reportage – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Romanzo di (de)formazione. Gli anni ’10 di Hanrahan https://www.carmillaonline.com/2024/07/09/romanzo-di-deformazione-gli-anni-10-di-hanrahan/ Mon, 08 Jul 2024 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83366 Di Jack Orlando

Jake Hanrahan; Gargoyle. Cronache di guerre, prigioni e rivolte; Nero Edizioni; Roma 2024; 159 pp. 15€

Frammenti proiettati in aria dalla deflagrazione di un IED. Schegge rapide, grezze, taglienti. I reportage di Jake Hanrahan non somigliano ai pezzi di un ordigno casalingo solo per lo stile asciutto e ruvido, lontano tanto dal lirismo della miglior tradizione di reportage di guerra quanto da quella, solitamente sterile e piatta, del contemporaneo. Ma perché, venendo dagli anfratti bui del nostro tempo, ne riflettono la frammentazione accelerata e impazzita.

L’occhio di Hanrahan, ancor prima di diventare frontman del progetto media indipendente [...]]]> Di Jack Orlando

Jake Hanrahan; Gargoyle. Cronache di guerre, prigioni e rivolte; Nero Edizioni; Roma 2024; 159 pp. 15€

Frammenti proiettati in aria dalla deflagrazione di un IED.
Schegge rapide, grezze, taglienti.
I reportage di Jake Hanrahan non somigliano ai pezzi di un ordigno casalingo solo per lo stile asciutto e ruvido, lontano tanto dal lirismo della miglior tradizione di reportage di guerra quanto da quella, solitamente sterile e piatta, del contemporaneo.
Ma perché, venendo dagli anfratti bui del nostro tempo, ne riflettono la frammentazione accelerata e impazzita.

L’occhio di Hanrahan, ancor prima di diventare frontman del progetto media indipendente Popular Front (qui), si muove attraverso scenari che hanno costituito l’ossatura degli anni ’10 del ventunesimo secolo e hanno segnato i passaggi di formazione per una generazione venuta a maturazione proprio in quel frangente.
Piccoli frammenti, storie dimenticate o sconosciute, che illuminano i grandi processi della storia. Attraverso questa angolatura ai margini Hanrahan si muove, osserva e riporta.

In pochi conoscono la sigla YDG-H, o le centinaia di storie di giovani e meno giovani partiti da ogni parte del mondo per combattere l’ISIS sotto la bandiera della rivoluzione confederalista-democratica curda.
A dire il vero, fino all’autunno del 2014 quasi nessuno conosceva la questione del Kurdistan e la lotta del PKK.
Qualche analista internazionale, una manciata di reporter indipendenti e sparuti militanti anarchici o comunisti, ogni tanto un agente dei servizi.

Esattamente il milieu che si era riversato ai confini turco-siriani in quegli anni tra le macerie del fronte, le pozzanghere dei campi profughi, l’eco delle mitragliatrici e le notti di scontri tra giovani incappucciati e polizia.
Una piccola meteora, un micro universo emerso dall’ombra e rimasto sotto la luce per un paio d’anni prima di tornare in un buio fatto di disinteresse mediatico, insorgenze jihadiste e il logoramento di una costante minaccia d’invasione turca atta a soffocare l’esperienza confederale.

Sul quel confine si intrecciarono innumerevoli e sconosciute traiettorie, che nel loro compenetrarsi hanno però ridefinito un paradigma del possibile. Il primo lascito delle rivoluzioni è l’impronta che tracciano nell’immaginario comune, nello squarciare il velo dell’ineluttabilità. Tuttora sono ancora pochi a conoscere i battaglioni internazionali delle YPG, ormai ridotti a un lumicino, o le centinaia di adolescenti organizzati nelle YDG-H o negli altri gruppi della sinistra turca e curda, oggi deceduti in gran numero al fronte siriano o su quello interno, o gettati a marcire nelle carceri del macellaio Erdogan. Ma ancora meno sono quelli che oggi possono dire di non aver mai sentito parlare del Rojava e della lotta per il Kurdistan libero, laico e indipendente.

Qualcosa di simile accadeva al confine orientale dell’Ucraina nello stesso periodo. Una rivolta contro la corruzione e per maggiori garanzie democratiche si era ribaltata in un golpe nazionalista con pesanti infiltrazioni di formazioni neonazi.
L’eredità avvelenata e irrisolta del tracollo sovietico, aveva finito per spezzare il paese in due, con morti e feriti e la Casa dei sindacati di Odessa trasformata in mattatoio; i calcoli geopolitici della NATO e del Cremlino, usando le teste degli ucraini come regoli, avevano fatto il resto.
La guerra civile, le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, la Crimea russa, l’estetica sovietico-nostalgica, i battaglioni neonazisti Donbass, Azov e Tornado.

Fino al febbraio 2022 se dicevi Donbass a qualcuno, era molto probabile che restasse a guardarti con occhio interrogativo, e la guerra è arrivata scuotendo il pero da cui sono cascati tutti.
Eppure erano otto anni che tutti (o almeno quei pochi) quelli che erano stati sulla linea del Donbass andavano dicendo che lì sarebbe scoppiata la nuova guerra europea. Voci inascoltate.
Otto anni di guerra civile con le sue logiche impazzite, i suoi personaggi picareschi e truci, che avevano costruito un altro microcosmo che nessuno guardava ma dove si cucinavano le ricette del futuro.

Ancora nomi sconosciuti. Atomwaffen Division. Una variante neonazista psicopatica giunta a maturazione negli USA del declino. Strategie terroristiche per il collasso sociale e deliri sulla costruzione di etnostati bianchi, accelerazionismo, social media e gusto per l’ultraviolenza.
Un piccolo frammento del fiume carsico neonazista, ormai in piena, che scorre nelle vene degli Stati Uniti da oltre sessant’anni. Ancora, Hanrahan si porta avanti sui tempi e va dove altri non vanno e scava nelle chat e negli orrori dei militanti di AtomWaffen.
Ancora in pochi avevano fiutato l’aria al tempo; per qualche strana alchimia si ripropone lo stesso milieu di reporter, militanti, analisti e investigatori di polizia, stavolta in un gioco del gatto col topo per capire quanto davvero ci fosse di pericoloso e dirompente dietro quelle nuove teste di morto.

Sembrava una cosa per esaltati che giocano alle spie, e oggi tutte le anime belle della democrazia si piangono l’insorgenza neofascista. Come fosse spuntata di colpo, una candid camera di pessimo gusto. E invece era lì che covava e camminava nell’ombra.

Adesso è chiaro, lo sanno tutti, il mondo di ieri è scomparso per sempre, una consapevolezza che ha sgretolato gran parte delle narrazioni di cui si nutriva il senso comune liberale. Almeno in Occidente, perché altrove la catastrofe era iniziata da un pezzo.
Ma è negli sconvolgimenti degli anni ’10 che si andava preparando il caos odierno, in quegli smottamenti bisogna scavare per ritrovare un filo di senso che tenga insieme l’ottusa età dell’oro neoliberista che ha battezzato l’inizio del secolo e la frana che si sta portando giù sempre più rapidamente un ordine che si fingeva naturale e immutabile, nonostante la sua brevissima e dannosa vita.
I viaggi di Jake Hanrahan sono un ottimo viatico per questo limbo e ciò che lo ha seguito.
Un modo immediato per riguardare dentro la parentesi in cui il presente si è andato (de)formando, e noi con lui.

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Sebastião Salgado, fotografo https://www.carmillaonline.com/2016/12/23/sebastiao-salgado-fotografo/ Thu, 22 Dec 2016 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34227 di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro [...]]]> di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro Salgado ricorda la militanza, insieme alla moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado, nelle formazioni brasiliane della sinistra radicale vicine agli ideali rivoluzionari cubani, la partecipazione ai movimenti contro il regime militare inaugurato dal maresciallo Castelo Branco nel 1964 (protrattosi poi fino al 1985) e contro l’ingerenza americana in America latina.

Nell’estate del 1969 i due coniugi abbandonano il Brasile salendo su una nave diretta in Francia ove possono contare su una rete di solidarietà internazionale, all’epoca ben funzionante, che offre sostegno, oltre che ai brasiliani fuggiti dalla dittatura, anche a rifugiati portoghesi, polacchi, angolani, guatemaltechi, cileni ed in generale ai migranti ed ai clandestini.

Salgado sottolinea come la sua appartenenza alla prima generazione che ha lasciato la campagna per trasferirsi in città a studiare lo aiuti a comprendere bene il dramma, incontrato tante volte nei suoi reportage, di chi, giunto in città dalle campagne, si torva di fronte alla povertà ed allo sradicamento.

L’incontro con la fotografia avviene nel 1970 quando, durante un viaggio a Ginevra, la moglie acquista una Pentax Spotmatic II dotata di obiettivo Takumar di 50 mm. Da quel momento si può dire che la fotografia entra nella vita del brasiliano che, finiti gli studi universitari, inizia il suo lavoro presso un’agenzia economica che gli consente di conoscere l’Africa e di fotografarla.

Il 1973 è un anno di svolta importante per Salgado; decide di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia come free lance. I primi guadagni ottenuti come fotografo vengono destinati all’acquisto di nuovo materiale tra cui spiccano, inevitabilmente, alcune Leica.

L’amore per il continente africano porta il fotografo a farvi ritorno diverse volte, tanto che il volume Africa, pubblicato nel 2007, finisce col raccoglie materiale proveniente da una quarantina di reportage effettuati nel corso del tempo. I primi lavori africani, sottolinea l’autore, nascono dalla volontà di documentarne la fame e non il folklore ed i paesaggi.

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Salgado racconta di come alla fotografia sociale sia giunto semplicemente estendendo alla pratica fotografica la sua militanza politica. In Francia, come in altri paesi europei, non mancano le occasioni per fotografare immigrati e clandestini e molti di questi reportage vengono pubblicati dalla stampa francese legata al cristianesimo sociale.

Attraverso la fotografia il brasiliano intende mostrare quella parte di mondo particolarmente sfruttata ma piena di dignità. «Con Lélia constatavamo come il mondo fosse diviso in due parti, tra la libertà per chi aveva tutto e la privazione di tutto per chi non aveva niente. Con la mia fotografia ho voluto mostrare proprio questo mondo dignitoso e saccheggiato a una società europea in grado di ricevere la mia sollecitazione» (p. 45).

Salgado rifiuta l’etichetta di “fotogiornalista” o di “militante” ritenendo, piuttosto, che le sue fotografie siano un tutt’uno con la sua vita; i suoi scatti corrispondono a momenti vissuti intensamente e quelle immagini esistono in quanto la sua vita lo ha condotto alla loro realizzazione. Il brasiliano sostiene che le sue immagini possono derivare tanto da una precisa scelta politica che lo porta in un luogo, quanto da una semplice curiosità e che la sua fotografia non pretende, né vuole, essere obiettiva visto che, come tutti i fotografi, scatta immagini profondamente soggettive.

Oltre all’Africa anche l’America del Sud occupa un ruolo importante nella vita di Salgado come uomo e come fotografo. Fra il 1977 ed il 1984 il brasiliano visita buona parte dell’America del Sud, in particolare l’Ecuador, il Guatemala ed il Messico mentre soltanto grazie all’amnistia del 1979 può rimettere piede in Brasile e fotografare il suo paese a partire dalle comunità indigene e dalle minoranze autoctone, oltre che dai lavoratori nelle campagne e nelle città.
Dai reportage in America del Sud nasce il volume Autres Amériques, arriva il Prix de la Ville de Paris e nel 1986 viene allestita la mostra parigina alla Maison de l’Amérique Latine che poi farà il giro del mondo.

