di circa 5470 km. In condizioni ottimali, riduce distanza e durata del viaggio dal 35 al 40% rispetto alla consueta rotta attraverso il canale di Suez. Per esempio, il viaggio di una nave dalla Corea del Sud alla Germania non durerebbe più 34 giorni, ma 23.
La Nsr nonè una novità. Già negli anni Ottanta dell’Ottocento, una nave finanziata da Svezia e Russia riuscì a percorrerla. Nel 1934, i sovietici vi mandarono una nave rompighiaccio, e continuarono a navigarla soprattutto per piccoli spostamenti da un avamposto artico all’altro, finché gradualmente non venne accantonata. «Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, l’utilizzo della rotta terminò quasi del tutto, e il tonnellaggio dei carichi calò a picco, persino tra una città russa e l’altra. Oggi, con l’aumento delle temperature, ci si aspetta che la costa nord, un tempo una frontiera ghiacciata, possa diventare un’animata rotta per la navigazione5 »6.

Osservazioni dell’autrice del libro cui, però, vanno aggiunte quelle recentissime di Mauro De Bonis, giornalista esperto di Russia e paesi ex-sovietici, sul numero 10, ottobre 2025 di «Limes»:

La via d’acqua polare lavora attualmente a basso regime. Oltre alle turbolenze geopolitiche dovute al non roseo rapporto russo-occidentale, la rotta è ancora poco navigabile e quando lo è resta soggetta a regole e vincoli che scoraggiano le compagnie straniere dall’utilizzarla. La Federazione Russa, in base all’articolo 234 della convenzione Onu sul diritto del mare, ne regolamenta la navigazione visto che il percorso si snoda all’interno delle acque comprese nella propria Zona economica esclusiva. Mosca concepisce dunque la rotta come un sistema di trasporto nazionale unificato e storicamente consolidato. E ne stabilisce le regole di utilizzo, come il dovere di preavviso per navi militari di altri paesi che intendano percorrerla e conseguente autorizzazione. Oppure un sistema di tariffe a oggi meno conveniente di quello applicato a Suez ola norma sancita da Rosatom7 che costringe i cargo di passaggio a utilizzare il supporto di navi rompighiaccio. Inutile dire che Stati Uniti e satelliti europei rifiutano la lettura russa della gestione artica, e che le compagnie di navigazione occidentali ne trascurano per il momento la convenienza.
Così, a solcare il tragitto artico, oltre alle russe, restano le navi cinesi, che nel 2024 hanno raddoppiato la presenza e rappresentato il 95% dei carichi in transito. L’anno passato ha registrtao 37,9 milioni di tonnellate di merci trasportate lungo quelle acque polari, tonnellate che dovranno diventare 109 entro il 2030 secondo quanto stabilito dal Cremlino. Obiettivo ambizioso ma raggiungibile, almeno stando ai dati snocciolati da Maksim Kulinko, della direzione rotte marittime di Rosatom, sicuro che proprio entro fine decennio il trasporto attraverso itinerari artici diventerà consuetudine, con un tempo medio di transito garantito per l’intero arco dell’anno di soli dieci giorni. A salvaguardia di questo tesoro d’acqua, della sovranità sulla Zona economica esclusiva, dei suoi interessi economici, delle ricchezze minerarie e aree contese nella regione, daMosca si procede a un rafforzamento della capacità militare presente lungo la rotta e al necessario aumento della flotta di navi rompighiaccio8.

Alla luce di quanto fin qui scritto, diventa più facile individuare alcuni dei motivi che hanno fatto sì che l’incontro ufficiale tra Trump e Putin sia avvenuto il 15 agosto 2025 nella base militare di Elmendorf-Richardson ad Anchorage, in Alaska, e questo rende anche evidente come tale incontro al suo interno abbia obbligatoriamente affrontato temi che sono andati ben al di là della questione ucraina. Considerata anche l’irrilevanza numerica della flotta di navi rompighiaccio statunitensi a fronte di quella già attuale russa, quasi interamente composta da navi a propulsione nucleare, e il problema rappresentato, già ora e non soltanto in prospettiva, dal traffico navale artico cinese.

Problemi e prospettive, sia di accordo che di conflitto, che sicuramente la potenza, pur declinante, statunitense preferisce trattare con il gigante russo accantonando i nani europei. Come Mara Morini che, sulle colonne del «Domani», ha sottolineato: «i due presidenti (Putin e Trump) sono in sintonia perfetta nell’accerchiare e isolare l’Unione europea senza alcuno scrupolo»9. Sintonia dovuta non solo a una scelta di Trump e del suo entourage, ma derivante dalla storia della strategia americana di condivisione di prospettive geopolitiche, militari ed economiche con la Russia, oggi, e l’Unione Sovietica, ieri, che risale, al di là delle leggende narrate dopo il 19455 e in età, altrettanto leggendaria, di “Guerra fredda”, almeno ai rapporti instauratisi tra Roosevelt e Stalin già durante il secondo conflitto mondiale, sia durante le conferenze di Teheran (1944)10 che di Yalta (1945).

Il testo edito dalla Luiss University Press si rileva, proprio per questi motivi e molti altri, una lettura utilissima; ricca di dati, osservazioni e commenti indispensabili per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi di quello che abbiamo da tempo definito, proprio su queste pagine, il nuovo disordine mondiale.


  1. Clima, il 2025 potrà essere il secondo anno più caldo mai registrato, «Il Messaggero», 9 dicembre 2025.  

  2. F. Fubini, La «rotta artica» di Russia e Cina: ecco perché Trump vuole la Groenlandia (e a Xi va bene il climate change), «Corriere della sera», 10 gennaio 2025.  

  3. In proposito si veda, tra i tanti, A. Simoni, Il patto tra Usa e Mosca dettato solo dagli affari, «La Stampa», 3 dicembre 2025, oppure il più recente articolo di Alan Friedman, ancora su «La Stampa» del 7 dicembre 2025: Se Putin diventa il partner di Trump.  

  4. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Edizioni Adelphi, Milano 2002 e C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, Milano 1991.  

  5. K. Hille, Russia’s Arctic Obsession, “Financial Times”, 21 ottobre 201.  

  6. M. Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 245-246.  

  7. Rosatom acronimo della Corporazione statale russa per l’energia atomica  

  8. M. De Bonis, Per Mosca l’Artico è russo, in Tutti contro tutti, «Limes», numero 10, ottobre 2025 pp. 66-67.  

  9. M. Morini, La strategia di Putin e Trump. Accerchiare Kiev (e pure l’Ue), «Domani», 4 dicembre 2025.  

  10. Si veda in proposito: J. Dimbleby, 1944. Finale di partita. Come Stalin vinse la guerra, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2025, in particolare il capitolo 5 – I Due Grandi, più uno, pp. 122-138.  

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Pillola Matteotti per tutte le età. Tanta salute e via i bacilli neri https://www.carmillaonline.com/2025/12/09/pillola-matteotti-per-tutte-le-eta-tanta-salute-e-via-i-bacilli-neri/ Mon, 08 Dec 2025 23:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91774 di Luca Baiada

Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, pp. 112, euro 15.

Viene voglia di leggerlo sotto le lenzuola, alla luce di una pila elettrica. E così, guardare le illustrazioni di Toni Bruno, cominciando dalla copertina che sa di battesimo celeste: la scintilla di un martire. Ma qui retorica non ce n’è. Tutti i dati sono frutto di approfondimento e dietro il linguaggio asciutto c’è lo studio. Poi si affacciano tante cose: canzoni, scritte sui muri, volantini. Anche santini, di quelli che sotto il fascismo potevano costare bastonature [...]]]> di Luca Baiada

Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, pp. 112, euro 15.

Viene voglia di leggerlo sotto le lenzuola, alla luce di una pila elettrica. E così, guardare le illustrazioni di Toni Bruno, cominciando dalla copertina che sa di battesimo celeste: la scintilla di un martire. Ma qui retorica non ce n’è. Tutti i dati sono frutto di approfondimento e dietro il linguaggio asciutto c’è lo studio. Poi si affacciano tante cose: canzoni, scritte sui muri, volantini. Anche santini, di quelli che sotto il fascismo potevano costare bastonature o galera (viene in mente il cartoncino, vero, in Porte aperte di Leonardo Sciascia).

Una bella carrellata su vita, formazione e percorso del grande socialista. Matteotti «usa la legge e la capacità di argomentare, che ha imparato studiando giurisprudenza, per difendere i contadini, i braccianti, gli ultimi, contro i privilegi e le angherie». Niente paura, ci sono risparmiate le diatribe teoriche se fosse rivoluzionario o riformista. Lui è un fuoriclasse:

Non è molto d’accordo con quello che i leader del socialismo riformista sostengono e non ne fa certo un mistero! Anzi scrive articoli su diversi giornali e riviste, polemizza, sostiene le sue posizioni anche contro l’opinione dei grandi leader nazionali, interviene nei comizi. È uno che pensa con la propria testa, Matteotti.

Teste pensanti, cosa rara. A riprova, un’interpretazione eccezionalmente lucida su di lui risale a Piero Gobetti, cioè al 1924:

Era rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi – come dicono – : e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole. Questa sicurezza non era sostenuta da una credenza religiosa, ma solo da una fede di stampo austero e pessimistico[1].

Essere tempesta impara il succo della lezione e sintetizza nel formato migliore:

Si dice spesso che la sinistra litiga e si divide su tutto. E forse questo è uno di quei famosi luoghi comuni che possiedono un fondo di verità. Ma Matteotti, anche in questo, appare diverso tanto dai suoi compagni riformisti quanto dai massimalisti: ogni volta che può, infatti, lavora (e spesso con successo) all’unità del proprio partito. […] Soprattutto bada al sodo, questo Matteotti[2].

Così tutti i lettori sono messi di fronte al Tempesta, come lo chiamavano i compagni: un intellettuale applicato che non è in vendita, un socialista energico che fa, senza innalzare castelli dottrinari. Un uomo che salda già nelle sue radici Risorgimento e lotta di classe. Il Polesine è terra di Carboneria, con la Congiura della Fratta, e a fine Ottocento di moti contadini, quelli di «la boje, la boje e de voto la va de fora»[3]. Terra di fame e pellagra, ma poi di conquiste sociali: riduzione dell’orario di lavoro, imponibile di mano d’opera, camere di consumo.

La Grande guerra è lo spartiacque tra cose serie e contraffazioni. Da un lato i fatti, dall’altro le vuote retoriche di Mussolini e di tutti gli agitatori e declamatori che poi tradiscono il popolo. Matteotti vede lontano:

Accusa gli uomini come Mussolini di essere «capaci di porre come dogma assoluto per ogni luogo e tempo quello che dieci minuti dopo rinnegheranno». Non si stupisce che «il predicatore delle maggiori intransigenze» voglia ora collaborare con gli industriali e il governo per portare l’Italia in guerra, perché questo socialista di provincia, abituato a lavorare sodo senza urlare troppo, non crede a chi la rivoluzione la vuole fare solo a parole[4].

Ottimo, che i giovanissimi leggano: sanno distinguere i bulli al volo. Ogni vittima di bullismo è un antifascista in erba che può diventare quercia.

Ma ad ogni età, in Essere Tempesta si incontra la storia di un libro formidabile: Un anno di dominazione fascista. Matteotti lo scrisse poco prima di morire; volle metterci all’inizio la denuncia dell’amministrazione fraudolenta e dopo, a seguire, l’elenco delle violenze fasciste. Valerio Renzi ne dà conto rispettando l’ordine originale, benone. Così è chiaro che i fascisti sono sciatti ladri con le mani insanguinate, non severi costruttori di nazioni a prezzo di crudeltà. Matteotti se ne rende conto subito, mette a nudo la situazione e smonta ginnastiche parolaie e falsificazioni contabili:

I fatti, alla fine, hanno la testa dura. Me lo immagino, Matteotti, convinto di questo mentre è preso nella stesura febbrile dell’opera, fatta mettendo insieme migliaia di documenti. Sappiamo dai suoi familiari e collaboratori che ci teneva tantissimo, tanto da portarlo a termine di notte, togliendo tempo al sonno.

Onirica, qui, l’illustrazione di Bruno, col socialista che corre sui tasti della macchina da scrivere. Ebbe davvero questo incubo? Chissà.

È valorizzata la seduta celebre: 30 maggio 1924, alla Camera; a giugno morirà di pugnale. In quel discorso di Matteotti verità e vita rifluiscono l’una nell’altra, segnando il destino che un uomo scrive con le scelte. Chi legge è accompagnato nel contesto per una scossa salutare:

Immaginate di essere in quell’aula, dove ormai la maggioranza dei deputati è fascista o è stata eletta grazie al fascismo […], e di dover prendere la parola non solo per denunciare le violenze ma per chiedere che le elezioni vengano annullate formalmente. Immaginate di parlare e di dire tutto questo in faccia ai capi di quelle squadracce che vi hanno fatto sequestrare e picchiare, che vi hanno messo al bando dalle vostre terre, che vi minacciano quotidianamente.

