Sovversione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 24 Oct 2025 20:00:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra degli animali https://www.carmillaonline.com/2021/08/16/la-guerra-degli-animali/ Mon, 16 Aug 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67516 di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia. (L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al [...]]]> di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia.
(L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al suo ultimo viaggio verso quelle città oscure descritte nei suoi formidabili libri di azione e riflessione sul divenire di un mondo crepuscolare, in cui a dominare sono soltanto i quattro cavalieri dell’Apocalisse continuamente resuscitati dagli interessi e dalle attività del capitale monopolistico e finanziario.

Quadruppani (classe 1952), autore di diversi romanzi noir (ma non solo) di cui molti editi in Italia, è anche traduttore in francese dei romanzi di Andrea Camilleri, Valerio Evangelisti, Sandrone Dazieri e Massimo Carlotto. La sua anima “nera”, però, frequenta gli stessi topoi che furono di Altieri, mescolando tensione, azione, geostrategia e geopolitica degli imperialismi, minuziosità tecnica nella descrizione delle armi usate, una certa dose di cinismo dei personaggi (indipendentemente dalla “squadra” o al campo cui appartengono) e una dettagliata descrizione delle conseguenze sui corpi umani dell’uso di armi mortali e violenza, mai intimidita dal timore di mostrarle fino in fondo.

A differenziarne, però, stile e scrittura è una certa dose di ironia e i riferimenti metaletterari che Serge Quadruppani inserisce nel corso della narrazione oltre che le allusioni all’attualità, molto più evidenti e precise di quelle contenute nei romanzi di Altieri. Anche se nell’ultimo romanzo, infatti, a dominare sono la jihad islamica e l’azione dei servizi segreti dedita a contrastarla e a deviarne gli obiettivi per finalità più consone agli interessi del capitalismo francese e statunitense, non mancano i riferimenti al movimento No Tav valsusino, all’esperienza della Zad di Notre Dame des Landes, all’inchiesta sul presunto affaire di Tarnac, agli scontri tra casseur provenienti dalle banlieue e studenti delle scuole superiori che caratterizzarono le manifestazioni che si svolsero a Parigi nel 2005, e a molto altro ancora.

Le stesse parole che chiudono il romanzo, che oltre che noir potrebbe anche essere definito distopico, se non fosse che molte delle azioni descritte, sia in Medio Oriente che in Francia, potrebbero benissimo appartenere all’attualità politico-militare degli anni recenti, tirano in ballo la triste vittoria di Emmanuel Macron alle ultime elezioni presidenziali, pur senza nominarlo direttamente. «Tutto ciò è una storia ormai nota. La ricordiamo soltanto per chiedere al lettore uno sforzo di immaginazione. Che per un attimo provi ad immaginare come sarebbe stato più brutto e triste il mondo se le elezioni presidenziali previste per l’aprile-maggio 2017 si fossero svolte davvero!»1

Si può cogliere il sorriso sulle labbra dell’autore mentre immagina, dopo aver descritto il ritorno di un agente speciale da una guerra crudele ed inutile (elemento fondante di tante storie di Altieri costruite intorno a personaggi traditi e disillusi) e gli sfortunati eventi che ne derivano, che in fin dei conti non tutto il male vien per nuocere, a patto, naturalmente, di saper ripagare gli avversari con la stessa moneta e magari anche con gli interessi.

E’ una fiamma sovversiva quella che pervade la narrazione, condotta sempre con grande maestria e senso della suspense, in cui, nonostante tutto, i possibili tessitori di trame e complotti possono finire sconfitti, a volte anche dall’intervento del caso o, come qui spesso capita, da quello degli animali e nemmeno dei più feroci ma piuttosto di quelli più vicini all’uomo come gatti, asini, api e taccole.

Il bel romanzo di Quadruppani, consigliatissimo per una divertente e intelligente lettura estiva, costituisce anche un canto per la Natura che si ribella, soprattutto nei confronti della sua duplicazione tecnologica, ricca di capitale morto e priva di vita. Facendo riflettere il lettore sul fatto che quelli che chiamiamo sprezzantemente “animali” non dovrebbero essere quelli pennuti, pelosi o piccoli e impegnati in attività utili come quella di produrre miele, molto più coscienti e intelligenti di quanto normalmente si pensi, ma le autentiche belve a due zampe che, in divisa da jihadista o in quella di un esercito nazionale oppure, ancora, vestite in borghese nelle stanze asettiche e fredde delle basi segreta americane sparse per il mondo, convertite per fede o per convenienza, non fanno altro che seminare morte, distruzione, odio e dolore tra gli appartenenti alla proprio specie.

L’unica eccezione la fa il lupo, solitario, braccato, invisibile, imprendibile e, all’occorrenza, feroce e determinato, proprio come il principale protagonista della vicenda: Pierre Dhiboun.
Non perdetevi quindi questa occasione di gustare almeno un’immaginaria e giusta vendetta, lasciandovi trasportare dal desiderio e dal sogno che pervadono tutta la narrazione. Buona lettura!


  1. Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori 2012, p. 278  

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Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2020/06/04/lo-spazio-e-il-deserto-nel-cinema-di-pasolini/ Thu, 04 Jun 2020 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60153 di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da personaggi erranti appartenenti a un universo estraneo agli schemi della razionalità capitalista.