A metà degli anni ’80 Salgado collabora con Medici Senza Frontiere realizzando un reportage ottenuto attraversando Mali, Etiopia, Ciad e Sudan al fine di mostrare le condizioni dei profughi in fuga dalla fame, dalla sete e dalla guerra. Nel 1985 questo reportage ottiene il premio World Press Photo ed il premio Oskar Barnack e l’anno successivo viene dato alle stampe il volume pubblicato dal Centre National de la Photographie Sahel, l’homme en détresse. Nel 1988 dal reportage nasce un secondo libro intitolato Sahel, el fine del camino.

Salgado sottolinea come, non essendo originario del Nord del mondo, quando fotografa non è preso da quel senso di colpa che colpisce molti altri suoi colleghi; non fotografa la povertà perché si sente in colpa, visto che conosce da vicino quel mondo. Piuttosto, attraverso i suoi reportage, il brasiliano intende mostrare la fame e la povertà agli abitanti dei paesi ricchi affinché prendano coscienza dello squilibrio mondiale ed è con tale spirito che il fotografo decide di far sentire la voce del movimento dei Sem Terra (MST) brasiliani, nato attorno alla metà degli anni ’80, seguendo le loro attività per una quindicina di anni. Così come mostrare la fame in Africa è un modo per denunciarla, seguire i Sem Terra è un modo per sostenerli, per schierarsi da una parte ben precisa.

A metà anni ’80 il fotografo pianifica insieme alla moglie il progetto La mano dell’uomo attraverso cui intende rendere omaggio al mondo del lavoro. Il reportage si focalizza soprattutto sulla produzione su larga scala in cui l’essere umano ha ancora un ruolo importante tentando di realizzare una sorta di “archeologia visiva dell’era industriale” prima che questa scompaia. Tra il 1986 ed il 1991 vengono realizzati reportage in ben venticinque paesi, soprattutto extraeuropei (Indonesia, India, Cina, Brasile…) in cui, a partire dalla metà anni ’80, si è spostata la produzione.

Nel 1986 il fotografo ottiene finalmente il permesso di accedere alla miniera d’oro della Serra Pelada, nel nord del Brasile, nello stato del Pará. La miniera, scoperta nel 1980, presenta un’enorme voragine ove, a 70 metri di profondità, si trovano 50.000 esseri umani intenti a lavorare del tutto privi di strumenti meccanizzati. Salgado racconta come in un primo tempo venga scambiato dai minatori per un uomo della compagnia mineraria e soltanto quando, in seguito ad un diverbio con una guardia nel ventre della miniera, viene condotto in manette in superficie, inizia ad essere visto dai lavoratori come presenza non ostile. Da questo momento il fotografo convive per diverse settimane con i minatori scattando le celebri immagini che hanno contribuito a far conoscere al mondo il lavoro nella miniera.

Salgado ricorda anche come, nonostante le condizioni di lavoro ed il fango tendano ad uniformare l’umanità presente nella miniera, la conoscenza diretta di diversi minatori gli ha fatto scoprire l’estrema eterogeneità dei lavoratori. La successiva meccanizzazione delle miniere ha finito col lasciare disoccupati proprio i più dequalificati e nel libro l’autore racconta della trasformazione subita da molta di questa gente divenuta proletariato concentrato nelle periferie delle città e costretta, in molti casi, a rubare qualcosa nottetempo per sopravvivere.

Nella prima metà degli anni ’90 si calcola che, a livello mondiale, tra i 150 ed i 200 milioni di individui abbiano abbandonano la campagna per trasferirsi in città. Da tali dati prende vita un nuovo progetto fotografico volto ad indagare la riorganizzazione della famiglia determinata dalle trasformazioni industriali. Sovrappopolamento delle periferie urbane, precarietà, povertà, condizioni igieniche disastrose e violenza dilagante sono i primi risultati di tale flusso migratorio ed il progetto In cammino (divenuto un libro nel 2000) intende proprio mostrare le persone costrette ad affrontare i drammi dello sradicamento e dell’adattamento nei nuovi contesti tentando di far comprendere la necessità di riformulare la “famiglia umana” su basi solidali. Il reportage In cammino si protrae per sei anni tra l’India, l’Iraq, il Brasile, Shanghai, Giacarta, Manila, il Vietnam, l’Indonesia, i Balcani e diversi paesi dell’America Latina.

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Dopo i lavori sui migranti e sulle guerre in Mozambico, Ruanda e Tanzania, è la volta della denuncia dell’inquinamento e della distruzione delle foreste. Salgado pianifica con la moglie una trentina di reportage per il progetto Genesi, poi portato a termine in otto anni attraversando Sahara, Galápagos, Madagascar, Sumatra, Mentawai, Nuova Guinea, Papuasia Occidentale, Himalaya, Russia asiatica, Stati Uniti, Canada, Alaska, Cile, Argentina, Venezuela, Falkland, Isole Sandwich…

Nel 2013 escono i primi due libri su Genesi a cui seguono mostre in tutto il mondo. Il fotografo sottolinea di non aver affrontato i reportage con la logica dell’entomologo o del giornalista ma di averli realizzati per se stesso, al solo fine di scoprire il pianeta e trarre piacere da ciò.

Sino a Genesi Salgado si è occupato esclusivamente di esseri umani ma improvvisamente sente di dover fare qualcosa di analogo anche per gli animali: prima di scattare occorre, in entrambi i casi, farsi conoscere e conoscere. Il rispetto per chi si ha di fronte ed il piacere per l’incontro sono alla base della fotografia degli animali così come degli esseri umani. Il contatto diretto con la natura ha anche consentito al fotografo di conoscere gruppi umani che ancora vivono in equilibrio con l’ambiente naturale.

Genesi coincide anche con il momento in cui Salgado passa dall’analogico al digitale, passaggio che avviene soltanto dopo lo svolgimento di una serie di test comparativi nell’estate del 2008. Anche in Genesi il fotografo rinuncia al colore, utilizzato in poche occasioni in passato e soltanto per lavori su commissione per riviste. Il fotografo ricorda anche le faticose sperimentazioni di laboratorio al fine di ottenere negativi in bianco e nero di qualità partendo da file digitali al fine di realizzare stampe ai sali d’argento ovviando, momentaneamente, al problema della conservazione degli archivi su dischi rigidi.

Anche con il digitale Salgado preferisce far affidamento, durante i reportage, soltanto su ciò che vede dall’obiettivo e l’editing non viene fatto dallo schermo di un computer ma dalle stampe, così come ha sempre fatto. Il fotografo ci tiene a sottolineare come il passaggio dall’analogico al digitale ha portato ad una qualità di stampa nettamente superiore rispetto al passato. Salgado lavora con la luce naturale ed oggi il processo di stampa permette un controllo infinitamente maggiore sull’immagine inoltre è possibile lavorare a luce molto bassa ed aumentare la sensibilità.

Uno dei primissimi reportage in digitale del brasiliano viene realizzato nel 2008 sulle alture etiopi e questo viene considerato dall’autore forse il suo lavoro più bello ed interessante. Si tratta di un reportage effettuato percorrendo quasi novecento chilometri a piedi sulle montagne, camminando per quasi due mesi su sentieri tracciati da passaggi millenari di cui non esiste alcun rilevamento tipografico e superando per ben tre volte i quattromila metri di quota.

Quando Salgado termina i reportage di Genesi è ormai settantenne ed alla fine di questa avventura ritiene di avere davvero “incontrato il pianeta”, che è cosa diversa dall’aver “girato il mondo”. Oltre ad aver messo i piedi (e gli occhi) ovunque, il fotografo ha finito anche col ripercorrere all’indietro la storia, riuscendo a vedere “come eravamo all’inizio dell’umanità”, quando ancora l’umanità era dotata “dell’istinto”. «Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città, dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso fra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano dalla natura. Di colpo, non siamo più in grado di vedere, di sentire… […] Se nel mio libro, La mano dell’uomo, ero fiero di mostrare che noi umani siamo un tipo di animale molto abile a produrre, ho visto anche che nella nostra maniera di vivere abbiamo fatto di tutto per distruggere ciò che garantisce la sopravvivenza della nostra specie» (p. 168).

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[Le fotografie riportate nel testo sono state pubblicate con il consenso dell’editore – gh]

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Haiti e l’industria della fame https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/haiti-e-lindustria-della-fame/ Mon, 11 Jan 2016 23:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27560 di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie di Haiti, 5 anni dopo il terremoto”. Il numero attuale di NRL è dedicato a “nazionalismi, populismi di destra e razzismi”. Lo trovi qui e puoi leggerne una recensione su Carmilla qui. Sulle nuove e vecchie schiavitù e la migrazione dei lavoratori haitiani nelle coltivazioni di canna da zucchero della vicina Repubblica Dominicana segnalo l’uscita del bel libro di Raùl Zecca Castel Come schiavi in libertà, Ed. Arcoiris, Salerno, 2015]

Aggiornamento introduttivo (12/01/2015). Gli effetti del devastante terremoto del 12 gennaio 2010 ad Haiti furono e sono tuttora amplificati da una lunga lista di fattori storici, politici, economici e sociali. Sei anni dopo il sisma, che fece circa 250mila morti, il paese più povero delle Americhe vive una profonda crisi politica e non è avventato ricorrere alla definizione di “Stato fallito” per parlare del suo sistema di governo e istituzionale. Il quadro è fosco: le elezioni parlamentari, che erano state rimandate per ben tre anni, si sono svolte (primo turno) il 9 agosto in un clima da guerra civile; pacifico, invece, lo svolgimento del secondo turno delle parlamentari e il primo delle presidenziali, il 25 ottobre, anche se da settimane i partiti sconfitti protestano nelle strade denunciando brogli per cui il Consiglio Elettorale ha dovuto posticipare il ballottaggio per l’elezione del presidente dal 27 dicembre al 17 gennaio; l’epidemia di colera, scoppiata a fine 2010, ha fatto 9.000 vittime fino ad ora e nel 2014 era praticamente sotto controllo, mentre nel 2015 c’è stata una nuova impennata dei contagi; il parlamento è rimasto praticamente inoperante e l’esecutivo ha governato via decreto nell’ultimo anno; continua la crisi diplomatica e umanitaria con la Repubblica Dominicana, che sta espellendo in massa haitiani dal suo territorio in base a risoluzioni giudiziarie dal tenore palesemente razzista; le proteste e le manifestazioni post-elettorali denunciano anche cooptazioni massicce del voto e la strategia governativa in favore del suo “candidato ufficiale” (Jovenel Moïse, delfino del presidente Michel Martelly, del partito PHTK, Parti Haïtien Tet Kale); il rinvio del voto al 17 gennaio è anche conseguenza di questa situazione e si sfideranno il governativo Jovenel Moïse e il rappresentante d’una opposizione moderata, Jude Celéstine; anche il nuovo parlamento s’insedierà dunque in ritardo, in attesa dei risultati elettorali].

Haiti e l’industria della fame. Flashback (inizio 2010)

Claire indossa una camicia bianca elegante, i jeans puliti e le scarpe da tennis nuove, adatte alle lunghe camminate. E’ uscita di fretta, il passo deciso. Brilla in mezzo alle macerie. Trotta in salita evitando immensi cumuli di mattoni, tombini scoperchiati e pali della luce divelti in mezzo al marciapiede. Stanca di questa gincana senza scopo, si siede sullo spigolo di un macigno che invade la carreggiata rallentando il traffico. Lungo la Rue Delmas si boccheggia, il sole sembra rimanere fisso allo zenit per tutta la giornata, portando l’asticella del termometro sopra i 30 gradi. Lo smog tipico di una caotica metropoli caraibica si mischia alla polvere della distruzione, al vagare disperato di moltitudini alla ricerca di un motivo per spiegare la tragedia e di un pezzo di pane per palliare i morsi della fame.

