Tommaso Palmi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/6 – L’Occidente e il capitalismo sono razzisti (l’Italia anche) https://www.carmillaonline.com/2024/10/02/avanti-barbari-6-loccidente-e-razzista-e-litalia-anche/ Wed, 02 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84539 di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di [...]]]> di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.  

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Fucilate Sartre https://www.carmillaonline.com/2020/11/04/contro-lopportunistica-accettazione-del-discorso-antirazzista-di-sinistra/ Wed, 04 Nov 2020 21:50:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63345 di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, anche il razzismo endemico del modo di produzione vigente e dell’immaginario che ne deriva sia presentato come un’eccezione, un errore di carattere prevalentemente culturale risolvibile con la forza della ragione. Quel crescere e formarsi dei militanti di cui parla Palmi si riferisce quindi esplicitamente alla necessità di superare una visione stereotipata del mondo e delle sue insufficienze, troppo spesso ispirata da una cattiva coscienza di origine borghese e falsamente democratica. Visione del mondo in cui il razzismo sembra solo più costituire una sorta di sogno o di incubo ritornante da un passato che la società moderna avrebbe già da tempo superato e accantonato.

Non a caso, proprio per chiarire la necessità di fare i conti con un passato che è invece ferocemente parte del nostro presente, il curatore inizia la sua recensione proprio con una citazione da Karl Marx (mica da individui insignificanti come Salvini o Giorgia Meloni oppure dai soliti dei malvagi di cui sono piene le pagine di libri di Storia scolastici) in cui il fondatore del comunismo moderno si lascia andare ad una serie di considerazioni tutt’altro che politically correct sui popoli delle colonie europee in Asia e Africa.

Lo fa, Palmi, non per sottoporre a critica severa l’autore originario di Treviri, ma piuttosto per storicizzarne le formulazioni e per dimostrare come alcuni assunti sulle condizioni di presunta “arretratezza”, non solo economica ma anche politica e culturale, dei popoli oppressi degli altri continenti abbiano finito per condizionare pesantemente la riflessione e la conseguente azione politica di coloro che pur si ritengono antirazzisti e di sinistra.

Le considerazioni del curatore, contenute nella bella introduzione, e quelle degli altri testi contenuti nel libro sono il risultato di un corso di formazione politica che si è svolto a Bologna, presso la Mediateca Gateway, nell’autunno/inverno 2019, con l’intento di fornire chiavi di lettura e categorie interpretative per decolonizzare il discorso e la pratica dell’antirazzismo italiano ed europeo. Cinque interventi ed un’intervista a Houria Buteldja1, che si focalizzano sulla compassionevole e falsificatrice rimozione della “razza” dal discorso storico e politico non solo ufficiale, ma anche di un certo antagonismo.

Qual è il presupposto da cui si dipanano le riflessioni contenute nel testo collettaneo? Sostanzialmente quello che il razzismo non sia una componente secondaria della società capitalistica e del suo prodotto sociale, ma piuttosto ne costituisca un fondamento essenziale. Forse il più importante insieme a quello della divisione in classi della società stessa. Ma mentre per la seconda si potrebbe affermare che in fin dei conti questa sia esistita in forme diverse fin dalla fine della comunità primordiale e dall’apparizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, del primo si può dire che esso nasca con l’occidente moderno. Ed è per questo che tra le sue pagine si legge più volte che per coloro che si oppongono al razzismo la data di riferimento non può essere il 1789 ma il 1492.

D’altra parte, e non soltanto per salvaguardane il buon nome, fu lo stesso Marx a sottolineare, fin dal 1846, come:

La schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l’America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l’America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l’anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l’America dalla carta delle nazioni2.

Schiavitù che nello “sviluppo” coloniale non assunse soltanto le caratteristiche dell’oppressione dell’uomo sull’uomo ma, anche e soprattutto, di una razza sulle altre. Far finta che questo abbia costituito soltanto un errore sul percorso del progresso significa rimuovere uno dei macigni che ancora tengono ancorata una parte consistente della classe operaia e del proletariato europeo, o più genericamente “bianco” come vediamo drammaticamente oggi negli Stati Uniti, agli interessi e all’immaginario del capitale. Anche quando di pensa progressista.