Nelle pellicole pasoliniane sembra quasi che sotto lo spazio ordinato e geometrico della borghesia si muova «un magma tellurico, un deserto barbarico e mitico che promana dalle profondità della coscienza dei personaggi. Sembra che lo spazio cereo e geometrico possa essere annullato da un momento all’altro dall’incedere dello spazio desertico, astorico e atemporale, connotato nel profondo dal mito della barbarie.» (p. 11)

Detto che la barbarie in Pasolini assume una connotazione positiva – quasi sinonimo di mitico, puro e primitivo –, la contrapposizione spaziale proposta dal regista riflette quella fra la società industriale e la società arcaica e contadina dello spazio desertico delle periferie italiane o dei deserti africani. Secondo Lago lo spazio desertico messo in scena da Pasolini può essere letto ricorrendo alla definizione data da Gilles Deleuze e Felix Guattari di “spazio liscio”, abitato da comunità nomadi contrapposto allo “spazio striato” della città sottoposto al controllo.

Se la contrapposizione tra rigore urbano e barbarie “periferica” è ravvisabile sin da Ragazzi di vita (1955), Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), è però con Edipo re che, sostiene lo studioso, nel cinema di Pasolini emerge la dimensione di uno spazio desertico rappresentante una forma di società altra e alternativa a quella capitalistica. «La dialettica fra spazi diventa dialettica fra società: da una parte, quella barbarica, arcaica, pura e quindi mitica che, ormai, si può solo trovare nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, dall’altra, quella borghese e capitalistica, precipitata nell’inferno dei nuovi consumi […], connotata da colori smorti e pallidi e da interni rigidi e geometrici.» (p. 17). Il regista esplicita così come a suo modo di vedere, fuori dello spazio borghese che, asservito com’è alla forma merce della società neocapitalistica, impone nelle sue rigidità geometriche “movimenti unidimensionali” e ripetitivi, da catena di montaggio, esista una realtà arcaica, mitica e barbarica che ancora mantiene elementi irriducibilmente estranei alla dominazione del capitale.

Se la pasoliniana contrapposizione tra un (positivo) universo arcaico, mitico e una (negativa) società moderna industrializzata è stata più volte interpretata come reazionaria, secondo Lago si potrebbero invece cogliere in essa analogie con il pensiero di Robert Kurz che ritiene indispensabile, per rompere una volta per tutte con i rapporti feticistici e di dominio del sistema capitalista, optare per una scelta anti-moderna radicale ed emancipatoria che nulla abbia a che fare con i reazionari approcci antiilluministi o antimoderni di matrice borghese-occidentale. L’antimodernità evocata da Kurz, sostiene Lago, «non si allontana molto dall’idea pasoliniana di contestazione della società dei consumi: l’idealizzazione, da parte del poeta, della società e della realtà africana, pur con tutte le sue problematiche sociali e politiche, è legata appunto a una forma di antimodernità, di contestazione radicale dei rapporti feticistici e di dominio.» (p. 105)

Nel film Edipo re, costruito sull’opposizione fra la cultura arcaica e quella moderna, l’ambientazione borghese del prologo si presenta come uno spazio sospeso, in silenziosa attesa di essere divorato «dal deserto avanzante, dal ritmo tribale e ferino che sta per erompere dall’altrove del mito.» (p. 28). L’epilogo della narrazione si concentra invece sulla figura nomadica, perturbante e sovvertitrice dell’ordine urbano e costituito, di Edipo mendicante che si muove in una Bologna che sul finire degli anni Sessanta pare ormai essersi piegata al consumismo. «Edipo viaggiatore non è più contornato dalle folle popolari africane, ma dal mondo del benessere economico degli anni Sessanta, rappreso nelle sue movenze di falsa felicità. […] Edipo insinua, all’interno dell’universo stanziale borghese, il demone del nomadismo e del vagabondaggio: elementi trasgressivi e sovvertitori. Egli è il sovvertitore poeta – portatore di un sacro irrimediabilmente perduto dalla classe borghese – che è giunto dal deserto, da uno spazio antitetico a quello della città degli anni Sessanta, uno spazio che magmaticamente continua a sussistere ad uno strato oscuro e ctonio, pronto nuovamente a fare irruzione nell’ordo geometrico dei nuovi consumi.» (pp. 45-46)

Nonostante Edipo incontri anche il mondo operaio, il suo vagabondaggio nomadico si palesa però estraneo ad esso, situandosi piuttosto a un livello sottoproletario. «Edipo emarginato e vagabondo è un nuovo nomade sottoproletario che attraversa la catatonica società degli anni Sessanta, fino a giungere al luogo della propria nascita.» (p. 46) Il film si chiude infatti in quel Friuli degli anni Venti, ricostruito nel contado lombardo, che assume di certo connotazioni amniotiche e regressive ma, sottolinea Lago, appare anche «irrimediabilmente contaminato dal germe nomadico e sovvertitore portato da Edipo.» (p. 47)

In Teorema «il personaggio sacrale dell’Ospite, quasi un nuovo Dioniso che si insinua nelle spire dello “spazio striato” del potere economico e sociale» (pp. 18-19), si configura come vero e proprio elemento perturbante nel suo farsi portatore del sacro all’interno dello spazio striato desacralizzato della lussuosa dimora dell’alta borghesia milanese. L’Ospite, detentore della medesima valenza sacrale dello spazio del deserto, appare all’interno dello spazio borghese come un elemento distruttivo di quell’universo consacrato al denaro: si presenta come «un sacro che sembra giungere da lontano, da lande desertiche e ferine ed appare incarnato nella figura di un giovane dio ribelle e trasgressore dell’ordine costituito.» (p. 54)