Sono passate tre settimane dal terremoto, una tremenda scossa che in 39 secondi ha fatto 250mila vittime nella capitale di Haiti, Port-au-Prince (colloquialmente, PAP). Il 12 gennaio, giorno della catastrofe, Claire era fuori di casa e s’è salvata. A suo cugino, sua zia, a molti amici del quartiere e a tantissime altre persone non è toccata la stessa fortuna. Lei ha ancora una casa e una madre. Un milione e mezzo di suoi concittadini invece dormono nei giardini pubblici, sui marciapiedi o nei campi di accoglienza allestiti alla buona in oltre mille siti d’emergenza sparsi per la città.

Claire, però, ha fame. Sua madre non si fa vedere da un paio di giorni. Qualsiasi bene di prima necessità è diventato un lusso inaccessibile. Solo chi vive nelle tendopoli può accedere a qualche razione di riso e fagioli. Gli altri devono arrangiarsi, ingegnarsi, cercare lavoretti giornalieri o chiedere la carità. Sì, ma a chi? La ragazza osserva i passanti da dietro lo scoglio su cui s’è accovacciata, che in realtà è ciò che rimane del secondo piano di un piccolo albergo. Claire è in attesa d’incrociare qualche blanc, qualche straniero a cui parlare e chiedere aiuto. Siamo in due, in esplorazione nel mezzo delle macerie e della confusione, a pochi giorni dall’arrivo sull’isola. Due sconosciuti di nome Diego e Fabrizio che Claire avvista e segue. Trenta, quaranta, cinquanta passi accelerati dietro di noi, e poi effettua il sorpasso. Gentile, domanda se abbiamo da mangiare. Semplicemente, con lo sguardo abbassato e il tono risoluto. Le offriamo dell’acqua e la invitiamo ad accompagnarci.

La chimera della ricostruzione

Subito dopo il terremoto partì un’ipocrita e sfrenata gara per la solidarietà. Chi offre di più? ONU, governi, impresari, cittadini, siti web, associazioni e ONG riversarono una massa di promesse e buone intenzioni monetizzabili in circa 11 miliardi di dollari. Di questi, a oltre un anno dal sisma, solo il 5% era stato stanziato e “messo a budget”, cioè destinato a opere di ricostruzione. La vera gara, allora, diventò quella per gli appalti, la cui gestione fu affidata all’ex presidente USA Bill Clinton, a capo della CIRH (Commissione Interina per la Ricostruzione di Haiti) insieme al Primo Ministro haitiano. Questa carica, tra l’altro, rimase per più di un anno scoperta per via dell’impasse politica in cui si trovò il presidente-cantante Michel Martelly dopo il suo insediamento nel 2011. E’ allora facile immaginare chi fosse a prendere realmente le decisioni sul destino delle donazioni.

Haiti cite-soleilNei primi due anni di “ricostruzione” la situazione è rimasta stabile, stagnante, identica a quella che imperava nel febbraio 2010, il mese in cui sono stato a PAP. In quel periodo il presidente René Préval dovette consegnare il paese “chiavi in mano” a un consorzio di banche e governi che avrebbero deciso come (e se) ricostruirlo. Oggi l’80% delle macerie è stato rimosso, ma gli sforzi per la ricostruzione sembrano essersi orientati più all’edificazione di hotel di lusso, impianti d’assemblaggio e fabbriche di indumenti, in beneficio di compagnie e investitori in prevalenza stranieri, che ai bisogni della gente. Tra il 2010 e fine 2012 i fondi stanziati dalla comunità internazionale per Haiti hanno raggiunto la cifra di 6,43 miliardi di dollari, ma solo il 9% di questi è passato in qualche modo dal governo locale. L’ammontare dei contratti concessi dall’agenzia americana UsAid è stato di 485,5 milioni di dollari di cui solo l’1,2% è andato a imprese haitiane.

Nel 2012, quando ancora mezzo milione di persone abitava nelle tendopoli, il “fondo umanitario” per Haiti degli ex presidenti USA Bill Clinton e George Bush (figlio) investì 2 milioni di dollari nell’hotel a cinque stelle Royal Oasis, un’enclave nel mezzo di un’area urbana devastata. Un anno dopo, con 300mila sfollati ancora nelle tende, l’International Financial Corporation (IFC), parte del gruppo della Banca Mondiale, decise di finanziare la costruzione di un nuovo hotel Marriott che avrebbe generato “ben” 200 posti di lavoro dal 2015 e 300 durante la costruzione. L’albergo farà compagnia ad altre strutture dell’americana Best Western e della spagnola Occidental Hotels & Resorts, anch’esse risorte per il benessere turistico dell’isola, anche grazie ai fondi della solidarietà internazionale e a benefici fiscali inusitati di cui godono durante i primi quindici anni di attività. I meccanismi della cooperazione e una bella fetta delle donazioni fungono da ingranaggi e lubrificanti per l’apertura di nuovi mercati, attraenti per le multinazionali americane, giapponesi, latinoamericane ed europee, e per un manipolo di compagnie nazionali in mano alla ristretta élite locale.

haiti pirates“Haiti ha le condizioni fondamentali per una crescita economica sostenuta, incluse una forza lavoro competitiva, la prossimità a grandi mercati e attrazioni turistiche e culturali uniche”, sosteneva Ary Naim, rappresentante di IFC ad Haiti. Probabilmente si riferiva alla schiavizzazione dei lavoratori nelle mine e nelle “fabbriche miserabili”, note in inglese come sweatshops, impiantate dagli investitori statunitensi e poco rispettose del già infimo salario minimo nazionale, fissato a 4 dollari e mezzo. Si tratta, dunque, di una forza lavoro altamente “competitiva”, cioè sfruttata e a basso costo, ma comunque produttiva nonostante la fame, il colera e la precarietà salariale e abitativa imperante nel paese.

Nel 2014, con circa 140mila persone sparse in 243 tendopoli, non s’investe più solo nei progetti alberghieri, ma si punta sull’espropriazione e privatizzazione delle coste e delle isole haitiane, come nel caso della Île à Vache, un piccolo paradiso che  è diventato territorio di conquista per investitori americani, dominicani e di altri paesi. Il Collettivo dei Contadini di Île-à-Vache (KOPI), costituito nel dicembre 2013, lotta per difendere gli abitanti dell’isola dalla migrazione forzata, dall’espulsione dalle proprie terre e dalla crisi alimentare e ambientale che i nuovi megaprogetti turistici stanno provocando: disboscamento, riduzione delle coltivazioni e 20mila persone cacciate via dalle brigate motorizzate della polizia, a cambio di 2000 posti di lavoro promessi dal settore alberghiero e 1500 residence che occuperanno la costa. Il Collettivo non osteggia il turismo in quanto tale, combatte gli effetti nefasti di progetti calati dall’alto e dall’estero, in spregio delle comunità locali, costrette a migrare ingrossando le file dei disoccupati o dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche che popolano i quartieri slum delle grandi città.

Flashback (continua)

Haiti tourism-development-projects-haitis-caribbean-coast-2-638Claire si guarda intorno curiosa. Avrà diciott’anni. Ci troviamo a soli tre isolati dalla sede dell’AUMOHD, l’associazione di avvocati per la difesa dei diritti umani che ci ospita. Il suo presidente, Evel Fanfan, usa la casona dell’organizzazione come ufficio, magazzino di viveri e medicine, dormitorio improvvisato, “centro servizi” per gli abitanti del quartiere, e infine come mensa e rifugio d’emergenza per alcuni terremotati e per i cooperanti o i giornalisti in visita. E’ il nostro caso. Claire ha accettato con piacere il nostro invito a pranzo. A sprazzi, in un francese didattico e ben scandito, necessario a farci capire, ci racconta un po’ della sua vita e del giorno del terremoto, le douce janvier, che ha cambiato l’esistenza di tutti e il corso della storia haitiana. Di fronte a noi, adesso, ci sono un muro di cinta bianco e una porta con un cartello in creolo. L’AUMOHD s’è trasformato in un piccolo centro d’accoglienza. Gli operai di un sindacato indipendente usano la sede dell’associazione per fare le loro riunioni e ricostruire vincoli, contare i danni e rimboccarsi le maniche. Le donne e gli uomini incaricati delle pulizie lavorano di mattina e aspettano l’ora di pranzo prima di andarsene.

Instancabile, Evel è sempre indaffarato. Il suo cellulare squilla ogni 5 minuti. Risponde in inglese, in creolo o in francese. Cerca fondi, ascolta racconti, appunta piani d’azione su una lavagnetta, visita tendopoli e ambasciate, cliniche e prigioni. A volte sembra agire d’istinto, in preda a una strana frenesia. Sta provando a rintracciare gli altri avvocati del gruppo per riprendere le attività, ma la situazione è troppo grave, i palazzi ministeriali e i tribunali sono crollati, tutti i lavori sono fermi. Per un po’ non ci sarà tempo per seguire processi, urge sopravvivere, procurare il cibo, comprare la benzina per il generatore, l’acqua e le medicine.

haiti sweat shopsDopo il sisma, l’acqua è diventata un bene di lusso. Per acquistare una bottiglia o una bustina di plastica, da bucare con gli incisivi e succhiare fino all’ultima goccia, ci vogliono 2-3 dollari. Haiti ha sete e trova l’acqua potabile solo nei campi d’accoglienza, allestiti in ogni quartiere cittadino e per la strada, o in vendita sulle bancarelle degli ambulanti. Il supermercato, sebbene abbia riaperto poco dopo il terremoto, è privo della metà dei prodotti e carissimo, inaccessibile agli haitiani. Se prima del 12 gennaio i tre quarti della popolazione vivevano sotto la soglia della povertà, la situazione s’è drasticamente aggravata dopo la scossa tellurica che ha raso al suolo quasi tutta la capitale e il suo hinterland.

La cacciata del presidente, i caschi blu e il colera

Nel 2004, quando Haiti stava per festeggiare 200 anni d’indipendenza, l’ex prete Jean-Bertrand Aristide, primo presidente eletto in democrazia nel 1990 e costretto all’esilio da un golpe tra il 1991 e il 1994, fu deposto nuovamente da un colpo di stato e inviato fuori dal paese, anzi, fuori dall’emisfero occidentale. I militari USA lo deportarono nella Repubblica Centroafricana, dove rimase per più di sette anni, prima di tornare in patria nel marzo 2011. Oggi Aristide deve difendersi da vari capi d’accusa: traffico di droga, sottrazione di beni pubblici, espropriazioni illegali, concussione e riciclaggio. Due mesi prima era rientrato anche l’ex dittatore (1971-1986) Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier, figlio di un altro tiranno, François “Papa Doc” Duvalier (al potere dal 1957 al 1971). Pasciuto e ora disposto a “aiutare il suo popolo”, dopo un quarto di secolo di esilio dorato in Francia grazie ai soldi di famiglia, cioè del popolo haitiano, Baby Doc è stato messo sotto processo per crimini contro l’umanità e corruzione, ma ad Haiti i processi andavano al rallentatore e i gruppi organizzati di vittime della dittatura hanno presentato il caso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Ma purtroppo nemmeno in quella sede otterranno giustizia. Infatti, il 3 ottobre 2014 Duvalier è morto d’infarto. Ha potuto passare serenamente gli ultimi momenti della sua vita nel suo paese, nel lussuoso quartiere della capitale in cui risiedeva, e rimanere impune.

Haiti flagAristide, da presidente, aveva osato troppo: tentativi d’aumento del salario minimo, soppressione dell’esercito, protezione sociale per i più deboli, rivendicazione del debito storico pagato da Haiti alla Francia e un piano per recuperare il controllo di alcune risorse strategiche suscitarono i timori americani e internazionali di dover fronteggiare un “Hugo Chávez caraibico”. Gli USA, tramite la CIA e l’IRI (International Republican Institute), fomentarono gruppi ribelli e paramilitari per destabilizzare il suo esecutivo e tra il 2004 e il 2006 sostennero il governo autoritario di Alexandre Boniface e del Primo Ministro Gérard Latortue. Fu un periodo d’eccezionale violenza politica, con scontri tra i “ribelli” e la polizia, da una parte, e le bande armate pro-Aristide, le note chimères, ma anche gruppi di comuni cittadini, dall’altra. In pochi mesi si contarono quattromila omicidi politici e l’incarceramento di decine di leader sociali e oppositori.

