Richard Thompson – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 May 2024 10:35:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Divine Divane Visioni (Novissime) – 82 https://www.carmillaonline.com/2022/06/02/divine-divane-visioni-novissime-82/ Thu, 02 Jun 2022 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72237 di Dziga Cacace

Un regista oggi deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Murnau. (François Truffaut, 1975)

1920 – Succession di Jesse Armstrong, USA 2018 Ci siamo trastullati per un po’ con la serie New Amsterdam, sostanzialmente un E.R. aggiornato ai tempi di Donald Trump e del politicamente corretto statunitense, con un dosaggio millimetrico di facce, situazioni e colpe che Cencelli a confronto era un dilettante. Poi però ci serviva qualcosa di meno [...]]]> di Dziga Cacace

Un regista oggi deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Murnau. (François Truffaut, 1975)

1920 – Succession di Jesse Armstrong, USA 2018
Ci siamo trastullati per un po’ con la serie New Amsterdam, sostanzialmente un E.R. aggiornato ai tempi di Donald Trump e del politicamente corretto statunitense, con un dosaggio millimetrico di facce, situazioni e colpe che Cencelli a confronto era un dilettante. Poi però ci serviva qualcosa di meno democristiano, un po’ più cattivello, ecco, e la scelta è caduta su questa serie premiatissima. E se in New Amsterdam sono tutti buoni, qui, in Succession, non si salva nessuno, ma proprio nessuno. Come da titolo, il problema della famiglia Roy è la successione al vecchio patriarca per prendere le redini della Waystar RoyCo, il più potente gruppo editoriale americano, che produce televisione, gestisce parchi di divertimento e crociere e in definitiva costruisce e gestisce consenso politico. I riferimenti alla famiglia Murdoch o a concentrazioni editoriali come quelle di Trump, Turner o Bezos sono lampanti e sfumati allo stesso tempo: assistiamo a una vicenda edipica dove i quattro figli del tycoon si scannano per ereditare il potere e per esercitarlo poi sui familiari, in un gioco al massacro senza esclusione di colpi. Il capitalismo ha molte facce, tutte orrende e variamente amalgamate a stupidità, egoismo, sociopatia, deviazioni e prepotenza e seguendo le vicissitudini della famiglia Roy abbiamo il catalogo più aggiornato di sempre. Un tempo una serie così avrebbe potuto produrla solo chi avesse voluto dimostrare l’inequivocabile vocazione al cannibalismo e all’autodistruzione del Capitale. In tempi di guerra fredda, se ci fosse stato il budget, avrebbe potuto essere la prima serie sovietica, altroché, prodotta proprio per farci vedere dove porti l’amore sfrenato per denaro e potere nella società occidentale. Ovviamente negli USA il successo è stato immenso: mentre la realtà sembra copiare la fantasia, la narrativa televisiva americana riesce pure a trarne un prodotto culturale dove sulla critica e sull’analisi politica prevale l’intrattenimento. Diventa tutto spettacolo, insomma. Però va ammesso: uno spettacolo eccezionale, che trascende la tragedia shakespeariana familiare in uno humour nero irresistibile in cui, volta per volta, ti trovi a fare il tifo per il meno peggio del cast. In questo caso Kendall Roy, il secondogenito ormai vicino a succedere al padre e a svecchiare il colosso multimediale. È un personaggio ambiguo, con un passato di dipendenze e una separazione dolorosa, ed è stretto tra obblighi e ambizioni in mezzo a una famiglia di squali stronzi. Suo padre (l’eccellente Brian Cox nel ruolo di Logan Roy: sembra Maradona fra 10 anni se non fosse morto nel frattempo) è una carogna fatta e finita ma, come Kendall, non è un coglione, anzi. Ma è un’intelligenza votata al Male e alla manipolazione di cui sono vittime, a tratti consapevoli in vista di un vantaggio, più spesso inconsapevoli, gli altri tre figli. Un inferno di famiglia, insomma. La serie è scritta con astuzia luciferina: qualche volta si fa più fatica nella reiterazione di tradimenti, alleanze e rappacificazioni ma i dialoghi strepitosi (in un mix ritmatissimo tra tecnicismi finanziari, eloquio Ivy League e volgarità da trivio) e le prestazioni attoriali magistrali vi trascineranno inesorabilmente. Nota di merito anche alla musica neobarocca di Nicholas Britell. Producono Will Ferrell e Adam McKay che ha girato la puntata pilota con stile nervoso, molto godibile. Siamo senza dubbio tra le migliori serie di sempre. Vediamo come cresce. (Sky, gennaio 2022)

1923 – America Latina dei Fratelli D’Innocenzo, Italia 2021
Non conosco il cinema dei fratelli D’Innocenzo, sono sempre rimasto lì lì per provare combattuto dall’accusa di estetizzazione del marginale, con situazioni al limite etc. Ma sto parlando, appunto, di qualcosa che non conosco e dei miei pregiudizi duri a morire, pregiudizi che poi scompaiono di fronte a un film ben fatto e riuscito. È il caso di ieri sera quando su insistente richiesta della secondogenita che si vuol dare un’istruzione ho rivisto dopo un quarto di secolo L’odio, film che all’epoca era stato (anche) accusato di lettura borghese di problemi lontani dal mondo del regista, un Kassovitz che aveva reso “bello” il mondo delle periferie. Beh, posso dire? Ma che stracazzo di capolavoro, L’odio. Fotografia, ritmo, dialoghi, attori, storia ed episodi. Tutto che funzionava alla perfezione. Gli si perdonava anche il doppiaggio che spesso e volentieri tradiva l’origine romana dei doppiatori (ammerda, ar culo, astronzo… nelle banlieue, io boh). Ed è con queste premesse che non c’entrano nulla – a ragion veduta – che ho affrontato America latina in sala. E l’ho trovato interessante, non so in fondo quanto riuscito, ma coraggioso e spiazzante. Tanto per cominciare non era estetizzante o fighetto come avevo letto. Cioè, la bravura della messa in scena non l’ho vista così esibita o compiaciuta. È linguaggio e mi sono anche rotto di film girati coi piedi o con pigrizia in nome del famigerato “messaggio”. Poi ho apprezzato la direzione di Elio Germano, bravissimo in un ruolo ambiguo: un dentista di provincia, affermato ma con una sua interiorità contorta e con una famiglia dove si sommano consueti casini dell’adolescenza, rapporti di coppia e l’essere adulti in un mondo che va veloce. Il punto di svolta si ha quando il protagonista trova una ragazza prigioniera nella propria cantina. Che si fa? Non ho granché capito il punto del film, cosa ci voglia dire effettivamente, se il centro della narrazione sia sentirsi un incel o cosa. O se sia pura messa in scena. Però, ecco: avercene di registi che sanno organizzare così il materiale narrativo e visivo, che non hanno paura di uscire dai percorsi ormai veramente antichi del cinema italiano. C’è un’estetica del disagio? Sì, ma stavolta mi pare ben inserita nel racconto, non fuorviante. Semmai contesto l’endemico problema dell’audio nei film italiani che io, boh, proprio non capisco. Ma forse è colpa della mia sordità. Comunque bel film, dài, non consolatorio e né pacificatore. (Cinema Ducale, Milano 22/1/22)