Gli aspetti dionisiaci dell’Ospite sono palesati soprattutto dalla sua presenza fisica e corporea portatrice di un eros capace di modificare la caratterizzazione dello spazio dell’ambiente borghese scardinando la stessa istituzione sociale della famiglia. Si viene così a determinare «uno spazio “ibridato” dal deserto ctonio e terribile, lo spazio barbarico e “liscio” che sta avanzando verso le attonite spazialità “striate” borghesi. È uno spazio fisico che si contrappone all’universo amniotico e regressivo della campagna milanese». (p. 63)

Lago si sofferma sul momento in cui il ricco industriale Paolo, ormai contaminato dall’Ospite, nel suo percorso verso lo spazio deterritorializzato e barbarico del deserto, dopo essere giunto alla stazione di Milano – emblema della meccanizzazione dell’individuo moderno –, si spoglia dei suoi abiti borghesi in mezzo alla folla. Liberatosi ormai dei simulacri borghesi, l’industriale prosegue poi il suo viaggio verso quel deserto che sembra prospettare «una nuova era che si apre sotto i piedi nudi di un borghese che si è distaccato per sempre dalla sua classe sociale, ormai annientata essa stessa. La dimensione fisica del corpo prosegue nell’urlo: quest’ultimo è un’appendice corporea che esprime, di esso, lo stato ferino e selvaggio e, nel contempo, la profonda angoscia annientatrice che ormai ha avvolto la coscienza del personaggio. Fuori dalla catatonia borghese, dalle geometrie e dalle scatole che racchiudono e serrano l’universo della quotidianità dei nuovi consumi, non vi è che deserto e angoscia.» (p. 83)

Anche Porcile è strutturato sull’opposizione di due spazi: agli spazi geometrici e razionali, in quanto tali generatori di mostri, della villa signorile percorsi meccanicamente da esponenti dell’alta borghesia tedesca di fine anni Sessanta marcatamente compromessa col nazismo, si contrappongono le brulle, desertiche, silenziose e sacrali pendici dell’Etna, proiettate in un indefinito medioevo, percorse disordinatamente dal personaggio del cannibale sovvertitore dell’ordine nel suo estremismo portato al limite dell’orrore, che, come una “macchina da guerra nomade”, sembra prepararsi ad aggredire lo “spazio striato” borghese.

Se quello desertico si presenta come uno spazio caotico in costante movimento, solcato dalle eruzioni magmatiche del vulcano e attraversato da un personaggio che sembra provenire dai suoi più profondi interstizi, gli interni della villa borghese suggeriscono un’idea di immobilità. «Se quest’ultima si configura quasi come un monumentale sepolcro che racchiude il pensiero e l’ideologia di una borghesia industriale in ascesa che cova terribili mostruosità nel suo passato, gli stessi personaggi borghesi appaiono come tante marionette che da questa ideologia sono manovrate. Essi, costretti a percorrere linee geometriche, diritte, senza vie di fuga, come geometriche e rigide sono le stesse linee architettoniche della villa, compiono i loro movimenti incanalati in uno spazio “striato” che ne regola i flussi. La disobbedienza è inconcepibile per tale borghesia ed è per questo che il figlio non disobbediente né ubbidiente, ma comunque tacito sovvertitore del suo ordine, si allontana per le campagne compiendo movimenti tortuosi e imprevedibili, correndo, prendendo vie sconosciute alla sua stessa classe sociale ma conosciute ai contadini con i quali […] egli è in sinergia.» (pp. 97-98)

Nello spazio del deserto “medievale” i volti vengono inquadrati con primi piani capaci di conferire loro una plasticità scultorea che sembra quasi staccarli dall’ambiente circostante: questi corpi scolpiti sembrano pulsare insieme al magma tellurico, «sono forme ctonie che, come animali, si muovono in uno spazio libero dominato dal silenzio. Se la parola condannava i personaggi borghesi a gesti ripetitivi, a percorrere cunicoli imprigionanti, adesso, il silenzio e i suoni naturali rappresentano l’eruzione di una fisicità finalmente liberata, trasgressiva e sovvertitrice. Se la parola imprigiona i personaggi borghesi nel ruolo di languide marionette prigioniere di spazi teatrali e cunicolari, il silenzio libera e circonfonde lo spazio di una magmatica dimensione fisica e ferina.» (p. 101)

Nel corso della sua analisi, Lago presta attenzione anche alla contrapposizione linguistica presente in Porcile. La lingua borghese, salvo che in un paio di monologhi, si caratterizza per il ricorso a termini aulici e per una dizione precisa. «I personaggi borghesi sono quasi delle macchine per parlare, delle marionette la cui presenza corporea è annullata e dominata dalla parola: è, appunto, il “teatro di Parola” pasoliniano, in cui la razionalità sonora della voce si eleva su qualsiasi altro aspetto scenico. È parola sepolcrale che si crede viva, è sepolta e prigioniera ma si crede portatrice di illuministica razionalità negli spazi aperti della nuova industrializzazione degli anni Sessanta.» (p. 105) A questo tipo di parola del potere e del dominio si contrappone il silenzio arcaico proprio dell’ambientazione medievale. «Il silenzio dei contestatori è una opposizione al controllo esercitato dal potere sulla stessa parola […] Contestatori totali, essi negano la parola per non essere sottoposti al principio dell’ordine e del controllo, della segregazione che li avrebbe precipitati nei meandri oscuri di una follia e di una prigione, di un supplizio. Il loro silenzio è la loro crudeltà, i loro movimenti e i loro attacchi sono tanti atti di sabotaggio contro un potere che cerca di catturarli ma anche contro lo stesso dominio razionale della borghesia industriale degli anni Sessanta.» (p. 107)

Medea riprende per certi vesti le tematiche dei film precedenti prospettando il conflitto fra il mondo contadino e preindustriale e quello borghese e neocapitalistico. Viene qua messo a confronto l’universo arcaico del mito, del tutto estraneo al moderno pragmatismo borghese, con il mondo razionale di Giasone ormai adulto. Il contrapporsi di uno spazio curvilineo con uno rettilineo sembra sottende un’opposizione fra diverse culture e società.