Nel frattempo la Missione ONU ad Haiti, la MINUSTAH, si stava occupando di “ripulire” con la violenza i quartieri marginali della capitale, in particolare Citè Soleil, dove con la scusa di combattere la criminalità, nel luglio 2005, le “forze di pace” fecero decine di vittime sparando sulle case della povera gente, proprio in uno dei bastioni elettorali del partito del presidente in esilio (il Fanmi Lavalas). Da un decennio l’avvocato Evel Fanfan difende alcune vittime delle stragi di Citè Soleil e di altri brutali episodi del terrorismo di stato. Perciò è stato minacciato di morte, vive con la scorta, formata solo da un poliziotto che fa atto di presenza, e qualche mese fa, dopo nuove minacce e un attentato cui è riuscito a sfuggire per puro caso, ha deciso di mettere al sicuro sua moglie e i suoi due figli negli Stati Uniti.

WikiLeaks ha rivelato che nel 2008, durante il mandato dell’ex delfino di Aristide, Préval, l’ambasciatrice americana a Porto Principe, Janet Sanderson, parlò addirittura di una minaccia emisferica costituita dal risorgere di “forze politiche populiste e anti-mercato”, e poi chiarì che “l’impegno latinoamericano coordinato regionalmente ad Haiti non era possibile senza l’ombrello delle Nazioni Unite che aiuta gli altri principali donatori, con in testa il Canada, gli USA, la Francia, la Spagna, il Giappone e altri, a giustificare internamente la loro azione d’assistenza bilaterale”. In soldoni l’ONU e la MINUSTAH, che è comandata dal Brasile e svolge funzioni di polizia e militari, aiutavano e aiutano i paesi coinvolti a spiegare alle loro rispettive opinioni pubbliche perché investono in imprese e missioni neocoloniali sotto l’egida statunitense. Proprio i caschi blu, in particolare il contingente nepalese, sono responsabili di aver portato sull’isola il virus del colera che ha fatto 9mila vittime e quasi 750mila contagi dall’ottobre 2010. Ci sono voluti 813 giorni dallo scoppio dell’epidemia perché l’ONU presentasse delle scuse.

Flashback (fine)

haiti graph Breakdown of HUMANITARIAN fundingIl pranzo all’AUMOHD è un rituale. A turno uno degli ospiti o qualcuno dello staff, formato da conoscenti di Evel che lui prova ad aiutare con piccoli lavori, un tetto e un paio di pasti al giorno, s’occupa di preparare un pentolone di riso coi piselli o coi fagioli, oppure una copiosa razione di pasta, condita con improvvisate salse di pomodoro e pesce maciullato. Noi, oltre a svariati pacchi di spaghetti, abbiamo portato tre chili di cuscus che rende tantissimo. Spugnoso e assorbente, si gonfia d’acqua, imbiondisce e cresce a dismisura per sfamare tutti e tutte. Arricchiamo il piatto con zucchine, cipolle e carote soffritte per offrire un pasto completo. Qui lo chiamano “Piti Mi”, il “piccolo me”, anche se abbiamo scoperto che quel termine significa miglio o sorgo e non cuscus. Essendo un alimento mediterraneo, risulta quasi sconosciuto a queste latitudini e viene assimilato al locale Piti Mi. E’ una parola molto musicale che i commensali non si stancano mai di ripetere, ridendo fragorosamente e chiudendo il verso con la rima “Piti-Mi-Haitì”, “il-cus-cus-Haitì”, un vero rap culinario. Claire ne mangia due porzioni, ride di gusto, ringrazia e ci saluta: “Au revoir”, ma non l’abbiamo più rivista.

Ogni mattina e dopo pranzo, io e Diego siamo gli incaricati ufficiali della preparazione del caffè espresso. Abbiamo con noi un’impeccabile moka da quattro, quindi dobbiamo fare almeno quattro caffettiere una dopo l’altra per poter accontentare tutti. Per gustare meglio la bevanda, abbiamo riciclato una decina di vasetti di vetro degli omogeneizzati come tazzine. Li abbiamo comprati al supermercato per avere a disposizione delle “merendine extra” o dei rinforzini per la cena, ma poi, una volta consumate le saporite pappette per bebè, abbiamo preso a riutilizzare i contenitori per berci il caffè. Abbiamo scoperto, però, che i nostri compagni haitiani non li lavavano insieme alle altre stoviglie, ma li buttavano e preferivano usare al loro posto dei grossi bicchieri di plastica che, a loro volta, finivano nella spazzatura. Ci abbiamo comunque riprovato. Abbiamo acquistato un nuovo set di tazzine-vasetti e, dopo aver rimosso l’etichetta degli omogeneizzati, siamo riusciti a fargli ottenere un posto d’onore nell’apposito scaffale insieme agli altri veri bicchieri di vetro.

Haiti, le ONG e l’emergenza permanente

Haiti nike-sweatshopsNell’aprile 2014 il World Food Program ha lanciato un allarme sull’insicurezza alimentare nel Nordovest di Haiti, ma, anziché fungere da denuncia delle cause reali del problema o da invito per il governo e la comunità internazionale a stimolare la produzione locale, il monito è servito da scusa per chiamare a maggiori sforzi nelle donazioni e nell’invasione di prodotti alimentari dall’estero. Negli ultimi due anni il prezzo di fagioli, riso e altri alimenti è cresciuto del 40% e si sono moltiplicate le proteste popolari, soprattutto nel Nord, nel distretto di Cap-Haïtien. For Haiti With Love, organizzazione cristiana “non profit”, ne ha approfittato per chiedere ai suoi sostenitori maggiori sforzi: “Dobbiamo pregare veramente affinché più gente s’interessi ad Haiti e più gente aiuti a condividere il fardello degli aiuti laggiù, ma l’aiuto finanziario diretto è quello di cui abbiamo realmente bisogno proprio ora”. E così, tappando qualche buco con cibi importati e orazioni, la protesta sociale viene ammansita e il business può continuare.

L’80% dei dieci milioni di haitiani vive in povertà, con un reddito inferiore al già di per sé miserabile salario minimo di 4,54 $ al giorno. Un milione e mezzo di loro soffre la fame, 6 milioni e 700mila non riescono a coprire regolarmente i loro bisogni alimentari e un quinto dei bambini è in stato di denutrizione, nonostante gli innumerevoli programmi assistenziali internazionali. Anzi, è più realistico, anche se paradossale, pensare che alla radice del problema ci siano proprio questi. La stampa tende a presentare i problemi di Haiti, estrapolandoli dal contesto neocoloniale in cui si sono generati, come causati dal clima o dalle catastrofi naturali, dalla presunta violenza dei suoi abitanti o dalla corruzione dei suoi politici. Le responsabilità e gli abusi dei governi e delle agenzie straniere, che si spartiscono gli aiuti e limitano lo sviluppo democratico, sono spesso taciuti o normalizzati. E così succede anche con le operazioni delle ONG, oltre 10mila in territorio haitiano, i cui sprechi e costi logistici arrivano a mangiarsi fino al 60% del loro budget. Inoltre Haiti non è un paese violento, il suo tasso di omicidi è di 7 ogni 100mila abitanti, mentre la media dei Caraibi è 17, in Messico è 24, in Honduras 91 e nella “pacifica” Costa Rica 10.

Perché Haiti ha fame?

Haiti graph money goesGli appelli sulla “emergenza fame” ad Haiti finiscono spesso per soccorre le economie dei produttori americani e degli intermediari, agenzie governative e non, che amministrano la distribuzione o rivendita degli alimenti. Haiti Grassroots Watch (HGW) è uno dei pochi media alternativi su Haiti. “Perché Haiti ha fame? Perché la fame morde più adesso che negli ultimi 50 anni?”, recita il titolo di un articolo sul loro sito. I portavoce della Rete Nazionale per la Sovranità e la Sicurezza Alimentare (RENAHSSA) imputano al governo l’aggravamento della situazione, ma è da molto più tempo che economisti, agronomi agenzie umanitarie ed “esperti” internazionali disegnano progetti e vincono commesse, contratti e generose borse per affrontarla.

I donanti controllano miliardi di dollari per “aiuti alimentari”, “allo sviluppo”, “assistenza umanitaria” e programmi agricoli che non toccano le cause strutturali della fame. HRW ne cita sei: (1) la povertà, la precarietà salariale e la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, indisponibili alla maggior parte della popolazione; (2) il sistema di proprietà della terra e la mancanza di una gestione razionale, l’inesistenza di un catasto, l’uso politico della terra data in ricompensa dai governanti ai propri alleati; (3) le politiche commerciali neoliberali, impulsate da USA, BM e FMI, che hanno ridotto le protezioni tariffarie sui prodotti nazionali e causato esodi dalle campagne alle città (anche per questo la sovrappopolazione e la precarietà abitativa a PAP fecero incrementare i danni e le vittime del terremoto del 2010); (4) l’aumento demografico in un contesto di produzione agricola stagnante, basata su tecniche e strumenti obsoleti, abbandonata dallo stato e soffocata da donazioni e importazioni straniere e dall’uso del carbone vegetale come combustibile, con la conseguente deforestazione quasi totale del territorio; (5) l’impatto negativo di vari meccanismi di “assistenza” che portano soldi a progetti e organizzazioni estere ma non al governo haitiano o alle associazioni locali, per cui non ci si concentra sulle cause strutturali della fame ma solo su emergenze e contingenze; (6) le inefficienze del mercato interno, le pratiche oligopolistiche degli importatori di cibo che mantengono i prezzi alti.

L’industria della fame

Gli aiuti internazionali e le politiche commerciali legate alla fame di Haiti, al settore alimentare e a quello agricolo, sono state disastrose e contradditorie. Secondo HGW la quota maggiore (più del 50%) degli aiuti alimentari mondiali diretti a Haiti proviene da programmi governativi statunitensi e arriva in parte al governo haitiano, in parte ad alcune agenzie come il World Food Program e in parte a contrattisti come World Vision, CARE, ACDI-VOCA e Catholic Relief Service. Tra il 5% e il 10% del cibo consumato ad Haiti entra con queste “importazioni” a basso costo che sfiancano i produttori locali facendo dumping e favorendo la cosiddetta “monetizzazione” degli aiuti alimentari. In pratica il governo USA compra riso, grano, farina, oli vegetali, carne di pollo e fagioli ai propri produttori, dato che per legge la stragrande maggioranza del cibo donato deve essere made in USA. Poi lo spedisce a enti governativi stranieri o alle organizzazioni umanitarie che a loro volta possono venderlo, “monetizzandolo”, per ottenere contanti freschi per i loro progetti.

La “industria della fame” è un grosso affare per cui si devono creare mercati coatti e negli USA il governo deve periodicamente segnalare le emergenze alimentari internazionali per attribuire contratti e riattivare consumi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ottanta e novanta Haiti è stata forzata da FMI, USA e World Bank a fissare le più basse tariffe all’importazione di prodotti agricoli tra i paesi dei Caraibi, mentre prima la protezione arrivava fino al 50%. Così nel 2011 l’esportazione agricola americana verso Haiti ammontava a 326 milioni di dollari e la dieta degli haitiani era cambiata: il riso e il pollo avevano sostituito il mais, il sorgo (il Piti-Mi!) e i tuberi. I coltivatori locali sono stati progressivamente estromessi dai più produttivi e sovvenzionati competitors statunitensi e gli aiuti hanno contribuito ad aprire mercati che in precedenza erano marginali o serviti dagli agricoltori nazionali. Anche per questo le campagne haitiane languiscono e la fame è una piaga endemica. La fame e le macerie di Haiti non hanno bisogno di carità e promesse ma dell’autonomia e della libertà che le possano rimuovere, trasformandole in nuove lotte e speranze.