1924 – Ozark Season 4 Part I di Bill Dubuque e Mark Williams, USA 2022
A un certo punto ho realizzato perché, tra tanti altri motivi, c’è qualcosa che veramente mi irrita in Ozark e allo stesso tempo mi fa andare avanti inesorabilmente. La vicenda potreste non saperla: Marty Byrde è un insipido consulente finanziario di Chicago che da finto tonto fa da ragioniere anche per un cartello della droga messicano. Nella prima puntata della serie è costretto a scappare con la famiglia (la moglie fedifraga Wendy e gli adolescenti Jonah e Charlotte) e rifugiarsi nei monti Ozark, in Missouri, in mezzo a dei burini, dove si rifà una vita rimettendo subito in piedi un meccanismo per lavare il denaro sporco. Ma alla sopravvivenza subentra anche l’ambizione, la sete di potere, l’affermazione personale, mascherando tutto sempre ipocritamente come passo ulteriore per salvarsi la vita. Già visto ma non male. Una sorta di rivisitazione di Breaking Bad con temi e ambientazioni diverse. E la gente per bene di Chicago si innesta sul marcio di Ozark, trascinando anche chi viveva inconsapevole una sua vita tranquilla. Ecco, mi son reso conto quasi subito che io non faccio il tifo per i protagonisti principali. Li detesto. Sono falsi, ipocriti, arrivisti. E altrettanto naturalmente mi son reso conto che il vero motivo per cui vado avanti è una delle loro vittime, una redneck che – anche lei per sopravvivenza – deve stare al gioco, ma mostrando qualità umane e professionali molto più ammirevoli. Nella serie lei è Ruth Langmore ed è interpretata dalla straordinaria Julia Garner, attrice di una bravura inarrivabile, semplicemente pazzesca. Io tengo per lei, ecco. La serie è ormai arrivata alla quarta stagione e prosegue con un proliferare di linee narrative che rendono tutto molto difficoltoso. Inoltre sono tutti contro tutti, anche all’interno della famiglia Byrde, con repentini cambi di fronte, tradendo la rispettiva fiducia. Il capofamiglia Marty è il consueto cucciolone, all’apparenza innocente, e invece ipocrita e calcolatore, sempre imperturbabile sia che venga picchiato (mai abbastanza) sia che prenda decisioni drammatiche che portano a conseguenze mortali, tutto con una flemma irritante e poco credibile. La moglie Wendy, viceversa, è una decisionista, ansiosa di potere, stronza come poche. L’abbraccio mortale con la famiglia di narcotrafficanti Navarro è sempre più soffocante e si va avanti con colpi di scena e colpi bassi e non si può negare che ci sia il divertimento (quando non si eccede con le durate: si è sempre intorno all’ora di racconto e proprio non ne vale la pena). Ma c’è anche la sensazione di un gelato Tutti frutti a cui si aggiungono senza criterio caramello, granella, pistacchi, panna montata, zucchero a velo, dressing di mirtilli e scaglie di cioccolata. Non c’è continenza, insomma, né una morale se non farti vedere quanto siamo corrotti noi americani e quanto godiamo a raccontarcelo. Gli archi narrativi sono sballati e i colpi di scena sono shock improvvisi e imprevedibili perché non verosimili. Però, e ritorno da dove son partito, c’è Julia Garner. E io tengo per lei e spero che, nell’ultima parte della serie in arrivo, li ammazzi tutti, dal primo all’ultimo. TUTTI. (Netflix, febbraio 2022)

1925 – Crash Landing on You di Lee Jeong-hyo, Corea del Sud 2019
Il classico dubbio che assale chi scandaglia l’enorme catalogo di Netflix: leninisticamente che fare? E allora io mi scoppio una serie sudcoreana, ecco cosa, che matto! Dunque: una giovane imprenditrice sudcoreana che ha voltato le spalle al padre e ora ereditiera di un impero economico viene travolta da un tornado mentre prova un nuovo parapendio e, per beffarda capacità sceneggiatoria e meteorologica, finisce in Corea del Nord, appesa a un albero da cui cade tra le braccia di un ufficiale rigoroso ma ovviamente sensibile al fascino della tizia. Basta uno sguardo e capisci già come finirà, con la consueta lotta tra dovere, libertà e amore. Beh, abbastanza farsesco, con toni da commedia molto infantili. Però interessante nella rappresentazione della Corea del Nord (militari ottusi e contadinotti simpatici) e come prodotto di largo consumo che in Corea del Sud ha conosciuto un successo clamoroso. Poi: faccio il mattocchio, va bene, ma di questo Crash Landing on You ne vedo solo qualche puntata e infine desisto perché il livello è proprio basso. Ma non nascondo che nella puntata pilota mi sono divertito: anche i coreani hanno i loro Don Matteo, che credete, eh. (Netflix, 29/1/22)