In quella seduta il fascismo è denunciato come regime, ma nell’insieme, non solo per i singoli episodi violenti: «C’è il riconoscimento della fine della legalità democratica: le elezioni vanno invalidate perché chi detiene il potere non avrebbe comunque accettato di perderle». Sullo sfondo della situazione di allora c’è qualcosa – con altre misure e altri mezzi, certo – da accostare alla fanfara suonata oggi in Italia dalla destra, e dieci anni fa dal governo Renzi. Le sue note irritanti sono fatte di investitura popolare autodichiarata, dagli accenti mistici e olimpici, oppure di toni perentori, di proclami a effetto, di vanterie su successi epocali; tutto questo mentre si proteggono gli interessi di pochi ambiziosi e dei loro referenti di classe.

Lasciamo a chi legge la ricostruzione incalzante del delitto, del clima febbrile delle ricerche della salma, del funerale; insomma di quei mesi sconvolgenti del 1924 quando il fascismo vacillò e poi si riprese. Vediamo solo come è presentata la Ceka del Viminale, una banda di sicari:

A Mussolini serviva uno strumento con cui essere sicuro di colpire i nemici. Un’organizzazione segreta ai suoi ordini diretti, composta da uomini con una certa esperienza e senza scrupoli, e che agisse in modo diverso dallo «spontaneismo» dello squadrismo.

Un buon modo, che parte da lontano, per ragionare anche sulle cellule fasciste che dagli anni Sessanta in poi, con ramificazioni e implicazioni sino ai «mondi di mezzo» della malavita, sono servite per compiere delitti atroci. Il sacrificio di un eroe fa chiare le cose. E a certi eroi, come al vino buono, il tempo dà più sapore.

Sul movente dell’assassinio si dà conto con cautela della pista del petrolio (l’affare Sinclair), una vicenda intricata da non sopravvalutare. Quella pista è un elemento collaterale; Stefano Caretti la esclude decisamente[5], Valdo Spini la considera un movente «per far buon peso» insieme a motivi ben più profondi per uccidere il socialista[6]. Ecco una considerazione interessante:

Matteotti l’aveva subito intuito e già l’aveva messo nero su bianco in Un anno di dominazione fascista: fin dalla sua nascita il fascismo, mentre annuncia di tagliare le spese inutili e gli sprechi e di lottare contro la corruzione, si caratterizza come una cleptocrazia, in cui a ogni livello gli uomini del fascismo utilizzano la loro posizione per riempirsi le tasche, e per favorire gli imprenditori privati o gli elementi più disposti a versare mazzette e a elargire favori[7].

Chi ha la vita davanti deve capirlo presto: la democrazia ha bisogno di critiche. Quelle sguaiate, però, non vogliono spazzare via la corruzione e lo spreco burocratico, ma la mediazione politica e i contrappesi fra poteri, compresa la garanzia costituita dall’indipendenza del potere giudiziario. Il bullo vuole creare disordine per comandare. Qui, per Bruno, l’ombra del fascio è il tentacolo di una piovra.

Ancora sulla pista del petrolio. Serve a depoliticizzare il delitto Matteotti facendolo slittare nella cronaca e nella criminalità comune. Oggi accade qualcosa di simile sui delitti Falcone e Borsellino: la destra vuole scartare la pista di alto livello, che coinvolge la politica e le convergenze della criminalità organizzata con apparati dello Stato, e invece privilegiare la pista «mafia-appalti». Se la memoria funzionasse, tenendo presente il caso Matteotti sarebbe più facile respingere le ricostruzioni strumentali di ciò che è accaduto nel 1992.

Al tempo del processo sul delitto Matteotti, quello pilotato e messo in scena lontano, a Chieti («la farsa di Chieti», dissero gli antifascisti), Mussolini manda un messaggio a Roberto Farinacci, segretario del Partito fascista e difensore dei sicari. Avete letto bene: un processo in cui il segretario del partito al governo – un partito con una milizia sua, legalizzata a spese dello Stato – difende i suoi camerati, imputati dell’assassinio del più temuto politico dell’opposizione. E poi dicono che la giustizia è sbilanciata adesso, perché giudici e pubblici ministeri sono colleghi. Là, alla farsa di Chieti, ci voleva la «separazione delle carriere», e più precisamente di quelle nell’apparato fascista da quelle nei diversi ruoli del processo penale.

A proposito. Al referendum costituzionale, la prossima primavera, ricordiamoci della farsa di Chieti, impariamo a distinguere i processi di regime, alla Farinacci, da quelli che non prendono ordini dal governo. Votare NO salva la Costituzione da una pugnalata: lo smembramento del Consiglio superiore della magistratura, i sorteggi al posto delle elezioni, la bulimia del governo, il pubblico ministero che diventa «avvocato della polizia». La strada verso i «pieni poteri». Votare NO è un ottimo regalo alla memoria di Matteotti e di tutti i martiri antifascisti.

Torniamo al messaggio durante il processo farsesco. Mussolini dice a Farinacci che l’Italia non deve «matteottizzarsi», ma cosa intende? Essere Tempesta risponde:

Leggendo questo biglietto di Mussolini mi sono convinto che, in particolare, fosse un certo modo di essere tenace, forse pedante (e quasi pignolo), tipico di Matteotti, che mandasse su tutte le furie il capo del governo. L’implacabilità con cui Matteotti diceva le cose come stavano: date, numeri, cifre, nomi, utilizzando ogni palcoscenico che avesse a disposizione, senza mai perdere un’occasione. L’Italia non deve «matteottizzarsi»: nessuno deve più interrogarsi sulla verità e nessuno deve più dire le cose come stanno[8].

Nessuno deve ragionare e dire come stanno le cose. Altrimenti?

Altrimenti, a seconda dei casi, c’è un trattamento Pier Paolo Pasolini, Peppino Impastato o Mauro Rostagno; se va meglio c’è violenza sulle cose per minacciare le persone, cioè un trattamento Sigfrido Ranucci. Oppure ci sono schedature, ricatti sul lavoro, querele bavaglio.

Ma attenzione. Matteotti ha una sua specificità. Il lottatore aveva qualcosa di davvero temibile: era un giurista, ferrato nell’amministrazione pubblica, esperto di contabilità, organizzatore tenace, oratore instancabile, prosatore tagliente, poliglotta, stimato anche all’estero, attento alle nuove tendenze nel diritto e nell’economia. Ci teneva a controllare anche i compagni di partito: la corruzione apre al giustizialismo becero e agli sbandamenti a destra.

Tutto da ricordare, da apprezzare. Magari godendosi un libro alla luce di una piccola lampadina. Essere Tempesta è chiaro: Mussolini voleva cancellarne la memoria, ma Matteotti non se n’è mai andato. E Bruno riassume col seme della lotta, messo in terra per dare frutti.

 

 

[1] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 25.

[2] Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, p. 15.

[3] Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, p. 15. Recensito qui: Carmilla on line | La pentola bolle, poi Amazon, prima i carbonari e in mezzo Matteotti.

[4] Renzi, Essere Tempesta, cit., p. 19.

[5] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 31-32 e pp. 199-207. Recensito qui: Carmilla on line | Barricate Matteotti: sono di mattoni e resistono al petrolio.

[6] Convegno Giacomo Matteotti, martire e maestro, Cerreto Guidi, 14 settembre 2024, e Monsummano Terme, 22 ottobre 2024.

[7] Renzi, Essere Tempesta, cit., p. 95.

[8] Ivi, p. 105.

 

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Distopie in corpo I e II https://www.carmillaonline.com/2025/12/06/distopie-in-corpo-i-e-ii/ Sat, 06 Dec 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91718 di Franco Pezzini

Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025. Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, [...]]]> di Franco Pezzini


Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025.
Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, senza troppo spoilerare, siamo in un pianeta non-terrestre di un lontanissimo futuro, nel secondo l’Oltremondo si incista in un’Italia futurologicamente prossima e autoritaria dove ai ribelli è possibile intervenire tra le pieghe del tempo. Ma entrambi gli affreschi, di notevole ampiezza e originalità rispetto ai pur individuabili modelli dickiani e ballardiani, cifrano tensioni e provocazioni di un presente inquietantemente vicino.
In entrambi i casi – in modo diverso – la distopia investe in prima battuta lo sguardo, il linguaggio, la voce: come in fondo inevitabile (anche se magari non chiaro a chi di distopie si sia occupato in modo meno profondo), perché sono proprio il modo di vedere e di narrare a costituire il marcatore primo di un mondo collassante. In entrambi i casi l’Homo narrans – protagonista narrante più o meno inaffidabile – si confronta con la ridefinizione di categorie dell’esistenza, di miti, di urgenze personali e collettive: ed entrambi sembrano rispondere in chiave provocatoria al crollo delle istanze del Novecento. Entrambi del resto fanno riferimento a una categoria che sguardo e voce possono scomporre ai minimi termini, ma che resta un’ancora fondamentale al nostro essere Homo, cioè il corpo. Un corpo ibridato nel primo, dove uomo e serpente si mixano, e i regni animale e minerale perdono il rispettivo limes – e non solo nella sfera dell’umano, ma nei serpenti-cavi elettrici, nelle macchine senzienti, nel mistero stesso di una Forza Sovrastante non necessariamente metafisica. Un corpo trattato nel secondo con farmaci e droghe come l’oblivion, e che si sbriciola in un tempo storico magmatico e mai fissato definitivamente, in uno stato perenne di stupefazione. Fino a costringere a domandarci se il protagonista ce la conti giusta, se e quanto sia capace di lucidità. Un corpo in entrambi che alla fine si fa linguaggio, voce – ma non è questa, in fondo, la natura prima di qualunque personaggio letterario? –, traducendosi in comunicazione frantumata e reiterata di stringhe alfanumeriche ne La città dei Serpenti, e in L’Oltremondo in conati espressivi, giochi di parole irriflessi, compulsioni verbali di una mente crackata.
In entrambi i casi, poi, alla storia soggiace una rivelazione radicale, che cioè sia l’essere umano in quanto tale l’elemento distruttivo della realtà: non solo imbullonando orride tecnocrazie autoritarie dove il tradimento e la violenza poliziesca, l’illusione e la menzogna paiono ingredienti fondamentali, ma stabilendo rapporti malsani con meccanismi di servizio e strutture sociali, fino a piagare relazioni personali. In modo diverso e autonomo i due romanzi esplorano l’ambiguità radicale con cui è possibile comprendere il reale: nel primo caso per la scarsa comprensibilità effettiva – a dispetto delle pretese degli “interpreti” – dell’Intelligenza Serpente e le faziosità delle lobby in scena, nel secondo per l’equivoco peso decisionale di intelligenze artificiali brandite da un potere sovranista, per cui a decidere norme e letture ufficiali non sono più camere di confronto umano, ma algoritmi da tecnocrati. Come spiega il protagonista de L’Oltremondo,

succede questo: tutti vorremmo sapere, ma nessuno oggi è più in grado di sapere nulla. È la macchina che sa e che proietta e impone il suo sa­pere intorno all’uomo, creandogli una realtà che lo abbraccia, lo culla, lo ghermisce. Realizzandolo. Rea­lizzando l’uomo.

Tanto più che strumento di distruzione è addirittura quello che offre le due storia come le leggiamo, il linguaggio: ne La città dei Serpenti troviamo esplicitato che

Il vettore della vostra infezione è la tecnologia che voi usate per definire la vostra infezione ▻▻▻ Linguaggio ▻▻▻ il Linguaggio umano usato ora progressivamente adeguato in apprendimento Macchina da noi per comunicare qui ora con la vostra inferiorità ▻ il vostro linguaggio è infetto di infezione ▻ il vostro linguaggio inutile contro la Macchina ▻ la vostra ▻ Parola infetta somministrata emanata in riproduzione tecnologica espansa non necessaria alla Macchina ▻

Cioè comunicazioni ossessive da amministrazione delirante, slogan ripetuti, elenchi di comandi, formule scandite: interessante e dialettico è il rapporto tra la professione di fedeltà degli Agenti della città (“Noi siamo gli Agenti, fedeli ai Serpenti”, una sorta di credo militante alla tutela dell’Equilibrio claustrofobico della città) e la Fede proclamata una volta uscitine. Mentre L’Oltremondo vede contribuire alla grande cospirazione i messaggi di un’influencer ragazzina (username b4by_flu666) e la diffusione del contenuto del Teorema di Lauda, nuovamente a considerare come infezione uomini e linguaggio:

Il professor Lauda, […] osteggiato da tutti gli atenei del mondo e morto in umiliazione e povertà, sostiene che l’uomo sia un virus, al pari del linguaggio ma più letale di esso, come virus. Il lin­guaggio uccide alcune categorie e sottocategorie del pensiero attraverso la selezione di parole e costrutti, dice Lauda, […] mentre l’uomo è con­centrato solo sulla riproduzione della specie, la quale specie si percepisce sempre sul baratro della scom­parsa. Ma la percezione del baratro della scomparsa è dovuta alla modificazione delle leggi naturali che lo sviluppo tecnologico dell’uomo, messo in atto per alimentare la sopravvivenza della propria specie, im­pone al pianeta e all’ambiente da cui l’uomo viene ospitato e di cui l’uomo si fa parassita, dice Lauda, quindi l’uomo fugge la distruzione della specie e lotta contro la sua propria scomparsa che però egli stesso sta architettando in nome di quella stessa sopravvi­venza della specie guidata e garantita dello sviluppo tecnologico che distrugge l’ambiente ospite del virus-uomo […].

