Rick Wakeman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 May 2024 10:35:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Hard Rock Cafone #6 https://www.carmillaonline.com/2016/09/15/hard-rock-cafone-6/ Thu, 15 Sep 2016 21:46:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33057 di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce. Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, [...]]]> di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce.
Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, Lake and Palmer.
Keith ha recentemente pubblicato un album dal titolo eloquente, Emerson Plays Emerson, e mi fa accomodare in un camerino che, dai graffiti sui muri, ne ha viste di ogni colore. Parto alla grande: sapendo della passione del musicista per alcuni alcolici italiani (come Pinot Grigio e Asti Spumante), mi presento con una bottiglia di Fernet Branca. Keith ringrazia, ma la allunga subito al suo chitarrista: non può berla perché ha problemi cardiaci. Chi comincia bene è a metà dell’opera.
È gentile, molto pacato, un po’ sulla difensiva e non sempre pronto a ironia e provocazioni, forse perché il mio inglese prescolare non aiuta. Io non ho freni e faccio un’intervista poco professionale e molto personale, ma ‘sticazzi: lui s’imbarazza quando la domanda esula dagli abituali percorsi, ma tutto sommato è un pezzo di pane, melanconico, innamorato della sua musica. Ed è un inguaribile romantico.
Dopo tutti i guai che ti son capitati (dita, naso, costole rotti, interventi al cuore e ai nervi del braccio destro), come sta adesso Keith Emerson?
Bene, grazie! Sono un po’ ipocondriaco, sempre determinato a trovare qualcosa di sbagliato con la mia salute… ma per adesso funziona tutto.
Cosa pensi di Palmer e della sua band, con un chitarrista che suona le tue parti?
Penso solo bene! L’ho visto live e la band va forte. Il chitarrista, tra l’altro, è bravissimo anche perché non sono parti facili e non sono state pensate per una chitarra.
Non soffri nei confronti dei chitarristi, di una specie di “invidia del pene”? (Mi guarda abbastanza stranito, allora espando la domanda) Chitarristi come Hendrix o Blackmore, con la chitarra, hanno portato all’estremo la ricerca sonora e con una chitarra è più semplice farlo che non con una tastiera, anche se tu hai un passato di abusi sul tuo Hammond… (Sempre peggio: il termine “abuso” non gli piace per niente, ma prova a rispondere)
Io sto ancora sperimentando, cerco nuovi suoni e la tecnologia digitale permette ulteriori miglioramenti in questo senso. In effetti ho “abusato” delle tastiere in passato… (lo ammette, infine, eccazzo) ma mai da rendere inservibile uno strumento, dopo erano sempre riutilizzabili. C’è sempre un limite all’abuso! Quando improvvisi, il solista avventuroso cerca di suonare tra le note e questo con le tastiere non è possibili, sei costretto dalla scala cromatica, dai semitoni, mentre i chitarristi o i suonatori di sax possono glissare le note. Ogni sera, salgo sul palco e suono un assolo differente, ed è grande quando riesco a trovare un fraseggio che non ho mai suonato prima. È divertente, esaltante, inventare al momento qualcosa di nuovo, ed è un dono. E molte volte non lo registri! Certe notti, scendiamo dal palco e ci complimentiamo l’un l’altro per certe improvvisazioni e ci chiediamo: cos’era? E il problema è che non son cose che puoi riprodurre, diventano aride senza il feeling del momento.
Quello che rende speciale la musica degli anni Settanta è forse proprio nella capacità e nella disponibilità ad improvvisare, no?
Ma guarda, qualche settimana fa mi han fatto notare che alcuni miei contemporanei, tipo gli Yes o i Genesis, quando arrivano gli assoli, rimangono fedeli a ciò che avevano inciso nei dischi originali. Io non l’ho mai fatto: lo scopo di un assolo è provare a suonare qualcosa di veramente differente.
C’è mai stata rivalità con Jon Lord e Rick Wakeman?
No, rivalità no. Rispetto Jon Lord come musicista ed è anche una bella persona. E anche Rick è un grande. Jon non segue le mode, ha una sua voce con l’Hammond e il piano. Un altro che apprezzo ma che è stato sottavalutato è Brian Auger. Quando Rick Wakeman è venuto fuori e anche lui aveva diverse tastiere e il costume di scena, beh, mi son chiesto: dove l’ho già visto? Comunque dopo poco tempo ci siamo conosciuti e ne abbiamo parlato e lui ha un grandissimo sense of humour. Oltre a essere un grande musicista, ovviamente.
hrc602Senti, perché l’abilità tecnica, ad un certo punto, è diventata fuori moda? (Anche grazie al punk…)
La musica passa attraverso fasi diverse, di critica e di pubblico (fa spallucce). Generazioni diverse… e la musica punk, poi… (fa un vocione impostato, non l’ha ancora digerita trent’anni dopo) la musica punk mi piace! E Johnny Rotten abita vicino a me! (La voce torna normale) In effetti abitiamo vicini… dopo che ha cantato contro il Capitale e per l’anarchia, io sto in un condominio e lui in un villone!
Hai mai incontrato di nuovo i membri della PFM o del Banco?
L’altra sera, a Roma, ho incontrato il tastierista del Banco ma non so bene cosa abbiano fatto in questi anni. Nella Manticore (l’etichetta fondata e gestita dagli Emerson, Lake and Palmer) non mi occupavo io delle band che producevamo. Erano Pete Sinfield e Greg Lake. E a dirla tutta mi sembrava una cosa stupida: non riuscivamo a prenderci cura di noi, figurati degli altri.
E Dario Argento, mai più rivisto?
No, non recentemente, ma i suoi film mi piacevano molto ed era bellissimo che la mia musica fosse usata per un assassinio o per creare una situazione di tensione o orrore. Quando ammazzi qualcuno col tuo Moog, non mancano mai le idee, anche quando arrivi alla settima vittima! E poi scrivere per il cinema è una bella disciplina, devi adattarti a una cornice precisa, non come sul palco dove vai avanti fino a che hai idee.
Qual è stato il responso critico per Emerson plays Emerson?
Non ho letto molto, devo dire. Comunque il motivo per cui ho fatto questo CD risponde a due esigenze. Lo chiedevano i fan – che nei miei diversi album avevano sempre solo un brano o due per pianoforte – e poi anche l’EMI Classics. L’acquirente abituale di musica classica è un po’ disperato, sai. Il CD è bello resistente e quando ti sei già comprato tutto Wagner, cosa rimane? E questo è anche il motivo per cui si cercano sempre nuove idee, tipo le opere di McCartney o Roger Waters (e non che mi siano piaciute, sinceramente).
Usi il computer per comporre?
No, sono computerfobico! Se componessi su PC son sicuro che andrebbe in crash e perderei tutto! Scrivo sul mio Steinway e al limite lascio la trascrizione ad altri.
Però hai l’iPod, no?
Sì, e ci tengo dentro di tutto, ma soprattutto jazz, fine anni Cinquanta, inizio Sessanta. La roba di oggi non mi fa impazzire.
Quando arriva Natale, non temi di dover sentire di nuovo i singoli di Greg Lake?
Ma perché, dai. Mi piacciono i singoli di Lake! Sul serio, lo adoro e abbiamo fatto grande musica assieme.
Però quei singoli erano, in qualche modo, differenti dalla musica che componevate per gli album, contrastanti.
Sì, ma dovresti parlarne con Greg e con Sinfield: era una giustapposizione al nostro repertorio.
La cosa più politica che hai fatto, sul palco, è stato bruciare la bandiera americana. Cosa pensi della guerra, oggi, in Iraq?
Era stata una trovata, sul serio, e se pensi al 1968, in effetti, nessuno aveva osato fare tanto. Sai, c’erano i cantautori di protesta, allora, Dylan o Donovan. Ma fino a quel punto, non s’era spinto mai nessuno. E noi avevamo soldati americani che venivano ai nostri concerti che ci chiedevano di bruciare le loro cartoline di arruolamento: c’era la guerra in Vietnam e decisi di usare il tema di America… ma non sono nella posizione per dare giudizi politici.
Senti, non pensi che, per esempio, l’ultimo Dvd degli ELP, o il tuo passato distolgano l’attenzione dal tuo lavoro attuale?
Tipo un effetto nostalgia? Non credo, sai. La gente viene ad ascoltarci ancora e c’è sempre un grande interesse. E noi proviamo a spingerci sempre in avanti. Questa è la differenza tra la musica progressive e il pop di oggi.
E che fine ha fatto il costume d’armadillo?
È bruciato, con la mia casa!
E i coltelli della gioventù hitleriana – regalo di Lemmy quand’era tuo roadie – per accoltellare l’Hammond?
Venduti! Quando ho divorziato avevo bisogno di un sacco di soldi e li ho fatti vendere.
Dopo questa lunga carriera, hai trovato un senso della vita?
(Trasecola e ride) Questa non è una domanda, è LA domanda! Mah! Oggi io cerco soltanto una compagna con cui mettermi tranquillo, poi boh!
(4 dicembre 2005)