1926 – Landscapers di Ed Sinclair, Gran Bretagna/USA 2021
David Thewlis e Olivia Colman interpretano una coppia omicida di disadattati inglesi non granché intelligenti, una sorta di Rosa e Olindo britannici: hanno fatto secchi i genitori di lei e poi hanno vissuto incredibilmente senza destare sospetti per dieci anni finché – scappati in Francia – non hanno esaurito tutti i soldi. Non avendo ulteriori vie di fuga, tornano in patria e si lasciano arrestare, convinti di farla franca: si proclamano innocenti con un ingenuo piano di difesa che crollerà prestissimo. Interessante la regia, straniante, con la realtà che si mescola al racconto, usando il set della serie come nuovo piano narrativo o, come nello splendido ultimo episodio, ambientando tutto su un piano fantastico (in questo caso western), a ulteriore riprova del distacco dalla realtà dei due protagonisti. Produzione eccellente, attori bravissimi, dura circa 3 ore ed è spezzato in 4 parti, con sapori differenti e senza particolari cliffhanger. (Sky, febbraio 2022)

1927 – After Life Season 3 di Ricky Gervais, Gran Bretagna 2022
La seconda serie di After Life mi era già sembrata di troppo, quasi che sporcasse l’esito notevolissimo della prima e adesso ho tantissimi dubbi su questa ennesima riproposizione. Tony (Ricky Gervais) sta ancora elaborando con il suo cinismo disincantato il lutto per la scomparsa della moglie e non ha più nulla da chiedere alla vita, tanto per cambiare. Ha tutto il sapore di un déjà vu, senza veramente alcun avanzamento, come se il tempo si fosse congelato, con tutte le intuizioni fantastiche della prima serie ripetute per la terza volta. Certo, c’è sempre il piacere per la battuta feroce e per la programmatica sgradevolezza, per gli imbarazzi, per la scorrettezza politica pure un po’ prevedibile ma liberatoria. La seconda serie terminava con l’infermiera – che seguiva il padre di Tony – che si accontentava di avere con lui una relazione aperta: una continua ripartenza ogni volta. E la sensazione è che sia successo anche alla terza serie di avere adottato questa modalità: lo stralunato mondo del paesino di Tambury va avanti e Tony, nella sua casa da riccone continua a non venire a capo del suo immenso dolore. That’s it. O perlomeno, c’è un’accettazione più serena della vita per impercettibili tocchi e avanzamenti, ma è tutto molto impalpabile e si arriva a un finale melassoso dove la cosa paradossale è che non è Tony a imparare delle lezioni (se non quella molto prevedibile da parte di un bimbo leucemico) ma semmai è lui a impartirle e a risolvere i guai degli amici. Una glassa di buoni sentimenti che stona con quanto abbiamo visto finora. Non che volessi l’irriducibile cinismo a tutti i costi ma che ci fosse una mediazione sì. Poi, a Gervais vuoi bene, è tutto di buon livello (ma meno del solito) e perdoni anche i momenti che girano a vuoto (e ce ne sono diversi, dove attendi la chiusa finale, una battuta, un punto. E non c’è). Però non lo trovo un finale all’altezza di cosa lo ha preceduto. Peccato. (Netflix, febbraio 2022)

1928 – Il potere del cane di Jane Campion, Gran Bretagna/ Australia/ Nuova Zelanda/ Canada 2021
Ubriacato da troppe serie azzardo il grande passo col film Netflix da festival, già vincitore del Leone d’Argento a Venezia 2021 e firmato da quella Jane Campion che in passato mi ha regalato film intensi ma anche qualche vaccata. Il potere del cane è immediatamente un film insinuante, intrigante, velato di sensualità e con un passo autoriale molto meditato e lontanissimo dalle abitudini indotte dal consumo televisivo col diktat pavloviano del colpo di scena continuo. No, qui c’è una calma quasi olimpica, accompagnata dalla fotografia dei maestosi paesaggi neozelandesi non ancora antropizzati che recitano da dio. La vicenda è ambientata nel Montana del 1925, praticamente ancora il Far West: tra due fratelli rancheros scoppia la rivalità quando il posato amministratore George si innamora della vedova Rose, scatenando la gelosia del machissimo cowboy Phil. Apparentemente il problema sono i soldi ma anche l’omosessualità considerata una devianza da beffeggiare o il ruolo della donna in una società rurale ancora arcaica. Bravissimi gli attori, su tutti lo spigoloso Benedict Cumberbatch (Phil), un viso espressionista che sembra dipinto da Francis Bacon, e Kirsten Dunst, che non ha più il facciotto da orsetto che mi perseguita dai tempi in cui interpretava la bambina malefica di Intervista col vampiro. Qui, nella stanchezza della maturità, dà un’interpretazione sofferta e convincente. Che dire, alla fine? Beh, bello sapere che si faccia ancora del cinema così, dove le aspirazioni si accompagnano alle capacità e la regia non cerchi shock a buon mercato ma sappia lavorare sulle nuance. (Due settimane dopo Il potere del cane ha vinto il premio Oscar come miglior regia. Bene). (Netflix, 14/2/22)

1929 – I predatori di Pietro Castellitto, Italia 2020
Pietro Castellitto, attore (Speravo de morì prima, Freaks Out) cresciuto nel Vietnam di Roma Nord (cit.) e figlio di una coppia sicuramente ingombrante (Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini) esordisce alla regia, neanche trentenne, con questo interessante I predatori che ha fatto strage di allori negli sfiatati premi nostrani. Giungle indocinesi a parte, Castellitto Jr. dimostra stoffa, coraggio, anche noncuranza di certe buone maniere italiane che tutto edulcorano, tutto sbiancano e sanificano. Il film è curioso, con alcune cadute e ingenuità (da irruenza, da ignoranza, da giovane età) ma anche tanta vitalità e un finale che rischiara a posteriori quanto visto, con una pietas che rende più sincero l’indeterminato ribellismo che permea tutta la pellicola. La trama è un astuto intrico che mette a confronto due mondi lontanissimi: la famiglia di un medico con moglie regista radical chic e figlio nietzschiano esagitato e quella di un fascistone amante delle armi e con diversi agganci con la microcriminalità. La descrizione di questa seconda famiglia è coraggiosa, non scontata. Più banale e piagata da qualche cliché quella della famiglia borghese cinica, con arie intellettuali ma lercia dentro. Bravissimo attore Giorgio Montanini, tanto quanto l’ho sempre trovato irrisolto come comedian, e in generale ben diretto il cast, cosa non da poco per un esordiente. Interessante anche la fotografia. Decisamente discutibile – ma sembra veramente qualcosa di insormontabile, in Italia – la cattura dell’audio, tanto più che la parlata dei protagonisti è spesso difficoltosa. A conti fatti comunque ne viene fuori un’opera prima interessante, non consolatoria né compiaciuta, e che sa uscire dai confini augusti della cinematografia nazionale. Non male. (Amazon, 15/2/22)