In un caso e nell’altro il punto di riferimento con cui fare i conti sono le macchine: a contrastarle, una società ibrida di uomini & serpenti o invece una rete clandestina che tra varie strategie di lotta usa l’oblivion per aprire fenditure nel tempo e versioni modificate della Storia: i serpenti che prendono – tra lo sconcerto generale – a divorare se stessi come urobori evocano in fondo la possibilità che la Storia come la conosciamo sia finita, si riduca al loop di un ciclo e si possa solo stagnarci dentro.
In un caso e nell’altro un potente linguaggio mitico sottostà all’invenzione narrativa. La paranoica città dei serpenti del primo titolo è simbolizzata in un cranio, come il Golgota del cranio di Adamo, e l’ambiguità del serpente dell’Eden è il suo statuto costituzionale: in luogo dello sguardo terapeutico al Nehustan, il serpente di Mosè, sono previste immersioni “terapeutiche” degli Agenti in vasche di serpenti, che insieme possono però far pensare (in chiave di morte rituale, iniziatica) a quella in cui muore l’eroe vichingo Ragnarr catturato da Ælla di Northumbria. Alle vasche di serpenti del primo romanzo corrispondono idealmente i trattamenti farmacologici del secondo – entrambi imposti perché funzionali a equilibri d’un potere. Ma ne L’Oltremondo, persino più provocatoriamente politico e apertamente critico, si recuperano, in un presente racchiuso come nel cerchio uroborico o in un tempo mitico del Sogno, figure storiche (come Osip Ivanovich Komisarov, coperto di imbarazzanti onori per aver salvato la vita dello zar Alessandro II durante un tentativo di assassinio, Gavrilo Princip, lo studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, o magari Alberto Magno e la sua testa meccanica) o scorci del passato (Paesi Bassi 1469, Canada 1940, riprese dal set di The Circus del 1928), a iniettare nel presente sovranista elementi di discredito, frattura e fragilità. “Tu sai che il tempo è un sogno, […] e la vita è tempo”.
Certo i due romanzi conducono in direzioni diverse: il fanatico e vigoroso protagonista del primo, l’Agente 1 Kajus, riesce a uscire dalla Città-Teschio dei suprematismi Bianchi e Neri e la storia può continuare altrove, mentre nel secondo più amara è la parabola del povero Don, docente (di storia, non a caso) espulso dall’università, sedato coattivamente in un paese dove la svolta finale autoritaria è imposta – guarda caso – da una riforma della giustizia e il dissenso è liquidato in patologia. Ma in entrambi i romanzi crepitano lingue furiose a concedere al lettore non pigro e non timido davvero molto, in termini di forza espressiva e macchine per pensare.

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Il lungo sogno di Liliana Cavani https://www.carmillaonline.com/2025/12/05/il-lungo-sogno-di-liliana-cavani/ Fri, 05 Dec 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91085 di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere [...]]]> di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere autobiografico riferita alla pensatrice francese e relativa alla sua esperienza in fabbrica, implicitamente cita il celebre Diario di fabbrica, dolorosamente vissuto e scritto da Simone Weil alla metà degli anni Trenta del Novecento. Così l’autoritratto di Simone Weil operaia in fabbrica, in Liliana Cavani agisce come una struttura di risveglio, qualcosa che ricorda addirittura «Francesco», il santo di Assisi cui la regista di Carpi dedica il film televisivo del 1966 e il lungometraggio del 1989.

Come Francesco, così la pensa Liliana Cavani, Simone Weil «partecipa con tutta sé stessa» alle cose del mondo, rapita nel suo più spontaneo, reale atteggiamento di donna in medias res, di creatura calata «dentro la vita sociale», nella realtà. E ciò tocca un vertice nel momento in cui le due linee biografiche, quello della mistica e quella del poverello, si ‘incontrano’ proprio ad Assisi, il luogo in cui Simone Weil finalmente si reca a «trovare un fratello naturale». Di Simone Weil, di una tale «persona eccezionale» e della sua inclinazione umana, la sceneggiatura che Cavani scrive con Italo Moscati racconta la storia. È la vicenda esistenziale di una donna di passioni totali, una donna «che vuole vedere e capire», che «vuole partecipare» alla vita dell’inerme, del sofferente, del debole, dell’«indifeso», e che desidera, in realtà, conoscere il «vissuto» umano dall’interno, incardinata, ripiegata essa stessa proprio in quel concetto di interno equivalente a un’esperienza dal vero: il lavoro in fabbrica, e dunque il lavoro in campagna. E c’è anche altro. Per utilizzare due categorie care a Richard Sennet nell’Uomo artigiano, per Simone Weil si tratta di attraversare la linea di senso che corre da un modo all’altro di abitare il mondo del lavoro, il modo dell’homo faber e quello dell’animal laborans.

Così la sceneggiatura per un film mai realizzato su Simone Weil appare la descrizione di un «vissuto» totale, la ricerca di tracce in una travagliata, splendida biografia i cui salienti rimandano l’immagine di una figura grandiosa, di una pensatrice ritratta, tra le varie, radicali esperienze esistenziali, in un unico possibile luogo, inalterabile, sempre uguale a se stesso, nel cuore profondo dell’umano.

Così nelle aule del Liceo di Puy come per le strade della cittadina francese, tra la lezione scolastica e il lavoro di attacchinaggio notturno, la prima immagine di Simone Weil risponde a quella di una creatura alacremente all’opera. Ma tale opera non è solo impegno, è anche analisi, interpretazione, scrittura, pedagogia, cioè la disponibilità intelligente per l’altro, per la sua coscienza culturale, politica. La pensatrice si fa così testimone, o meglio «messaggera del vangelo marxista», secondo la definizione datane da un poliziotto, in sceneggiatura fissata nel suo colloquio con un commissario. È, questa, una prova evidente dell’engagement in Simone Weil. Esso emerge, già nella parte iniziale della sceneggiatura, nel corso di una «riunione dei professori» del Liceo Puy. Qui troviamo una prova relativa al suo metodo di pensiero, alla visione diretta e non tradita dei «reali problemi», insomma al mestiere di intellettuale impegnato e disorganico, cioè qualcosa che restituisce, forse più trivialmente, l’epiteto pronunciato dal bidello del Puy per indicare Simone Weil come una «Sporca marxista!».

La sceneggiatura di Cavani, la cui cifra strutturale e formale è fondata sull’interpellazione dello spettatore, dunque sull’intervista a più testimoni, dal compagno operaio all’infermiera del sanatorio britannico, in Simone Weil ritrae una voce aperta, a sua volta interpellante, un’intervistatrice inattuale, una voce che indaga, domanda, denuncia e al potere chiede risposte, come accade nella visita alle Fonderie Bernard. Qui la professoressa, per la prima volta intuisce la necessità di un’esperienza operaia personale, poiché avverte la parzialità di ogni giudizio sul lavoro se il lavoro non è svolto, vissuto sul campo. Il tracciato biografico di Cavani, infatti, espone la vita di fabbrica di Simone Weil alle Officine Lecourbe, nell’inferno del «lavoro alla pressa», aggiogata all’oggetto di una tortura interminabile, il «pezzo», e nell’affannoso tormento di una mostruosa «cadenza»: realizzare ottocento pezzi l’ora.

A tale riguardo, agli amici sindacalisti Claudius Vidal e Paul Simone Weil confessa di voler «conoscere sulla pelle» l’esperienza di operaia alla catena, e in segreto scrive il diario, tra inclinazione scientifica e indagine antropologica, di un martirio. È quindi rappresentata la condizione inumana di chi, tra la pressa e, in seguito, l’altoforno, sa che dovrà «smettere di pensare» per diventare essa stessa la macchina davanti a sé, mutando così la propria identità intellettuale in quella di una anonima «schiava». A Claudius Vidal, che idealmente l’ascolta in una sua meditazione solitaria, Simone Weil confessa che «davanti alla macchina si deve uccidere la propria anima per nove ore al giorno». L’esito più catastrofico del lavoro in fabbrica, cui la sceneggiatura di Cavani dedica il corpo centrale, è la perdita della «spensieratezza», lo stato di un’anima che finalmente si ritiene perduta al «termine» di una logorante esperienza.

Dopo aver richiesto e ottenuto un congedo bimestrale dal Liceo di Bourget, dove insegna dopo l’estenuante parentesi di operaia in fabbrica, Simone Weil è in viaggio. La memoria culturale, umana, del periodo di lavoro, in sé informa anche l’altra grande decisione della sua vita: «combattere» in Spagna contro i «falangisti». Ma la guerra di Simone Weil, nella sceneggiatura di Cavani non è una guerra, anzi è la sintesi di un’esperienza ridotta a un aneddoto, la ferita provocata dalla caduta di olio bollente sul «piede destro», e l’inaccettabile consapevolezza di «non essere un buon soldato». Al pari del significato ‘eterodosso’ del lavoro in fabbrica, l’altro grande capitolo, sia per le implicazioni umane sia per quella più propriamente spirituale, riguarda il menzionato lavoro in campagna. È un periodo di vendemmia, che Simone Weil trascorre presso il filosofo-contadino Gustave Thibon, nella sceneggiatura Marcel Thibon. «La sua idea era di mettersi a lavorare qui, in campagna, nella mia campagna. Aveva fatto l’operaia, ora voleva fare la contadina» dichiara Thibon. La «contadina», infatti, pensa proprio come l’«operaia», e ciò perché possiede una «vocazione speciale» per le «condizioni che la gente definisce “basse”».

Al momento dell’occupazione tedesca di Parigi, Lettere dall’interno fornisce un saggio letterario, quasi alla maniera ariostesca, di montaggio incrociato tra le sequenze sulla capitale occupata dai tedeschi e le sessioni di lavoro, da parte di Simone Weil, nella terra di Thibon. In altre parole, l’avvento dell’occupante pone il problema tra l’ebraismo di Simone Weil e il nazismo. Ciò determina la fuga della pensatrice, una fuga strumentale dapprima a New York, in seguito, e solo per ricongiungersi con la «Resistenza francese», a Londra, presso il Commissariato d’azione per la Francia. L’ultima tappa del «cervellone», che non esclude di ritornare in Francia per compiere più decisive azioni di «sabotaggio» o «spionaggio», è appunto cadenzata tra il Commissariato e la casa a pigione di Mrs Francis. Qui Simone Weil scrive a lungo sul tema dello «sradicamento», e più in generale lavora a La prima radice, vi lavora prima di essere ricoverata, dopo un inatteso sbocco di sangue, presso di Grosvenor Sanatorium ad Ashford, il luogo della sua morte.

Il momento più descrittivo della sceneggiatura ripercorre circa l’ultimo decennio della vita di Simone Weil. Tuttavia, essa racconta una vicenda umana esemplare, unica. Nell’apparente variazione del tracciato esistenziale (liceo, fabbrica, Spagna, campagna, religiosità, resistenza, Londra), in Simone Weil persiste e dura un’idea di vita come esclusiva esperienza reale, qualcosa che misura il nome stesso dell’esistenza in ciò che è radicalmente umano, in una sorta di permanente, ostinata discesa verso quel ‘basso’, quel limite inferiore in cui chi pensa, chi è chiamato a pensare, da Diogene di Sinope a Simone Weil, pensa al solo scopo di cercare l’uomo.

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Fotografia e psichiatria https://www.carmillaonline.com/2025/12/04/fotografia-e-psichiatria/ Thu, 04 Dec 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91365 di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice [...]]]> di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice che gravava sul Paese sorprendentemente disponible a sperimentare cambiamenti radicali.

Si tratta del volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi, 1969) e del libro di Luciano D’Alessandro, Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale (Il Diaframma, 1969). Individuando in queste due pubblicazioni le fondamenta di una nuova iconografia della malattia mentale Francesca Orsi indaga il rapporto tra fotografia e psichiatria che si è sviluppato tra la fine degli anni Sessanta e oggi.