hrc603L’attualità (per motivi sbagliati) dei Grand Funk Railroad
Son passati trent’anni dall’immortale copertina di Survival, con i membri dei Grand Funk Railroad ritratti in comodi panni neanderthaliani. Trent’anni in cui il gruppo più vituperato degli anni Settanta s’è sciolto, s’è riunito e ridisciolto senza perdere mai la fama di adorabili sfigati dell’hard più fracassone. Non erano blues oriented come gli Aerosmith, non cavalcavano il glam cartoonish dei Kiss, non proclamavano la loro politicizzazione come i MC5, né passavano per outsider intellettuali come i Blue Öyster Cult: erano semplicemente i trogloditi del rock, senza capacità virtuosistiche o compositive, e provenivano dalla tremenda Flint, città natale dell’arrabbiatissimo Michael Moore e colonia della General Motors. Oggi il pubblico americano li conosce grazie alla tifoseria sfegatata del capofamiglia Simpson (e che Homer li adori spiega tante cose). Sono passati trent’anni anche dal loro ellepì migliore, quell’E Pluribus Funk che rivoluzionava il concetto di packaging (presentandosi come una enorme moneta d’argento); un po’ meno quello della musica, anche se, a ben guardare, la tracklist possiede ancora oggi una sorprendente attualità. A fianco di sfrenati inviti alla danza (la travolgente Footstompin’ Music), sbulaccate machistiche (Upsetter) e pensosi tentativi pseudopoetici (la melensa Loneliness) c’era anche lo slancio ecologista di Save The Land e, soprattutto, l’accorato appello di People, Let’s Stop The War. Nell’arco di una quindicina di anni i GFR hanno licenziato diversi dischi memorabili, per un motivo o per l’altro. Il terremotante Live Album del 1970 è diventato una pietra miliare degli album dal vivo, Shinin’ On è, credo, il primo – se non l’unico – LP con la copertina 3D (con gli occhialini inclusi nella confezione!). Ma era notevole musicalmente anche Caught in the Act, dove veniva fuori l’attitudine soul e blues del gruppo, del resto stimato da Todd Rundgren (produsse l’ottimo We’re An American Band) e pure da Frank Zappa, istigatore di Good Singin’, Good Playin’ del 1976 e che di loro disse: “Sono fantastici. FAN TAS TI CI. Con una “F” alta tre volte te!”. Bene: io li ho amati e voi a breve sarete conquistati, ma se siamo qui a parlarne è perché la longevità dei Grand Funk Railroad (poi dispersi in altre formazioni, anche con derive religiose) non è nella lungimiranza del progetto artistico ma nel cammino a ritroso dell’amministrazione Bush che sta regalando al mondo un nuovo Vietnam all’anno e disattende bellamente il protocollo di Kyoto. Dopo la geniale pensata che il conteggio dei morti in Iraq non debba tenere più conto dei civili (da noi la chiamano contabilità creativa), sono arrivate anche le tremende “cartoline dall’inferno” con le torture del carcere di Abu Ghraib. Prima i sospetti, poi le prove, e ora pensano di metterci una pezza mandandoci il direttore di Guantanamo (e non è una battuta. Il mostro di Milwaukee era già occupato?). Tra le tecniche per sciogliere la lingua ai prigionieri, il cosiddetto “bombardamento sonoro”: quale gruppo di hard rock cafone verrà inconsapevolmente coinvolto in questa porcata? Dov’è finita l’America generosa e bonacciona di Homer Simpson e dei Grand Funk Railroad? (Giugno 2004)