Le prime inquadrature «mostrano la potente rappresentazione di un paesaggio che, in virtù della sua sacralità, assume anche connotazioni politiche e sociali all’interno della vibrante opposizione che separa Medea e Giasone all’interno del film, opposizione che pone l’uno di fronte all’altro due universi distinti.» (p. 118) Agli occhi di Giasone divenuto adulto, proposto dal film quasi come il prototipo del borghese, lo scenario non appare più come quello divino e sacrale arso dal sole ma assume le sembianze geometriche caratterizzate da spente tonalità pastello, tipiche degli scenari borghesi presenti anche in altri film. Se lo spazio dai colori pastello è ripreso da una macchina da presa rigidamente bloccata, quello desertico, dai colori decisamente più accesi, vede invece il regista ricorrere alla macchina da presa a spalla tremolante. Risulta evidente come tale duplicità stilistica sia funzionale alla volontà di palesare un’opposizione tra mondi e culture che però non mancano di momenti di sconfinamento e ibridazione.

Giunto al cospetto di Medea, che ora si presenta in posizione dominante, Giasone si trova letteralmente in balia del volto segnato dal desiderio di vendetta della donna. «Il fuoco erompe dalle finestre della sua casa lambendo le pietre e sovrastando lo stesso volto della donna barbara ed emarginata: è il fuoco, sacro come quello dei rituali della Colchide, a suggellare, per mezzo del suo magmatico perpetuarsi in una circolarità ctonia, la vendetta della barbara, “primitiva”, irrazionale ed emarginata Medea contro il ricco, razionale, “borghese” e integrato Giasone.» (p. 142)

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Muhammad Ali: cazzotti e parole verso la società dello spettacolo https://www.carmillaonline.com/2017/06/16/muhammad-ali-cazzotti-e-parole-verso-la-societa-dello-spettacolo/ Thu, 15 Jun 2017 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38588 di Gioacchino Toni

marco_mazzeo_sofista nero_coverMarco Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 132, € 13,00

Non siamo di fronte né all’ennesima celebrazione del grande campione dei pesi massimi, né ad un ritratto volto a smitizzarlo mettendo in luce i suoi aspetti peggiori. Il sofista nero è piuttosto una biografia allegorica che si apre con una suggestiva, ed impegnativa, analogia tra Charles Baudelaire e Muhammad Ali. Come il poeta rappresenta, secondo Walter Benjamin, il modello della trasformazione subita dal concetto di esperienza nel capitalismo tardo ottocentesco, così [...]]]> di Gioacchino Toni

marco_mazzeo_sofista nero_coverMarco Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 132, € 13,00

Non siamo di fronte né all’ennesima celebrazione del grande campione dei pesi massimi, né ad un ritratto volto a smitizzarlo mettendo in luce i suoi aspetti peggiori. Il sofista nero è piuttosto una biografia allegorica che si apre con una suggestiva, ed impegnativa, analogia tra Charles Baudelaire e Muhammad Ali. Come il poeta rappresenta, secondo Walter Benjamin, il modello della trasformazione subita dal concetto di esperienza nel capitalismo tardo ottocentesco, così il pugile può essere visto, secondo Marco Mazzeo, come l’analogo contemporaneo. Il “boxeur-parlante” afroamericano viene affrontato dal volume come personaggio complesso che vive ed anticipa quella forma del tardo capitalismo definita da Guy Debord “società dello spettacolo”.

Il controverso boxeur afroamericano può essere interpretato come una contemporanea riproposizione della figura del sofista mercenario colpevole, secondo la tradizione, di aver «inquinato il mondo aureo dell’antica Atene» (p. 6). Ecco allora la proposta di Mazzeo: vedere nel pugile afroamericano una sorta di “sofista nero” capace di riportare alla luce conflitti dimenticati. Secondo tale lettura, tra gli anni Sessanta ed Ottanta l’afroamericano avrebbe riportato «sulla scena l’orrore della lotta totale chiamata “pancrazio”, le ingiustizie della guerra e della segregazione razziale, la separazione irrealistica tra razionalità del discorso e brutalità del corpo» (p. 6).

La prima parte del volume è incentrata sul periodo che va dagli esordi del pugile sul ring fino al celebre incontro di Liston del 1964, mentre la seconda si sofferma su Muhammad Ali che rifiuta di arruolarsi e prende a cazzotti Foreman, Fraizer e Spinks. Se nella prima parte lo studioso presenta una serie di riflessioni filosofiche attorno alle gesta ed alle parole del boxeur, nella seconda parte l’analisi si concentra attorno «ai problemi costituiti da uso e produzione nel mondo contemporaneo» (p. 7).

Nell’analisi di alcune celebri affermazioni del pugile lo studioso rintraccia modalità retoriche, “mettere l’altro alla prova”, comuni tanto alla moderna società dello spettacolo che all’età antica (tradizione sofista) e preantica (pankration). Secondo Mazzeo il fatto che attorno al pugile siano sorte tanto letture apologetiche che denigratorie (Ali come businessman) delinea un personaggio ambivalente che «rappresenta un caso paradigmatico per il mondo contemporaneo. Per due aspetti: uno legato alla retorica e alla parola, l’altro connesso all’esperienza di chi sfida» (p. 14).