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Chiapas: Bachajón non si arrende e non si compra https://www.carmillaonline.com/2015/02/22/chiapas-bachajon-non-si-arrende-e-non-si-compra/ Sat, 21 Feb 2015 23:01:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20724 di Marco Cavinato

Bachajon ChiapasTra le montagne della zona nord del Chiapas, in Messico, si snoda la tortuosa strada che da Ocosingo porta a Palenque, all’interno di un enorme polmone verde dove si nascondono tante delle bellezze naturali della selva del sud-est messicano. Tra queste le cascate di Agua Azul, noto centro di eco-turismo confinante con la comunità indigena tzeltal di San Sebastian Bachajón. Gli uomini e le donne della comunità di Bachajón lottano da anni contro l’esproprio delle loro terre, minacciate da un mega-progetto che, promosso da governo federale e grandi [...]]]> di Marco Cavinato

Bachajon ChiapasTra le montagne della zona nord del Chiapas, in Messico, si snoda la tortuosa strada che da Ocosingo porta a Palenque, all’interno di un enorme polmone verde dove si nascondono tante delle bellezze naturali della selva del sud-est messicano. Tra queste le cascate di Agua Azul, noto centro di eco-turismo confinante con la comunità indigena tzeltal di San Sebastian Bachajón. Gli uomini e le donne della comunità di Bachajón lottano da anni contro l’esproprio delle loro terre, minacciate da un mega-progetto che, promosso da governo federale e grandi imprese, vedrebbe una significativa estensione dell’area turistica delle famose cascate per permettere la costruzione di un mastodontico centro che accolga alberghi, negozi e strutture varie, di quelli che qui in Messico vengono definiti dalle stesse aziende del settore come ‘’centri integralmente pianificati’’.

C’è quindi chi resiste e non accetta i ‘‘programmi di sostegno’’ impulsati dai partiti con cui si cerca di zittire e comprare gli abitanti della regione: centinaia di famiglie che si oppongono a questo e a tutti i progetti che minacciano la loro zona e i loro territori ancestrali, come l’autostrada che da San Cristobal de Las Casas dovrebbe portare a Palenque spazzando via intere comunità. La resistenza della gente di Bachajón è stata portata avanti in questi anni tra blocchi stradali e denunce pubbliche, ma soprattutto attraverso la riappropriazione delle terre mediante l’occupazione di queste.

Sono molte le comunità di quest’area in lotta contro la privatizzazione dei loro territori che si sono organizzate dal basso escludendo i partiti politici e le autorità statali dai loro processi decisionali interni: alle tante comunità zapatiste se ne sono affiancate altre che hanno seguito un cammino diverso, ma che in questi ultimi anni hanno sperimentato sulla loro pelle la minaccia e la violenza tipiche di uno stato repressivo e totalmente al soldo delle logiche neoliberiste come quello messicano.

Il percorso di resistenza e autodeterminazione delle famiglie di Bachajón ha portato queste ad aderire alla Sesta Dichiarazione delle Selva Lacandona, programma di lotta e spazio di azione e condivisione lanciato dagli zapatisti dell’EZLN nel 2005 dove si incontrano realtà di tutto il mondo. Proprio nel 2005 i confini della comunità sono stati ridotti da una commissione governativa con un pretesto spesso utilizzato qui in Messico, definendo cioè ‘‘area protetta’’ una parte del territorio.

La repressione del governo ha colpito fin dall’inizio le famiglie che nel 2007 hanno istituito una commissione interna per decidere autonomamente come gestire le proprie terre: nel 2009  vengono arrestati otto membri della comunità aderenti alla Sexta, mentre nel 2011 finiscono in carcere, con capi d’imputazione costruiti ad hoc, ben 117 persone.
Quest’ultimo arresto di massa ha seguito uno dei vari attacchi condotti contro queste famiglie da gruppi paramilitari affiliati al partito di governo, il PRI (Partido Revolucionario Institucional), che già dagli anni novanta agiscono, armati e impuni, con lo scopo di provocare e dividere le comunità indigene in resistenza. Questa tecnica controinsurrezionalista é parte di quella che viene definita ‘‘guerra di logoramento’’ contro le comunitá che insorgono e resistono; vengono utilizzati gruppi paramilitari invece dell’esercito, e tutti i principali media descrivono queste vere e proprie aggressioni pianificate “semplicemente” come conflitti interni tra indigeni.

La strategia del governo statale del Chiapas, che come quello federale-nazionale afferma sfacciatamente ad ogni occasione di ‘’volere il dialogo’’ con gli indigeni, ha portato all’omicidio di Juan Vázquez Guzmán nel 2013, freddato con sei colpi d’arma da fuoco sulla porta di casa. Juan aveva 32 anni ed era una figura di riferimento della comunità. Era anche il segretario generale locale degli aderenti alla Sexta. Nel 2014 è toccata la stessa fine al compañero Juan Carlos Gomez Silvano, un altro compagno amato e stimato dalla comunità.

Entrambi gli omicidi sono rimasti impuniti, mentre sono continuate le aggressioni e le minacce alle famiglie di Bachajón. I sei prigionieri politici che ad oggi si trovano in carcere per crimini che non hanno commesso hanno subito torture fisiche nei diversi centri di reclusione in cui si trovano. Alla fine di dicembre i membri della comunità che continuano a esercitare varie forme di lotta e resistenza nella regione hanno deciso di occupare una parte delle terre che gli erano state tolte, da dove sono stati violentemente sgomberati il 9 gennaio scorso. In seguito hanno occupato altri terreni dove hanno costruito la loro nuova sede.

Le autorità locali lunedì 2 febbraio hanno dato un ultimatum di dieci giorni al governo per sgomberare nuovamente le famiglie, altrimenti ‘‘ci penseranno loro’’. Lo spazio della sede viene utilzzato per lavori collettivi, di condivisione e laboratori: uno spazio ribelle come lo descrivono gli ‘‘occupanti’’ nel loro ultimo comunicato ‘‘perchè denunciamo chiaramente l’ambizione  di voler espropriare il territorio della nostra gente, però una volta per tutte diciamo al mal governo che difenderemo la sede così come continueremo a difendere le terre che ci ha tolto dal 2 febbraio 2011 e dove adesso si sono ristabilte le forze dell’ordine dopo il violento sgombero del 9 gennaio 2015’’.
In questi giorni, a ultimatum appena scaduto la situazione continua a essere tesa e qui nessuno abbassa la guardia.

Nonostante la repressione e le minacce, a Bachajón la difesa del territorio è ancora l’imperativo di centinaia di “lottatori sociali” che non si arrendono di fronte a coloro i quali, secondo ciò che ci hanno insegnato, sono quelli che comandano. Donne e uomini che non ne vogliono sapere di stare a guardare la mercificazione delle loro terre, né di lasciarsi comprare dal partito o dall’impresa di turno. Il dolore e la rabbia per la morte di Juan e Juan Carlos, così come per i compañeros ancora in carcere non ha scoraggiato queste famiglie indigene che da secoli in questi territorio hanno imparato a trasformare questa rabbia e questo dolore in forza per continuare a resistere, in forza per sopravvivere.

La forza di questa comunità è uno dei tanti esempi che i popoli indigeni del Chiapas continuano a mandare al mondo, è anche la lezione di una comunità che crede nell’autodeterminazione a qualunque costo. Come gli zapatisti, che da 21 anni dalla selva e dalle alture chiapanecas, da dove finisce il Messico, costruiscono autonomia e si riprendono la dignità che è sempre stata negata alla loro gente, come in Val Susa, a Niscemi e in tanti angoli ribelli del mondo. Dunque anche a Bachajón la missione è una, e l’unico cammino possibile è quello dell’auto-organizzazione dal basso. La sfida ai potenti continua, i suoi esiti sono incerti, indefiniti, ma dopo questi anni di ribellione una cosa rimane chiara: lottare per difendere ciò che gli appartiene fa parte di una lunga tradizione di lotta, instancabile, che non si fermerà facilmente.

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Natale di lotta per #Ayotzinapa e Festival zapatista delle Resistenze e Ribellioni https://www.carmillaonline.com/2014/12/24/natale-di-lotta-per-ayotzinapa-e-festival-zapatista-delle-resistenze-e-ribellioni/ Tue, 23 Dec 2014 23:00:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19738 di Fabrizio Lorusso 

Ayutla protesta vs ejercito2Anche se il Messico sembra essere in vacanza, non è così. Lontano dai grandi centri turistici all inclusive e dalla riviera maya, il paese non smette di protestare e di mostrare al mondo la sua vera faccia. Quella degli oltre 130 mila morti in 8 anni e della guerra alle droghe e ai narcos che s’è trasformata in una specie di guerra civile sanguinaria e in un conflitto contro la stessa società. Quella dei 27 mila desaparecidos che ormai superano le cifre delle sparizioni forzate dell’ultima dittatura argentina. Si moltiplicano e continuano [...]]]> di Fabrizio Lorusso 

Ayutla protesta vs ejercito2Anche se il Messico sembra essere in vacanza, non è così. Lontano dai grandi centri turistici all inclusive e dalla riviera maya, il paese non smette di protestare e di mostrare al mondo la sua vera faccia. Quella degli oltre 130 mila morti in 8 anni e della guerra alle droghe e ai narcos che s’è trasformata in una specie di guerra civile sanguinaria e in un conflitto contro la stessa società. Quella dei 27 mila desaparecidos che ormai superano le cifre delle sparizioni forzate dell’ultima dittatura argentina. Si moltiplicano e continuano le iniziative per i 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, un caso che ha fatto e continua a fare il giro del mondo per la sua crudeltà ed efferatezza, rese ancor più drammatiche dalla certezza che si tratti di un crimine di stato e non di un conflitto tra bande o un problema “politico” di indole locale e circoscritta.

Dall’inizio di ottobre gli eserciti guerriglieri dello stato messicano del Guerrero, in primo luogo l’EPR e l’ERPI, hanno emesso più di dieci comunicati che denunciano le implicazioni dell’esercito nella sparizione dei 43 studenti normalisti a Iguala lo scorso 26 settembre. I loro appelli sono passati quasi inosservati, anche se nelle scorse settimane sono state numerose le dichiarazioni dei genitori degli studenti e dei membri della UPOEG (Unione Popoli Originari Stato del Guerrero), di cui fanno parte anche alcuni familiari dei normalisti, che hanno indicato i militari, specialmente nel 27esimo battaglione che si trova a solo un chilometro e mezzo da dove sono stati sequestrati i ragazzi della scuola di Ayotzinapa, come possibili responsabili. In uno striscione o narcomanta, un metodo di comunicazione sui generis usato dai narcos o da altri ignoti “interlocutori” per mandare messaggi al governo, ai gruppi rivali o all’opinione pubblica, il 31 di ottobre erano stati denunciati due ufficiali di quel battaglione: si facevano addirittura i nomi del tenente Barbosa e del capitano Crespo. Firmato: il capo Gil, del cartello dei Guerreros Unidos.

All’inizio di dicembre i genitori dei ragazzi di Ayotzinapa hanno chiesto esplicitamente alle autorità e alla Procura Generale della Repubblica di investigare la presunta partecipazione delle forze armate nella strage e nella sparizione dei 43 ragazzi, il che significa rastrellare le caserme in cerca di prove e rompere il muro d’inaccessibilità e protezione di cui da sempre godono i militari, soprattutto nel Guerrero. Storicamente, infatti, hanno rappresentato “il potere forte” nelle regioni in cui operavano e operano i gruppi guerriglieri e sono stati i fautori e gli autori della politica repressiva della guerra sucia, la guerra sporca, che consisteva nella sistematica desaparicion degli avversari politici, nell’intimidazione delle basi d’appoggio e delle comunità indigene e contadine, nel controllo e occupazione militare dei territori e nella copertura delle autorità locali, come le polizie municipali e statali, che potevano agire indisturbate contro la popolazione. Questa situazione pare non essere cambiata anche se la guerra fredda è finita da un pezzo.