In linea con l’idea benjaminiana che individua nel frammento, nel suo interrompe la narrazione lineare della storia, un potenziale critico utile a svelare le contraddizioni della modernità aprendola a nuove e inedite prospettive, con La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria Orsi ha inteso modellare «un nuovo atlante visivo della “follia” per accostamenti di tasselli che messi insieme creano significati inediti, tesi a definire un percorso alternativo verso un’iconografia destigmatizzante della malattia mentale e, contemporaneamente, a creare un senso collettivo di giustizia, di espressività artistica, di storia e di pensiero critico» (p. 228).

L’autrice sottolinea come le fotografie di Morire di classe abbiano avuto un ruolo importate non soltanto nel far conoscere le condizioni dei pazienti rinchiusi nei manicomi, ma anche nel rompere il sodalizio di estrazione positivista tra fotografia e psichiatria. Gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno istituito «un nuovo alfabeto visivo della salute mentale, che affonda le sue radici nelle finalità politiche di Morire di classe, nella sua intrinseca urgenza civile e sociale» (p. 15), un alfabeto che si è evoluto nel corso del tempo rapportandosi con i cambiamenti occorsi non solo in ambito psichiatrico, sociale e politico, ma anche a livello di comunicazione visiva. Nel ricostruire quelle nuove visioni su malattia mentale, devianza e alterità, Orsi si è avvalsa delle testimonianze dirette di chi le ha prodotte. Nel volume si trovano interviste raccolte tra il 2008 e i giorni nostri a: Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli.

Se tanto gli scatti di D’Alessandro, realizzati presso l’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, ove operava il dottor Sergio Piro, pubblicati nel volume Gli esclusi, quanto quelli di Cerati e Berengo, effettuati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, diffusi da Morire di classe, hanno messo la società italiana di fronte a una realtà sino ad allora sconosciuta attraverso la crudezza delle immagini, sono state soprattutto le fotografie di questi ultimi a sconvolgere l’opinione pubblica e ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che queste hanno saputo trasmettere l’urgenza da cui erano mossi i fotografi di mostrare, denunciare e rivelare la violenza dell’istituzione psichiatrica in linea con la battaglia basagliana. È probabilmente la mancanza di questo senso di urgenza ad aver reso all’epoca meno dirompenti gli scatti di D’Alessandro, mossi invece da premesse di ordine estetico-autoriale e intenzionati a riflettere la solitudine dell’essere umano. Mentre le fotografie di Cerati e Berengo agiscono da «urlo», quelle di D’Alessandro, mosse più da uno sguardo autoriale che non reportagistico, sono riconducibili «al silenzio esistenziale», al «mondo interiore». Gli esclusi, afferma lo stesso D’Alessandro, ha preso il via come una riflessione sull’esistenza umana, da cui, soltanto dopo, è derivata la denuncia sociale.

Mentre Morire di classe fu voluto da Franco Basaglia e Franca Ongaro come un atto d’accusa all’istituzione psichiatrica, usando il libro come ponte verso l’esterno, verso la società, verso la politica e verso l’opinione pubblica, Gli esclusi fu voluto da Sergio Piro partendo dalla stessa tensione nei confronti della psichiatria, ma procedendo a una sua “demolizione” dall’interno, usando la propria esperienza e la propria visione come primo tassello da abbattere (p. 31).

Se Gli esclusi si è presentato come un libro fotografico elegante, Morire di classe, ricorda Berengo, si è proposto esplicitamente come «un manifesto politico di protesta, fatto con urgenza e con delle modalità che permettessero un costo molto basso, per arrivare a un pubblico più ampio» (p. 57). L’incidenza esercitata sulla società italiana dalle fotografie di Morire di classe non può che essere messa in relazione con l’importanza che, come ricorda la stessa Cerati, aveva la fotografia negli anni Sessanta nell’ambito della denuncia sociale, della divulgazione e della comunicazione. Due libri mossi da progettualità differenti ma altrettanto importanti nel rinnovamento della fotografia psichiatrica: Morire di classe per l’adozione di una strategia comunicativa efficace nel fare irrompere nella società italiana il tema della malattia mentale, Gli esclusi per la sua capacità di aprire una riflessione sull’istituzionalizzazione psichiatrica, sul ruolo del fotografo e sulla natura dell’immagine che intende raccontarla.

Se gli scatti di Morire di classe e de Gli esclusi hanno inteso denunciare l’istituzione psichiatrica, più che raccontare il cambiamento al suo interno, le fotografie realizzate negli anni Settanta presso l’ospedale psichiatrico triestino allora diretto da Basaglia di autori come Claudio Ernè, Paola Mattioli, Gian Butturini, Emilio Tremolada, Neva Gasparo e Mark Smith rappresentano un nuovo modo di guardare ai pazienti, ora considerati indissociabili dalla loro storia e dalla loro identità, in linea con il passaggio nella psichiatria basagliana dall’utopia goriziana degli anni Sessanta alle pratiche sperimentate nel decennio successivo.

Se in precedenza, dalla fine dell’Ottocento, la fotografia aveva assunto, rispetto all’istituzione psichiatrica, un ruolo di “strumento scientifico” per definire la malattia mentale e alla fine degli anni Sessanta era stata l’arma di denuncia della condizione manicomiale, negli anni Settanta i fotografi arrivati, per motivi diversi, a Trieste si resero parte loro stessi dell’ingranaggio del cambiamento in atto e testimoniandolo lo vivevano in prima persona (p. 71).

Le fotografie degli anni Settanta, insomma, tendevano a restituire ciò che gli stessi fotografi stavano vivendo nel loro rapportarsi con chi era affetto da malattia mentale.

Per i fotografi giunti nella città friulana, la realtà manicomiale, oltre a essere diventata una storia personale, data la prossimità fisica e umana, era anche una questione politica, un battersi per degli ideali in cui si credeva, un momento condiviso di forte critica al sistema. Il fotografo, nel suo essere coinvolto, perdeva la sua tecnicità e si mescolava agli altri volti e alle altre miriadi di storie che punteggiavano il parco del San Giovanni (p. 73).

Ernè ricorda come per i fotografi che, come lui, si confrontarono con la struttura triestina negli anni Settanta, lo scopo non fosse quello di denunciare, bensì quello di «fotografare una rinascita» di cui si sentivano parte. La stessa Mattioli conferma il clima di partecipazione e condivisione umana in cui si trovano immersi quanti e quante si erano presentati con la macchina fotografica nella struttura triestina.

Orsi si concentra poi su tre fotografi – Emilio Tremolada, Uliano Lucas e Dario Coletti – che «hanno espresso un ruolo di raccordo storico ma anche narrativo e meta fotografico. Il loro lavoro ha avuto il merito di documentare l’evoluzione di un movimento nel suo fluire temporale, ma anche di mostrare come tale evoluzione politica e ideologica fosse accompagnata da quella del linguaggio fotografico e del loro personale sentire estetico e compositivo» (p. 103). Tre autori che, per quanto differenti per stile e concezione della fotografia, sono riusciti «a raccontare tre momenti in cui la fotografia, procedendo nel suo percorso storico e formale, si è messa in dialogo con il suo passato per mostrare un concetto di cambiamento che riguardava la sua natura, il panorama psichiatrico e la società stessa» (p. 104).

Tremolada ribalta l’intento classificatorio e regolatore della fotografia positivista sui corpi dei pazienti proponendosi di guardare alla «personalizzazione degli oggetti che tornano ad assumere la loro funzione identitaria, che tornano a raccontare la specificità delle storie di vita, simboli di un cambiamento che ha fatto sì che il corpo del paziente non fosse più un “suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio”» (p. 108). Oltre al soggetto delle immagini, il fotografo cambia la tecnica narrativa basandola su «inquadrature che stringevano, isolavano, facevano diventare gli oggetti dei concetti, delle astrazioni, degli spazi di riflessione» (p. 111).

Lucas affronta, invece, la malattia mentale allontanandosi dalla sua abituale narrazione reportagistica militante, proponendosi una una nuova iconografia attenta a non stigmatizzante la malattia mentale. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, egli si è focalizzato sull’essere umano, sulla sua riconquistata fisicità, sulle sue piccole storie vissute al di fuori delle mura delle strutture psichiatriche, sulle esperienze di integrazione sociale sperimentate dai nuovi indirizzi psichiatrici. «Se la fotografia psichiatrica di fine XIX secolo era servita a classificare la malattia mentale e a renderla visibile, quello che produsse Uliano Lucas fu un atlante di immagini teso a raccontare le sfaccettature dell’umano, senza che la fotografia fosse usata al servizio, ma a favore di qualcosa, di un pensiero che non stigmatizzasse più i “volti della follia”» (p. 114).

Mentre la fotografia di Cerati, Berengo e D’Alessandro raccontava la reclusione e la disperazione dell’essere umano, gli scatti di Lucas, per sua stessa ammissione, «rappresentano l’inizio della lotta, seguono l’impegno civile nel suo evolversi, rispecchiano la trasformazione del panorama psichiatrico dopo la riforma» (p. 137). Se con la fotografia, fino agli anni Settanta, ci si proponeva di suscitare un sentimento di pietà, successivamente, sostiene Lucas, si è voluto raccontare la riconquista della libertà dei soggetti, la loro vita, i loro affetti e la loro consapevolezza. «Le fotografie in ambito psichiatrico, con il tempo, hanno iniziato a raccontare il fluire di quella che una volta veniva definita “follia” nella normalità, la complessità della condizione umana» (p. 137). A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sostiene Lucas, la fotografia rivolta ai malati di mente ha smesso di documentare preferendo comunicare; se prima «il focus era il malato e la sua condizione, dopo, è diventato il suo confondersi nella società, di cui diventò parte» (p. 137).

Dalla sua esperienza partecipativa all’interno di una struttura mentale romana, Coletti ha voluto estrarre un racconto delle nuove forme di assistenza psichiatrica territoriale guardando ai volti e ai corpi degli assistiti in maniera autoriale, riprendendo, per certi versi, l’immaginario artistico adottato da D’Alessandro negli anni Sessanta.

Se D’Alessandro aveva intessuto il suo lavoro della semanticità del corpo, delle mani soprattutto, e i fotografi degli anni Settanta avevano raccontato, invece, la sua dinamicità figurativa, Coletti, con il suo lavoro, si pone, precisamente, al centro; raccordo tra iconografie passate ed espressione, però, di qualcosa che prima non era mai stato visto insieme e per questo nuovo (p. 117).

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni casi recenti in cui l’arte e la fotografia si occupano di disagio mentale guardando in particolare a Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli, in un contesto mutato, contraddistinto da una sovrastimolazione visiva che ha profondamene modificato l’immaginario visivo e le modalità di comunicazione.

La pratica artistica di Turba, che Orsi annovera tra gli artisti contemporanei che stanno dando vita a un nuovo alfabeto visivo della malattia mentale, si manifesta spesso come un processo collettivo di cui la fotografia offre testimonianza. «In un certo modo, le sue immagini sono documento di un qualcosa che si plasma per creare una connessione identitaria» (p. 166). Si tratta di un metodo generativo incentrato sulla condivisione; come per altri fotografi, anche per Turba il tempo trascorso nella comunità o con l’individuo di cui intende raccontare rappresenta un elemento imprescindibile nella produzioni di immagini.

A partire dalla sua riflessione sullo stato della fotografia contemporanea, nel rapportarsi all’iconografia della malattia mentale, Fontcuberta giunge a elaborare un metodo di “creazione visiva” in cui vecchie e nuove fotografie vengono elaborate digitalmente, ricorrendo anche all’intelligenza artificiale, dando luogo a particolari contaminazioni postfotografiche. Risulta interessante, scrive Orsi, notare come l’artista catalano, «attento più al processo rispetto al risultato e alla specificità del tema, riesca a sollevare in maniera critica il concetto di “anormalità”, applicato sia alle nuove espressività contemporanee sia, parallelamente, ai vecchi dogmi psichiatrici, creando una continuità tra la dimensione artificiale e quella umana» (p. 175).

Nell’affrontare la malattia mentale, Viver lavora spesso sul patrimonio visivo ottocentesco rimodellandone esclusivamente la narrazione, la sequenza, l’interazione tra le immagini dando luogo a una struttura aperta in cui le fotografie cessano di presentarsi come semplice simulacro dell’istituzione psichiatrica prestandosi a un’indagine attenta della condizione umana.

Infine, Fogarolli, «per riflettere sull’immaginario non solo della malattia mentale, ma, più diffusamente, della devianza e dell’alterità, utilizza l’arte nella sua accezione più vasta, non riconducendola esclusivamente alla natura dell’immagine, ma estendendola alle sue materializzazioni installative, scultoree e performative» (p. 180).