Da un lato il pugile anticipa e corrobora i tempi della società dello spettacolo, da un altro costringe il mondo in cui vive a confrontarsi con tracce residuali di tempi lontani» (p. 15). Tale cortocircuito tra futuro e passato viene definito dallo studioso come “anacronismo innovativo”. Alì ricorda molto da vicino il sofista antico nel suo essere one man show. «Se il cinema di Hollywood farà del duello western l’apogeo della retorica nazionalista della frontiera, Clay/Ali metterà sotto i riflettori della scena gli aspetti violenti e spietati di una forma di combattimento che l’Occidente consce sin dai tempi della Grecia arcaica (pp. 15-16).

Mazzeo analizza, parola per parola, il celebre discorso tenuto dal pugile, ancora Cassius Clay, nel 1960 all’aeroporto di Louisville, di ritorno dall’oro conquistato alle Olimpiadi di Roma. Si tratta di un testo autoelogiativo ove il boxeur affronta la questione del proprio nome vantandosi del fatto che in Italia viene dichiarato più forte del Cassio latino. Nel 1964, dopo aver battuto Liston, il pugile cambia il proprio nome dapprima in Cassius X, poi in Muhammad Ali. Il passaggio da Cassius Clay a Muhammad Ali anziché essere ricondotto alle consuete letture che mettono in luce le motivazioni religiose, secondo lo studioso può essere spiegato in altro modo: Muhammad è un nome talmente diffuso da approssimarsi a quello che la grammatica indica come “nome comune”, dunque una sorta di proclama di appartenenza al genere umano.

Nel corso della conferenza stampa che precede il combattimento con Liston nel 1963, Ali si lascia andare ad un procedimento retorico che lo studioso definisce poetic assault. Ad una prima parte del discorso elogiativa, ne succede una di biasimo e insulto, dunque una di carattere profetico-predittivo che anticipa il vero e proprio scontro fisico sul ring. Non male per uno che di mestiere tira cazzotti sul ring. Fino a questo momento la figura del pugile è sempre stata quella di un individuo privo di parola ma l’afroamericano cambia le carte in tavola con i suoi discorsi e non di rado mostra abilità di sovvertimento verbale della realtà e ricorre non tanto a promesse o giuramenti di vittoria ma a vere e proprie previsioni ordaliche.

Nel testo del 1963, Clay ripropone la logica dell’ordalia in un mondo del tutto diverso: si sottopone a una prova dolorosa per mostrare, costruendola, la verità che lo riguarda. Il pugile riporta lo scontro della boxe alle sue origini di “messa alla prova”, un duello che decreti chi ha ragione. […]
La predizione di Clay mette in cortocircuito diretto credibilità retorica e performance agonistica giacché si apre proprio con la nozione di prova: “Predico che vincerò in otto riprese per provare che io sono grande”. A chi darà prova che egli è grande? A tutti: a Liston, al pubblico, a se stesso (p. 27).

Astutamente nel corso del discorso tiene aperto un ventaglio di possibilità in modo da rendere più facile il pronostico ma al di là dell’atto di furbizia mette in campo una drammatizzazione epidittica della profezia esaltante la sua potenza e minaccia l’avversario suggerendogli di evitare di scontrarsi inutilmente. Si tratta di una retorica, suggerisce lo studioso, capace di fondere corpo e verbo, pungi e parole, trasformando la prova sul ring in un fatto legato alla parola. La violenza del pugilato si fonde con l’aggressività retorica, logos e praxis si intrecciano e quel che è più scandaloso nell’America del tempo è che tutto ciò è messo in pratica da un afroamericano.
Nel discorso del 1963 le parole non si limitano a descrivere fatti, esse li producono. Si tratta di una retorica doppiamente performativa, suggerisce Mazzeo,

che accentua, esaspera e riscopre i tratti performativi propri di ogni atto retorico. Gli assalti poetici, infatti, sono inscindibili da attacchi corporei veri e propri, da performance atletiche di aggressività ritualizzata ma non per questo priva di effetti. Questo aspetto, l’intreccio tra parola e combattimento, riporta sulla scena d’Occidente un tema inquietante: non solo il rapporto tra retorica e azione corporea, ma tra retorica e violenza […] la produzione performativa di Clay (poi Ali) mette al centro della scena due figure famigerate connesse tra loro. La prima è il pancrazio, una lotta totale, l’attività atletica più prossima alla guerra di tutti contro tutti, di quel che la filosofia moderna chiama “stato di natura”. La seconda è il sofista, l’oratore più discreditato del mondo antico (pp. 31-32).

Se per certi versi la boxe è erede del pancrazio, il pugile che usa anche la parola riesuma i fantasmi del sofista e non è un caso se i denigratori di Ali insistono sul suo parlare troppo.

Un boxeur afro-americano dalla lingua sciolta infrange, in un sol colpo (è il caso di dirlo), due tabù. Il primo riguarda il ring: come lo schiavo nel mondo classico può testimoniare in pubblico solo sotto tortura, così il nero di metà Novecento per dire la sua deve incassare una pioggia di cazzotti. Il secondo tabù riguarda le scienze dell’argomentazione: l’abilità persuasiva di un pugile nero che sconfigge gli avversari con le parole e con i pugni confuta la presunta dicotomia tra irrazionalità del corpo e logica cristallina del discorso. [Ali] svela che linguaggio e boxe sono entrambe forme di combattimento. A tal proposito la retorica di Ali interviene in una complessa stratificazione etico-politica per mezzo di due strumenti innovativi: previsioni autoconfermative e un’opera di biasimo straordinariamente aggressiva (p. 36).