1931 – Ennio di Giuseppe Tornatore, Italia/ Belgio/ Cina/ Giappone 2021
Un documentario commovente. Montato benissimo e previsto da dio da Tornatore, è un caleidoscopio di dichiarazioni, testimonianze, brani di film, canzoni e spettacoli. Verso l’ora e mezza sembra che ci sia una flessione e invece si va avanti così, con te che ti aspetti che prima o poi la fatica abbia la meglio su di te spettatore e sulla narrazione, e invece no: il documentario continua a rinvigorirsi e chiude benissimo. Morricone, compositore eccelso, allievo di accademici che lo hanno messo in soggezione per una vita, arriva a far pace col suo mestiere e coi suoi risultati incredibili. E tu piangi con lui. E sei cullato da questa musica straordinaria e dall’abbinamento con scene che è un piacere immenso rivedere sul grande schermo. Molto molto bello. (Cinema Anteo CityLife, 27/2/22)

1933 – Marx può aspettare di Marco Bellocchio, Italia 2021
Bellocchio racconta la sua famiglia scegliendo (e sciogliendo) il nodo del suicidio del suo fratello gemello Camillo. Sette fratelli e sorelle, con un padre autoritario e una madre religiosissima; un primogenito, Paolo, autistico e schizofrenico; una sorella oggi novantenne e sordomuta; e poi gli altri, tutti di vario e importante successo, a partire dall’intellettuale Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini. Camillo rimane così l’unico senza una strada, una vocazione, ma anche meno debole di altri tanto da non richiedere un’attenzione particolare. Attraverso il ricordo della sua storia vengono fuori i caratteri dei fratelli, legati anche dai tanti momenti cinematografici di Marco che ha sempre attinto dal vissuto più intimo l’ispirazione per la sua cinematografia. Bellocchio ha una voce stentorea, è dritto come un bacco, non cerca scappatoie, è spietato nella sua indagine familiare come lo era nei suoi film e non si risparmia imbarazzi o reticenze, rischiando anche di sembrare – più che intellettualmente onesto – proprio cinico, freddo, distaccato, insomma uno stronzo. Ma invece è una lezione di onestà rara. Il film commuove e ci racconta un’Italia completamente diversa, che si stava facendo, divisa tra “Cristo e Stalìn” (cit.), dove si lottava e si pagava, anche la propria inadeguatezza. Bello. (Amazon, 2/3/22)

1934 – Once Upon a Time in America di Sergio Leone, Italia/ USA 1984
Questo l’ho visto la prima volta quando ero un ragazzo che si faceva invadere dai film, senza pensarci troppo. E m’era piaciuto. Poi l’ho rivisto verso i 30 anni quando invece cercavo risposte, intellettualizzando tutto (o provando a intellettualizzare tutto) e stando più attento ai presunti difetti che ai pregi di ogni opera. Che stupido. Oggi, a 50 anni passati, vedo finalmente C’era una volta in America nella versione integrale di oltre 4 ore, con la giusta distanza, con l’emozione per quel cinema italoamericano superlativo che vedeva registi e maestranze in comune, con l’Italia che poteva e sapeva ricostruire l’America a Cinecittà, con la voglia di racconti fluviali che si interrogavano sul passare del tempo e sulla persistenza della memoria. Qui è un continuo traguardare porte e vetri, fissarsi sui riflessi illusori degli specchi o intravedere attraverso fessure, buchi e crepe, anche dell’anima. Orologi, ticchettii, telefonate senza risposte, rumori ossessivi che dilatano il tempo e chiavi che aprono porte, valigie e segreti. Com’è possibile che un film su un uomo come Noodles ci piaccia così tanto, con un protagonista enigmatico, senza scrupoli, assassino, traditore e pure violentatore? Perché lo sceglie Leone? E se non è questo gangster, cos’è allora che ci fa amare il film: il riconoscere i nostri peccati di fronte allo scorrere inesorabile del tempo? I rimpianti? Le occasioni perdute? Noodles (Robert De Niro) è un uomo mai cresciuto e che forse non ha neanche vissuto, visto che l’amico Max (James Woods) confessa di avere fatto lui la sua vita: ha avuto i suoi soldi, il suo amore – Deborah -, il suo dolore, credendolo morto. Noodles va in carcere ancora adolescente e perde la giovinezza ma ai nostri occhi non ha neanche una maturità, non sapendo cosa abbia fatto nei 30 anni in cui è andato a dormire presto. In questa versione integrale il fatto che dopo l’assalto a Deborah Noodles vada subito con un’altra donna, la futura compagna Eve, mi fa supporre che quella in macchina fosse una tentata violenza, non riuscita. Non che cambi molto ma forse è un modo per rendere meno odiosi i suoi crimini. Io, all’ennesima visione, sono rimasto abbacinato dalla bellezza della messa in scena, dalla grandiosità di tutto, ma tant’è ho sempre dei dubbi sui personaggi, sull’indeterminatezza di Noodles e sul cambiamento di Max che mi pare ancora molto repentino. Se però oggi ho apprezzato il film come merita è anche grazie al magnifico libro di Piero Negri Scaglione Cosa hai fatto in tutto questo tempo, lettura che racconta l’iter produttivo e creativo di questo capolavoro. E si comprendono così, del film, presenze e assenze, illusioni, travisamenti: è tutto un inganno, il tempo che passa, le amicizie, i patti, la giustizia, l’amore. Forse anche il film stesso è un sogno a cui vogliamo credere. Molto molto bello e malinconico, come un sigillo su un mondo che stava finendo senza che ce ne rendessimo conto. (Dvd, 5/3/22)