negrita_3Ehi! Negrita!
I miei primi Negrita risalgono a quindici anni fa, al Canguro di San Colombano al Lambro, 200 spettatori stipati all’inverosimile. Mi sentivo come Jon Landau la sera che sigillò il destino suo e di Springsteen e pensai: stasera ho visto il futuro del r&r italiano. Ero giovane, erano giovani, ma tenevano il palco come veterani. Gli anni passano e oggi i Negrita sono una rock band affermata, vendono bene, fanno tour pieni, però sono rimasti sempre a margine del successo di massa, da stadio. E per fortuna, vien da dire, parlandogli, perché sono di quella razza ormai rarissima in Italia, di chi fa coerentemente di testa propria. Nessun compromesso e nessun proclama; mai leccato il culo ai giornalisti (cosa che hanno pagato eccome), mai convenientemente posato da star per rotocalchi, mai storiacce di corna e droga per solleticare le voglie gossip dei lettori. Come mi dice il cantante Pau, disarmante nella sua sincerità: “Siamo una comunità di amici fricchettoni con figli, che vuoi farci?”. All’inizio erano cinque dottori per curare la peste, come recitava l’autobiografica Ehi! Negrita, e il loro momento di crisi non è coinciso con vendite in ribasso o nebbia creativa ma con l’abbandono per motivi personali del fraterno batterista. Dopo un incontro nei camerini (“Per piacere, non chiederci anche tu Che rumore fa la felicità!”) in cui si parla di crisi economica, di Sanremo e di downloading, tocca al concerto, una mezcla piccante, due ore di blues, funky e reggae: tutti i suoni del sud del mondo, sublimati nello scintillante suono elettrico del nord. L’ultimo album Helldorado è i Negrita all’ennesima potenza, un Buenos Aires Calling che dal vivo viene proposto quasi per intero. Si danza maschi e femmine con le dovute pause per le ballate perché se c’è qualcuno a cui devono qualcosa – come ricordano Pau e il chitarrista Drigo – quello è il pubblico. Tantissimo, del resto: sold out vero, mica da agenzia stampa. Sono sempre stato convinto che fossero la migliore live band rock italiana e trovo ulteriore conferma: nei Negrita senti gli Stones e Rino Gaetano, la tradizione e il futuro, il meticciamento e le basi del r&r, con una potenza di fuoco fenomenale (anche grazie all’altro chitarrista, Cesare, un riff dopo l’altro) e un groove continuo. E anche i testi scintillano in questo mare di lava sonora ulteriormente arricchito da una consolle e delle percussioni latine. È una festa che celebra la loro libertà, come sintetizza il coro totale del palasport di Lampugnano su A modo mio. E dopo quindici anni penso che io ero Jon Landau e non lo sapevo. E che questo paese non se li merita, i Negrita. Tra poco partiranno per il Sud America e l’Europa con lo spirito di quando hanno iniziato, perché sanno che la vita è una verifica continua e chi si abitua alle recite negli stadi poi non produce più una nota decente. E hanno ragione. (Aprile 2009)