Nell’ultima parte del discorso di Liston il boxeur compie un rovesciamento tra antecedente e conseguente, sovverte il canone che solitamente regola il rapporto tra parola ed azione. Nella boxe non è necessaria alcuna provocazione essendo uno scontro programmato, il biasimo con cui le parole di Ali colpiscono il contendente può essere visto in sé come modo di colpire. Clay/Ali ricorre ad un procedimento retorico che consta nell’animalizzazione dell’avversario ricorrendo ad un immaginario razzista che trasforma l’avversario di colore in una scimmia, un orso. Così facendo il pugile «rovescia lo stereotipo del nero animalesco che fa la boxe perché non sa parlare, nel contempo quello stereotipo è utilizzato dal pugile contro l’avversario. […] La stessa persona che pochi giorni dopo l’incontro proclama di aver combattuto per liberarsi della schiavitù impiega un argomento razzista che fa di Liston il negro da picchiare» (pp. 41-42)

L’epiteto animale può essere sia occasione di lode che di scherno; nell’antichità i migliori lottatori di pancrazio vengono spesso definiti “leonini” con finalità elogiative così come in epoca recente indicare come “pantera” un pugile intende celebrare le sue qualità. Ali, invece, ricorre a riferimenti animaleschi col dichiarato intento di coprire d’infamia l’avversario; «da mezzo di lode, l’epiteto animale diventa strumento di biasimo» (p. 52).
Ali risulta anche un campione della retorica epidittica tanto nel biasimo che nell’elogio (rivolto a se stesso) e soltanto nell’autoelogio l’epiteto animale riconquista una connotazione positiva.

malcolm-x-and-muhammad-aliNegli anni Sessanta, ricorda Mazzeo, la boxe non è molto amata dai movimenti di contestazione; la Nation of Islam vede in essa l’esibizione dei neri sottomessi e la sinistra radicale americana la denuncia come veicolo di distrazione di massa. Ebbene Muhammad Ali modifica il punto di vista di entrambi i movimenti. «Ali incarna un aspetto della boxe che è il contrario della distrazione delle masse […] Il pugilato non è per forza palcoscenico dello schiavo. È forma ritualizzata di una “prova di realtà”, esibizione circoscritta e cruda di un aspetto fondamentale di quel che significa fare “uso della vita”» (p. 64).

Walter Benjamin individua nella poesia di Baudelaire un’espressione dell’esperienza nel capitalismo avanzato e concentrandosi sulla folla vi individua «una delle forze in grado di produrre continui “choc” per il cittadino metropolitano» (p. 73). Nella società dello spettacolo, sostiene Mazzeo, Muhammad Ali rappresenta una figura chiave perché agisce all’interno della struttura concettuale ricostruita da Benjamin.

Da questo punto di vista, il sofista nero merita di essere annoverato tra i più zelanti allievi di Baudelaire. Con pugni e parole egi testimonia i cortocircuiti dell’esperienza che nei versi del poeta francese trovavano una delle più intense raffigurazioni. Come ambivalente è Baudelaire che adora gli choc ma perora la figura del flâneur, lento contemplatore di vie parigine, così ambivalente è Muhammad Ali. Da un lato il pugile è l’antesignano del mondo che sarà: fenomeno globale che supera i confini degli Stati nazionali, personaggio nel quale è indistinguibile l’attore dalla parte che recita, inquieto presagio del rapporto tra Islam e Occidente. Dall’altro Ali riesuma, suo malgrado, forze meno controllabili e potenzialmente sovversive legate a figure antiche come lo schiavo, il sofista e il pancraziaste. Egli rappresenta l’apogeo precoce di quel che sarà l’esperienza del mondo del tardo capitale: un susseguirsi caleidoscopico di choc, urti tattili che secondo la ricostruzione di Benjamin trovano incarnazione esemplare nella catena di montaggio, nella folla, nello scatto fotografico così come nelle puntate disperate del giocatore d’azzardo (p. 74)

Dunque, se Baudelaire, secondo Benjamin, è un “traumatofilo” che con la sua persona intellettuale e fisica tenta di parare gli choc che arrivano da ogni parte, altrettanto Ali assorbe i colpi altrui come nessun altro pugile è in grado di fare. Banjamin, nella sua riflessione sullo choc insiste soprattutto sulla fotografia e sulla figura operaia sottoposta alla catena di montaggio. Nel campione afroamericano produttore di choc, secondo Mazzeo,

emerge un incrocio non banale tra il sofista nero e le trasformazioni del lavoro tipiche del secondo Novecento […] Muhammad Ali ha messo in scena sul ring, anticipandoli, i caratteri di un mondo del lavoro in rapida trasformazione. Qui la cifra del suo scandalo, qui il suo potenziale innovativo. […] Alì è scandaloso perché, prima di altri, inserisce la parola nel lavoro manuale. Produce choc contemporaneamente tattili (colpi di guanto) e verbali (assalto poetico, biasimo e invettiva, predizione che autoavvera). […] fa della parola il nucleo dello scontro: non il contorno ma la pietanza principale. Se la boxe è lavoro manuale, Ali mostra che svolgere una simile attività secondo forme verbali è più efficace. [nel mondo del lavoro contemporaneo] non è difficile trovare una casistica sempre più ampia di operai della parola. Oggi è indistricabile il rapporto tra retorica e lavoro (p. 85-86)

