William T. Vollmann – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 25 Oct 2025 20:00:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 8 – L’atlante del dolore di William T. Vollmann https://www.carmillaonline.com/2025/04/23/elogio-delleccesso-7-latlante-del-dolore-di-william-t-vollmann/ Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87979 di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi? Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni [...]]]> di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi?
Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni (Auster, De Lillo, Wallace, Pynchon) è sicuramente quello di aver indirizzato la loro letteratura verso una sorta di smaterializzazione, in cui la realtà è spesso rappresentata più da simboli che dalla concretezza dei fatti cui ci aveva abituato il realismo di tanti autori statunitensi precedenti.

Un risultato che sembra dovuto, più che alle riflessioni sulla “leggerezza” contenute nelle Lezioni americane di Italo Calvino1, all’inevitabile influenza culturale esercitata sulla stessa letteratura dal processo, avvenuto in Occidente nel corso degli ultimi quattro decenni in ambito economico e produttivo, che ha portato al trionfo della produzione immateriale su quella concretamente industriale e del capitale fittizio su quello investito nella produzione industriale di beni materiali.

Una sorta di guerra che vede simbolicamente, ma non soltanto, scontrarsi, da un lato, la “volatilità” finanziaria dei giganti del NASDAQ2 e, dall’altro, l’industria manifatturiera che l’attuale presidente statunitense sta cercando di riportare, non senza difficoltà, negli Stati Uniti, insieme al lavoro, da anni in caduta libera nel settore un tempo sviluppatosi in quella che oggi viene ancora definita Rust Belt.

Una “guerra” in cui lo scrittore e saggista americano William T. Vollman sembra aver scelto di schierarsi dalla parte della Rust Belt, non tanto per il contenuto dei suoi scritti, quanto piuttosto per essersi messo, fin dalle sue prime opere, sulle tracce della concretezza del mondo, convinto che dovesse ancora esistere e che ha saputo ritrovare in ogni occasione possibile. Seguendo percorsi allo stesso tempo simili eppure molto diversi da quelli di Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck e dello stesso Kerouac, i cui viaggi on the road rappresentavano una scusa per incontrare le varietà di una società sospesa tra il benessere del dopoguerra e il desiderio di fuggirlo.

Occorre partire da Kerouac, infatti, per comprendere i viaggi, spesso pericolosi, intrapresi da Vollmann in ogni angolo degli Stati Uniti e del mondo: da San Francsco a New York e dal Madagascar all’Afghanstan fino alla Thailandia e alla Cambogia. A differenza del più significativo scrittore della beat generation, però, i suoi viaggi non avvengono solo nel tempo sincronico del presente della sua scrittura, ma anche lungo diverse coordinate temporali.

Ripercorrere il passato e le origini degli attuali States, o dei fatti che condussero e accompagnarono il secondo conflitto mondiale oppure, ancora, la lunga onda della violenza che sembra aver accompagnato la storia della specie umana, costituisce il nerbo di tutta la sua letteratura in cui il presente non può esistere senza il passato, mentre il passato non avrebbe senso alcun se non ne si ritrovasse ancora traccia nella contemporaneità.

Ma il filo rosso che attraversa crudelmente tutte le sue opere, sempre sospese tra cronaca, autobiografia e invenzione, è rappresentato dal dolore che sembra accompagnare l’esistenza in ogni suo attimo. Che si tratti dei nugoli di zanzare che tormentano selvaggiamente i viaggiatori nelle terre del Nord americano, oppure di quello mascherato da sorrisi delle giovani prostitute dell’estremo oriente oppure malgasce e tedesche, o, ancora, la solitudine di uomini che cercano nel sesso a pagamento un amore perduto o forse mai incontrato, il dolore sembra non abbandonare mai gli esseri umani durante la loro esistenza.

Le storie dei soldati, guerriglieri, nativi americani soppressi con le armi e con il vaiolo, oltre che di esploratori destinati soltanto ad affacciarsi sul nulla dell’esistenza, si accompagnano anche a quelle dei danni, e quindi metaforicamente al dolore, subiti dall’ambiente e dalle altre specie animali. Che si tratti delle zone colpite dal disastro nucleare di Fukushima o delle foche uccise dagli Inuit oppure dai ben più avidi e scellerati cacciatori “bianchi”, le manifestazioni del dolore, fisico e psichico, non cessano mai. In una sorta di muto colloquio dell’autore con un fato che non veste nemmeno i panni razionali della Natura dialogante con un islandese di una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi.

Però, più che Leopardi che, per l’epoca in cui visse, seppe leggere in senso materialistico lo strazio delle vicende umane, individuali e collettive, in Vollmann a trionfare è lo sguardo addolorato, spesso rabbioso, di Louis-Ferdinand Céline. Quello dell’uomo che si rivolta contro le sue condizioni di esistenza, senza però mai intravedere un filo di speranza, impossibilitato a ritrovare il filo di quell’umana social catena che nella Ginestra leopardiana poteva, almeno, fungere da possibile, e forse unica, consolazione.

Nei testi di William T. Vollmann siamo quindi lontani anni luce da qualsiasi forma di leggerezza o immaterialità mentre i suoi simboli sono sempre estremamente concreti, fatti di carne e di sangue, poiché su un altro versante della letteratura si pone l’autore, lontano sia dalla ricerca del sensazionalismo politico e sociale ricercato dagli scrittori muckraker della fine del XIX secolo che dal distacco della scrittura dall'”oggetto” narrato.

Vollmann, invece, guarda in faccia il dolore e ce lo sbatte sul muso, senza inutili pietismi e senza mai risparmiarci il sangue, la merda, la puzza, lo sperma che spesso lo accompagnano. Come per Cèline, l’invito rivolto al lettore è lo stesso: accomodati al mio desco e consuma con me questo piatto indigesto e quasi sempre ripugnante oppure lasciami perdere a vai a farti fottere da chi immagina e parla di un mondo migliore. Magari anche divertente.