Orsi domanda ai fotografi interpellati come pensano sia cambiato nel corso del tempo il rapporto tra fotografia e disagio mentale. Rispetto alla fotografia degli anni Sessanta, da cui tutto è partito, quella attuale, sostiene Berengo, mostra maggiore aggressività, «una tendenza a drammatizzare, a confezionare un’immagine da “pugno nello stomaco”» (p. 60), sia nel momento dello scatto che in quello della stampa, le immagini sembrano volere a tutti i costi generare angoscia. D’Alessandro sottolinea come mentre la sua generazione era stata espressione di un’identità collettiva desiderosa di partecipare alla ricostruzione fisica, sociale e culturale del Paese uscito da poco dalla guerra, la generazione attuale di fotografi sembra mancare di un’identità collettiva, di un orizzonte comune. «Il mio, quello di Berengo e Cerati, era un progetto d’intervento, un contributo alla consapevolezza sociale e civile. Con i fotografi che raccontarono quello che successe dopo è come se avessimo fatto un unico lavoro a più mani, ognuno ha fatto un pezzo» (p. 40).

Come D’Alessandro, anche Lucas, pur facendo riferimento nel suo caso alla generazione di fotografi che si è occupata dei malati di mente negli anni Settanta, mette in luce l’aspetto collettivo e partecipativo che animava la loro pratica. «Molti artisti ai giorni nostri trattano il tema della salute mentale, da un punto di vista scientifico, storico, anche concettuale, ma il loro sguardo è uno sguardo spesso intellettualistico, che non rispecchia un sentire politico e sociale comune, come invece successe per la nostra generazione» (p. 141). Dalla metà degli anni Settanta, secondo Coletti, nel rapportarsi con la malattia mentale, la fotografia ha spostato il suo focus «verso una resa dinamica della realtà, che andava a simboleggiare il processo di riacquisizione identitaria dei pazienti. I loro corpi non erano più colti nella loro immobilità, suscitando un sentimento di pietà nello sguardo di chi vedeva le immagini» (p. 153). Difficile dire, sostiene il fotografo, «se questo cambio di registro dipenda dall’evoluzione del linguaggio in sé o dal percorso intrapreso dalla “nuova psichiatria”» (p. 153). Venendo poi alla stretta attualità, a parere di Coletti, la fotografia sembra avere ormai perso il suo valore di denuncia e dovendo immaginare un lavoro fotografico su tali tematiche sarebbe meglio concentrarsi sulle storie intime dei pazienti seguendo da vicino il loro percorso quotidiano.

Terminata l’epopea in cui si pensava e si agiva credendo nella possibilità di grandi e radicali trasformazioni, gli artisti e i fotografi contemporanei, sostiene Turba, si trovano a pensare e agire in “scala ridotta” rispetto alla prospettiva basagliana, concentrandosi su comunità e contesti specifici. Circa gli indirizzi assunti negli ultimi tempi dall’iconografia mentale nelle arti visuali e nella fotografia, che ha condotto diversi autori a lavorare sugli archivi fotografici, Viver ritiene che, in generale, questi sembrano caratterizzati da una propensione a sperimentare liberamente percorsi di ricerca della realtà più profonda in reazione ad un periodo eccessivamente caratterizzato da un approccio razionalista, empirico e materialista.

Una volta abbandonato il manicomio concentrazionario, la psichiatria istituzionale ha introdotto nuovi metodi di gestione dei devianti basati sulle etichette diagnostiche e sulla prescrizione di psicofarmaci, trasferendo così il manicomio dalle mura direttamente alla testa degli individui. Viene così introdotto un nuovo tipo di manicomio basato sulla diagnostica, sulla catalogazione e sull’etichettatura identitaria applicata ad ampio raggio a chiunque risulti affetto da un disturbo o da una malattia mentale. A partire dalla ricostruzione dell’iconografia della malattia mentale proposta da Francesca Orsi, vale ora la pena di domandarsi quali strade prenderà in futuro il rapporto tra fotografia e psichiatria alla luce delle profonde trasformazioni che hanno toccato entrambe.


Sul rapporto fotografia/psichiatria:

Senza distogliere lo sguardo: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).

Manicomi. Immagini di violenza istituzionalizzata: Gianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta (Contrasto 2015)

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Elogio dell’eccesso / 10 – Straniero in terra straniera: Curzio Malaparte https://www.carmillaonline.com/2025/12/03/elogio-delleccesso-10-straniero-in-terra-straniera-curzio-malaparte/ Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91605 di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera [...]]]> di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera di riferimento culturale e letterario del primo, più che a quella dello scrittore friulano, era vicina alle esperienze di altri due autori e uomini di cultura europei quali Ernst Jünger (1895-1998) e André Malraux (1901-1976). Intellettuali colti e raffinati che, però, avevano tutti nascosto, sotto un tappeto di intuizioni spesso geniali e una patina di anticonformismo elitario, una contraddittorietà in materia politico-culturale talvolta disorientante e talaltra indisponente non solo per i semplici lettori, ma anche per i loro estimatori.

Interventista dalle radici anarco-nietzschiane nella Prima guerra mondiale e fascista della prima ora l’italiano che, però, alla fine della sua vita, dopo un soggiorno nella Cina di Mao, lasciò in eredità alla Repubblica Popolare la sua villa di Capri; giovanissimo volontario nella Legione straniera, autentico esteta e aedo della guerra che osservò e descrisse con lo sguardo di un entomologo, il tedesco, spesso avvicinato (forse a torto) al nazismo; avventuriero e ladro di tesori nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente, poi militante anti-colonialista e comunista in Cina, combattente repubblicano in Spagna e, per finire, ammiratore e seguace di De Gaulle, fino a diventare Ministro della Cultura nel suo governo, il francese. Vite al limite si potrebbe dire, condotte da abili funamboli tutti attenti a non perdere mai la presa su una corda tesa nel vuoto, al di sopra delle catastrofi politiche e militari del XX secolo.

Nessuno dei tre poteva vantare le nobili origini che forse tutti avrebbero voluto poter rivendicare. Il più fortunato, dal punto di vista famigliare, fu forse Jünger, figlio di un imprenditore e chimico tedesco, mentre Malraux non avrebbe mai parlato con nessuno o avrebbe diffuso notizie inesatte su un’ infanzia passata in provincia con la madre e la nonna. Cosa cui avrebbe cercato di provvedere sposandosi nel 1921 con una ricca ereditiera di una famiglia ebraica di origini tedesche, la cui fortuna fu però rapidamente dilapidata da errati investimenti in borsa.

Erich Suckert, vero nome di Curzio Malaparte che aveva rinnegato in età adulta il cognome paterno, nacque invece a Prato da Edda Perelli e dal tintore sassone Erwin Suckert. Come terzogenito di sette fratelli, poco dopo la nascita fu affidato a balia alla famiglia dell’operaio tessile Milziade Baldi e di sua moglie, che lui avrebbe poi considerato come i suoi autentici genitori, mentre i pessimi rapporti con il padre tedesco avrebbero influenzato per tutta la sua vita una particolare antipatia verso la nazione e la cultura germaniche. Spingendolo così tra le braccia di quella francese. Un amore poi deluso, come dimostra il diario appena pubblicato da Adelphi, ma che lo spinse fin dalla dichiarazione di guerra del 1914 ad arruolarsi ancora sedicenne nelle fila, anch’egli, della Legione straniera.

Se queste sono, per così dire le origini del viaggio di Malaparte attraverso la Storia del ‘900. il Giornale di uno straniero a Parigi trasmette al lettore le impressioni dell’autore successive alla fine del secondo conflitto mondiale, al ritorno da un soggiorno in Francia tra l’estate del 1947 e la fine del 1949. Ma come lo stesso Malaparte ci avverte nel suo Abbozzo di una prefazione:

Ogni “giornale” è ritratto, cronaca, racconto, ricordo, storia. Delle note prese giorno per giorno non sono un giornale: sono momenti presi a caso nello scorrere del tempo, nel fiume del giorno, che passa. Un “giornale” è un racconto: il racconto di una tranche de vie (definizione di romanzo di una famosa scuola), di un periodo, un anno, più anni, della nostra vita. E poiché la vita segue la logica di un racconto, ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione (una vita umana è una serie di inizi, di sviluppi, di conclusioni, all’interno del cerchio chiuso dell’inizio, dello sviluppo, della conclusione della vita, nel cerchio della vita). Non è vero che un “giornale” comincia a caso, si sviluppa a caso, non si conclude, se non con la fine della vita. Un giornale, come ogni racconto, comporta un inizio, un intreccio, uno scioglimento. L’argomento del Giornale di uno straniero a Parigi è il mio ritorno a Parigi dopo quattordici anni d’assenza, è la scoperta di una Francia nuova, di un popolo francese nuovo, è il ritratto di un momento, nella storia della nazione francese, della civiltà francese, che coincide con un momento particolare della mia vita, della storia della mia vita. Non pretendo di rinnovare il genere del “giornale”. Suggerisco soltanto che un giornale è un racconto, come è un racconto il teatro. E qui tocco il punto importante: un “giornale” è un’opera teatrale portata sulla scena della pagina. È il punto in cui il racconto si avvicina di più al teatro. Tutto vi tende a un fine, a una conclusione, secondo le leggi classiche dell’unità, ma attorno al personaggio che si chiama « io »1.

Le poche righe appena citate non servono soltanto come viatico per la comprensione del “diario” parigino di Malaparte, ma anche per quella di tutta la sua opera che, per quanto suddivisa tra articoli di giornale, cronache, diari, “romanzi”, sempre avrebbe rappresentato una sorta di palcoscenico sul quale intrecciare le vicende drammatiche oppure mondane comprese tra il primo conflitto mondiale e gli anni ‘50 del XX secolo con la vita dell’autore e le sue personali opinioni.

Si potrebbe, infatti, dire che se nell’opera di Ernst Jünger ogni evento ed osservazione si trasforma in distaccato giornale di osservazioni di carattere entomologico2, in Malraux ogni evento doveva per forza essere “romanzato”. Tanto da far rimettere spesso in discussione, da parte della critica o dei suoi avversari “politici”, molti aspetti delle sua presunta o autentica partecipazione agli eventi narrati con estrema dovizia di particolare (battaglie, massacri, insurrezioni, eroismi nelle guerre nell’aria e per terra). Una reinvenzione letteraria dell’esperienza personale che avrebbe spinto lo scrittore francese ad intitolare Antimemorie la sua autobiografia, pubblicata nel 1967, un abile e spregiudicato gioco letterario in cui la vita, gli incontri e le vicende di Malraux sono spesso nascosti o distorti ad arte, mascherati sotto l’immagine che di se stesso voleva dare al pubblico3.

Il testo di Malaparte, oggi edito da Adelphi, era invece rimasto tra le sue carte e fu pubblicato postumo nel 1966, a cura di Enrico Falqui, da Vallecchi nelle «Opere complete». Come afferma Monica Zanardo, in quella che può essere considerata come una postfazione all’edizione attuale, il Journal:

offre un sottile e disincantato spaccato della Francia del dopoguerra, dove l’autore aveva soggiornato tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Pensato per essere pubblicato in Francia e scritto per lo più in francese, il ‘diario’ malapartiano si ricostruisce cucendo una serie di fogli sciolti che denunciano stadi diversi di elaborazione [..]. È difficile dunque stabilire con certezza con quali tempi e modi Malaparte si sia dedicato alla composizione di questa sua opera, ma possiamo rilevare che, a dispetto del titolo, non ci troviamo di fronte a un journal in senso stretto.
Siamo ad esempio molto lontani da quel Giornale segreto dove, tra l’aprile del 1941 e l’ottobre del 1944, aveva registrato dialoghi e fatti di cui era stato testimone come corrispondente di guerra e che poi, opportunamente finzionalizzati, avevano nutrito la stesura di Kaputt.
[…] I materiali relativi al Giornale di uno straniero a Parigi, invece, non hanno nulla dell’annotazione cursoria ed estemporanea: le varie entrate si depositano in forma dattiloscritta a un livello di rielaborazione già avanzato, con un notevole scarto rispetto alla registrazione del dato puramente evenemenziale. Non si tratta per Malaparte – né mai è così per questo autore – di offrire un mero referto testimoniale o un affondo introspettivo: luoghi, date, persone e fatti sono per lui la materia grezza che solo l’arte del romanziere può rendere a tutti gli effetti viva e parlante; come già ricordava Falqui, nel Giornale parigino non v’è dunque « nulla di affidato unicamente alla trascrizione o rievocazione, cronachistica e basta, dell’episodio: incontro, invito, visita, conversazione, spettacolo o incidente che sia stato ». È del resto lo stesso Malaparte a sottolinearlo nella prefazione: « Un “giornale” è un racconto » dichiara, e del racconto assume di conseguenza tutti gli elementi di costruzione e narrativizzazione4.