hrc605Io brindo agli Uriah Heep
Melissa Mills dovrebbe essere una mia collega, ma non so se abbia tenuto fede all’impegno preso recensendo il primo album degli Uriah Heep, proprio su un Rolling Stone del 1970: “Se hanno successo questi, mi suicido”, letteralmente. E nella fattispecie, nel terzo millennio gli Uriah Heep continuano ad avere successo: magari non come nel 1972 (l’annus mirabilis di Demons and Wizards e di The Magician Party), però prendendosi le loro belle soddisfazioni. È appena uscito Live in Armenia, località se non altro balzana, ma il presidente locale è un grande fan e allora, perché no? Del resto il russo Medvedev ama i Deep Purple e li ha fatti esibire al Cremlino e non escludo, prima o poi, un Live At Arcore delle giovanissime Ruby and the Jets, con opener Mariano Apicella. Comunque: io ho visto Werner Herzog mangiarsi una scarpa per scommessa (era di cuoio: bollita otto ore con verdure è diventata edibile), ma il regista tedesco è un genio. Invece della Mills, pur googlando, non ho trovato notizia di suicidio e credo che ogni volta che esce un disco degli Heep provi un po’ di vergogna per quella sparata infantile. Perché il primo LP (dalla copertina sinceramente emetica, seconda solo ai repellenti Abominog, degli stessi Heep, e Born Again, dei Black Sabbath) era buono eccome, se non forse un po’ grezzo, e tra alti e bassi il sestetto è arrivato fino al recente Into the Wild, tosto assai e per niente arcaico. Questi qui si son barcamenati per quarant’anni tra cambi di line-up, un bassista fulminato sul palco, ritiri, ritorni, dischi inutili e altri sottovalutati, svernando nel terzo mondo musicale quando qua da noi non era aria, per poi tornare trionfalmente ad ogni revival. E ora che viviamo nell’ottusa nostalgia di tutto, il loro strambo ma coinvolgente mix di hard rock, progressive e voci in falsetto alla New Trolls, funziona ancora. Capelli – quando ne sono rimasti – bianchi, pance debordanti, posture epiche, ugole sguaiate e sound martellante (nonostante le occasionali ballate pastorali come la splendida Come Away Melinda), gli Heep non son diventati più belli. Erano orrendi allora (sembravano il gruppo TNT, giuro) e i superstiti non sono migliorati, ma il vino, invecchiando, ha acquisito corpo: alzo il mio calice verso di loro, prosit, lo meritano. (Gennaio 2012)