Roba per stomaci forti, per proseguire con la metafora gastronomica, di cui il testo pubblicato nel 2023 da minimum fax rappresenta il menù sostanzialmente completo, dagli antipasti ai secondi piatti, dolci assolutamente esclusi. Dall’estremo Nord alla Jugoslavia devastata dalla guerra civile; dalla Somalia alle autostrade americane, dalla Thailandia a Pompei: come si è già detto, non c’è quasi terra o contesto umano che William Vollmann non abbia esplorato e raccontato.

L’atlante costituisce così il diario di viaggio di questa erranza continua e irrequieta, ricostruita attraverso cinquantadue “capitoli” diseguali per lunghezza e per tono, ma accomunati dallo stesso brutale incontro/scontro con la vita concreta. I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto. Mentre altri anticipano, in qualche modo, quelli ancora non scritti all’epoca della loro stesura.

William Tanner Vollmann è nato a Santa Monica, California, il 28 luglio 1959 e ha vissuto in seguito nel New Hampshire, a New York e San Francisco. Quando aveva nove anni, la sorella di sei anni annegò in uno stagno e lui si sentì responsabile della sua morte e, secondo lo scrittore, questa perdita avrebbe finito con l’influenzare gran parte del suo lavoro.

Dopo l’università, frequentata alla Cornell di Ithaca, lavorò come segretario in una piccola compagnia di assicurazioni, a San Francisco, per alcuni mesi e con i soldi ricavati da questo impiego, partì per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica, scrivendo poi le sue esperienze in An Afghanistan Picture Show, or, How I Saved the World (Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova 2005 e minimum fax, Roma 2020) pubblicato nel 1992, quasi dieci anni dopo quel primo viaggio.

Libro in cui racconta a posteriori un’esperienza sostanzialmente fallimentare, attraverso uno sguardo più adulto e disincantato, capace di guardare senza nostalgia al proprio io più giovane e ingenuo, che riusciva a porre le domande più sbagliate alle persone sbagliate, mentre si contorceva tra i dolori della dissenteria. Tra conversazioni piene di equivoci ed estenuanti camminate nell’impervio territorio afgano, trascinato e talvolta trasportato pietosamente dai mujahiddin, lo scrittore mette in scena l’idealismo ingenuo e il colonialismo dello sguardo americano sul mondo, in un’opera ibrida che si muove già, come molte altre successivamente, tra romanzo e diario, saggio storico e reportage. Che è per molti versi assimilabile agli scritti raccolti da Mark Twain sotto il titolo Gli innocenti all’estero in cui lo scrittore, più che ai paesi visitati durante diversi viaggi intorno al mondo, guardava ai comportamenti dei suoi concittadini messi al cospetto di una realtà molto diversa da quella della madrepatria da cui provenivano.

Successivamente Vollmann avrebbe pubblicato scritti di viaggio e articoli per la rivista «Spin», per il «New Yorker» e nella «New York Times Book Review», mentre all’inizio del 2003, dopo molti rinvii, ha pubblicato Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means (San Francisco, McSweeney’s Books, 2003), un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine, di cui una versione ridotta a un solo volume, di circa mille pagine, è stata pubblicata l’anno seguente da Eco Press (Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza, Mondadori, Milano 2007; nuova edizione minimum fax, Roma 2022).

Elaborato nel corso di vent’anni, il testo si basa da un lato su un colossale lavoro sulle fonti (filosofia, teologia, biografie di tiranni, signori della guerra, criminali, attivisti e pacifisti), dall’altro su una serie di esperienze dirette, spesso estreme, che hanno portato l’autore nel cuore dei conflitti di fine Novecento e nelle zone più degradate delle grandi metropoli. Con l’attenzione rivolta sia a figure storiche che a persone comuni che della violenza hanno fatto un metodo, di difesa o di offesa: tutti abbracciati da uno sguardo profondo e partecipe.

Opera cui è possibile avvicinare anche Europe Central, che tratta di un ampio gruppo di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania nazista e Unione Sovietica nel corso del secondo conflitto mondiale, che ha vinto nel 2005 il National Book Award per la narrativa (Mondadori, Milano 2010.). Romanzo che può ricordare, per molti versi, Vita e destino (in russo Жизнь и судьба, Žizn’ i sud’ba) di Vasilij Semënovič Grossman, scritto in Russia nel 1959 e pubblicato in Svizzera soltanto nel 1980, sedici anni dopo la scomparsa dell’autore (ed. italiane: Jaca Book, Milano 1982; Adelphi, Milano 2008), drammaticamente incentrato sugli avvenimenti ruotanti intorno alla battaglia di Stalingrado e di cui si parlerà nel prossimo futuro in questa stessa serie di articoli.

Sempre di carattere storico è un’altra opera monumentale di Vollmann, ovvero il ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani, previsto in sette volumi, di cui pubblicati fino ad ora soltanto cinque e del quale in Italia sono stati tradotti tre titoli: La camicia di ghiaccio (The Ice-Shirt, New York, Viking, 1990; trad. italiana Alet, Padova 2007), Venga il tuo regno (Fathers and Crows, New York, Viking, 1992; Alet, Padova 2011) e I fucili (The Rifles, New York, Viking, 1994); Minimum Fax, Roma 2018) I due titoli non ancora pubblicati in Italia sono Argall: The True Story of Pocahontas and Captain John Smith (New York, Viking, 2001) e The Dying Grass (New York, Viking, 2015). Mentre i due annunciati e mai pubblicati sarebbero: The Poison Shirt e The Cloud-Shirt.

Si tratta, com’è facilmente intuibile dai titoli, di una lunga e sofferta narrazione della conquista europea del continente nord-americano e della fine delle società native conseguita a ciò, dai tempi dell’arrivo dei Vichinghi alla fine degli Indiani delle pianure, passando per la cristianizzazione dei nativi canadesi e la colonizzazione tecnologica degli Inuit. Raccontando un mondo che è scomparso non soltanto per quanto riguarda le differenti etnie e le loro tradizioni e forme di organizzazione sociale, ma anche, e talvolta soprattutto, dal punto di vista ambientale.