Il tema conduttore del testo rimasto incompiuto è quello dell’estraneità vissuta dall’autore in quella che riteneva la sua seconda se non autentica patria, la Francia, dopo i cambiamenti intervenuti successivamente alla seconda guerra mondiale. Guerra che, comunque, lo avevano reso meno interessante per quelli che credeva essere gli “amici francesi”. E anche se non tutti lo avrebbero rifiutato, spesso nei suoi confronti avrebbero dimostrato la freddezza che si manifesta nei confronti di un nemico o ex-amico, proprio a causa della guerra scatenata nel giugno del 1940 dal regime fascista nei confronti del paese d’oltralpe, già sotto attacco da parte delle forze armate tedesche.

Così un Malaparte che, nonostante la partecipazione alla marcia su Roma e la firma apposta sul manifesto degli intellettuali fascisti, era sempre rimasto un elemento scomodo per il regime, come egli stesso afferma nel Journal – «Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, non posso dormire tranquillo da nessuna parte, in Italia»5 – si ritrova apolide, lontano da quelle sponde che sperava volessero ancora accoglierlo e allo stesso tempo rifiutato da quell’Italia che, prima in armi poi sotto le bandiere mussoliniane e infine al servizio degli occupanti anglo-americani6, egli aveva sempre creduto di servire.

Un opportunista, certo e in maniera evidente, ma che per le sue idee era stato allontanato dal quotidiano «La Stampa» di cui era stato direttore, espulso del Partito Nazionale Fascista e condannato a cinque anni di confino all’isola di Lipari, anche se già nel 1934 il confino era stato commutato in soggiorno obbligato a Forte dei Marmi.

In particolare a disturbare, per così dire, il regime era stata, oltre che la sua vicinanza al fascismo cosiddetto di sinistra e a Giuseppe Bottai, la pubblicazione in Francia nel 1931 di un testo che in Italia sarebbe stato tradotto soltanto nel 1948: Technique du Coup d’État (Tecnica del colpo di Stato), sostanzialmente un manuale per la conquista del potere attraverso il rovesciamento dello Stato.

Nel libro, bruciato sulla pubblica piazza per volontà di Hitler ma che giunse a ventisette edizioni in Francia e fu tradotto anche in inglese, spagnolo, polacco e cecoslovacco, si analizza e critica sia l’ascesa al potere del Partito bolscevico in Unione Sovietica che di quello nazionalsocialista in Germania. Come ebbe modo di affermare lo stesso autore nel Memoriale scritto nel 1946:

Nel 1930, mentre ero direttore della «Stampa» […] invece di scrivere per il giornale articoli laudativi e cortigianeschi, dedicai il poco tempo che mi rimaneva libero a scrivere la Technique du Coup d’État per l’editore francese Bernard Grasset. […] Quando lasciai la «Stampa» nel gennaio del 1931, il libro era pronto ad andare in stampa e, conoscendo, la natura del libro, decisi di recarmi in Francia perché la sua pubblicazione non mi sorprendesse in Italia. […] L’edizione italiana fu proibita da Mussolini sia per il tono del libro, sia per il capitolo su Hitler e il nazismo. Esso è il primo libro apparso in Europa contro Hitler. Il successo del libro mi portò di colpo alla ribalta di celebrità internazionale. Furono pubblicati su di me centinaia di articoli, concesse centinaia e centinaia di interviste, ebbi inviti per conferenze, per collaborazioni, offerte per contratti editoriali, molte università, fra cui l’Università americana di Yale, mi invitarono a tenere corsi di lezioni sulla letteratura moderna europea. In Italia i giornali fascisti attaccarono il mio libro e io fui accusato di fuoruscitismo. Non sto a ridire le ingiurie di cui fui coperto7.

Affermazioni in cui si può riscontrare l’attitudine del Malaparte a mettersi al “centro del mondo”, in un senso molto prossimo a Malraux, ma anche la volontà di rimarcare le distanze “prese per tempo” dal regime. Come sottolinea ancora Giorgio Luti nella medesima introduzione:

Sta di fatto che l’opera nelle sue linee generali era già stata progettata prima della improvvisa «defenestrazione» dalla «Stampa» dovuta sicuramente all’atteggiamento di fiancheggiamento che Malaparte aveva assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie in tutta l’Europa (si pensi alle corrispondenze dall’estero sullo scottante argomento a cui il giornale torinese concedeva larga ospitalità) e in particolare nella città sede della FIAT, cioè dell’industria i cui proprietari finanziavano il giornale8.

Quest’ultima osservazione induce a rilevare la complessità di una figura e di un percorso politico e intellettuale in cui, comunque, hanno sempre avuto un ruolo di rilievo i comportamenti contraddittori che spesso hanno caratterizzato molte personalità della cultura del ‘900, ma non solo. Motivo per cui occorre ancora ricordare come Enrico Falqui, in occasione della pubblicazione per Vallecchi, nel 1971, dell’allora ancora inedito Ballo del Cremlino dello stesso Malaparte9, si augurasse:

che finalmente fosse scaduto per lo scrittore pratese il tempo del «purgatorio» in cui lo aveva ingiustamente relegato la cultura italiana dell’epoca ormai lontana della repentina scomparsa nel luglio del 1957. Era tempo che nascesse – scriveva Falqui – l’occasione di impostare su altre basi un incontro che per troppo tempo e non certo per colpa di Malaparte, era stato rimandato sotto la spinta di equivoci e risentimenti che poco avevano a che fare con la cultura, con la letterartura e con l’arte. Cose che del resto capitano quando ci si incontra con uno scrittore che prima di tutto è stato un personaggio pubblico, un protagonista di primo piano della vita politica italiana del ventennio fascista e nei primi anni del dopoguerra: un intellettuale inquieto sempre in bilico tra «rosso» e «nero»10.

La riproposta delle opere di Malaparte, il cui elenco si potrebbe definire sterminato, intrapresa da diversi anni dalle Edizioni Adelphi forse risponde a questa necessità di riscoperta auspicata da Falqui ed è, come spesso accade per questo editore, sicuramente meritoria11. Tipica comunque di una casa editrice il cui principale artefice, Roberto Calasso (1941-2021), si era rivelato spesso altrettanto scomodo per la bigotteria culturale italiana, sia di destra che di sinistra.

Poiché quasi tutte le opere di Malaparte richiederebbero un’analisi ben più lunga di quello che lo spazio di una recensione come questa potrebbe loro dedicare, è necessario ritornare in chiusura al diario parigino del 1947-1949. Senza però dimenticare di ricordare che, tra i tanti passaggi di fronte che caratterizzarono sempre la vita dello scrittore, negli anni successivi al conflitto non poté mancare, come per tanti altri transfughi del fascismo di sinistra o del fascismo tout court, un tentativo di avvicinamento dello stesso al Partito comunista.

Con cui, per sollecitazione dello stesso Togliatti, avrebbe dovuto collaborare attraverso le pagine della rivista settimanale «Vie Nuove», cui inviò gli appunti redatti nel 1957, in occasione di un viaggio nella Cina comunista, dove, osservando la vita nelle città e soprattutto nel campagne, era rimasto affascinato dai fermenti rivoluzionari in atto e aveva avuto anche modo di intervistare Mao Zedong. Appunti che, però, non vennero pubblicati a causa dell’opposizione di Calvino, Moravia, e altri intellettuali, che avevano sottoscritto una petizione affinché “il fascista Malaparte” non potesse pubblicare su una ”rivista comunista”12.

Il diario francese è sicuramente di altro tenore e riporta immediatamente il lettore in quel mondo intellettuale, e spesso salottiero, che da sempre e non soltanto in Francia, aveva attratto lo scrittore per le storie infinite che ne potevano derivare. Come, ad esempio, quelle narrate dall’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, ma un tempo Ministro d’Italia in Afghanistan di cui conservava, come si trattasse di un viaggiatore del XVIII secolo, memorie straordinarie.

[Quaroni] mescola l’erudizione allo spirito della scoperta, la meraviglia dell’esploratore al diplomatico dotato di uno spirito d’osservazione nutrito di letture e di esperienze. Mi parla dei cavalli e dei cani del re dell’Afghanistan, della caccia reale, dei ricordi, ancora vividi, che Alessandro Magno ha lasciato in quelle contrade misteriose. Mi parla della straordinaria popolarità del poeta persiano ****, che ogni contadino afgano conosce a memoria. Ama l’Afghanistan, e quando gli dico che c’è una sola contrada al mondo che eccita la mia immaginazione, che c’è una sola contrada che vorrei visitare, dove vorrei vivere, ed è l’Asia centrale, l’altopiano dell’Altai, e le immense solitudini delle steppe persiane e afgane, del Turkmenistan, donde si vede all’orizzonte la linea di matita azzurra dell’Himalaya, sorride, deliziato. Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente, dall’Africa, dall’America centrale, e che portavano con sé tutto un tesoro di conoscenza, la cui fragilità, la cui delicatezza, davano alle loro parole, quando parlavano di una montagna o di un fiume immenso, o di un deserto, o di un forte, o di un castello, l’impressione che parlassero di minuscoli, fragili, trasparenti oggetti di porcellana13.

Un giornale in cui alle intuizioni fulminanti, «Il cinema è la patria degli stranieri» (a proposito del cinema di Roberto Rossellini, p. 14), si accompagnano ricordi che riportano al clima successivo al primo grande macello imperialista di cui Malaparte fu attento cronista e magnifico cantore in un’opera, che nel 1921 costituì anche il suo battesimo letterario e che si spera le Edizioni Adelphi, in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, vogliano al più presto riproporre al pubblico: Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti14.

La prima opera a prendere una posizione decisamente opposta alla leggenda militarista e perbenista fondata sulla presunta viltà dei soldati italiani al fronte e che in realtà, come lo stesso Malaparte sottolinea facendone un’apologia, diedero vita ad una enorme ribellione disfattista che soltanto l’assenza di un partito volto al rovesciamento dell’ordine monarchico e borghese impedì che si trasformasse in autentica rivoluzione, così come era invece accaduto sul fronte russo nell’inverno tra il 1916 e il 1917. Un tema, quello dei patimenti dei militari al fronte e successivi alla guerra, che viene ripreso, come s’è detto poc’anzi, nelle pagine del Giornale là dove viene ricordato un episodio successivo alla fine della guerra, nel 1919.

Voglio bene a questi uomini, a questi Francesi: sono della mia stessa razza. Anch’io sono un uomo del 1914. Ma mi si stringe il cuore, al ricordo di come li vidi tornare a casa, dopo la guerra, dopo la vittoria, nel 1919. Tutte le volte che incontro di questi uomini, non posso difendermi dal ricordare quell’episodio. Era il primo maggio 1919, un grande comizio di protesta per la vita cara, per non so che, era stato organizzato in Piazza della Concordia. Da tutte le parti dell’immensa città, giungevano colonne e colonne di uomini ancora in uniforme bleu horizon, migliaia e migliaia di mutilati sorretti dai compagni, e folle enormi di anciens combattants, tutti in uniforme terrosa, stinta, sgualcita delle trincee. Nelle prime ore del pomeriggio, la Place de la Concorde era occupata da un immenso esercito di antichi soldati, da migliaia e migliaia di soldati fra i più valorosi del mondo. […] Erano i migliori soldati del mondo, i più tenaci, i più duri, i più ostinati, i più coraggiosi. Cantavano i loro canti di guerra, […] qua e là, sventolavano su quell’esercito bandiere rosse; i mutilati, ammassati sotto l’Hotel Crillon, agitavano le loro grucce, i loro bastoni. Era un esercito di veterani, pronto alla lotta, invincibile e vittorioso. Dalla terrazza dell’Hotel Crillon, mescolato alla piccola folla di spettatori delle delegazioni straniere per la pace, io contemplavo quell’immenso esercito, col quale avevo sofferto, combattuto. Erano i miei compagni di guerra, ero fiero di loro. A un tratto, dal giardino delle Tuileries, dalla Rue Boissy-d’Anglas, dalla Rue de Rivoli, dai Champs-Élysées, dal ponte, sbucarono folti gruppi di agenti, armati di sfollagente, che si gettarono su quell’invincibile esercito di veterani, li massacrarono, li bastonarono, li dispersero, li inseguirono a calci nel sedere. Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul pavé della sterminata Piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra15.

Ma se l’autore sentiva ancora di essere vicino a quei francesi con cui aveva combattuto in passato, una fascia consistente di (ex-) amici e conoscenti non provava invece più lo stesso sentimento nei suoi confronti.

A sorprendermi un po’, e a turbarmi, è l’aria con cui mi guarda François Mauriac. Con uno sguardo di rimprovero, dall’alto, come se, dal nostro ultimo incontro, fossero accadute delle cose che mi si possano rimproverare. Faccio un rapido esame di coscienza. Non ho fatto niente di male, niente che mi si possa rimproverare, niente contro la Francia e i francesi, niente contro l’onore, la giustizia, la verità, la libertà, niente contro François Mauriac. In tutti questi anni, ho sofferto come tutti, ho passato diversi anni in carcere, come molti. Per me, François Mauriac è rimasto lo stesso. Perché io non sono lo stesso per François Mauriac? Ah, sono italiano. Il mio paese ha dichiarato guerra alla Francia, i soldati del mio paese hanno occupato dei territori francesi. Ecco. Ma quando ero nel carcere di Regina Coeli, quando ero a Lipari, quanti francesi salivano la scalinata di Palazzo Venezia e andavano a rendere omaggio a Mussolini. Politici, scrittori, francesi di ogni sorta. Comunque sia, non serbo loro rancore, erano nel loro diritto16.