hrc606Matt Filippini Story
Fossimo a Hollywood, la storia che sto per raccontarvi sarebbe un blockbuster conteso dai produttori, un Flashdance hard rock e per di più una storia vera, cosa che agli yankee piace sempre sottolineare, specie quando la vicenda è assolutamente inverosimile. Cremona, Italia: un giovane chitarrista coltiva il sogno di milioni di rockettari. Fare l’album della vita, accompagnato dai propri idoli musicali. Matt Filippini è tecnico in un’acciaieria ma, pur non suonando metallo pesante, non disdegna la schitarrata con la giusta saturazione timbrica. Non ha un gruppo suo, ma gli piace suonare in giro e una sera finisce a jammare con Ian Paice, batterista dei Deep Purple spesso dalle nostre parti, e gli allunga un demo con tre pezzi originali. Paice apprezza, risuona le parti di batteria e incoraggia Matt che non se lo fa dire due volte. S’indebita appoggiato dalla moglie – bassista che crede nella coppia e nel rock quanto lui – e autofinanzia il Moonstone Project. E gli altri partecipanti? Una rockstar è lontana solo l’invio di una mail e chiedere è lecito: Glenn Hughes, basso e voce ultra-funky (dai Deep Purple degli anni Settanta fino alle recenti collaborazioni con diversi Red Hot Chili Peppers), risponde subito e partecipa entusiasta. Dopo di lui è una sarabanda di adesioni dal bel mondo dell’hard storico e degli anni Ottanta: Carmine Appice (batterista dei Vanilla Fudge e co-autore con Rod Stewart di Da Ya Think I’m Sexy, per dire), le voci di Eric Bloom (Blue Öyster Cult), Graham Bonnet (Rainbow) e Steve Walsh (Kansas), il basso di Tony Franklin (Whitesnake)… Un cast stellare che provoca un’immediata pavloviana salivazione in chiunque ami il buon rock, quello con chitarre turgide, riff trascinanti e con la sezione ritmica che si sente davvero. Il progetto è promosso da un’etichetta inglese, la Majestic Rock Records che, se non dimostra gran gusto estetico (la copertina dell’album è una cafonata unica), ha certamente fiuto musicale. Il buon Matt adesso dovrà scegliersi bene le ferie: lo aspettano showcase in USA ed Europa e un tour in Giappone, Russia e Sud America, dove i vari ospiti si alterneranno. Se siete il fanatico musicomane che passa le serate al pub a fantasticare di line-up ideali davanti a una birra, beh: non vi resta che cercarvi Time To Take A Stand. Jennifer Beals aveva una controfigura, Matt Filippini ha fatto tutto da solo e con un piccolo aiuto dagli amici. E ha fatto benissimo. (Giugno 2006)

(Fine – 6)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace (edit)

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Vic Vergeat story https://www.carmillaonline.com/2013/12/19/vic-vergeat-story/ Thu, 19 Dec 2013 22:06:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11431 di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock. Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia [...]]]> di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock.
Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia suonato – disco, concerto o turno in sala che fosse – ha lasciato il segno, umano e artistico.
Per raccontare la sua storia ho girato assieme al mio collega Riccardo un centinaio di ore di interviste e di concerti, anche se poi la vita ha preso il sopravvento e il documentario non l’abbiamo fatto. Ma la storia c’è e non dipende dal fatto che ci sia sfuggita di mano.
La storia c’è ed è questa, così come me l’ha raccontata il protagonista.