Frasi del ministro della marina

Ayutla protesta vs ejercitoIl ministro della Marina messicana, Vidal Francisco Soberón, ha pronunciato una serie di frasi in difesa del governo e, allo stesso tempo, ha contribuito a sviare l’attenzione e a criminalizzare la protesta sociale: “Mi fa arrabbiare ancora di più che manipolino i genitori delle vittime, cioè che manipolino quelle persone, perché è questo ciò che stanno facendo, li stanno manipolando anche per non fargli riconoscere il governo o per continuare a far crescere questa cosa [le proteste]. E mi viene più rabbia pensando che questa gente che manipola i genitori non è interessata a loro, né ai ragazzi, non gli interessa, gli importa solamente di raggiungere i propri obiettivi, del gruppo o del partito”. Le dichiarazioni rilasciate in novembre dal presidente Peña, che ha parlato di “tentativi di destabilizzazione”, ricordando i discorsi del repressore Diaz Ordaz nel 1968, erano in assonanza perfetta con le frasi del ministro.

“Credo che sia perfettamente chiaro: sì ci sono dei gruppi e, nello specifico, gruppi e persone che sono quelli che si fanno vedere sempre affianco a loro, credo che non c’è bisogno di dirti esattamente chi sono, li vediamo in TV e c’è il loro nome lì, e questo gruppo che sta dappertutto, chiudendo strade e tutto il resto, cerca un altro tipo di cose, no? E sui partiti, non ho fatto riferimento a nessun partito…”, ha precisato Vidal, sostenendo l’idea, comune e per niente nuova, spesso usata per screditare i movimenti sociali, che coloro che protestano lo fanno sotto il controllo o la manipolazione di qualcun altro che utilizza il loro dolore per altri fini. Ecco un’altra maniera di distrarre l’attenzione dal problema: anche se decine di persone sono finite in prigione, in attesa di un processo, non ci sono ancora dei responsabili certi per la strage di Iguala e le desapariciones, e soprattutto le versioni della procura tendono a deviare l’attenzione e lo sguardo dei media dalla ricerca di altre piste, di altre possibili spiegazioni, che possono coinvolgere appieno i militari, la polizia federale e altri livello di governo che la procura cerca di proteggere.

Una delle madri ha risposto al ministro. “E’ una persona insensibile, generale di alto rango che ci si deve prendere cura di noi e ora ci sta chiedendo di dimenticare il caso. A questa persona non augurerei mai di avere un figlio desaparecido, mai, nemmeno per un minuto o un secondo, perché in quel caso saprà cosa si sente, qui nessuno è manipolato, io non avrò pace finché non rivedrò i miei due ragazzi a casa loro, insieme al loro cugino, dato che tutti e tre sono spariti, tutti e tre volevano studiate e i tre sono entrati a scuola insieme. L’unica cosa che ci sta manipolando è la sete di giustizia, il dolore”. La donna ha anche chiesto con forza che sia indagato il 27esimo battaglione che “non ha fatto niente dopo gli attacchi e nemmeno hanno aiutato a cercarli dopo la loro scomparsa”. Murillo Karam aveva detto “meno male che l’esercito non è intervenuto quella notte perché lo avrebbe fatto dal lato della polizia” e ora risulta che forse è intervenuto, e proprio dal lato della polizia.

Desaparecidos MEXICO infograficaSeñor Matanza

In molte occasioni le forze armate hanno operato come agente antinsurrezionale con la “scusa” della lotta contro il comunismo o, attualmente, contro le droghe e i narcos. Basta ricordare la mattanza di contadini e presunti guerriglieri condotta dall’esercito a El Charco nel 1998, quando Angel Aguirre, governatore del Guerrero che si è da poco dimesso in seguito ai fatti di Iguala, esercitava come governatore ad interim. E’ un dato di fatto che la militarizzazione promossa dall’ex presidente Felipe Calderón (2006-2012) e mantenuta da Peña ha accresciuto il protagonismo, il potere, le risorse e le competenze d’azione della marina e dell’esercito e ha peggiorato la di per sé precaria situazione dei diritti umani nel paese, come lo dimostrano i casi emblematici di Ernestina Ascencio, anziana indigena della città di Zongolica, probabilmente violentata e uccisa nel 2007 da un gruppo di soldati di cui non sono state chiarite le responsabilità, e di Tlatlaya, località nei dintorni di Città del Messico in cui il 30 giugno 2014 i militari hanno ammazzato 22 persone.

Di fatto, proprio nel Guerrero, il caso dell’attivista Rosendo Radilla Pacheco, arrestato il 25 agosto 1974 e “desaparecido” dopo essere stato condotto nella caserma di Atoyac, fu la causa della prima storica condanna della Corte Interamericana dei Diritti Umani contro lo stato messicano nel 2009. Il 28 novembre, in un’intervista alla rivista Variopinto (Link), iel Generale José Francisco Gallardo ha parlato di manovre dell’esercito e del suo coinvolgimento nella sparizione dei 43 normalisti, visto che “tutto questo show – prendere il sindaco, trovare un colpevole unico – è per non far puntare lo sguardo sull’esercito”, ha spiegato. E ha denunciato anche la crescente militarizzazione, in termini di formazione e azioni, dei corpi di polizia, tanto locali come statali e federali.

desaparecidos Mexico infografica 2 por presidenteNel sondaggio condotto recentemente dall’ex direttore del CISEN (Centro d’Investigazioni e Sicurezza Nazionale) Guillermo Valdés, il 25% degli intervistati attribuiscono la responsabilità della mattanza e per i desaparecidos di Iguala all’esercito ma anche a individui (ex governatore Aguirre, il presidente Peña, l’ex sindaco di Iguala Abarca e sua moglie Maria Pineda), a partiti politici (in primis il PRD, di centrosinistra, ma anche gli altri), al crimine organizzato (Guerreros Unidos) e alle forze di polizia. Questo mostra che l’idea di una collusione a più livelli tra varie istituzioni ha fatto breccia nella popolazione. Già nel 2011 HRW (Human Rights Watch) denunció la desaparición di sei persone in un club notturno di Iguala, alle 22:30 del primo marzo 2010: nonostante le registrazioni e le testimonianze dirette che accusavano l’esercito le ricerche della procura durarono poco e il caso passò nelle mani dei tribunali militari che lo insabbiarono.

Controllo sociale, protezione dell’economia e gli investimenti

Un paio di settimane fa Obama ha dichiarato di voler aiutare il Messico a portare a termine le ricerche sul caso Ayotzinapa. Il business della guerra è uno dei più redditizi per il “gran vicino” statunitense come lo dimostra l’implementazione del Plan Merida e l’introduzione in massa di armi in Messico, in modo lecito e non. Non c’è dubbio che tra i vari beneficiari della situazione attuale di guerra di bassa intensità e stato d’assedio in molte zone, dal Michoacan al Tamaulipas, al Chiapas e al Guerrero, ci siano anche i settori castrensi e non importa molto se le operazioni di controllo sociale si devono giustificare come operazioni contro il narcotraffico o presentare come piani di sicurezza per la protezione del turismo e dell’infrastruttura economica. L’importante è garantire la “pace” alle multinazionali minerarie. Di fatto, dopo l’estate, il presidente aveva annunciato proprio la creazione della gendarmeria nazionale per svolgere queste funzioni, per proteggere gli investimenti e i trasporti. L’idea lanciata in dicembre dal presidente per cui si dovrebbe creare un corridoio di sviluppo e delle zone economiche speciali per far crescere il Sud del Messico è piuttosto vecchia e riprende il Piano Puebla Panama dell’epoca di Vicente Fox (2000-2006), limitandolo solo al Messico meridionale, ora “protetto” da migliaia di poliziotti, gendarmi e militari. In questo contesto di conflitto sociale e per le risorse la presenza militare acquista nuove ragioni per essere rinforzata.

Il parlamento unito, tranne il PRD, ha approvato modifiche alla costituzione per permettere agli stati di legiferare sulla “libertà di movimento” delle persone per garantire questo diritto, il che significa che, sottilmente, i parlamentari stanno autorizzando azioni repressive delle polizie locali, statali e federale e dei governi degli stati e dei comuni contro chi scende in piazza a manifestare e, così facendo, impedisce a terzi di godere del “diritto alla libera circolazione”. E’ una violazione palese della libertà d’espressione e di altri articoli della stesa costituzione messicana, ma poco importa. Il segnale è chiaro.

pedregal santo domingo ayotzinapaRepressioni e manifestazioni

Il governatore di Sinaloa, Mario Lopez, l’ha chiarito senza mezzi in termini in una scellerata dichiarazione in cui ha minacciato di far arrestare chiunque protesti per strade. Ma non c’è bisogno di manifestare per essere aggrediti, basta anche solo organizzare un concerto. E’ successo nella capitale del Guerrero, Chilpancingo, lo scorso 14 dicembre, alle cinque del mattino, quando militanti e cittadini si apprestavano a montare un palco per un concerto in favore dei genitori e del movimento per Ayotzinapa nella piazza centrale e sono stati attaccati da un gruppo di federali ubriachi. Un giornalista di Radio Regeneracion è finito all’ospedale e rischia di perdere un braccio. Il saldo è di 11 feriti, due gravi, e il concerto è stato sospeso. Nonostante la repressione, le iniziative continuano in tutto il mondo e in Messico. Il 17 dicembre c’è stata una spettacolare camminata, organizzata dagli abitanti della zona e dal collettivo dei Pedregales de Santa Domingo, nel quartiere popolare noto anche come SantOcho o Sant8, nella periferia sud della capitale. Qualche migliaio di persone ha percorso le strade del barrio chiedendo la “restituzione in vita” degli studenti. Il corteo s’è ingrandito via via che si faceva sera e i lavoratori del rione tornavano a casa. Al comizio finale hanno parlato alcuni genitori degli studenti e rappresentanti della società civile del quartiere: il parroco, i commercianti, gli studenti della UNAM (Univ. Nacional Autonoma de Mexico) e i membri dei comitati dei Pedregales.

Ad ogni modo, così come l’ha espresso l’avvocato dei genitori di Ayotzinapa, Vidulfo Rosales, la paura dei movimenti sociali e, in generale, delle organizzazioni della società civile e per la difesa dei diritti umani è che, una volta che si saranno spenti i riflettori sul caso Ayotzinapa, non solo tutto torni come prima, ma che l’attacco governativo, mediatico e poliziesco contro chi protesta e manifesta diventi sempre più dura, esplicita e decisa, coi soliti metodi delle desapariciones forzadas e della fabbricazione di colpevoli. Per ora sono stati sventati o denunciati vari casi di abusi della polizia nei cortei e, in generale, contro gli attivisti e gli universitari, ma è da vedere se la “resistenza” potrà continuare efficacemente. Le vacanze di Natale, in questo senso, sono un toccasana per il governo che riesce a respirare e a distrarre l’attenzione soprattutto della classe media, proprio in un periodo in cui il movimento studentesco è più debole per la chiusura delle scuole a tutti i livelli. Intanto la capitale del Guerrero e Acapulco sono state invase da 2000 e 1500 poliziotti federali rispettivamente per “garantire sicurezza” ai turisti, secondo la versione ufficiale. In realtà si tratta d’indebolire la forte risposta sociale per la mattanza di Iguala e il sostegno crescente che i genitori di Ayotzinapa e il movimento stanno acquisendo all’estero.