Come il personaggio di un romanzo di Robert Heinlein, Malaparte, pur ispirato da buoni propositi e nostalgici sentimenti si sente “straniero in terra straniera”, ormai sia in Italia che in Francia17. Un destino che lo accomuna a molti profughi e superstiti della catastrofe del ‘900 europeo che determinò la fine del predominio delle culture e delle economie europee sul resto del mondo, nonostante lo sforzo di estenderlo e difenderlo con una seconda guerra mondiale che, però, finì soltanto col determinare la fine del colonialismo europeo; mentre la successiva lunga pausa illusoria di pace e prosperità globale, almeno dall’inizio del XXI secolo, sembra essersi fatta sempre più labile e incerta.

Per comprendere molti aspetti di un presente dalle radici molto profonde e sparse la lettura di molte opere di Malaparte, tra cui quest’ultima, si rivela illuminante e necessaria, nonostante lo stigma che, come per Céline, non a caso lo colpì, come si è già detto, negli anni del secondo dopoguerra.

Céline e Malaparte furono scrittori emblematici per la singolarità delle loro esistenze e il carattere peculiare della loro letteratura che si situa al centro dei dibattiti socio-ideologici della loro epoca; scrivere è un modo per definirsi attraverso il rifiuto e la solitudine, è il desiderio di un io che rigetta la società e vuole esprimere la propria denuncia attraverso la letteratura. Gli autori riusciranno quindi con questa loro pretesa di verità, di critica continua espressa senza alcuna moderazione, a farsi criticare, censurare e addirittura esiliare. Il pensiero di Malaparte e Céline si basa su un’osservazione critica e attenta della società in cui vivono, osservazione che i due scrittori riescono a rendere attraverso una scrittura molto elaborata e personale. La loro critica va alla storia scritta dai potenti, nel tentativo di mettere in scena la tragedia della povertà e della sottomissione ai poteri invisibili, lasciando spazio a chi nella storia non ha nessuna autorità, buttando giù le false verità e la facile retorica. I due autori, di cui non è immediato trovare la chiave di interpretazione, propongono quindi una riflessione sul rapporto tra gli uomini, sulla relazione tra l’individuo e il potere politico-economico, sempre mostrando una coscienza della lingua e del loro ruolo di scrittori che li rende estremamente interessanti nel contesto letterario del primo Novecento e che non ha smesso di affascinare i critici sino ai giorni nostri. Céline e Malaparte, come molti romanzieri loro contemporanei, esprimono il rifiuto del mondo, coscienti dell’impossibilità di salvarsi dal disastro che la guerra ha lasciato: l’uomo ha mostrato la sua crudeltà, si è denudato ed ogni forma di coesione e di unione è crollata. In tale contesto disastrato i due letterati si mostrano solitari, individualisti nelle loro scelte, avversari di ogni chiesa e partito. La loro è anche scrittura di immersione nel marcio della società, tra gli sventurati, attraverso uno stile singolare ed un lessico aspro e dirompente18.

Una poetica che, per quanto riguarda lo scrittore italiano, si manifestò violentemente e visionariamente nelle sue due opere più celebri: Kaputt (1944) e La pelle (1949). La prima delle quali fu definita dallo stesso Malaparte come «un libro crudele. La [cui] crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra».

Maria Antonietta Macciocchi, iniziale destinataria degli appunti sulla Cina cui si è accennato più sopra e che gli fu vicina negli ultimi momenti della vita, ha ricordato in un convegno tenutosi a Prato nel 1987, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che almeno in Francia l’«anno malapartiano» aveva ricevute cospicue e convinte adesioni da parte di molti intellettuali e tre intere pagine dedicate allo stesso dal quotidiano «Le Monde», tutte tese a rompere il silenzio ufficiale intorno all’«infame Malaparte»19.

La Macciocchi può avere ragione nell’estendere a tutti o quasi gli intellettuali italiani il cliché di fascisti pentiti dopo il colpo di bacchetta magica del 25 luglio, e pentiti senza esami di coscienza, ma con opportunistici colpi di spugna, che escludevano per l’intelligenza italiana esiti tragici come quelli di Drieu de la Rochelle, di Brasillach o di Céline, donde il «regolamento di conti» della società dei colti ai danni di un suo adepto, che «rompeva tutti gli schemi del vecchi provincialismo, e si ricollegava a grandi momenti complessi del pensiero e della vita, talora contraddittori, fatti di abiure e di speranze, di negazione della fede e di fede, vale a dire di un uomo che riassumeva in sé la fantastica razionalità dell’europeo e l’irrazionalità del «maledetto toscano». In altre parole Malaparte amplificava in modi addirittura spettacolari il percorso […] che era stato di molti, quasi di tutti, «oberato in patria di tutti i “vizi” della sua generazione, e dell’intero ceto intellettuale italiano», e si attirava perciò i fulmini dalla corporazione delle lettere e delle scritture20.

Con buona pace di Alberto Moravia che con il suo “stile” velenoso lo aveva invece definito scrittore strumentale perché lo scrivere libri «gli consentiva di brillare con le donne nei salotti», mettendosi «in smoking»21.


  1. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 9-10.  

  2. L’entomologia fu una grande passione dello scrittore tedesco che alle osservazioni degli insetti dedicò numerose pagine e momenti della sua vita “privata”. Nel testo Cacce sottili (Guanda, 2022) è riassunta la storia di questa passione cui Jünger non cesserà di dedicarsi per tutta la vita: negli anni della guerra come nel corso di viaggi in Italia, nel Medio Oriente, in Asia. Gli insetti offrirono sempre allo scrittore occasione di riflessione sul tempo e sul mutare del volto della natura, sui desideri umani, sulla ricerca inesausta, infaticabile, del sapere e del piacere. Il mondo sottile degli insetti, scenario di bellezza e crudeltà, diventava così una metafora del cosmo. E dei suoi drammi.  

  3. A. Malraux, Antimemorie, Bompiani, Milano 2022.  

  4. M. Zanardo, Straniero in due patrie: Curzio Malaparte a Parigi, in C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, op. cit., pp. 415-416.  

  5. C. Malaparte, op. cit., p. 14.  

  6. Dopo aver rifiutato nel settembre del 1943 l’adesione alla RSI, nel novembre dello stesso anno era stato arrestato dal Counter Intelligence Corps (CIC), il controspionaggio alleato, per le sue attività diplomatiche e da allora aveva iniziato a collaborare col CIC.  

  7. Cit. in G. Luti, Il cronista dell’Europa «catilinaria», Introduzione a C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Vallecchi Editore, Firenze 1994, pp. 22-23.  

  8. G. Luti, op. cit., p. 23.  

  9. C. Malaparte, Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), Adelphi Edizioni, Milano 2012.  

  10. G. Luti, op. cit., p. 19.  

  11. Di Curzio Malaparte fino ad oggi le Edizioni Adelphi hanno ripubblicato, oltre al già citato Ballo al Kremlino: Il buonuomo Lenin (2018), Maledetti toscani (2017), La pelle (2015), Kaputt (2014), Tecnica del colpo di Stato (2011) e Coppi e Bartali (2009).  

  12. In realtà le note dei viaggi in Russia e in Cina di Malaparte, furono pubblicate, a cura di Giancarlo Vigorelli, l’anno successivo alla sua morte da Vallecchi Editore: C. Malaparte, Io, in Russia e in Cina, Firenze 1958.  

  13. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, pp. 17-18.  

  14. C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (secondo il testo della prima edizione del 1921),Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  15. C. Malaparte, Giornale, op. cit., pp. 38-39.  

  16. Ivi, pp. 22-23.  

  17. R. Heinlein, Straniero in terra straniera (titolo originale Stranger in a Strange Land, prima edizione 1961), Fanucci, Roma 2025.  

  18. L. Libeccio, Céline, Malaparte. Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes», 24/2017.  

  19. M. A. Macciocchi, Ricordo di Malaparte scrittore europeo, in Malaparte scrittore d’Europa. Atti del convegno (Prato 1987) e altri contributi, Marzorati Editore- Comune di Prato, 1991. 

  20. M. Biondi, I giorni dell’ira: «Viva Caporetto!» Apologia di una disfatta, Inroduzione a C. Malaparte, Viva Caporetto!, op. cit., pp. 10-11.  

  21. Cit. in G. Grana, Il «camaleonte» e il sistema letterario italiano, in Malaparte scrittore d’Europa, op. cit., p. 2.  

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L’Islam come anarchismo mistico https://www.carmillaonline.com/2025/11/29/lislam-come-anarchismo-mistico/ Sat, 29 Nov 2025 22:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91270 di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica. Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, [...]]]> di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica.
Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, in quest’opera coraggiosa ha proposto una possibile rilettura in chiave anarchica degli insegnamenti spirituali dischiusi dal Santo Corano e dalla Sunna, la Tradizione dei detti e dei fatti del Profeta Muhammad – non ho scritto Maometto perché mi è stato spiegato che proviene dallo spregiativo cattolico “mal-commetto”, mentre Muhammad significa Elogiato dal Signore.
Detto che non si debba concordare integralmente con tutte le argomentazioni espresse su queste pagine, meno sovversive di quanto possa far supporre il titolo, e sebbene si possano espandere ben oltre i confini dottrinali dell’Islām, l’opera di Prado può essere ricondotta a quella galassia di pensatori, da Jacques Ellul a Hakim Bey da Lev Tolstoj a Simone Weil, fautori e testimoni di pratiche e teorizzazioni che incrociano una fede nel Divino con idee di comunità social-libertarie gioiose, disciplinate e autosufficienti.
L’introduzione di Prado ci aiuta a entrare in argomento facendoci prendere confidenza col titolo che contiene tre parole difficili da definire – Islām, anarchia e mistica –, che rimandano a possibilità non realizzate ma che continuano a vivere in noi, non necessariamente tutte e tre contemporaneamente, come possibilità latenti di realizzazione individuale e collettiva, a margine della religione istituzionalizzata, del Capitale, dello Stato e di tutte le altri grandi strutture di potere che schiavizzano l’essere umano.
I primi tre capitoli del libro sono dedicati, appunto, a queste tre parole: Islām, anarchia e mistica.
Nel primo si fanno puntualizzazioni che dovrebbero permettere anche ai più scettici di proseguire nella lettura di un libro che tratta un argomento che in tanti hanno evaso con un rapido “Per me l’anarchia è né dio né stato, quindi, discorso chiuso”. Le precisazioni di cui sopra sono passaggi come questo: “Non ci riferiremo […] agli Stati-nazione contemporanei che si qualificano come islamici. Questi ultimi, infatti, hanno tanto a che fare con l’Islām di Muhammad, quanto può averne il cristianesimo di Gesù con i governi dell’imperatore Costantino o del generale Franco. L’utilizzo reazionario della religione è stato una costante nel corso della storia”. O come questo: “Una cosa è l’Islām praticato e vissuto nella comunità profetica di al-Madīna – in cui non esistevano né chierici, né giureconsulti, né dotti, né tribunali, né una legge codificata, né polizie e neanche la benché minima struttura politico-amministrativa –, un’altra cosa è la religione codificata con le sue istituzioni posteriori, sorte da un processo di elaborazione sottomesso alle influenze del potere e ai fattori condizionati di ciascuna epoca”.