L’introduzione del linguaggio in un lavoro fino ad allora manuale trasforma il boxeur in un soggetto pensante; il lavoratore della parola è anche lavoratore cognitivo che vende le mani ed i neuroni. Ali è stato spesso accusato di eccedere nell’autopromozione ma quel che all’epoca appare scandaloso oggi è un tratto costituivo di ogni attività lavorativa. L’autopromozione e la formazione permanente attuata attraverso il lavoro (il ring per il pugile) oggi rappresentano un tratto distintivo della contemporaneità a partire dalla scuola-lavoro e dagli stage non retribuiti. Inoltre, continua lo studioso, il campione afroamericano incarna il passaggio da uso a consumo: è simbolo d’uso in quanto il suo pugilato retorico rappresenta il carattere conflittuale di ogni impegno della vita umana ed al tempo stesso la boxe esplicita la caducità dell’atleta nella società dello spettacolo.
Se gli ultimi anni della carriera di Ali palesano la struggente decadenza, dall’altra la fine della sua carriera sembra suggerire la fine della boxe stessa così come la si è conosciuta. «Anche in questo il sofista nero annuncia il tempo presente: sconforto per un passato mitico già lontano, apparente mancanza di pagine future» (p. 93).

Quasi un secolo dopo Baudelaire, Muhammad Ali ripropone il problema dello choc. Lo imposta in termini nuovi perché mette in questione il modo nel quale esserne produttori: come produrre choc sovversivi e non solo avvilenti? Se li si confeziona sotto forma di merce, si viene inevitabilmente travolti dalla dinamica del consumo, col risultato di ritrovarsi non più agenti d’uso ma consumatori usurati. Allo stesso tempo essere produttori di choc significa rinunciare alla nostalgia melanconica dei tempi andati quando l’assenza di antibiotici consentiva a un’influenza di farti fuori e per attraversare l’Italia occorreva un settimana. […] Usare la propria vita significa metterla alla prova […] la sfida costituisce la forma più estrema di messa alla prova del al realtà, di uso della vita. È il culto della specializzazione professionale a rendere quel gesto caricaturale poiché impolitico, fuori contesto, isolato. Chi celebra i fasti della divisione del lavoro desidera che il pugile se ne sita chiuso nel ring e che la filosofia rimanga chinata sul proprio libro (pp. 93-94).

Nell’ultimo capitolo del Sofista nero, intitolato “Il filosofo boxeur. Muhammad Ali e l’operaismo”, lo studioso propone un curioso parallelismo tra il pugile ed uno dei filoni più radicali del pensiero politico italiano.

Come Muhammad Ali ha fatto uscire la boxe dal ring portandola nel mondo della guerra e della segregazione, così una filosofia non subalterna è priva di speranze se ridotta all’interno del quadro di un combattimento accademico. Il sofista nero ha fatto entrare nella boxe la parola e il conflitto sociale. In modo analogo la filosofia operaista accoglie a braccia aperte ogni fenomeno del mondo contemporaneo […] Il sofista nero non interpreta lo sport del pungo, bensì ne muta le coordinate di fondo. In modo speculare, l’operaismo fa propria l’ultima delle cosiddette Tesi su Feuerbach di Karl Marx: è una filosofia che non mira a interpretare il mondo ma a trasformarlo (p. 102).

Il volume di Marco Mazzeo individua in Muhammad Ali l’ambivalenza del mondo postmoderno, le forze dominanti ed il rischio di resa incondizionata ma anche le sue crepe interne e le opportunità sovversive. The future is unwritten.

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Le ceneri della memoria https://www.carmillaonline.com/2017/05/31/le-ceneri-della-memoria/ Tue, 30 May 2017 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38567 di Roberto Carocci

copertinaLuigi Botta, La marcia del dolore. I funerali di Sacco e Vanzetti. Una storia del Novecento (con dvd realizzato da Filmika), Nova Delphi, 2017, € 18,00.

Troppo lungamente dimenticata, la vicenda di Sacco e Vanzetti nasconde al suo interno sfumature, passaggi ed evidenze di altre storie, frutto di un contesto politico e sociale ricco e articolato. E proprio di questo contesto ci narra Luigi Botta nel suo lavoro focalizzato sugli avvenimenti che intercorrono tra l’ultimo periodo della prigionia dei due anarchici italiani fino alla sepoltura delle loro ceneri. Potrebbe sembrare [...]]]> di Roberto Carocci

copertinaLuigi Botta, La marcia del dolore. I funerali di Sacco e Vanzetti. Una storia del Novecento (con dvd realizzato da Filmika), Nova Delphi, 2017, € 18,00.

Troppo lungamente dimenticata, la vicenda di Sacco e Vanzetti nasconde al suo interno sfumature, passaggi ed evidenze di altre storie, frutto di un contesto politico e sociale ricco e articolato. E proprio di questo contesto ci narra Luigi Botta nel suo lavoro focalizzato sugli avvenimenti che intercorrono tra l’ultimo periodo della prigionia dei due anarchici italiani fino alla sepoltura delle loro ceneri. Potrebbe sembrare un aspetto secondario, una micro-storia tutto sommato trascurabile – come in effetti lo è stata finora – ma che in realtà ci informa di aspetti umani e politici del mondo sovversivo del tempo, fornendo elementi e approfondimenti inediti.
D’altronde, la casa editrice Nova Delphi ci ha abituati a letture piuttosto particolareggiate su Nic & Bart assumendosi una responsabilità che va ben al di là di interessi di mercato e proponendo un progetto editoriale più ampio sulla memoria delle classi subalterne1 Con notevole capacità narrativa, La marcia del dolore – nome col quale è comunemente noto il funerale di Sacco e Vanzetti – mantiene la promessa del suo sottotitolo riferendo a tutto tondo quella che non può essere altrimenti descritta che come Una storia del Novecento.