Vittorio Vergeat, di famiglia della Val Vigezzo, nasce nel 1951 a Domodossola e rimane presto folgorato dal rock’n’roll, ottenendo a dieci anni la sua prima chitarra.
È il classico bambino prodigio: ribelle, insofferente alle regole e alla disciplina, ma con le idee chiare su come e cosa suonare. Per tenerlo a freno i genitori lo mandano in collegio, da cui fugge: il suo liceo lo frequenta tra Como e Chiasso (nomen omen) suonando nei beat Black Birds. Dolce Delilah nel 1967 è il battesimo su vinile, che sul retro presenta anche la sua prima composizione, l’ingenua Torna verso il sole che però sfodera un distorsore acidissimo (“Il tecnico del suono, in camice bianco, si lamentava: si è rotto qualcosa!”). All’epoca Vic non è ancora iscritto alla SIAE e la canzone viene accreditata al produttore: “La prima inchiappettata”, termine tecnico conosciuto da molti musicisti.
La “vecchia” musica pop è intanto soppiantata dal rock e il chitarrista studia sui Beatles prima e su Hendrix poi: Jimi rompe ogni schema e il suo strumento lo fa cantare, piangere, urlare. Anche per l’esuberante Vergeat la chitarra diventa un simbolo fallico da masturbare, un corpo femminile da accarezzare e una mitragliatrice da far deflagrare. Lo fa con gli Underground a Lugano, assieme all’uomo orchestra Hunka Munka. Diventano un’attrazione che riempie i locali, al punto che i gestori temono la fuga di Vic, cosa che fa puntualmente, scappando una notte con la sua chitarra e la fidanzatina alla volta di Londra.
Siamo nel 1969 e la capitale britannica è la sua università. Per 7 mesi Vic è tutte le sere prima a mangiare al Ritz – perché è un dandy viziato – e poi al leggendario club Marquee per imparare dai maestri.
vvs02bArmato della sua Les Paul ’58 frequenta gli Hawkwind, un gruppo di storditi profeti dello space rock: “Loro erano drogatissimi e io ero pulito e innocente. Perlomeno ancora!”, e finisce subito, dopo alcuni giorni in sala di registrazione. Il leader Dave Brock oggi nega, ma della sua lucidità di allora francamente dubiterei molto.

Vergeat torna a casa nell’ottobre 1970, in Italia, e assieme alla sezione ritmica della cult band psichedelica Brainticket (Cosimo Lampis alla batteria e Werner Fröhlich al basso, due mastini) forma i Toad, che registrano il primo omonimo album due mesi dopo, a Londra. Suonano spesso in Svizzera, anche al festival di Montreux (nel gennaio 1971) dove in diretta televisiva Vic rompe tre volte le corde della sua chitarra… In Italia le date sono invece sporadiche (lo Space Electronic a Firenze, il Piper a Roma, ovviamente a Domodossola) e la band “frontaliera” viene – e verrà sempre – equivocata come esclusivamente elvetica, con conseguente poca considerazione. Sbagliando.

vvs02Grazie anche al lavoro del sound engineer Martin Birch (mastermind produttivo di Deep Purple, Iron Maiden, Blue Oyster Cult, Rainbow, Whitesnake e tanti altri), il primo disco è bello e inventivo, con la Firebird straripante del leader in evidenza, e si muove con originalità tra le coordinate stabilite da Grand Funk Railroad e Led Zeppelin. Il cantante Benji Jaeger si chiama fuori frustrato (“Non si divertiva molto quando improvvisavo per quindici minuti. E quindici minuti era un assolino!”) e i Toad diventano un power trio che nel 1972 sforna il perfetto Tomorrow Blue, capolavoro riconosciuto hard rock e progressive, dove l’ascendenza heavy blues è stemperata nella capacità melodica di Vic e dalla varietà di ritmi e atmosfere, aggiungendo alla ricetta anche un violino indemoniato.
I Toad partecipano ai classici raduni italiani dell’epoca (Palermo Pop Festival nell’agosto 1971, assieme a Black Sabbath e Colosseum; Villa Pamphili a Roma, nel 1972) ma i grandi riconoscimenti li hanno in Francia, Germania e Svizzera, con buoni riscontri di vendite – specialmente con il singolo Stay! – accolte con tipica spocchia giovanile: “Quando eravamo tra i primi in classifica ero incazzato nero! Volevo essere il 33!”.
Succede anche di aprire per i Deep Purple o per i Genesis in un tour francese (e in questo caso di diventare dopo alcune date gli headliner), ma il momento non viene sfruttato. Il gruppo si prende una pausa e Vergeat va a vivere a Roma.

vvs03In attesa di realizzare un album solista, presta la sua chitarra alla RCA (facendo turni per Renato Zero e Morricone) e si butta in grandi jam, complice l’amicizia con i membri del Rovescio della Medaglia. Addirittura interpreta un cantastorie hippie nella truffaldina riedizione di uno spaghetti-western, Sparate a vista a Killer Kid, anonima pellicola jugoslava e tedesca di metà anni Sessanta con l’unico merito di avere come protagonista secondario Mario Girotti. Che a inizio Settanta diventa Terence Hill e sfonda grazie ai film di Trinità… e allora vai di riciclo. Ma il pubblico – non sembra senza motivi – non abbocca.
Nel 1974, mentre tutto il rock commerciale si divarica e va verso l’hard o il pop e finisce quella magia per cui si poteva suonare tutto, Vic diventa l’unico biancuzzo in una scatenata band soul nera, quella di Wess, gli Airedales: è il suo master in una piccola facoltà.
Dopo Dreams, un disco di rock’n’roll a nome Toad, gradevole ma un po’ sfocato e che non ha alcun riscontro commerciale, Vic torna a Londra in piena esplosione punk e collabora con Pete Sinfield (già paroliere di Emerson Lake and Palmer e della Premiata Forneria Marconi), con Mitch Mitchell (il batterista della Experience di Hendrix) e John Giblin (bassista sessionman extraordinaire, avrebbe poi suonato con Peter Gabriel, Paul McCartney e i Simple Minds). Non ne viene fuori nulla.