Ad uno dei romanzi, I fucili, rimanda uno dei racconti pubblicati sull’Atlante: Un vecchio dai vecchi kamik grigi – Coral Harbour, isola di Southampton, Territori del Nordovest, Canada (1993).
Tutti accompagnati dalla precisazione della località in cui sono ambientati e, in un apposito dizionario geografico posto all’inizio dell’antologia, dalle precise coordinate spaziali e geografiche, che le indicano in termini di longitudine e latitudine. In questo caso specifico: 64.10 Nord – 83.15 Ovest. Una precisione che non è pedanteria, ma attenzione a mappare esistenze, storie e drammi destinati a costruire un autentico reticolo del dolore sulla superficie terrestre e a penetrare più in profondità nella coscienza del lettore.

Ma l’opera che, per quanto riguarda chi stende queste note, pare più adatta a riassumere la visione del mondo dello scrittore nordamericano è la cosiddetta Trilogia della prostituzione, composta da tre testi di cui soltanto due pubblicati per ora in Italia: Puttane per Gloria (Whores for Gloria, New York, Pantheon Books, 1991; Mondadori, Milano 2000 e minimum fax, Roma 2024), Storie della farfalla (Butterfly Stories: A Novel, New York, Grove Press, 1993; Fanucci, Roma 1999 e minimum fax, Roma 2019) e The Royal Family (New York, Viking, 2000).

Storie e cronache in cui la ricerca della soddisfazione sessuale e la delusione che deriva dai rapporti con donne obbligate ad “offrirla” permette a Vollmann di esplorare fino in fondo i danni provocati dalla concezione spesso superficiale che un Occidente ricco e colonialista ha del mondo, anche quando questo sembra assumere sembianze innocue, turistiche, umanitarie o, peggio ancora, romantiche. Storie di emarginazione, abbrutimento, miseria e ignoranza che alcuni racconti contenuti nell’antologia sottolineano con vigore, anche se magari in poche pagine: Inutile piangere – Bangkok, provincia di Phra Nakhon-Thumburi (1993); Cinque notti solitarie – San Francisco, California, Usa (1984) – New York, Usa (1990) – Berlino, Germania (1992) – Antananarivo, Madagascar (1992) – Nairobi, Kenya (1993; Storie della farfalla (1 e 2). Queste ultime quasi tutte ambientate a Phnom Penh, Cambogia oltre che a Bangkok, Thailandia e a Sacramento, California tra il 1991 e il 1994.

Nella vita privata, Vollmann rifiuta la fama letteraria e l’utilizzo di dispositivi moderni quali cellulari e carte di credito e viene talvolta descritto come misantropo e schivo, tanto che in un saggio del 2023, intitolato Life as a Terrorist, Vollmann ha rivelato quanto l’attenzione ai temi di “anti-progresso” e “anti-industrializzazione” dei primi lavori abbia cambiato la sua vita, descrivendo, utilizzando proprio i file ufficiali, ottenuti attraverso il Freedom of Information Act, l’inchiesta a suo carico condotta dal Federal Bureau of Investigation alla metà negli anni novanta, ritenendolo sospettato nel caso Unabomber.

Oltre a diversi romanzi, spesso ancora inediti in Italia, Vollmann ha pubblicato varie raccolte di racconti: I racconti dell’arcobaleno (The Rainbow Stories, New York, Atheneum, 1989 – Fanucci, Roma 2001); Tredici storie per tredici epitaffi (Thirteen Stories and Thirteen Epitaphs, New York, Pantheon Books, 1991- Fanucci, Roma 2005 e minimum fax, Roma 2025) e Ultime storie e altre storie (Last Stories and Other Stories, New York, Viking, 2014– Mondadori, Milano.2016).

Tra le opere lontane dalla fiction vanno segnalate almeno quelle pubblicate in Italia che, oltre a Come un’onda che sale e che scende, comprendono I poveri (Poor People, New York, Ecco, 2007- Minimum Fax, Roma 2020) e Zona proibita. Un viaggio nell’inferno e nell’acqua alta del Giappone dopo il terremoto (Into the Forbidden Zone, New York, Byliner, 2011– Mondadori, Milano 2012). quest’ultimo recensito qui su Carmillaonline.


  1. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti 1993) è un libro di Italo Calvino basato su una serie di lezioni preparate in vista di un ciclo di sei discorsi da tenere all’Università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986. Fu pubblicato postumo nel 1988, vista la morte improvvisa dell’autore prima della partenza per gli States.  

  2. National Association of Securities Dealers Automated Quotation, ovvero Associazione nazionale degli operatori in titoli con quotazione automatizzata, primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, che costituisce, essenzialmente, l’indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana in cui sono quotate compagnie di molteplici settori, tra cui quelle informatiche come Microsoft, Cisco Systems, Apple, Googl, Facebook, Amazon e Yahoo, basato esclusivamente su una rete di computer e sulla capitalizzazione in borsa dei medesimi titoli.  

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Come un’onda che sale e che scende* https://www.carmillaonline.com/2023/01/25/come-unonda-che-sale-e-che-scende/ Wed, 25 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75695 di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta [...]]]> di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.

L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.

Il testo qui recensito segue il percorso della lunga onda, che sale e scende attraverso i secoli e le società, delle lotte dei lavoratori e dei ceti disagiati fin dal comparire di un’economia di mercato in età medievale, moderna e, infine, contemporanea. Un’analisi delle rivolte e della loro organizzazione che, secondo l’autore, è possibile svolgere proprio a partire dal lavoro di Marx sulla sfera della produzione e su quella della circolazione. Sostenendo, sulla base degli scritti del rivoluzionario tedesco, che la seconda non si riduce, come sosterrebbero gli “ortodossi” alla sola sfera dello scambio, ma che farebbe invece da sfondo all’agire sociale nel suo insieme poiché, come spiega Clover nel poscritto all’edizione italiana: «Una volta che l’agricoltura di sussistenza e il baratto locale sono sradicati, e le forme di servitù assoluta trasformate oppure occultate dalla legge, il proletariato, di qualunque tipo esso sia, si trova a dipendere dal mercato»2. E quindi ad agire all’interno di essa.