Non si tratta infatti di rimuovere una colpa attraverso la compassione o il soccorso umanitario (sia in loco che in mare), ma di prendere coscienza che la lotta antirazzista, esattamente come quella di genere, è un fattore dirimente all’interno del conflitto di classe e che, sostanzialmente, lo sopravanza. Come afferma infatti Palmi nell’introduzione:

questo libro vuole porsi in netta discontinuità con una lunga tradizione di studi sul razzismo che non ha mai fatto i conti con la sua matrice coloniale e ha scelto deliberatamente di non nominare la razza, rimuovendo dal discorso la materialità delle condizioni di subordinazione e sfruttamento dei soggetti razzializzati. Rovesciando questa impostazione, la volontà è quella di fornire alcuni strumenti fondamentali per leggere la realtà della composizione sociale razzializzata, senza ricrearne una rappresentazione edulcorata, eterodiretta e costruita introno a un’idea di vulnerabilità e dipendenza.
È su questo crocevia che si colloca la nostra critica della cattiva coscienza bianca. Lì dove la rimozione della storicità della razza significa occultamento della sua funzione strutturale e strutturante dell’ordine sociale.
Un antirazzismo che si dica ancorato alla materialità dei processi di razzializzazione non può prescindere da questo punto. Sacrifichiamo il moralismo pedagogico sull’altare di accademici e preti del conflitto. Non c’è nessuno a cui dobbiamo insegnare cos’è il razzismo, come non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva. La ricomposizione della frattura razziale non è un dato sovrastrutturale di cui basta prendere coscienza, ma u n obiettivo politico da perseguire secondo processualità diverse e autonome 3.

Nella narrazione tradizionale, stereotipata e tossica, poi « Il regime fascista e le leggi razziali vengono assunti come forme idealtipiche del razzismo proprio in virtù del loro carattere di eccezionalità, che relega così le gerarchie della razza al ruolo di fugace comparsa nel processo di costruzione dell’italianità. Una coscienza lava l’altra e il dibattito pubblico italiano ci parla di un passato senza macchie», facendo così che

l’antirazzismo ha, in tempi recenti, preso dapprima la piega dell’educazione universale ai diritti dell’uomo e poi del richiami umanitario, definito nella crescita ipertrofica del sistema dell’accoglienza ed esacerbato dall’esplosione della cosiddetta «crisi dei rifugiati» […]
Quella umanitaria è divenuta a tutti gli effetti un’industria, entro cui il dispositivo razziale lavora senza sosta nella sua opera di valorizzazione e gerarchizzazione delle differenze. La retorica di cui questi contenitori si ammantano è spesso e volentieri quella delle forze della sinistra antirazzista, comprese quelle della cosiddetta sinistra radicale e dei movimenti sociali. Alternando un registro tragico e vittimizzante a uno paternalista, la figura del soggetto migrante viene metabolizzata per rispondere positivamente ai criteri di gestione e governo delle migrazioni internazionali. Quella che si spaccia per integrazione non risulta altro che la precisa collocazione dei e delle migranti all’interno di una più complessa catena di sfruttamento ed estrazione del valore […] La riproduzione dei rapporti sociali razzializzati passa innanzitutto attraverso forme di assimilazione dalle tinte arcobaleno, che parlano di educazione all’intercultura e rispetto dei diritti umani. Tirocini, stage, lavori socialmente utili e infinite altre tipologie di mansioni non retribuite, formalmente indirizzate all’inserimento del migrante nella società bianca e spesso sovvenzionate direttamente dallo Stato o dall’Unione Europea, agiscono in maniera ben più profonda e capillare nell’incanalare i soggetti razzializzati verso la loro collocazione subordinata e marginale di qualunque squadraccia dalle simpatie neonaziste. Non è il mercato degli schiavi di Lisbona e nemmeno il porto di Ellis Island. È l’etica illuminata della sinistra bianca, che generosamente raccoglie naufraghi in balia del Mediterraneo, per poi condannarli a una vita d’inferno fra galera, marginalità sociale e caporalato 4.

Negli altri contributi Miguel Mellino definisce la «crisi dell’antirazzismo europeo»; Anna Curcio ripercorre il filo rosso che tiene assieme la storia nazionale dal primo processo di unificazione fino all’incontro-scontro, piuttosto recente, con i grandi flussi delle migrazioni postcoloniali e con le nuove forme di gerarchizzazione fra Nord e Sud Europa, mentre Jamila Mascat propone una riflessione che punta a identificare razza e genere come forme specifiche della modernità capitalistica e Alvise Sbraccia propone una trattazione della relazione fra razzismo, crimine e criminologia, dove si individua la stretta relazione tra le matrici disciplinari della criminologia e la gerarchizzazione razziale figlia dell’esperienza coloniale, che insiste su l’attitudine delinquenziale del colonizzato. Infine Dhanveer Singh Brar, nel penultimo contributo, affronta il tema del pensiero politico legato alla blackness a partire dall’esperienza della diaspora, attraverso il richiamo a tre differenti prospettive, quella afroamericana,quella caraibica e quella britannica. A conclusione del volume un dialogo fra Anna Curcio e Houria Bouteldja fa il punto sull’antirazzismo decoloniale proposto dalla prassi teorico-politica del Parti des Indigènes de la République di cui è la portavoce. La conversazione ripercorre il rapporto con la sinistra francese, il rimosso coloniale e la narrazione eurocentrica della modernità e propone una critica tagliente all’astratto universalismo del femminismo bianco.