vvs04Si torna sulla strada ancora con i Toad che dal vivo sono un calderone ribollente, dove confluiscono blues, hard e funk, in naturale combustione. Una scelta musicale istintiva che il business (a differenza del pubblico dei concerti) non capisce e non asseconda. I manager vogliono un Vic guitar hero, truce, tutto pelle e borchie e la Capitol prova a lanciarlo sul mercato statunitense con un’immagine tamarrissima. Lo cura Dieter Dirks, deus ex machina del successo degli Scorpions, e Vergat (come viene rinominato per facilitare la pronuncia yankee, roba da chiodi) pubblica un album, Down to the Bone, dalla terribile copertina metallara: “Mi chiedevano di fare la faccia cattiva, sul palco o davanti ai fotografi…”. La cosa pare funzionare (il disco entra nella classifica di Billboard) e in realtà sotto la scorza della produzione c’è la consueta varietà di generi, spaziando dal boogie al funky al soul. Seguono diverse date in giro per gli USA, aprendo per Nazareth, Scorpions, Rory Gallagher e Joe Perry Project (del chitarrista degli Aerosmith), ma Vic è una rockstar irrisolta e non è il tipo che la manda a dire. E così, all’interno delle major losangeline, diventa il musicista genialoide da tenere a distanza, da trattare con le pinze perché poco controllabile. La sua sezione ritmica diventerà multimilionaria nei Ratt, gruppaccio hair metal, mentre il nuovo album solista, Weapon of Love, non esce, dopo epocali scazzi col produttore.

Tutti gli anni Ottanta passano all’insegna della frenesia tipica dell’artista valvigezzino: diventa padre due volte, si sposa, divorzia, sembra formare un supergruppo con Rick Wakeman e Carl Palmer, ha un nuovo successo in Svizzera con una band pop rock (i Bank, assieme a Hugh Bullen, già bassista di Battisti e Pino Daniele), perde un ingaggio milionario con la MCA e incide con il cantante dei Krokus, Marc Storace, una bella cover di When a Man Loves a Woman. Ma il singolo viene bloccato dalla casa discografica finché lo stesso arrangiamento – come per magia – viene fuori nel successo planetario di Michael Bolton…
Gli anni Novanta vanno però meglio, anche se non nel modo più prevedibile: infatti nel 1993, assieme alla figlia Neve, Vic scrive la sigla di Pingu, un cartone animato elvetico venduto in tutto il mondo: canta David Hasselhoff, il bel tomo di Supercar e Baywatch e la canzoncina ottiene un buon successo. Ma soprattutto Vic riforma i Toad e fa uscire un album intenso e roccioso, Hate to Hate in cui si scaglia contro la guerra in Iraq (ed era solo la prima guerra in Iraq). Torna in tour col suo gruppo storico e poi – come ospite di lusso – assieme a una band svizzera che sta andando benissimo, i Gotthard, partecipando al vendutissimo D-Frosted.

vvs0xNel 1998 incontra Gianna Nannini grazie alla conoscenza comune del manager Peter Zumsteg e con lei scrive parte dell’album Cuore (e anche un’altra sigla che funziona, quella di Lupo Alberto!). Dopo oltre un anno di concerti assieme, Vic decide di dedicarsi di nuovo alla sua carriera solista: nel 2002 licenzia un buon album dal vivo, No compromise, e partecipa anche a due tributi hendrixiani che rilanciano il suo nome tra gli appassionati e i critici.
Qualcosa però si blocca: dopo anni e anni di tentativi, il guerriero è stanco di combattere.
Ed è qui che arrivo io.