E’ in questo contesto che si svilupparono i riot del tardo medioevo e della prima età moderna, che raccoglievano poveri delle città, contadini rovinati dal progressivo diffondersi di norme economiche e legali che ne impedivano la sopravvivenza secondo le vecchie tradizioni comunitarie e strati sociali il cui unico orizzonte era rappresentato dalla necessità di ottenere un abbassamento dei prezzi per poter sfamare la propria persona e/o la propria famiglia. Riot in cui spesso erano protagoniste le donne che vivevano sulla propria pelle tutte le condizioni appena riassunte e che cercavano, nella sostanza, di imporre una forma di riduzione o di controllo dei prezzi delle merci.

Sono questi riot che precedono lo sciopero nel titolo. Sciopero che, tra mille difficoltà e durissimi scontri, diventerà la forma di lotta e di organizzazione della forza lavoro fin dall’apparire in Inghilterra della Rivoluzione Industriale e che rimarrà, nei fatti e nell’immaginario collettivo, lo strumento determinante per la battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Almeno fino alla seconda metà del ‘900 in Occidente.

Forma di lotta prevalente all’interno della sfera della produzione che, però, finiva col costituire anche una forma di controllo dei prezzi attraverso un innalzamento del valore della forza lavoro.
In qualche modo la lotta intorno al mercato del lavoro finiva col sostituirsi a quelle intorno al mercato popolare e urbano. Forma di lotta spesso vincente sul lungo e medio periodo, ma che spesso ha finito coll’escludere dall’orizzonte proletario forme di lotta e fasce sociali che non potevano vantare un’appartenenza alla classe operaia o lavoratrice. Ma, c’è sempre un ma…

Storicamente, la forza dei lavoratori si è basata sulla crescita del settore produttivo e sull’abilità nel prendere possesso di una parte del sovrappiù in espansione. Dalla fine degli anni Settanta in poi, i movimenti dei lavoratori sono stati costretti a negoziati difensivi, venendo obbligati a tenere in vita le aziende capaci di fornire i salari e rendendo manifesta la dominazione del capitale in cambio della sua stessa preservazione. Chi lavora compare sulla scena in un periodo di crisi in quanto lavorator* e affronta una situazione nella quale “lo stesso fatto di agire come una classe appare come una costrizione esterna”. Tale dinamica, che potremmo descrivere come la trappola dell’auto-affermazione, è diventata una forma sociale generalizzata e un quadro concettuale, la razionale irrazionalità della nostra epoca. Il disordine intrinseco al riot può essere inteso come un’immediata negazione di tutto questo3.

Sottolinea più volte l’autore, nel corso del testo, che l’analisi delle lotte non può essere scissa da una teoria della crisi e da un’analisi materialistica delle condizioni in cui vengono a svolgersi e del contesto generale in cui si sviluppano.

Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti4.

Potremmo aggiungere, come fa lo stesso autore in altra parte del testo, le lotte valsusine contro il TAV e dei Gilet Jaune in Francia, che proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore intorno alla questione dell’innalzamento dell’età pensionabile proposta da presidente Macron e dal suo governo.

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo5.

Come si afferma ancora nella Nota editoriale del Gruppo di Ricerca Ippolita che ha voluto la pubblicazione del testo in Italia:

Il libro di Clover contribuisce a ridare dignità politica al riot, aiuta a ricostruire storicamente le sue trame costituite in gran parte da rivendicazioni più che legittime, ne propone una teoria in chiave marxiana. C’è, però, un elemento che, più di altri, ci ha convint* a pubblicarlo nella collana “Culture radicali”: il fatto che invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico. Esso pertanto comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’economia di produzione perde di centralità a vantaggio di quella di circolazione. Ciò fa sì che non sia solo il luogo e il modo a mutare, cioè la fabbrica e lo sciopero, ma necessariamente anche il soggetto che si riconfigura lungo gli assi della razza e – aggiungiamo – del genere, oltre a quello tipico della classe. Elemento, quest’ultimo, che comunque si ridefinisce comprendendo quelle fasce di popolazione tradizionalmente escluse dal concetto novecentesco di proletariato: i corpi che non contano. È sotto gli occhi di tutt*. In una congiuntura unica tra necropolitica di stato, disastro ecologico, neoliberalismo da rapina, tecnologie del dominio, violenza di genere e razzismo, negli ultimi dieci anni ha avuto luogo una serie straordinaria di eventi insurrezionali in ogni angolo del mondo […] In questo groviglio inseparabile di istanze e lotte, la tradizionale contrapposizione tra sciopero e riot salta, non funziona più perché figlia di un’altra epoca. Chi oggi insorge chiede migliori condizioni di vita – non solo un salario migliore –, chiede giustizia nelle sue diverse e numerose declinazioni. Questo percorso è ancora in divenire e, se è difficile prevederne l’esito, è, invece, facile immaginare che questa marea sia solo all’inizio e che non si placherà tanto facilmente. Di tutto ciò Joshua Clover propone una teoria brillante e sofisticata; il nostro intento, pubblicandolo, è che questo testo possa diventare uno strumento utile per le lotte di oggi e di domani6.