1935 – The Cold Blue di Erik Nelson, USA 2018
Le immagini girate da William Wyler durante il secondo conflitto mondiale tornano a nuova vita attraverso le testimonianze di 9 reduci dell’Ottava Air Force americana. Gente tra i 19 e 25 anni che, dal 1943 al 1945, volò sulla Germania nazista. Delle 13000 fortezze volanti B17 in missione 5000 furono abbattute, al costo di circa 28000 soldati morti. I danni alla Germania furono decisivi: dopo attacchi mirati a porti, strade, raffinerie e industrie cominciarono i bombardamenti a tappeto, con centinaia di migliaia di vittime tra i civili. Numeri allucinanti che ho voluto riportare in cifre. E immagini invece bellissime, di cieli azzurri e di giovani sorridenti davanti all’obiettivo. E terrorizzati in missione. Su aerei che tornavano a terra distrutti, coi motori fuori uso e le lamiere bucherellate: velivoli senza pressurizzazione con temperature interne insostenibili, nonostante l’illusorio bel tempo, dai 20 ai 40 gradi sotto zero. I quasi centenari superstiti raccontano la loro vita inconsapevole, la paura, le superstizioni, le amicizie e la permanenza per anni in Gran Bretagna (2 milioni di soldati!). Un film terribile, non retorico e prezioso, musicato tra l’altro da Richard Thompson con una partitura composta e non invadente. Sono passati 75 anni da allora e non s’è ancora imparato nulla. (HBO, 5/3/22)

(Continua – 82)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 62 https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-62/ Thu, 18 Sep 2014 20:44:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17191 di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005 Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi [...]]]> di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005
Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi te lo devi finire. La prima parte del film, preparatoria, è irritante nella sua linearità, con degli imbecilli studenti americani in Interrail e che hanno praticamente la patata tatuata in fronte. Beh, anch’io ero partito per il classico viaggio post liceo pieno di aspettative verso leggendarie valchirie pronte a sbranarsi il bel pezzo di manzo che ero. Invece era finita che m’ero messo con Barbara. Perlomeno fino a stasera, visto che durante la visione del film borbotta più volte. I protagonisti, comunque, beati loro, si fanno una drogata tappa copulativa ad Amsterdam e son tentati dal colpo grosso: sono attirati a Bratislava per trombare ancor più, alla grandissima. E trombano, con gran sollazzo di regia (Eli Roth) e spettatore lubrico: ci manca che Barbara mi asciughi la bavetta alla bocca. Però per troppa foga e amor di figa i due rimangono invischiati in un gioco mortale: il film allora prende quota e c’è una certa astuta cattiveria visiva e narrativa che non lesina pelle, sia nuda che lacerata e sanguinolenta. Il film si pretende sia ambientata in Slovacchia, ma siamo nella Repubblica Ceca e la fauna locale che appartiene alla categoria “macrognocche da infarto”, viene esibita abbondantemente senza nascondere la natura maschile e maschilistica di questo esercizio sadico, rivolto a un pubblico preciso. Son moralista? Macché! Mi piacciono pure le donne nude – pensa te – ma mi dà fastidio il ricatto quando è così scoperto, senza nessuna astuzia se non l’esibizione (in cui casco a piedi giunti, è chiaro. E capisco anche il protagonista: il chiavatone che si fa vale una mutilazione permanente). Comunque: ritorno in me e faccio il prof dalla voce nasale: il problema generale di Hostel è essere un film che fa dell’esposizione oscena la sua ragione. Un po’ come quella stronzata di Saw, horror efferato, cinematograficamente furbetto e di cui mai vedrò i seguiti, neanche sotto tortura, quella tortura. (Diretta Sky; 6/10/07)

ddv6202662 e 663 – L’ha scritto Balzac E.R. (Anno 3 e 4) di Michael Crichton e Aa.Vv., USA 1996/97
Vi è mai successo? Avete voglia di un bel filmone fluviale, una di quelle faccende che rimani nel buio della sala, o tramortito sul divano, e pensi: questi personaggi sono vivi. Io li conosco, gli voglio bene, devo sapere cosa gli accadrà domani. Perché per quella porzione di tempo che ti ha preso il film tu sei entrato nella loro vita, nei loro problemi, hai condiviso la loro felicità o i drammi, i dubbi, i successi e le sconfitte. Ecco: penso a La maman et la putain… Leaud dove sarà ora? Starà ancora parlando e parlando, indeciso su cosa fare della sua vita? Beh, avevo voglia di una cosa così e mai mi sarei aspettato di trovarla in un serial televisivo. Perché la tivù di solito banalizza, attutisce, tranquillizza, consola, distrae, addormenta. E invece ecco che quel E.R. che ho schifato per tanti anni mi dimostra che può avvenire anche il contrario. Intendiamoci, ero esaltato anche dalle prime due serie ma con queste terza e quarta stagione si ascende ad ancora più alte sfere celesti. Si tratta di un capolavoro. È la Commedia Umana del ventesimo secolo, il documento visivo più completo per capire cosa siano gli Stati Uniti, degli anni Novanta e di oggi: lavoro, Aids, razzismo, rapporti uomo donna, omosessualità, disgregazione della famiglia, assistenza sanitaria, classismo, ricerca medica, mutuo, povertà, droga, delinquenza, armi, consumi, le gang, gli homeless, il Capitale, la vita e la morte… c’è tutto, con uno sguardo democratico, mai estremista, talvolta cerchiobottista ma mai falso o moralista (è lo show, credo, più visto di tutti i tempi: queste serie viaggiavano su una media di 30 milioni di spettatori. No, dico: 30 milioni. Intesi?). Ottimo il cast, il montaggio, le musiche, il ritmo, la regia, la psicologia dei personaggi, la verosimiglianza quotidiana e anche esistenziale. Tutto. Perfetto. Quando lo vedeva solo Barbara mi stava sul cazzo (E.R., non lei), poi, visto in originale l’episodio pilota della prima serie, sono rimasto completamente schiavo. È l’optimum televisivo: l’Heimat che gli americani non sanno di aver prodotto. E so già che un giorno dovrà arrivare a conclusione. E dove finiranno tutti loro, eh? E io? Argh. (Dvd; ottobre e novembre 2007)