Ombre e nuove rivelazioni

WP_20141217_048Oltre ai vari dubbi sollevati sulla versione ufficiale della notte di Iguala del procuratore, Jesus Murillo Karam, ci sono anche due reportage, dei giornalisti Anabel Hernandez e Steven Fisher sul settimanale Proceso, che propongono altre piste credibili. In sintesi i due reporter mostrano e intrecciano prove, nuove testimonianze, foto, video e dichiarazioni registrate dalla stessa procura secondo le quali si evidenziano le responsabilità della polizia federale, che avrebbe addirittura partecipato direttamente, e persino dell’esercito nella strage degli studenti, negli attacchi subiti per oltre tre ore nella notte del 26 e nella sparizione di 43 di loro. Inoltre Proceso denuncia le torture, risultanti da atti della procura e da dichiarazioni degli imputati, sofferte dai detenuti, accusati di aver ucciso i 43 studenti e di appartenere al cartello dei Guerreros Unidos, arrestati in ottobre e novembre, il che ne inficerebbe la credibilità e attendibilità come testimoni o presunti colpevoli. Infine Hernandez e Fisher denunciano il fatto che il procuratore non abbia ancora aperto delle indagini sulle forze armate e sul 27esimo battaglione a Iguala e che si difenda coprendo le responsabilità di esercito e federali per sostenere l’ipotesi che si tratti di un “caso locale”, circoscritto.

C’erano molte perplessità sulla storia ufficiale già prima della pubblicazione dei due reportage (il 21 e 14 dicembre): le piogge che sarebbero cadute su Iguala nella notte del 26 fanno pensare che sia stato impossibile brucare 43 corpi in quelle condizioni; ci sono segnalazioni di incendi in zone vicine ma non nella discarica di Cocula, dove i presunti narcos e il procuratore Murillo dicono che sarebbero stati cremati i ragazzi; l’atteggiamento ostile dei soldati nella notte del 26, raccontato dai sopravvissuti, e il loro non-intervento per evitare quanto stava accadendo; stesso discorso per la polizia federale, che seguiva le mosse degli studenti già dal pomeriggio ed era informata via radio degli spostamenti dei bus su cui viaggiavano; e infine la dichiarazione dei periti forensi argentini che hanno confermato l’identificazione dei resti di Alexander Mora, uno degli studenti scomparsi, che è arrivata un paio di settimane fa da un laboratorio a Innsbruck, ma hanno anche  sollevato dubbi perché non è stato possibile certificare come e quando esattamente le borse coi resti calcinati e le ceneri sono state ritrovate. Si sospetta che siano stati gli uomini della procura a portare le borse e i resti a Cocula, prelevandoli da un altro luogo sconosciuto.

L’11 dicembre alcuni esperti della Universidad Nacional Autonoma de Mexico e della Univ. Autonoma Metropolitana (UAM) hanno smentito la versione della procura sostenendo che “è impossibile che i corpi siano stati bruciati a Cocula e l’autorità adesso he dei guai seri perché se non son stati bruciati a Cocula, allora dove? E chi è stato?”, ha spiegato Jorge Montemayor, ricercatore dell’Istituto di Fisica della UNAM. Secondo gli studiosi per incenerire 43 corpi, ci vogliono 33 tonnellate di tronchi da quattro pollici di diametro, equivalenti a due camion pieni di legname e 53 kg di gas per ogni corpo. Se, come sostengono i narcos rei confessi e la procura, il rogo è stato alimentato con delle gomme, secondo gli scienziati delle università ci sarebbero volute 995 gomme di automobili per farlo, per cui stimano che l’ipotesi ufficiale non “ha nessuna base nei fatti fisici o chimici naturali”. Nel mese di luglio 2013 il portale dello stato del Guerrero ha riportato la sparizione forzata di 17 studenti a Cocula e, secondo alcuni testimoni, c’è stato il coinvolgimento diretto della polizia municipale. Anche in questo caso l’esercito non è intervenuto.

WP_20141217_014Il 22 dicembre il National Security Archive degli Stati Uniti ha reso pubblici dei documenti della procura messicana secondo i quali almeno 17 poliziotti sarebbero stati coinvolti in una delle peggiori mattanze degli ultimi anni, quella di 193 migranti centroamericani a San Fernando, nello stato orientale del Tamaulipas, avvenuta probabilmente nel marzo 2011. Già nell’agosto 2010 altri 72 migranti furono uccisi nella stessa località, in quella che è tristemente nota come la “prima” mattanza di San Fernando. In entrambi i casi la colpa della strage venne attribuita ai membri del cartello degli Zetas, i narcos che dominano le regioni centro-orientali del paese e la zona del Golfo del Messico. Oggi la versione ufficiale viene messa in discussione ed emergono indizi sul coinvolgimento della polizia, come a Iguala il settembre scorso.

Tutto ciò apre spazi per interpretazioni diverse che non possono escludere, come fa la procura, il coinvolgimento di altri attori nella mattanza, tra cui anche il battaglione 27 dell’esercito che per anni ha operato come se niente fosse in una zona piena di cadaveri, fosse clandestine, coltivatori di oppio e marijuana e narcotrafficanti in guerra. “Ricordate che durante la guerra sporca se c’era qualcuno specializzato a far sparire le persone, era proprio l’esercito”, ha detto Omar Garcia, studente della normale di Ayotzinapa e rappresentante del comitato degli studenti della scuola. Indizi e denunce per aprire indagini sull’esercito e la polizia federale ce ne sono, ma nulla si muove e Murillo dice che sarebbe assurdo procedere.

Francisco Javier García, sindaco di Chilapa, Guerrero, ha dichiarato due settimane fa che malgrado la forte presenza delle forze federali, il crimine organizzato continuano ad agire indisturbato nel territorio del comune, all’ombra dell’esercito. Ed è solo un altro esempio, recente. Anche il sindaco di Iguala, Abarca, era un “esempio” di connivenza istituzionale con la criminalità e non è stato fermato. Nemmeno sua moglie, già segnalata alle autorità e sorella di vari narcotrafficanti, è stata fermata in anticipo. Erano invece amici dei comandanti del distretto militare e del 27esimo battaglione che partecipavano a tanti loro eventi.

Dal Chiapas zapatista: Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni

In questo dicembre, per le “vacanze” di Natale, l’ombra di Ayotzinapa aleggerà sulla classe politica e dirigente messicana, in attesa di capire se nel 2015 si privilegeranno le soluzioni fast track autoritarie con “mano dura” e i beceri tentativi di chiudere il caso e superarlo rapidamente, come successo finora, o le opzioni di riforma profonda del sistema e di cambiamento che propongono la società, raccolta intorno ai familiari delle vittime, e i movimenti. Dal Chiapas gli zapatisti e il CNI (Consiglio Nazionale Indigeno) hanno organizzato il primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo e hanno deciso di cedere ai genitori di Ayotzinapa i loro spazi durante l’evento che è itinerante e dura dal 20 dicembre al 3 gennaio. Le carovane sono già partite e la lucha sigue. Il 31 dicembre e 1 gennaio l’evento sarà nel caracol di Oventik e poi a San Cristobal de las Casas per la chiusura. Ecco la video-notizia dell’inaugurazione del Festival nei dintorni di Città del Messico.

Reportage precedenti su Ayotzinapa:

  1. La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica
  2. Il Messico e Ayotzinapa gridano: 43 con vida ya!
  3. Benvenuti in Messico: desaparecidos e morti di #Ayotzinapa #Fueelestado
  4. Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa
  5. Identificati in Messico i resti di uno studente di #Ayotzinapa, proteste #1DMX #6DMX #Yamecanse2
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Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa https://www.carmillaonline.com/2014/11/26/due-mesi-dopo-la-strage-le-vene-aperte-del-messico-e-ayotzinapa/ Tue, 25 Nov 2014 23:00:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19056 di Fabrizio Lorusso

Zocalo fiammeDove vanno i desaparecidos? Cerca nell’acqua e nella boscaglia. E perché spariscono? Perché non tutti siamo uguali. E quando torna il desaparecido? Ogni volta che lo porta il pensiero. Come gli si parla al desaparecido? Con l’emozione stringendo il nodo dentro. Dalla canzone “Desaparecidos” di Rubén Blades

“Sembra esistere l’intenzione di destabilizzare il paese e attentare contro il progetto di nazione”, Enrique Peña Nieto, 18 novembre 2014.

“Forze oscure desiderano destabilizzare la nazione”, Gustavo Diaz Ordaz, agosto 1968.

Il presidente messicano Díaz Ordaz [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Zocalo fiammeDove vanno i desaparecidos?
Cerca nell’acqua e nella boscaglia.
E perché spariscono?
Perché non tutti siamo uguali.
E quando torna il desaparecido?
Ogni volta che lo porta il pensiero.
Come gli si parla al desaparecido?
Con l’emozione stringendo il nodo dentro.
Dalla canzone “Desaparecidos” di Rubén Blades

“Sembra esistere l’intenzione di destabilizzare il paese e attentare contro il progetto di nazione”, Enrique Peña Nieto, 18 novembre 2014.

“Forze oscure desiderano destabilizzare la nazione”, Gustavo Diaz Ordaz, agosto 1968.

Il presidente messicano Díaz Ordaz pronunciò queste parole a poche settimane dal massacro della Plaza de las Tres Culturas, Tlatelolco, del 2 ottobre in cui oltre 300 studenti furono assassinati dall’esercito dopo un comizio. Era un messaggio chiaro, minaccioso, contro i manifestanti, le proteste e ogni forma di critica al governo e allo stato. Proprio come succede oggi.

Due mesi dopo

68 mon a la revolucion26 settembre, 26 novembre 2014. Sono passati due mesi dalla strage degli studenti della scuola normale di Ayotzinapa a Iguala, nello stato messicano del Guerrero. Responsabili ufficialmente non ce ne sono. Quest’anno in Messico le tradizionali cerimonie del 20 novembre per ricordare l’inizio della Revolucion del 1910 si sono svolte in un campo militare mentre decine di migliaia di manifestanti scendevano nelle strade per chiedere giustizia e il ritrovamento “in vita” degli studenti della scuola normale di Ayotzinapa, scomparsi lo scorso 26 di settembre. Ma in questa IV Giornata di Azione Globale per Ayotzinapa non solo “Giustizia!”, non solo “Vivi li han portati via, vivi li vogliamo!” hanno gridato le piazze, ma anche “¡Fuera Peña!” e “Governo assassino”. E il Messico s’infiamma, brucia un enorme pupazzo del presidente nel mezzo dell’enorme piazza centrale, lo zocalo, ed è una pira sacrificale con le fattezze di Peña. L’allegria per l’oceanica manifestazione, la partecipazione, la nuova gran comunità che si sta creando in Messico, si fonde con la rabbia e la tristezza. I familiari dei 43 studenti chiamano a mantenere vivi il movimento e la protesta.