Certo, all’interno della teoria e della pratica del riot c’è stato un salto qualitativo rispetto a quelli ancora definiti dal Riot Act emanato da re Giorgio I nel 1714. Non a caso nel testo di Clover l’evoluzione è indicata dall’uso della formula riot-sciopero-riot’ che rinvia immediatamente a quella marxiana dell’accumulazione D-M-D’ , marcando un passaggio per accumulo di esperienze e di istanze che rendono i riot contemporanei diversi da quelli del passato. Intanto perché nel capitalismo attuale la sfera della circolazione si è ampliata ben al di là del mercato come luogo di scambio di merci.

Partendo dall’assunto marxiano che «La circolazione e lo scambio di merci, non crea nessun valore»7, Clover osserva che:

Sono categorie infinitamente problematiche e in questo hanno un peso i limiti di questo tipo di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, uno dei tratti distintivi della nostra epoca, sembrerebbe in un primo momento garantire una soluzione adeguata a questo problema, portando a una circolazione dei prodotti che tende verso la realizzazione come profitto del plusvalore valorizzato altrove. Altri sostengono la tesi contraria, e cioè che lo spostamento nello spazio aumenti il valore di una merce. Di fatto, nella loro accezione più ristretta, i “costi puri di circolazione” potrebbero limitarsi a quelle attività che istituiscono lo scambio stesso, il trasferimento astratto del titolo di proprietà: vendite, contabilità e attività simili. Inoltre, anche la finanziarizzazione e la “globalizzazione” (termine con cui si estende l’estensione verso i confini planetari delle reti e dei processi logistici, guidati dall’innovazione informatica) dovrebbero essere intese come strategie temporali e spaziali orientate verso l’internalizzazione di nuovi input di valore provenienti, rispettivamente, da altri luoghi e da altri tempi. Questo, tuttavia, può soltanto corroborare l’assunto secondo cui la fase attuale del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo; è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza. I dati sono, in questo senso, illuminanti. Come osserva Brenner, «[d]al 1973 a oggi, la performance economica degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone è peggiorata secondo tutti gli indicatori macroeconomici standard, ciclo dopo ciclo, decennio dopo decennio (con la sola eccezione della seconda metà degli anni Novanta)»8. La crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del lungo boom precedente. Anche se stabilissimo che il trasporto può essere parte tanto della valorizzazione quanto della realizzazione del profitto, dovremmo in ogni caso confrontarci con il fatto che i grandi avanzamenti sul piano del trasporto globale e l’accelerazione del tempo di turnover rispetto agli anni Settanta coesistono, nelle maggiori nazioni capitaliste, con il ripiegamento della produzione. […] In ogni caso, né la spedizione delle merci né la finanza sembrano aver arrestato la stagnazione e il declino della redditività globale. […] Tuttavia, questo non significa che tra gli effetti non ci sia stato quello di consolidare i profitti delle singole aziende, che possono ottenere vantaggi competitivi dal calo dei loro costi di circolazione, in una politica beggar thy neighbour (“impoverisci il tuo vicino”) trasposta nell’era dell’informatica. […] Senza addentrarci troppo nel labirinto marxologico, possiamo affermare in modo piuttosto incontrovertibile che nel periodo in questione il capitale, di fronte a profitti notevolmente diminuiti nei settori produttivi tradizionali, va a caccia degli utili oltre i confini della fabbrica – nel settore FIRE (Finance, Insurance e Real Estate), secondo le rotte predisposte dalle reti globali della logistica – pur non trovandovi alcuna soluzione percorribile alla crisi che, in prima battuta, l’ha allontanato dalla produzione. Anzi, l’agitazione è sempre più frenetica, gli schemi più elaborati, le bolle più grandi, e più grandi le esplosioni. In un moto di disperazione dialettica, lo stesso meccanismo che ha incluso il capitale nella sfera fratricida della circolazione a somma zero opera più o meno allo stesso modo nei confronti di un numero crescente di esseri umani. Crisi e disoccupazione, i due grandi temi de Il Capitale, sono entrambi espressione del tragico difetto del capitalismo che, nella ricerca del profitto, deve prosciugarne la sorgente, scontrandosi con i suoi limiti oggettivi nell’incessante rincorsa all’accumulazione e alla produttività […] L’unitarietà di questo fenomeno rende manifesta anche la contraddizione tra plusvalore assoluto e relativo. Le lotte intercapitaliste per ridurre i costi di tutti i processi correlati arrivano alla reiterata sostituzione della forza lavoro con macchine e forme di organizzazione più efficienti, e questo, nel tempo, aumenta la ratio del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, espellendo l’origine del plusvalore assoluto dalla lotta per la sua forma relativa. La crisi è uno sviluppo di queste contraddizioni fino al punto di rottura. Ciò prevede non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione. Le fabbriche vanno tranquillamente avanti. Cercando salari altrove, chi è stat* licenziat* scopre che l’automazione che avrebbe dovuto ridurre la sua fatica si è ormai generalizzata nei vari settori. Adesso il lavoro non utilizzato si accumula gomito a gomito con la capacità produttiva non utilizzata. È la produzione della non-produzione. Siamo tornati, in una forma in qualche modo diversa, a una questione di classe, nella forma in cui Marx la descrive nel Capitale come “sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiori infine sono lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”9.

Chi è espulso, o sta per esserlo, dai luoghi di produzione e dal mercato del lavoro non può far altro che colpire il capitale là dove finge ancora di aggiungere valore ai suoi prodotti ovvero bloccando reti stradali e autostradali, ferroviarie, informatiche e porti. Forse per questo le leggi sui blocchi stradali, come qui in Italia, vanno organizzandosi in forme sempre più dure.
Motivo per cui mentre nel ‘700

lo stato era lontano, mentre l’economia era vicina. Nel 2015, lo stato è vicino e l’economia lontana. La produzione è nebulizzata, le merci sono assemblate e distribuite secondo catene logistiche globali. Anche i prodotti alimentari più basilari possono essere stati prodotti in un altro continente. Nel frattempo, si è sempre a tiro dell’esercito permanente interno d ello stato, progressivamente militarizzato con il pretesto di dover fare la guerra alle droghe o al terrore. Il riot’ non può fare a meno di sollevarsi contro lo stato: non c’è alternativa10.