ddv6203665 – Il finto The Prestige di Christopher Nolan, USA 2006
A Genova, per un blitzkrieg weekend, con pupattola al seguito. Dopo cerimonie voodoo, scongiuri e pratiche animistiche per addormentarla, ci concediamo un film e papà ci precede, un po’ aggressivo, come a dire di non cominciare a rompere: “Ho un dvd ottimo, con responsi critici da favola”. Ahia, qui finisce a schifio. Lo produce dalla borsa e io faccio la faccia un po’ così, da vera merda. Siccome si irrita subito perché distruggergli i film che mi propone è il mio sport preferito, lo ammansisco dicendogli che anche l’amico Pif lo ha trovato splendido, per intreccio e sorprese. Lo vediamo e, invece, sarò io un genio, ma mi erano chiari tutti gli inghippi con abbondanti mezz’ore di anticipo. E siccome io NON sono un genio vuol dire che il film è una vaccata. E per la cronaca mio padre non ha invece capito una mazza e s’è pure addormentato. Messo in scena benissimo, The Prestige è però freddo e lunghetto e sembra il compitino di un primo della classe che vuole sempre stupirti, sennonché a Nolan il prestigio non viene per nulla, secondo me. Con Memento il regista ci riusciva prima di diventare noioso, qui no. Il cast gronda dollari e oltre ai divetti Hugh Jackman e Christian Bale ci sono anche il classico Michael Caine, l’elegante David Bowie e la fatalona Scarlett Johansson, che com’è fotografata qui sembra una caricatura: è alta un metro e un barattolo, la forma del viso ricorda quello di un divieto di sosta con labbra carnosissime e ha tette che la precedono di un quarto d’ora buono. No, non è sessismo mio, è sessismo loro, credetemi. Vabbeh, film che passa ma che delude anche. L’unica cosa che mi ha divertito è stato Bowie nella parte dello squinternato e geniale Tesla. Basta. Comunque Pif ha messo su un suo programma su MTV, Il testimone, ed è bellissimo, questo sì. Semplice nella forma, ricchissimo nella sostanza: un distillato di intelligenza del mio piccolo amico, uno che farà carriera, son sicuro. (Dvd; 7/12/07)

ddv6204666 – Una porcata, Homecoming di Joe Dante, USA 2005
Papà ci riprova e mi dice, mani avanti: “Oh, Joe Dante! Ci siamo capiti? Dante!”. Beh, ne ho letto qui e là e in effetti molti critici erano in erezione marmorea per ‘sto filmetto. L’idea di partenza è folgorante (i cadaveri dei soldati USA morti in Iraq riemergono da sottoterra perché vogliono votare contro Bush) ma lo svolgimento è paratelevisivo a voler essere generosi, con attori che non se li imbarcherebbero neanche i Legnanesi in una replica parrocchiale. Mamma mia che brutto, una schifezza umiliante. Siccome Dante è pur sempre Dante, gli perdonano qualunque cosa, ma già La seconda guerra civile americana era una stupidaggine che si sgonfiava dopo aver semplicemente letto il riassunto sui quotidiani. E anche stavolta c’è solo un’intuizione e non un adeguato sviluppo nonché una forma degna di tal nome. E poi mi hanno un po’ rotto il cazzo gli americani liberali che della guerra in Iraq si ricordano sempre le vittime statunitensi e mai i centomila civili iracheni stecchiti (a volare bassi con le stime). Più gli altri (soldati, ribelli, pure terroristi) che son uomini anche loro. Se per loro un filmetto così è buono per pulirsi la coscienza, io aggiungo che mi ci pulirei qualcos’altro. E dài, eh. (Dvd; 8/12/07)

ddv6205667 – L’inaspettato Munich di Steven Spielberg, USA 2005
Non pago, dopo due cocenti delusioni, papà insiste ancora con le sue proposte cinematografiche e stavolta fa centro nella maniera più inusitata. Vedo il dvd di Spielberg e comincio a lamentarmi. Perché diverse cose sue recenti mi hanno irritato e certa poetica infantile non mi piglia più, non so. Che poi sa mettere in scena – e chi dice di no – però, boh. “Ma lo guardiamo, papà, dài, non offenderti”, e… ammazza che film! Va come un treno, è sottilmente ambiguo, per nulla compiacente, ricco e pure appassionante, limpidissimo e zeppo di fughe di “genere”. Insomma: il capolavoro che non ti aspetti, snobbato dal grande pubblico al botteghino e rifiutato sdegnosamente dagli israeliani (il che fa capire molte cose). Voglio dire: quale azione terroristica è risultata mai più odiosa dei fatti di Monaco, dell’uccisione di quegli atleti israeliani nel luogo dove dovrebbe vigere la tregua olimpica? Quanto può aver allontanato dalla comprensione della causa palestinese quell’atto? Eppure Steven (ebreo, sempre attentissimo alla memoria del suo popolo) riesce a metterci anche il punto di vista *loro* e si sforza di capirlo e costringe lo spettatore a mettersi in discussione come il protagonista, chiedendosi il senso della vendetta, del sangue che non lava altro sangue, ma ne farà versare ancora. E dove siano la ragione e il torto. Oh: mai amato troppo Spielberg, ma un film così mi fa perdonare tante cose. Per me – in un ambito mainstream e con cotanta paternità – perfetto. (Dvd; 9/12/07)

ddv6206669 – Ancora un capolavoro: Grizzly Man di Werner Herzog, USA 2005
Film incredibile, scomodo, folle e irritante come sa essere la vita. E la morte. Lo sguardo glaciale di Werner, senza giudizi, sull’esistenza irregolare di Timothy Treadwell, un ambientalista sui generis che ha deciso di votarsi all’impossibile convivenza con dei grizzly, cari e buoni finché non han fame. La storia è perlopiù narrata attraverso i filmini che Treadwell ha realizzato (un centinaio di ore di materiale, accuratamente selezionato e montato), accompagnati dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto (l’ex fidanzata, la sorella, un medico, una guardia forestale), tipi che non paiono meno strani dell’oggetto dell’investigazione filmica. Ma Herzog, come sempre, sembra chiederci: qual è la normalità? E possiamo piegare la natura ai nostri desideri? Le immagini documentarie di Treadwell sono curiose e danno un sapore particolare e agghiacciante al racconto, anche se ci vengono negate le sequenze finali della sua vita, che viviamo solo attraverso lo sguardo allucinato della sorella che invece le vede. Scelta etica che diventa anche cinematograficamente potentissima. Gran film, tanto per cambiare, tra l’altro musicato da quel genio che è Richard Thompson, uno dei miei musicisti preferiti (definizione preferita: “suona come se Chuck Berry fosse uno scozzese cresciuto in Libano”; in Italia quanti saremo ad avere tutti, ma dico proprio tutti, i suoi dischi?). (Dvd; 14/12/07)