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti

Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco

È una storia intima, di famiglie non necessariamente proletarie, ma che dalla fatica del lavoro quotidiano traevano sostentamento e rispettabilità, catapultate loro malgrado in una vicenda più grande e, per molti versi, così lontana dal loro immaginario. Da questo punto vista, piuttosto preziosa, anche per il valore di documento memoriale che assume, è l’introduzione al volume di Giovanni Vanzetti, nipote di Bartolomeo. Siamo qui proiettati in un dramma confidenziale, che irrompe in una famiglia mite e serena, cattolica e laboriosa, coinvolta in un destino che non aveva scelto ma che, con dignitoso contegno, non ha mai smesso di ricercare la verità sulla triste vicenda, caparbiamente determinata a trasformare un fatto privato in un discorso pubblico. È proprio ai familiari di Vanzetti che si deve la conservazione delle lettere (poi versate nei fondi dell’Istituto Storico di Cuneo), così come l’istituzione di borse di studio e di aule scolastiche attrezzate, intitolate alla memoria di Bart; una famiglia che, assai distante dal sovversivismo libertario, nel corso degli anni ha ospitato anarchici e solidali, studiosi e giornalisti, che arrivavano nel paesino di Villafalletto per conoscere i dettagli di quanto avvenne oltreoceano.
Al tempo stesso, il volume di Botta ci proietta nel mondo dell’emigrazione d’inizio secolo scorso, nelle sue tensioni e le sue speranze. È in questo ambiente sociale che i due protagonisti si immergono nel proletariato profondo e cosmopolita statunitense, legandosi e alimentando quella fitta rete informale e transnazionale che ha caratterizzato l’anarchismo italiano tra l’Ottocento e il Novecento.2 È il mondo di «Cronaca Sovversiva» di Luigi Galleani, di quegli anarchici antiorganizzatori che non disdegnano di far saltare Wall Street come di superare i confini a sud e partecipare, armi alla mano, alla rivoluzione messicana o di organizzare scioperi o, ancora, dare vita ad ambiti di studio e autoeducazione.
Un sovversivismo che dové fare i conti con la Red scare, l’involuzione autoritaria degli Stati Uniti d’America che, a partire dal 1917, vide i governi stelle e strisce covare un timore spasmodico nei confronti dell’iniziativa delle classi subalterne. Furono anni di repressione brutale, indiscriminata, di cui Sacco e Vanzetti furono due tra le tante, troppe, vittime. Il procedimento penale che li coinvolse fu infatti l’espressione di una debolezza profonda della democrazia americana così poco abituata a mediare la conflittualità sociale. Le vicende sono note: accusati di una rapina finita male, vennero coinvolti in un processo farsesco in cui, per esempio, il primo avvocato assunto dalla difesa era in realtà un collaboratore della parte d’accusa; i testimoni a loro favore furono maltrattati e denigrati, in buona sostanza non creduti. Insomma, i due anarchici venivano puniti non tanto per il fatto addebitatogli, ma perché sovversivi, rappresentanti di quel proletariato immigrato meno disponibile a chinare la testa. Il modo in cui si muore qualifica spesso la vita che si è vissuta e, fino all’ultimo, Sacco e Vanzetti tennero fede alle loro idee. Lo Stato americano mostrò invece tutte le sue paure, facendo presidiare militarmente il penitenziario, sciogliendo violentemente i comizi di solidarietà, rifiutando ogni supplica da parte dei parenti, vietando l’esposizione delle ceneri, ostacolando e provocando in ogni modo anche lo svolgimento del corteo funebre, del quale fece bruciare le pellicole così da evitare che si potesse tramandare la memoria di quell’indimenticabile manifestazione di massa (alcune fonti parlano di quasi mezzo milione di partecipanti) che accompagnò i feretri per un ultimo saluto. Ed è proprio il filmato del funerale che viene finalmente restituito nel dvd allegato al volume (su concessione della Sacco & Vanzetti Commemoration Society di Boston), descritto fotogramma dopo fotogramma dall’intervento di Jerry Kaplan, mentre Bob D’Attilio ne ripercorre il tortuoso recupero.

Sacco-e-VanzetSacco e Vanzetti, insomma, facevano paura anche da morti. Un timore che non riguardava il solo governo americano. Il tragico percorso che portò le ceneri delle vittime in Italia disvela le apprensioni dei diversi governi, come quello francese, o tentativi di speculazione come quello relativo all’intromissione del comunismo russo che, tramite il Pc americano, provò a profittare della vicenda reclamando per sé i resti dei due anarchici. Lo stesso regime mussoliniano provò notevoli imbarazzi nell’ospitare le ceneri tanto da lasciare anonima la tomba di Sacco, presidiata giorno e notte dalla polizia per impedire che venissero deposti fiori rossi.
Fu una lunga marcia del dolore quella di Sacco e Vanzetti, proseguita ben oltre la loro esecuzione. Perseguitati anche da morti, la vicenda dei due anarchici è un distillato della storia del Novecento, del confronto mai sopito tra autoritarismo statale e sovversione sociale.


  1. Sono ormai diversi i volumi pubblicati da Nova Delphi sull’argomento che vanno dagli scritti di Sacco e Vanzetti all’anarchist background di Paul Avrich. 

  2. Su questi argomenti si rimanda a: Davide Turcato, Italian anarchism as a transnational movement (1885-1915), «International Review of Social Hstory», 52, 2007, ora anche in «ZapruderWorld», 1, 2014

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