Tra gli obiettivi immediati, lo abbiamo visto negli Stati Uniti con i riot avvenuti dopo l’uccisione di afroamericani dal 1992 a Los Angeles fino ad oggi, vi sono infatti i commissariati di polizia, luoghi in cui la violenza e la sopraffazione statale espongono spesso il loro vero volto. Ma anche i supermercati o catene di negozi il cui saccheggio odierno finisce col riunire il riot’ con il suo predecessore più antico

La principale difficoltà nella definizione del riot deriva dalla sua profonda correlazione con la violenza; per molti, questa associazione è talmente connotata dal punto di vista affettivo, in una direzione o nell’altra, che è difficile da dissipare, rendendo arduo, in questo modo, osservare anche altri aspetti. Non c’è dubbio che molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. […] Che i danni alla proprietà siano equiparabili alla violenza non è tanto una verità, quanto l’effetto di un’adozione di un particolare discorso sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implica una specifica identificazione degli esseri umani con una ricchezza astratta di qualche tipo e che porta, ad esempio, alla considerazione giuridica delle corporations in termini di “persone”. In ogni caso, l’enfasi sulla violenza del riot riesce efficacemente a oscurare la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che giorno dopo giorno perseguita le vite di gran parte della popolazione mondiale. La visione di una socialità generalmente pacifica nella quale la violenza scoppia soltanto in circostanze eccezionali è un immaginario che solamente alcuni si possono permettere. Per gli altri – la maggioranza – la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa uno strumento di esclusione, indirizzato non tanto contro la “violenza”, ma contro gruppi sociali specifici. Inoltre, per più di due secoli, anche gli scioperi hanno spesso fatto ricorso alla violenza: battaglie campali tra chi lavora, da un lato, e poliziotti, crumiri e picchiatori mercenari, dall’altro, che al loro culmine assomigliavano a scontri militari11.

Occorre, per motivi di spazio chiudere qui il discorso su un testo che presenta molti validi motivi per essere letto e diffuso, costituendo una sorta di storia del capitalismo e delle sue crisi attraverso lo sguardo dal basso che proviene da chi lotta, in un mondo in cui razializzazione delle lotte e coincidenza tra chi lavora e chi è comunque costretto a consumare apre nuovi e problematici orizzonti di ricerca per il lavoro militante, non soltanto teorico. E anche se molti attivisti e militanti di “sinistra” vorrebbero avere a che fare con lotte e obiettivi già ben delineati e “facili” da perseguire, Clover sottolinea ancora come una caratteristica di queste lotte possa essere quella di una certa familiarità con le destre.

Il tentativo di pseudogolpe attuato negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è stato senza dubbio un riot di destra, la piazza Syntagma della reazione. Un anno più tardi, sono stati i “Freedom Convoys” ad apparire in varie località, con il blocco delle principali arterie e dei corridoi commerciali come protesta contro i protocolli medici imposti dagli Stati in risposta alla pandemia. I blocchi più duraturi sono avvenuti in Canada, e la parentela di questi riot con la variante nazionale canadese dei gilets jaunes, nel 2019, non è passata inosservata. Tuttavia, quei riot portavano con loro anche i ricordi dei blocchi indigeni sugli assi di comunicazione transfrontalieri, economicamente cruciali, tra il commercio canadese e gli Stati Uniti. Tale deriva attraverso lo spettro politico chiarisce quello che dovrebbe essere già evidente: le lotte della circolazione sono una tecnica. Non hanno un contenuto politico prestabilito. In un certo senso, anzi, il loro contenuto è la mancanza di contenuto: sono lotte che ricevono una definizione in funzione della loro apertura a un ampio ventaglio di attori sociali, e possono quindi diventare la via maestra per l’espressione di una vasta gamma di tensioni sociali. D’altro canto, non si tratta di una situazione completamente amorfa. Questi riot di destra hanno un carattere nazionalista, razzista, devoto alle gerarchie e alle pratiche di dominazione, che non può passare sotto silenzio. Per contro, tale analisi non può essere svincolata dalla constatazione che il declino nelle opportunità di vita è arrivato a lambire quei gruppi sociali che per lungo tempo non ne erano stati toccati: la “classe media”, la petite bourgeoisie, e così via. Il motivo per cui tutto questo arriva talvolta a lambire la sinistra (come per buona parte del movimento Occupy) e talvolta la destra (come per i Freedom Convoys) non è chiaro. Siamo entrati in un periodo storico in cui i palliativi e i disciplinamenti dell’economia sono sempre meno a disposizione, e lo stato è sempre più obbligato a imporre con la forza il proprio ordine, apparendo sempre di più come il principale antagonista in campo. Potrebbe essere che questo sviluppo corrisponda a un indebolimento dello stesso spettro politico destra-sinistra, il cui orientamento, ormai, non è facilmente individuabile tra i poli-, pro- e anti-stato, pro- e anti-capitalismo. Allo stesso tempo e indipendentemente da una simile volatilità ideologica, queste forme di contestazione continuano a essere le armi a disposizione di chi subisce l’esclusione dalla buona vita, di chi soffre lo spossessamento delle proprie terre (senza che vi sia alcun assorbimento nella classe operaia), di chi riceve il marchio generazionale dell’essere stati proprietà di qualcun altro e di chi sperimenta la degradazione nell’ambito del lavoro domestico. È il conflitto che sceglie i propri attori, e non viceversa; questo, tuttavia, non sminuisce in alcun modo le lotte, gli sforzi, i rischi e la furia morale che informano i conflitti, così come non sminuisce il fatto che questa individuazione si basa, tra l’altro, sul fatto che le storie di depauperazione sono anche storie di formazione di classe. Tutto ciò non sminuisce le speranze di emancipazione che hanno queste persone. Ed è questo che, con ogni probabilità, manda in tilt l’equilibrio rappresentato dalla terza ambiguità. Le lotte della circolazione, in costante crescita, non si assoggettano con facilità ad alcuna volontà politica e sono qui per restare. In questo frangente, le loro tecniche possono essere appropriate da qualsiasi tipo di gruppo sociale, anche da quelli che aspirano a una distruzione reciproca. Chi continuerà a ribadire la qualità emancipatrice di tali lotte dovrà accettare il fatto che dentro alla rivoluzione ce n’è sempre un’altra: non una rivoluzione centrata sul significato di queste lotte, ma su quello che esse riusciranno a realizzare, sul loro ambiguo futuro12.