ddv6207672 – Droga tagliata un po’ male: 24 – Stagione quattro di Aa.Vv., USA 2005
Siccome sono rimbambito ho visto la quarta serie prima della terza. Amen, più mistero ancora. In realtà non si gioca tanto sui tradimenti, perché è una serie un po’ fascistona e schematica, con buoni e cattivi schierati, morale busheggiante e arabi amorali, pronti ad ammazzare i figli. Stavolta non c’è teoria del complotto, ma pura e semplice azione. Jack Bauer agisce trasgredendo ordini e protocolli, risolvendo quello che i burocrati culi di piombo affrontano con leggerezza, incompetenza e lentezza. E intanto fa secchi un centinaio di arabi (o simili, anche se sono iraniani per gli yankee è la stessa cosa) traspiranti e puzzoni, anche quando plurilaureati. Per salvare la faccia ci sono anche arabi buoni che denunciano le attività dei fratelli cattivi. Unica (involontaria?) contraddizione: il discorso del cattivone di turno, tale Marwan, alla nazione americana, che riassume in due frasi la rabbia di chi odia la politica USA. Lo fa in maniera così precisa e ficcante che dubito che chi l’abbia scritta non ne intravedesse la verità. Rispetto alle prime due serie è tutto un po’ raffazzonato: più di un personaggio è dimenticato durante la narrazione (puf! Scomparsi!), molte volte gli impicci nascono da leggerezze francamente incoerenti (mancanza di uomini, tecnologia o abilità) e lo schema narrativo (indizio, ricerca del personaggio, interrogatorio, tortura, successo) è ripetuto troppe volte. Grande adrenalina, poco fosforo. Me ne farò una ragione. (Dvd; dicembre 2007 e gennaio 2008)

ddv6208674 – Il tristanzuolo Kontroll di tale Antal Nimrod, Ungheria 2004
Un film autoriale ungherese che trovo poco risolto: quando si bordeggia la commedia si ride a denti così stretti che ti fai male. Nelle parti drammatiche o poetiche è invece tutto sfuggente o un po’ banalotto. Bellissima fotografia sotterranea (il film è ambientato nella metropolitana di Budapest), okay, qualche attore dalla faccia interessante, una certa tenerezza, ma non cerchiamo scuse: Kontroll risulta – stringi stringi – una magiara rottura di coglioni come poche. (Dvd; 26/1/08)

ddv6209681 – Lo storico Barbarella di Roger Vadim, Francia/Italia 1968
Siccome l’hanno visto in milioni, siccome di Jane Fonda manca poco che si veda anche una gastroscopia, siccome i costumi li ha disegnati Paco Rabanne, siccome la psichedelia fantascientifica arrivava alle masse (virata pop e vagamente cartoonish), siccome c’era la liberazione sessuale, siccome tutte queste cose, Barbarella è un film che va visto. Lo faccio e mi ritengo autorizzato a definirlo una cagata dove salvo solo il grandissimo Ugo Tognazzi, perché il timbro della sua voce è splendido e perché – perlomeno sulla scena – si bomba la Fonda. Mi direte: ma questo film aveva un senso allora, non oggi, e l’erotismo e bla bla. Okay, ma io l’ho visto adesso, c’è già YouPorn e son nervoso, per cui fatevene una ragione. (Dvd; 29/2/08)

ddv6210682 – Scappo in Madagascar, di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2005
Un filmetto piacevole che ci mette mezz’ora ad ingranare e poi cresce bene. Il tratto un po’ spigoloso non mi piace granché ma molte scene (per presenza di masse – la tribù di lemuri imbecilli –, o architetture – Grand Central Station) non sono niente male. Il gioco citazionistico è spinto al massimo per dare motivo d’interesse agli adulti a seguire una vicenda abbastanza esile e perfetta per i pupattoli. Talvolta funziona (La febbre del sabato sera) altre è pura menzione (Momenti di gloria). Ma Madagascar si fa vedere, coinvolgendoti con la stupidità assoluta dell’orgiastico Re Julien o della pattuglia di stolidi ed efficaci pinguini che vogliono tornare in Antartide. Tra miraggi carnivori, comicità demenziale e anche un’insospettabile scorrettezza politica, viene fuori un film per bambini e adulti rimbambiti. Per cui ottimo per me. Ricordo diverse critiche perché sostanzialmente gli animali, ritornati al loro habitat naturale, ripensano nostalgicamente alla cattività urbana: come sempre l’ironia è un vento gelido che sfiora i polemisti da quotidiano. (Diretta Tv, Italia1; 4/3/08)

ddv6211683 – L’incredibile Zardoz di John Boorman, Gran Bretagna 1973
Solamente gli anni Settanta potevano partorire una cosa così: un film magnificamente astruso nei dialoghi e nel racconto della società futura e contemporaneamente sempliciotto nello svolgimento narrativo (e comunque complicato da rivelazioni che arrivano poco a poco). Costumi tra l’inventivo e il risibile, scenografie di plexiglass coloratissime e una generale atmosfera psichedelica e drogata, esaltata da una fotografia splendente; Sean Connery irsutissimo e seminudo, con uno slippino in pelle molto sadomaso a infagottare il pacco, l’adorata Charlotte Rampling sempre splendida. Fu un insuccesso clamoroso e la cosa non mi stupisce. Però gli vuoi bene, perché un film costa miliardi e c’è un matto, Boorman, che li ha messi di tasca propria per concedersi questa follia che oggi ha un immenso valore nel raccontarci come si poteva far cinema allora. E cosa passa talvolta nella testa degli uomini. (Dvd; 8/3/08)