Mi viene in mente Simone Weil quando, in Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale pubblicato nel 1934, scrive che “I potenti, siano essi sacerdoti, capi militari, re o capitalisti, credono sempre di comandare in virtù di un diritto divino; e quelli che sono loro sottomessi si sentono schiacciati da una potenza che pare loro divina o diabolica, in ogni caso soprannaturale. Ogni società oppressiva è cementata da questa religione del potere, che falsifica tutti i rapporti sociali permettendo ai potenti di ordinare al di là di ciò che possono imporre […]”.
Nel secondo capitolo si parla di anarchia in un modo che, a mio parere, non fa una piega, ossia di un’ideologia che s’è spesso presentata come confutazione o denuncia di quella politica teatro di rappresentazioni e mascheramenti, una corrente di pensiero distruttrice di tutti quei miti su cui uno Stato fonda il suo potere – patria, razza, morale, religione, proprietà, popolo, famiglia, eccetera –, che predica una forma di vita profondamente etica, imperniata su una visione del mondo e dell’essere umano come creatura integrata della natura, che abbraccia come fratelli gli emarginati – pazzi, prigionieri, vagabondi, prostitute, eccetera – considerandoli più degni di rispetto di re, vescovi, giudici, generali o banchieri. Così come non fa un plissé leggere che l’anarchico trova insopportabile veder afflitto da ingiustizie qualsiasi suo simile e che per questo vive in permanente ribellione, che ritiene l’autorità dello Stato fonte di numerosi mali, un canale attraverso cui l’egoismo di pochi domina al di sopra degli interessi della maggioranza e che tutto ciò prescinde dalla forma in cui lo Stato è governato, può riguardare una dittatura del proletariato, una democrazia parlamentare o un sistema apertamente fascista perché, benché sia indubbio che alcuni Stati siano più benevoli di altri, per l’anarchico lo Stato resta il veicolo mediante il quale altri poteri esercitano il proprio dominio: “Oppressione politica, oppressione culturale, oppressione militare e oppressione economica vanno di pari passo”. Mi ha dato anche soddisfazione leggere che “l’anarchico cerca ciò che è autentico e si allontana da tutto ciò che abbrutisce” e che “l’etica anarchica è piuttosto ascetica: elogia la semplicità e la frugalità, disprezza il lusso e il superfluo”, sì, ammetto d’essermici ritrovato in pieno.
Nel terzo capitolo, quello dedicato alla mistica, si allude al mistero, al fatto che la mistica è segreta proprio perché indescrivibile, “semplicemente” perché i concetti creati dall’essere umano non sono capaci di esprimerla, e questo ci costringe a esprimerci per mezzo di metafore, ossimori, come la musica silenziosa, la luce nera, la quadratura del cerchio. Il mistico è così, fa scoppiare il linguaggio, lo spezzetta alla ricerca di una parola nuova che riesca a descrivere quell’indicibile che s’è fuso nella Realtà. Il mistico fa scomparire le categorie create dall’umano, si libera da un Dio lontano assiso maestoso in trono, un Dio infinito, buono, perfetto, tutto amore, che altro non è che una proiezione delle umane miserie, della nostra cattiva coscienza e delle nostre carenze. Il mistico si distacca dal teologo e dal religioso, anzi, si scontra proprio con l’istituzione religiosa, anteponendo l’esperienza alla credenza. Per contro, in questo stesso capitolo non ci si dimentica di ricordare che la parola misticismo sia apparsa spesso in testi anarchici come sinonimo di irrazionalità e superstizioni, di una religiosità esaltata e lontana da ciò che è sano e ragionevole, rea di mantenere le persone alienate dai problemi economici ed effettivi della vita quotidiana, così come si ricorda quanto l’anarchico sia radicalmente anticlericale e, nella stragrande maggioranza dei casi, antireligioso.
Dopo questi tre capitoli e prima di entrare nel merito, l’autore chiarisce di non pretendere che l’Islām debba essere definito “un anarchismo mistico”, e lo fa sottolineando il fatto che la quarta parola contenuta nel titolo, l’avverbio “come”, ci situa nella dimensione dell’analogia che, come tale, non denota un’identità totale, ma rimanda a una serie di vasi comunicanti che possono giustificare un incontro. Tutto questo è utile anche a immaginare nuove forme di resistenza nel presente, in un frangente in cui la ribellione all’oppressione avviene su scala planetaria e urge cercare punti d’incontro fra mondi che sembrano lontani, perché cercare punti di incontro – pratica sempre più rara di questi tempi che ci vedono continuamente intenti a dividerci, spaccarci, polverizzarci per una minima divergenza, un nonnulla – e pensare a obiettivi condivisi non significa pretendere l’equivalenza, e pazienza se esistono anche aspetti che cozzano tra loro o che possono risultare difficili da conciliare, perché è giusto che ognuno porti avanti la propria battaglia personale ma è bene assicurarsi che tale combattimento acquisisca una dimensione comunitaria, si incontri l’altro: “Vivere come anarchico in mezzo alla società di controllo e dello spettacolo, unirsi ad altri uomini e donne liberi che rifiutano la tirannia, voltare le spalle a tutta la spazzatura al neon con cui ci ipnotizzano, creare spazi liberati al centro di un presente sequestrato”. Senza mai dimenticare un altro concetto fondamentale su cui si regge tutto il Sistema, ossia che questo si nutre di piccole resistenze, desidera lo scontro diretto, la violenza che lo giustificherà agli occhi delle masse, non a caso preferisce arruolarci piuttosto che annientarci.
Ho sempre creduto nell’esercizio del singolo che porta avanti la propria battaglia, la propria rivoluzione, quotidianamente, e al fatto che questa pratica possa risultare più esplosiva di qualsiasi Manuale del rivoluzionario, così come scriveva nel 1999 Raoul Vaneigem nel suo Trattato del saper vivere: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si riempiono la bocca di un cadavere. […] La rivoluzione si fa tutti i giorni contro i rivoluzionari specializzati, una rivoluzione senza nome, preparando, nella clandestinità quotidiana dei gesti e dei sogni, la sua coerenza esplosiva”.
In questo periodo storico in cui le grandi corporation – da Apple a Microsoft da Amazon ad Alibaba a Facebook – e i poteri mediatici detengono un’egemonia e una capacità di controllo pressoché illimitate, le forme di resistenza non si manifestano come grandi ideali o progetti di carattere totalitario, bensì come piccole resistenze individuali e comunitarie.
In questo testo che invita alla riflessione e all’apertura interculturale, si parla di emancipazione dell’essere umano da ogni forma di potere o costrizione esterna, di un anarchismo non meramente politico ma visto come un’emancipazione dal politico, un’emancipazione individuale ma non individualista, bensì comunitaria; si parla di incontri con la divinità senza mediazioni né rappresentazioni, di incontri che possono verificarsi nel cuore di ogni creatura; si parla di libertà, di solidarietà fra uguali, di mutuo sostegno, chiudendo così: “L’anarchismo allude alla politica liberata dalla tirannia del potere e il misticismo allude alla spiritualità liberata dalle pastoie delle religione. L’Islām è una sintesi di entrambi”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato, oltretutto con la quasi certezza di non avere “competenze” a sufficienza che mi sostenessero, mi guidassero, ma credo sia stato proprio tutto questo a indurmi a leggere queste pagine e a scriverne.
Però qualcosa che avevo fatto mio in passato mi è tornato alla mente, magari non per sostenermi o guidare, ma di certo per essere impastato con quest’ultima mia lettura e aggiunto a quella malta su cui poggio la mia esistenza quotidiana. Mi sono ricordato, per esempio, ciò che aveva scritto nel 1991 Hakim Bey in T.A.Z.: “Proprio come i radicali culturali cercano di infiltrare e sovvertire i media popolari e proprio come i radicali politici producono simili funzioni nelle sfere del lavoro, nella Famiglia e in altre organizzazioni sociali, così c’è bisogno di radicali che penetrino l’istituzione della religione stessa piuttosto che continuare a sputare frasi fatte del XIX secolo a proposito di materialismo ateo”. E anche cosa scrisse nel 1904-1905 Lev Tolstoj in Guerra e rivoluzione: “[i cristiani] si allontanano sempre di più dalla vita cristiana. Il senso della loro dottrina si oscura, ed essi sono arrivati infine alla loro triste situazione attuale: divisione dei popoli cristiani in campi nemici, spendendo tutte le loro forze ad armarsi per essere pronti in qualsiasi momento a dilaniarsi tra di loro. In più: essi hanno provocato l’odio dei popoli non cristiani che si sollevano da ora contro di loro. Infine, e soprattutto, essi sono arrivati alla negazione completa non solo del cristianesimo, ma di tutte le leggi aventi un carattere elevato”.
Mi è venuto in mente Jacques Ellul che riteneva il messaggio biblico capace di delineare un’etica di vita che si oppone alla logica del potere, della violenza e della tecnica; che riteneva l’approccio critico alla modernità non andasse mosso in chiave nostalgica verso un passato perduto, ma guardando al futuro; che vedeva il cristiano impegnato in una vita d’amore e servizio come un essere coraggioso e autentico perché costretto a muoversi controcorrente rispetto ai valori dominanti; che riteneva fondamentale la responsabilità individuale sostenendo che ogni persona ha il dovere di prendere posizione anche attraverso piccoli atti di resistenza per difendere il bene raro e prezioso della libertà.
Dopodiché, sono andato a rileggere un passaggio della postfazione che l’amico don Andrea Gallo scrisse per l’edizione pubblicata nel 2011 dai tipi di Elèuthera, di Anarchia e cristianesimo di Jacques Ellul, appunto: “[…] oggi l’unico modo per parlare di Dio è quello di confrontarsi con una molteplicità di espressioni della fede. I termini «protestante», «agnostico», «cattolico», o anche «anarchico», non contano più. Anni fa, Fabrizio De André mi diceva che secondo lui Madre Natura ci aveva semplicemente dotato di «un quoziente di intelligenza, di un quoziente di creatività e di un quoziente di spiritualità». Ciò che attualmente alcuni antropologi mi sembra chiamino addirittura «punto di Dio». Comunque sia, sono sempre le religioni che vogliono monopolizzare e strumentalizzare la spiritualità”.
Non solo. Lo scorso 1° agosto, mentre al bar leggevo L’Islam come anarchismo mistico, vedo sul tavolino accanto al mio, copia cartacea del quotidiano genovese Il Secolo XIX di quel giorno, e decido di sfogliarla. Mi fermo quando vedo un’intervista di Emanuela Schenone al teologo Vito Mancuso e mi dico che, forse, qualche divinità mi ha suggerito di prendermi una pausa dal libro perché, a poca distanza da me, c’era qualcosa di non estraneo alla lettura che mi stava severamente impegnando.
Fra le tante cose interessanti, Mancuso dice che Dio può rappresentare la via per la liberazione, ma spesso può essere a sua volta una trappola perché la coscienza religiosa potrebbe essere la più pericolosa trappola dentro cui un essere umano può capitare se diventa chiusura, estremismo e che, all’opposto, può essere una sorgente di consapevolezza e di liberazione. Dice che la differenza sta nel modo in cui vengono vissute queste coscienze, che gli esempi più clamorosi li troviamo nei fanatismi dei nostri giorni nati da quella diabolica connessione di religione e politica che rappresenta, appunto, una trappola.
Il teologo aggiunge che molte persone ritengono la religione la cosa più importante in assoluto, che tutto debba essere al suo servizio e che ciò porta all’intolleranza, mentre invece dovremmo capire che c’è qualcosa di più importante, che è l’etica, e che le religioni si dovrebbero porre al servizio di un’etica mondiale “facendo pulizia in casa”, cercando di capire quali sono state le ragioni del fallimento che non sono riconducibili solo all’imperfezione umana, ma anche all’imperfezione della religione in se stessa, e qui ricorda come alcune pagine della Bibbia ebraica siano cariche di odio e violenza e come queste possano generare odio e violenza in chi legge e le ritiene parole di Dio, “e lo stesso vale per il Corano e per il Nuovo Testamento”.
Mancuso pensa che Dio sia dentro di noi e che quando rispondiamo a quella domanda di bene, bontà e bellezza che nasce in noi, stiamo facendo il più grande atto di culto possibile, e che questa voce della coscienza possiamo benissimo chiamarla Dio, ma che va bene lo stesso se qualcuno vuole chiamarla in un altro modo perché la sostanza non cambia.
Il teologo parla anche di consapevolezza, della capacità di saper riconoscere che non siamo liberi, che viviamo in trappola l’intera nostra vita, e che la trappola è lo stato di prigionia in cui tutti ci troviamo, una condizione che costringe a correre indipendentemente dalla nostra volontà sul tapis roulant dell’esistenza che procede verso un destino che non abbiamo scelto.
Questa trappola, questa prigionia, questo nostro Dio interiore che a un certo punto della nostra Storia abbiamo deciso di porlo in alto nei Cieli trasformandolo in una specie di super-eroe onnipresente, onnipotente e onnisciente, potrebbe non essere altro che l’umana risposta a un forte bisogno dell’Uomo per salvarsi dal nulla che è; lo spiega meglio di me Simone Weil ancora nel suo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale: “Il corpo umano non può in alcun caso smettere di dipendere dal potente universo di cui è prigioniero; quand’anche l’uomo non fosse più sottomesso alle cose e agli altri uomini attraverso i bisogni e i pericoli, egli ne sarebbe ancora più completamente preda a causa delle emozioni che lo assillerebbero di continuo e da cui nessuna attività regolare potrebbe più difenderlo”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato con la quasi certezza di non avere “competenze” in grado di guidarmi, aiutarmi in questa navigazione fra marosi che mi spaventano, sotto un cielo senza stelle, e infatti non è andata benissimo: mi sono perso nel potente universo che ci circonda, ci imprigiona, ci intrappola ma, potrete anche non credermi, l’attuale mio naufragio m’è dolce in questo mare.

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