* Il titolo scelto vuole costituire un omaggio a uno degli studi più significativi sulla violenza nella storia e nella società, Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine di William T. Vollmann. Pubblicato all’inizio deI 2004 negli USA ha visto, l’anno successivo, l’uscita di una versione ridotta a un solo volume che rappresenta il frutto di oltre vent’anni di lavoro, uscita in Italia con il titolo Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (Mondadori 2007 – oggi ripubblicato da Minimum Fax, 2022).


  1. Cfr.: M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Bollati Boringhieri 1989 e la polemica tra Togliatti ed Elio Vittorini sui contenuti di «Il Politecnico», una rivista di politica e cultura fondata dallo stesso Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre1947. Il periodico basato su un programma antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”, conteneva, tra le altre cose, saggi di sociologia e testi di letteratura americana. Cosa che continuava la ricerca di nuove e vitali esperienze letterarie già avviata da Vittorini con la sua celebre antologia Americana, uscita nel 1942 ma accompagnata, come afferma Michela Nacci nel suo lavoro sull’antiamericanismo, da «un’introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere; la letteratura americana è “letteratura barbara, o in certo qual modo primitiva”, è “come dementata e percossa dal ballo di san Vito”» ( p. 14). Tale introduzione all’antologia sarebbe stata rimossa soltanto nell’edizione Bompiani del 1968.  

  2. J. Clover, Lotte della circolazione: tre ambiguità in J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, p.220  

  3. J. Clover, Riot. Sciopero. Riot, op. cit., p. 49  

  4. Ibidem, p.21  

  5. Ibid, p. 19  

  6. Gruppo di Ricerca Ippolita, Nota editoriale in J. Clover, op. cit., pp. 9-10.  

  7. K. Marx, Das Kapital [1867]; tr. it. di A. Macchioro, B. Maffi (a cura di), Il Capitale, UTET, Torino 1996, p. 214  

  8. R. Brenner, What’s Good for Goldman Sachs, prologo all’edizione spagnola di The Economics of Global Turbulence [2006], La economía de la turbulencia global, Akal, Madrid 2009, p. 6.  

  9. J. Clover, op. cit., pp.41-45  

  10. Ibidem, p. 48  

  11. Ibid., pp. 30-31  

  12. Ibid, pp. 230-232. Sugli stessi temi si veda anche S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

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Democrazie genocidarie https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/democrazie-genocidarie/ Wed, 26 Jun 2019 22:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53121 di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America [...]]]> di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America Settentrionale, dell’Australia e della Nuova Zelanda, potrebbero rivelarsi di estrema importanza sia sul piano storico che su quello della riflessione politica e culturale.

Nonostante il fatto che Franco Cardini, nella sua introduzione al testo, tentando di superare alcuni schemi ormai considerati fisiologici della rilettura del ‘900 sulla base dei regimi totalitari e genocidari (Nazismo e shoa – Stalinismo/bolscevismo e gulag), cerchi di far rientrare il problema all’interno di una rilettura dei fenomeni sopracitati in una più ampia (e scivolosa) tendenza della specie e delle società umane a distruggere, da sempre, i propri simili, finendo così col sostituire il male assoluto rappresentato nell’immaginario contemporaneo dalla shoa con una sorta di male assoluto insito nel profondo delle società umane fin dalle loro origini più antiche, l’autore non ha dubbi nel sostenere che il genocidio è alla base del trionfo economico e coloniale di alcune delle società considerate liberal-democratiche per eccellenza: quelle anglosassoni rappresentate dallo sviluppo dell’impero britannico e del suo Commonwealth, da un lato, e degli Stati Uniti, dall’altro.

Già in passato, autori come Andrzej Kaminski avevano cercato di allargare il tema oltre la shoa e il gulag almeno fino allo schiavismo ottocentesco, ma senza mai uscire dalla logica dei campi di concentramento, prigionia e lavoro coatto1, mentre invece la ricerca di Pegoraro, che coordina attività di ricerca presso la Monash University di Melbourne e collabora a riviste scientifiche quali Settler Colonial Studies e International Critical Thought, accentrando l’attenzione sul problema della distruzione recente dei popoli indigeni del continente nord-americano e dei territori australi non si preoccupa di affondare le mani in una storia di sangue, soprusi, violenze e massacri che non hanno avuto altra giustificazione che non fosse quella di sgombrare il campo da società e individui ritenuti “inferiori” che ostacolavano il cammino del progresso economico moderno e della civiltà occidentale mercantile, bianca e cristiana.

Se nella prima parte, infatti, l’autore si interroga sui significati attribuiti al termine genocidio e sull’effettiva “unicità” dell’Olocausto ebraico, nella seconda, una volta giunto alla definizione di democrazie genocidarie per indicare le forme di governo che, pur distanti dall’esser totalitarie, hanno contribuito in maniera massiccia e spietata al massacro di milioni di esseri umani caratterizzati soltanto da un diverso colore della pelle e da un diverso approccio culturale ai modi della sopravvivenza umana nell’ambiente che li circondava, scoperchia un autentico vaso di Pandora di furia e violenza, descrivendo dettagliatamente come tali olocausti altri furono condotti e motivati.