Occorre poi dire che proprio la Bouteldja riesce a coronare degnamente la raccolta di testi con un intervento radicale e interessante. Riuscendo a dare in sintesi alcune indicazioni politiche di cui coloro che si definiscono oggi nemici del capitale e del suo Stato dovrebbero tenere profondamente conto.

Noi indigeni affermiamo di non riconoscere la differenza fra sinistra e destra. Lo diciamo dall’inizio della nostra storia politica. Questa frattura della politica bianca non è un nostro problema. Per noi la distinzione fra sinistra e destra non ha alcun significato pregnante. Noi situiamo il nostro discorso sulla questione razziale, per questo «non 1789, ma 1492». Ma non è perché non la riconosciamo che questa differenza sparirà. Noi abbiamo la necessità imprescindibile di essere pragmatici e quando i membri della sinistra bianca si mobilitano contro i crimini della polizia diventano nostri alleati.
Tuttavia, perché questa sinistra possa posizionarsi rispetto alla questione decoloniale, deve in primo luogo operare una sorta di rivoluzione culturale e finalmente prendere in considerazione la questione razziale per intero. Deve far sua la critica all’eurocentrismo che pervade gli ambienti di sinistra. Nel libro ho scritto «fucilate Sartre». Perché le figure come la sua sono quelle che hanno permesso di perpetuare il crimine coloniale. Sartre è stato a lungo considerato fra i migliori esponenti del pensiero anticoloniale bianco ed europeo e negli anni Sessanta, ha ricevuto vari attacchi dall’estrema destra. In un certo senso i primi a fucilare Sartre sono stati loro, per la sua posizione a favore dell’indipendenza algerina e solidale alla causa vietnamita. Tuttavia, Sartre non è mai riuscito a farsi veramente carico del suo ruolo di intellettuale anticoloniale, poiché non è stato in grado di abbandonare la causa di Israele e sostenere il popolo palestinese. Per questo è rimasto bianco a tutti gli effetti. «Fucilare Sartre» ha precisamente il significato di fucilare la sinistra bianca5.

Nel corso del dialogo, Anna Curcio, infine, afferma: « Si potrebbe dire, riassumendo, che per abolire la razza bisogna innanzitutto nominarla, mettere le gerarchie razziali al centro del discorso politico antirazzista…» dando così modo alla Boutreldja di concludere:

Esattamente. Mettere la razza al centro per abolirla. Mettere in evidenza che esiste un razzismo strutturale dentro la società per combatterlo […] C’è la necessità di arrivare a un momento in cui la classe operaia bianca capisca che ha più interessi ad allearsi con noi, piuttosto che con la borghesia bianca. Si possono prendere molti esempi di questa dinamica, soprattutto rispetto ai Gilet Gialli, in quanto specificità francese. Avevamo molta paura all’inizio che il movimento dei Gilet Gialli si indirizzasse verso l’estrema destra, ma al contrario si sono progressivamente radicalizzati verso sinistra e hanno avuto modo di provare sulla propria pelle, attraverso l’attività politica, cosa volesse dire diventare bersaglio delle sistematiche persecuzioni della polizia. In questo modo è stato possibile trovare un punto di convergenza, nella violenza dello Stato e della polizia […]
Se si va alla ricerca del popolo perfetto, sempre pronto ad alzare la voce in nome della questione sociale, come piace pensare alla sinistra, la rivoluzione difficilmente sarà mai realizzabile. Noi non abbiamo problemi con quello che è l’essere «reazionario » delle classi indigene, perché siamo perfettamente consapevoli di quello che è lo stato politico dell’indigenato […] Diciamo a chiare lettere di essere un’organizzazione anti-integrazionista. Per noi la condizione di partenza per un movimento decoloniale è quella di mettere in discussione le strutture fondanti dello Stato-nazione e dell’imperialismo. Il nostro progetto e la nostra ambizione non è quella di diventare francesi6.

Ancora una volta con tanti saluti alle anime candide e alle belle addormentate nel bosco (sugli allori delle sconfitte passate), che dovrebbero almeno sforzarsi di imparare qualcosa dalle parole della Canzone del maggio di Fabrizio De André:

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


  1. Della quale su Carmilla è stato recensito l’unico testo tradotto in Italiano, I bianchi, gli ebrei e noi (qui)  

  2. Karl Marx, Lettera a Pavel Valisevič Annenkov del 28 dicembre 1846 

  3. T. Palmi, Introduzione a Decolonizzare l’antirazzismo, p. 11  

  4. T. Palmi, cit., pp. 8-9  

  5. H. Bouteldja, Decolonizzare l’antirazzismo, conversazione con Anna Curcio in op. cit. pp. 111-112  

  6. H. Bouteldja, cit., pp. 114-117  

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