ddv6212684 – La mitologica visione di Medea di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Assente Barbara per le vacanze pasquali, procedo a uno spietato repulisti della videoteca, valutando per ogni cassetta qualità della registrazione, futura obsolescenza, reperibilità con altre fonti. Sarà una banalità, ma ormai su Youtube trovi veramente di tutto, è la nastroteca virtuale galattica dove c’è ogni cosa. Per il resto, il proibito, connessione veloce e peer to peer e – mulo o torrente – trovi il resto. E se proprio non lo trovi vai su Amazon e non rompere più le palle, dài. Eliminando le vhs ho sacrificato decine di film e spezzoni di Springsteen, Negrita, Gialappa, Fuori orario, amenità varie e Blob… anche se qualcosa mi sono rivisto, non ho saputo resistere. Come Fede che mette le bandierine durante le regionali del 1995, i funerali di Falcone, l’arresto di Giovanni Brusca, di nuovo Fede in orgasmo durante l’attacco all’Iraq del 1991, Achille Occhetto che piange alla Bolognina, Giuliano Ferrara tracimante in ogni dove, il sonoro ceffone di Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, Enrica Bonaccorti che becca un concorrente telefonico che risponde (esattamente: “Eternit”) prima della domanda del cruciverbone, Antonella Clerici che dichiara che pensa sempre al cazzo… Poi, messo via Miracolo a Milano (regalato, non buttato, ma l’ho visto almeno 5 volte), ho pensato che voglio più bene a Vittorio De Sica (il primo De Sica) che a Rossellini (specialmente l’ultimo). E che Herzog è immenso, specie quando la sua vita finisce nei film in cui ne racconta altre (e le vhs di Werner le ho tenute tutte). E che come certo cinema sperimentale degli anni Venti e Trenta, così libero, inventivo e geniale non c’è stato più niente. Poi ho rivisto il corto The Waiting Room di Jos Stelling, piccolo capolavoro erotico, e a spizzichi e bocconi Sign ‘O’ the Times esagerato film concerto con Prince al top: tutto feeling e ritmo, che grande chitarrista! Ma qualcosa l’ho assunto anche integralmente, tanto da elaborare un giudizio più meditato: è il caso di questa Medea di Pasolini. E il giudizio è: epico stracciamento di palle. E poi – scusate – hai sempre la sensazione che le masse rurali, che PPP metteva davanti alla cinepresa, non capissero una mazza di quello che dovevano fare. Attori presi dalla strada, dell’Anatolia però. Vedi gente che a comando fa qualche movimento, con sguardi persi verso la cinepresa, e poi si ferma come ad aspettare un cenno d’assenso. Una sensazione straniante, se vogliamo salvare la regia; un effetto tra il comico e il tragico se dobbiamo dire la verità. Perché Pasolini era un genio, è chiaro. E se decidiamo che l’ingenuità registica e narrativa siano un valore, va bene, era anche un bravo regista (che io, personalmente, ho sempre amato). Però francamente preferisco che l’inquadratura sia un po’ più curata, magari non traballante; così come il montaggio. E gli attori, pure. Se no vedersi una cosa come Medea diventa un continuo giustificarsi col tuo angelo custode cinematografico che ti ricorda che dovrebbe essere un capolavoro. La scelta delle location è formidabile (specialmente la Piazza dei miracoli di Pisa), i colori e i costumi sono molto evocativi. La vicenda – se conosci il Mito – è abbastanza leggibile; altrimenti è un florilegio di dialoghi al contempo declamatori ma anche doverosamente esplicativi – se no non si capirebbe veramente una minchia – seguiti da ellissi siderali e silenzi agghiaccianti che menano gran strage di spettatori. Ritmo, manco a parlarne. Maria Callas appare in un’intervista prima del film e non è quel che si dice una strafiga, ma è simpatica, molto intelligente e soprattutto affascinante: sprigiona energia ed erotismo. Poi la vedi nel film ed è veramente mostruosa, truccata come un reperto archeologico, boh. Medea l’ho visto con impegno meritevole di miglior ricompensa dopo aver già rinunciato a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette: al quindicesimo del primo tempo ho avuto il sospetto che mi stesse crescendo un terzo coglione e ho deciso che poteva bastare: dialoghi ammorbanti, montaggio sgradevole, attori con facce da culo, vicenda che non mi intriga e densa di nomi che dimentico appena sento. Sarà colpa mia, ma non ho più l’età. (Vhs da RaiDue; 16/3/08)

ddv6213685 – A bocca aperta davanti agli Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, Italia 1970
L’idea è: cerchiamo nella giovane Africa libera gli attori e le location per girare il mito di Oreste. Accompagnati dalla voce del Poeta, il film gira quando PPP si dimentica di associare Oreste e company alle immagini e racconta ciò che vede. Quando invece spiega il delirante progetto a degli studenti africani a Roma ci sono momenti spiazzanti, da supercazzola. Del resto rispondere a Pasolini che chiede se sia meglio ambientare l’Orestiade nell’Africa di allora (1970) o della prima decolonizzazione (1960), sembra uno scherzo crudele, oltre tutto fatto a gente che parla l’italiano stentatamente. L’impressione fortissima è che con questa specie di documentario il Pierpa si sia pagato il viaggio in Africa (col nasale Alberto Moravia al seguito, sai che spasso), oppure abbia messo una pezza a un progetto finito (ma anche pensato) male ed astruso. La musica originale è di quell’altro mio idolo che è Gato Barbieri, che però a un certo punto è vittima di un pentimento della regia in corso d’opera. Non bastassero le difficoltà precedenti, Pier Paolo si chiede: e se la tragedia fosse cantata? Giuro. Così, su atonale e ululante musica free, due cantanti neri devono anche impersonare Agamennone che scazza con Clitemnestra, raggiungendo vette degne del prof. Biscroma di Bracardi. Questo filmettino da oltre 60 minuti l’ho visto perché buttare via un nastro registrato 12 anni fa senza neanche dargli una possibilità mi sembrava brutto. Diciamo che è stato un omaggio alla mia passata passione cinefila. Che, grazie a dio, è passata. (Vhs da RaiTre; 17/3/08)

ddv6214686 – La burla Echelon controllo totale di un cialtrone, Francia 2002
Il documentario che dovrebbe raccontarci come siamo controllati in ogni nostra mossa comunicativa: cellulari, Internet, Sms, etc. Solo che è tutto narrato (da tale David Korn-Brzoza) in modo fiacco senza neanche la cialtronaggine croccante di un Voyager televisivo, per dire (e non basta usare il widescreen per fare cinema: serve un’intenzione). La fatidica rivelazione del complotto mondiale contro la nostra privacy è gestita coi piedi, buttata lì, quasi non fosse importante. L’ho mollato dopo dieci minuti di improperi: non si fa così, se no poi diventa tutto teoria del complotto e le denunce vengono attribuite ai soliti paranoici, eh. (Vhs da Tele+; 17/3/08)

(Continua – 62)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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