A partire dall’annientamento di una “razza esecrabile” come quella dei nativi nord-americani condotta con scotennamenti (premiati), cani, diffusione dell’alcolismo e del vaiolo che caratterizzarono la guerra contro gli “spietati indiani selvaggi”, Pegoraro ci conduce attraverso le marce della morte volute dal presidente Jackson per trasferire le tribù dai loro territori ad altri che poi gli furono ancora tolti in seguito (come l’Oklahoma). Ci fa assistere alle politiche di “spidocchiamento” delle Grandi Pianure e ai massacri avvenuti in quello che sarebbe diventato lo Stato più ricco dell’Unione: la California.

Ma non bastarono armi, malattie e spostamenti forzati, no.
Fu l’educazione forzata dei bambini a costituire uno strumento insostituibile per la distruzione della resistenza dei popoli indigeni, sia negli Stati Uniti che in Canada.
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo” sembra essere lo slogan ideale per rappresentare un’educazione autoritaria e micidiale destinata a sradicare dai più giovani, spesso con violenze e abusi, l’anima “primitiva” e ribelle con una più “civilizzata” e accondiscendente.

In Canada tale distruzione “educativa”, le cui conseguenze fisiche e psichiche hanno iniziato ad essere riscoperte soltanto da pochi decenni a questa parte e il cui motto sembra essere stato “l’unico indiano buono è il non-indiano”, è passata attraverso la deportazione e l’internamento dei piccoli discendenti delle tribù originarie, la morte di numerosi di loro per i maltrattamenti o le scarse cure prestate, le sevizie fisiche e mentali cui furono sottoposti spesso negli istituti educativi religiosi e “caritatevoli”. Fino al reale impedimento di procreare indotto in loro con le minacce, la forza oppure attraverso la demonizzazione delle più naturali attività sessuali connesse alla sopravvivenza della specie. Nel caso del Canada, poi, furono anche i Francesi a metterci lo zampino, per tramite dei Gesuiti che fin dal XVII secolo si dedicarono all’opera di “conversione” delle popolazioni indigene2 .

Ma ancor peggio, forse, andarono le cose per gli aborigeni del continente australiano, dove la progressiva colonizzazione “bianca” e britannica (considerato che la maggioranza dei coloni era rappresentata da individui di origine inglese, irlandese, gallese o scozzese, spesso deportati a forza in quel continente lontano), distrusse e annientò quasi del tutto le popolazioni eora, darug, wiradjuri e i cosiddetti “diavoli neri” della Tasmania.

Diavoli, selvaggi, pidocchi: tutti termini che inducevano un’idea di male, di inciviltà e di sporcizia.
Qualcosa che i veri cristiani, i veri uomini civili, i veri portatori del progresso dovevano distruggere: pena la sconfitta del bene, dei valori universali del liberalismo europeo e dello sviluppo economico. Qualcosa che, a ben vedere, troviamo ancora nel “diritto penale del nemico” odierno e nell’educazione trasmessa da tutti gli ordini di scuola, statali, private o religiose che siano, ancora oggi. Anche qui da noi, come nel ’68 si seppe così ben riconoscere in una struttura educativa che rimaneva comunque parte di un sistema concentrazionario dal punto di vista politico e culturale.
Vogliamo dire di classe, per cancellare ogni dubbio dalle anime belle che ancora si peritano di illustrarci come una buona e diffusa educazione sia il fulcro della formazione del buon cittadino democratico?

Ultima, ma non per importanza, viene l’esperienza dei popoli indigeni della Nuova Zelanda.
Quanto sangue è scorso nei fiumi e quanto ha impregnato la terra della Nuova Zelanda prima che la Haka, la danza tipica dei popoli Maori, diventasse famosa precedendo le partite degli All Blacks? Questa mostruosa finzione di riconoscimento di una cultura altra, viene dopo le autentiche guerre genocidarie condotte contro gli indigeni dai coloni e dalle truppe che ne avevano invaso i territori.

Distrutti e sconfitti, nonostante le rivolte, i discendenti dei superstiti sono stati assimilati fino all’invenzione di una possibile provenienza ariana dei popoli originari neozelandesi. In un contesto in cui la ricerca storica, linguistica e scientifica, hanno messo in dubbio da tempo la stessa esistenza di una “stirpe” ariana. Come sostenne già, più di trent’anni fa, il sinologo Martin Bernal, nel suo fondamentale Atena Nera, collegando il mito dell’arianesimo e dell’esistenza dell’indoeuropeo all’espansione coloniale europea, soprattutto britannica nel corso del XIX secolo3 .

Alla fine il mito ariano, uscito apparentemente dalla porta, rientra sempre, dalle finestre o dalle feritoie della Storia e della cultura politica. Cosicché quest’opera fondamentale ha il merito enorme di rivelare definitivamente come tra democrazie liberali e totalitarismi il passo sia breve, anzi come l’unica vera differenza consista tra chi vince le guerre e possa in seguito definire le colpe dei “malvagi” sconfitti.

In fin dei conti fascismo e liberalismo potrebbero poi non essere così distanti come si cerca di far credere e, di conseguenza, Hitler ed Auschwitz potrebbero non essere altro che la realizzazione piena delle promesse insite nel progresso liberale e del modo di produzione capitalistico. E delle loro reali conseguenze per i lavoratori e la specie umana.
Un dovuto ringraziamento va dunque a Leonardo Pegoraro per averci fornito gli strumenti per poter affermare ciò con più argomenti e convinzione nel corso delle battaglie future per la liberazione della specie e del pianeta da un modo di produzione e di governo delle risorse sempre più iniquo e distruttivo.


  1. Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997  

  2. Si legga in proposito il romanzo, di William T. Vollmann, Venga il tuo regno, pubblicato da Alet (Padova 2011) e che costituisce il secondo dei Sette sogni – Un libro di paesaggi nordamericani attraverso i quali l’autore ha inteso ricostruire la storia della conquista e colonizzazione del continente nordamericano.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici asiatiche delle società classiche, il Saggiatore, Milano 2011, edizione originale 1987  

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