Curando da qualche tempo una rubrica per Rolling Stone, chiamo incuriosito una piccola ma agguerrita etichetta discografica di La Spezia, la Akarma, che lo produce e distribuisce. Mi dicono: “Attento! È diffidente coi giornalisti, il Vergeat!”. Gli telefono, ci annusiamo e finiamo a parlare di Mike Bloomfield e Peter Green, due perdenti nella logica mercantile dell’industria musicale, due geni per noi e per tutti quelli che la musica la ascoltano sul serio.
Per capirci al volo: Mike Bloomfield è la chitarra di Highway 61 Revisited di Bob Dylan mentre Peter Green è il fondatore dei Fleetwood Mac, prima che abbandonassero il blues per tirare dune di coca su per il naso… Due musicisti che hanno saputo mettere in musica con sincerità estrema tutta la loro ansia e difficoltà di vivere, senza mai sembrare dei semplici imitatori della tradizione black.

Vic accetta che lo intervisti e vado a trovarlo a casa sua, a Domodossola. E scopro che se gli piacciono i beautiful losers come Green e Bloomfield, allo stesso modo non ama chi è riuscito ad avere un successo trasversale, come Prince o Springsteen, per esempio.
vvs05La sua storia è decisamente interessante: come ha fatto uno così, mostruosamente dotato in termini compositivi, esecutivi e spettacolari, a non avere avuto un riconoscimento unanime?
Perché, tutte le volte che il successo sembrava dietro l’angolo, qualcosa s’è messo di traverso?
Con il mio collega Riccardo decidiamo di realizzare subito un dvd-concerto, a budget zero e con attrezzature di fortuna. E ci viene anche molto bene: Live at Music Village ottiene recensioni positive in modo imbarazzante, però la distribuzione è difficoltosa se non nulla e il dvd rimane una chicca per appassionati.

Negli anni di frequentazione che seguono vediamo Vic suonare a festival e feste di piazza, in pub, teatri e (letteralmente, in esibizioni sempre clamorose) per la strada, acustico ed elettrico, al Blue Note di Milano come all’Hard Rock Cafè di Mosca. Sempre a fianco del pazientissimo e talentuoso bassista Michi e con amici vecchi e nuovi (Mel Collins, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, tra le collaborazioni più recenti), inseguendo ogni volta progetti artistici inediti, talvolta strampalati, più spesso generosamente incoscienti.
Cosa abbiamo capito di lui? Vic ha una voce chitarristica unica, non fa prove (“Un pittore dipinge la tela una volta sola, no?”) e improvvisa sempre la scaletta del concerto (facendoci impazzire quando si tratta di filmarlo). Consulta gli I-Ching, odia il calcio ma tifa Valentino Rossi peggio di uno hooligan; dimentica ovunque occhiali e cellulare, non sopporta Emilio Fede e le zanzare, gli piacciono il Tenente Colombo, il vino rosé e la sua Ducati è sempre l’ultimo e più prezioso modello esistente (adesso è una Panigale R, in recente sostituzione di una Desmo 16). E poi Vic fa esattamente quello che non bisognerebbe fare quando si suona la chitarra. Cioè: arti marziali e roccia…
È un vanitoso (con un gusto sartoriale tutto suo), un pasticcione e un lamentoso, è logorroico e “tra l’altro” è la sua formula per allargare all’infinito ogni discorso. È idealistico e incoerente, sicurissimo fino al momento in cui non cambia idea. Lo sa e non può farci niente. Perché è vero e non sa mentire, nel bene e nel male.

vvs06Il documentario che volevamo dedicargli non ha trovato committenti: le case discografiche non avevano più un euro e la sua storia, per me paradigmatica di un mondo che sta scomparendo, non sembrava interessare nessuno.
Però quella che mi era sembrata una carriera senza la fortuna che meritava, oggi la vedo in modo molto differente e mi pare che contino di più i risultati ottenuti di quelli che si poteva sognare di realizzare. Del resto Vic è stato ambizioso, sí, ma mai abbastanza da dover accettare delle imposizioni: dopo una partenza fulmicotonica a neanche vent’anni, è come se avesse attuato una lenta ritirata dalle trappole e dalla fatica dello stardom, che può vincolare a una formula e diventare un obbligo. Non senza qualche legittima frustrazione, è ovvio, ma il successo di questo ragazzino di sessant’anni, oggi, sono la moglie Carmen, i figli e i tantissimi amici, la musica che ha scritto e la gioia che regala ogni volta che imbraccia una chitarra.
E non è poco.

Da ascoltare
Toad – Toad (1971)
Toad – Tomorrow Blue (1972)
Vic Vergeat – No Compromise (Live, 2002)
Vic Vergeat – Just the Two of Us (acustico, 2011)
Vic Vergeat – Live (acustico, 2012)

Da vedere
Vic Vergeat Band – Live at Music Village (2006)

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