I fatti secondo il procuratore che dice “#YaMeCanse” (mi son stancato) e l’ombra dell’esercito

La notte del 26 settembre tre studenti sono stati uccisi dalla polizia locale. Quel giorno gli alunni normalisti si trovavano a Iguala per raccogliere fondi e poter partecipare al corteo del 2 ottobre a Città del Messico, che si tiene ogni anno per ricordare la strage di studenti di piazza Tlatelolco nel ’68. Un filo rosso di repressione e sangue lega quindi le due stragi. “Crimine di stato”, si legge su striscioni e manifesti per le strade del Messico. Altre tre persone che si trovavano per caso nel luogo della sparatoria sono state ammazzate. Infine altri 43 studenti sono stati sequestrati dagli agenti di Iguala, aiutati da quelli della vicina città di Colula, e poi, secondo le testimonianze dei detenuti per il caso, sono stati consegnati ai membri del cartello della droga dei Guerreros Unidos, collusi con le forze dell’ordine e agli ordini del sindaco di Iguala, José Luis Abarca. I narcos li avrebbero bruciati per 15 ore, disperdendone poi i resti in un fiumiciattolo e nella discarica della spazzatura di Cocula.

ayotzinapa marchaIl 7 novembre il procuratore della Repubblica, Jesús Murillo, ha riferito questa versione, cercando di chiudere il caso, ma, in mancanza di prove scientifiche per sostenerla, non ha potuto dichiarare “morti” gli studenti che restano, quindi, desaparecidos. I resti trovati nel luogo del rogo indicato dai narcos sono in Austria per uno studio del DNA che dovrà confermare o smentire il procuratore. Alla fine della conferenza stampa, irritato dall’insistenza dei giornalisti, il procuratore ha pronunciato la frase “Ya me cansé” (“ormai sono stanco”) che è diventata virale su Twitter ed è ora il tormentone nelle proteste. La società è stanca di menzogne e giustificazioni. Le dimissioni del governatore, l’arresto di Abarca, della moglie e di una sessantina tra narcos e poliziotti e la recente cattura del capo della polizia di Cocula, César Nava, accusato anche lui della sparizione degli studenti, non bastano e non possono di certo emendare una situazione di marciume strutturale.

Le versioni ufficiali e i polveroni sollevati alla fine di ogni conferenza stampa o dopo ogni rivelazione fatta da qualche detenuto o da presunti testimoni oculari e persone della zona potrebbero costituire un enorme specchio per le allodole che aiuterebbe a nascondere altre piste possibili, per esempio quella che punta verso il 27esimo battaglione d’infanteria dell’esercito a Iguala come possibile responsabile. Non è un’ipotesi scellerata. Nel 2011 HRW (Human Rights Watch) aveva denunciato la sparizione di 6 persone in un club notturno di Iguala, avvenuta alle 22:30 del 1 marzo 2010, filmata da una videocamera e infine confermata da alcuni testimoni che descrivono i sequestratori, e le persone al loro seguito, come appartenenti alle forze armate per i loro veicoli e le uniformi. I PM indagarono, ma rimisero il caso alla giurisdizione militare che nei 18 mesi successivi non accusò nessuno del crimine. HRW conclude che ci sono prove che suggeriscono decisamente il coinvolgimento dell’esercito. I sei desaparecidos non sono più tornati a casa.

La IV Giornata di Azione Globale per Ayotzinapa e gli arresti arbitrari

“E’ stato lo Stato”, “Vivi li han portati via, vivi li vogliamo” sono gli slogan che da due mesi rimbalzano sui social e in tutte le manifestazioni. Il pomeriggio del 20 novembre migliaia di persone in 150 città hanno espresso la loro solidarietà ai familiari dei ragazzi e al Messico intero, immerso in una spirale di violenza che ha fatto oltre 100mila morti e 27mila desaparecidos in 8 anni. Nella capitale messicana oltre 150mila persone hanno sfilato nel centro per cinque ore. I genitori dei 43 desaparecidos sono arrivati nella capitale dopo aver percorso in tre carovane diversi stati del Messico durante una settimana. E tre erano anche i cortei previsti: uno di professori e studenti, in partenza da Tlatelolco, una marcia dei sindacati, con concentrazione al Monumento a la Revolucion, e infine il più grande, quello della società civile e i collettivi che partiva dall’Angel de la Independencia. “Non abbiamo paura, protestiamo anche per l’impunità, la corruzione, i femminicidi, non solo per Ayotzinapa, è ora di muovere il Messico, ma non come dice il presidente”, spiega Mario, padre di famiglia che marcia con suo figlio in braccio.

68 unaDopo il passaggio dei cortei, pacifici e variopinti, e il comizio dei genitori di Ayotzinapa, la polizia ha sgomberato violentemente la piazza, piena di famiglie e dimostranti che si stavano ritirando. L’operazione è arrivata in risposta a un gruppo di circa 50 manifestanti dal volto coperto, che cercavano di forzare le transenne intorno al Palazzo Nazionale e lanciavano molotov e petardi, però s’è diretta disordinatamente contro la folla, facendo un saldo di decine di feriti e 15 arresti, tra cui alcuni giornalisti e studenti. “L’azione della polizia ha mostrato che non hanno dati d’intelligence, né preparazione per definire che azione realizzeranno”, ha spiegato in un’intervista Maria Idalia Gómez, una giornalista ferita negli scontri.

Quattro detenuti sono stati rilasciati nelle prime 24 ore. Invece a 11 prigionieri non solo è stato confermato il fermo, ma sono stati anche attribuiti capi d’accusa gravissimi e surreali – associazione a delinquere, tentato omicidio e sommossa – per cui sono stati rinchiusi in prigioni di massima sicurezza come fossero pericolosi boss. Le tre ragazze accusate dal pubblico ministero sono state mandate a Veracruz, gli otto ragazzi nel settentrionale stato di Nayarit.

Tra di loro anche un cileno, Laurence Maxwell, studente del dottorato in lettere della Universidad Nacional Autonoma de México, che, arrivato in sella alla sua bici per presenziare alla manifestazione, è stato catturato senza motivo in una piazza invasa da fumogeni e celerini. Il ministro degli esteri cileno ha espresso la sua preoccupazione immediatamente e sta circolando un appello per la sua liberazione (in italiano qui). Il ministro degli esteri messicano, José Antonio Meade, in visita in Cile per un convegno sull’Alleanza del Pacifico e il Mercosur, ha avuto una conversazione col padre di Laurence, Alberto Maxwell che, insieme al resto della famiglia, ha denunciato le irregolarità negli arresti del 20 novembre, le interferenze col dovuto processo e la mala fede da parte dell’avvocato d’ufficio, Rafael Omalaya, e, infine, ha chiesto la liberazione anche degli altri detenuti.

famiglia represion zocalo“La polizia è stata gagliarda”

Nonostante i comprovati eccessi delle forze dell’ordine e la violazione di protocolli e diritti umani a profusione, c’è ancora chi, come il responsabile della sicurezza pubblica della capitale, Jesús Rodríguez Almeida, fa i complimenti ai suoi per come hanno agito il 20. “Mi complimento con il mio personale per il lavoro svolto, per il gran coraggio, la gagliardezza, la responsabilità e soprattutto perché hanno ristabilito l’ordine pubblico, che piaccia o no”, ha dichiarato. Malmenare famiglie e innocenti è un atto da valorosi a detta del capo della polizia. Inoltre già dalla mattinata del 20 giravano fotografie di presunti infiltrati della polizia o delle forze armate (esercito? marina?), seduti all’interno di una camionetta. Questi soggetti, più tardi, sono stati immortalati mentre compievano alcuni degli “atti vandalici” che le autorità hanno condannato.

Dal canto suo anche la Commissione dei Diritti Umani di Città del Messico s’era complimentata con la polizia per come ha operato nella riapertura delle strade bloccate dai manifestanti. Questo è l’ambiente in cui si sviluppano le proteste, impuzzolito e falsificato da buona parte dei mass media (vedi quotidiano Milenio) che aspettano la repressione per accaparrarsi fette maggiori di share, elogiare forze dell’ordine allo sbando o aprire con titoli celebrativi e tendenziosi. E intanto i poliziotti possono picchiare impunemente le donne in manifestazione gridando loro: “Fottute puttane perché siete venute a manifestare!”. Ecco i diritti umani in Messico, la costante e volontaria violazione della fosca frontiera tra delinquenza e legalità che annichila lo stato di diritto e la dignità umana.

Forse per spegnere un po’ l’incendio e la crisi politica, il ministro degli Interni, Miguel Ángel Osorio Chong, ha anticipato le prossime mosse del presidente, che annuncerà “misure importanti” in tema di giustizia e stato di diritto che coinvolgeranno la società civile e i tre poteri dello stato per “modificare completamente questo scenario in cui c’è una debolezza dello stato messicano”. Il ministro non ha fornito ulteriori dettagli al riguardo.

tlatelolcoIl presidente del Senato, Miguel Barbosa (del PRD, Partido Revolucion Democratica), ha precisato qualcosa, parlando di una Commissione di Stato per elaborare proposte di riforma e affrontare i problemi della violenza e la sicurezza di cui dovrebbero far parte varie personalità della società civile dalla traiettoria e “qualità morali” riconosciute. L’idea è quella di “creare centri di comando unificati affinché i corpi di polizia locale siano controllati da quelli della polizia statale e questa, a sua volta, da quella federale”. Centralizzare per provare a evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata. Per ora ci sono soltanto un po’ di suspense e molta incertezza, come in una telenovela a basso costo che serve a sviare l’attenzione.

Il movimento in crescita

Rispetto alle precedenti mobilitazioni è cresciuta la partecipazione non solo dei sindacati, dei lavoratori e degli studenti, uniti nell’Assemblea Interuniversitaria con 114 atenei, ma anche di collettivi di artisti e di tantissime famiglie, cittadini e associazioni che di solito non manifestano. L’asse delle proteste s’è spostato: non si chiede solo il ritrovamento degli studenti, ma anche le dimissioni del presidente e dell’Esecutivo. Prende piede anche l’idea di un movimento costituente o di rinnovamento radicale del paese. Nel breve e medio periodo, almeno, non sembra che le mobilitazioni possano fermarsi. La società civile chiede il conto a tutti i partiti e al governo, non solo alle forze dell’ordine e ai politici locali. Gli sforzi della procura e della diplomazia per far passare, tanto in Messico come all’estero, la mattanza di Iguala come un fatto isolato, locale, provocato da narcos e sindaci corrotti, quindi simile a tanti altri, sono stati vani.

ayotzinapa fue el estadoLa pressione internazionale aumenta ed è senza dubbio un fattore determinante per il successo e la legittimità di un movimento senza leader e in crescita, che coinvolge diversi strati della società e si struttura piano piano su obiettivi più ambiziosi, malgrado debba affrontare inevitabilmente seri problemi di coordinamento e di consolidamento di una massa critica.

Ayotzinapa è la punta di un iceberg che sta mettendo a nudo le menzogne delle riforme strutturali, promosse dal presidente Peña per “muovere il Messico tra i paesi che contano”, e del progetto di governo. “Non ci fermeremo, pare che alcune voci della protesta non vogliano che il paese cresca e non condividono questo progetto nazionale”, ha sostenuto Peña nei giorni precedenti alla protesta globale, parlando altresì di “movimenti di violenza che si nascondono dietro al dolore per protestare”. Una minaccia che s’è puntualmente realizzata. “Il presidente ha definito cortei e critiche come tentativi di destabilizzazione, minacciando l’uso della forza e ignorando la grave crisi dei diritti umani del Messico”, ha replicato il direttore Amnesty International-Messico, Perseo Quiroz. “La strage di Iguala non è un fatto isolato e il governo mostra poca serietà in questa situazione”, ha concluso.

Minacce, come nel ‘68

Il presidente Peña Nieto denuncia complotti e tentativi di destabilizzazione, includendo anche lo scandalo mediatico che è scoppiato sull’acquisto della sua residenza, detta “Casa Bianca”, che è probabilmente il più grave conflitto d’interessi della storia messicana recente. L’argomento del complotto e della destabilizzazione per giustificare la repressione è lo stesso del ’68, già usato da Díaz Ordaz, col sostegno dell’intera classe politica dell’epoca, dopo la gran manifestazione del 27 agosto di quell’anno. Oggi, per fortuna, non è più la maggior parte dei politici a seguire il discorso del presidente e la società civile ha altri strumenti per informarsi e ribellarsi. Il consenso sull’uso della violenza per contrastare le proteste cittadine all’interno delle élite politiche non è unitario, ma ciò non è sufficiente a evitare che la tenaglia, piano piano, si stringa sul dissenso, una volta che il caso Ayotzinapa abbia smesso di far parlare di sé, magari dopo che il governo e la procura avranno offerto un’altra “versione verosimile” dei fatti.

tlatelolco treNon lo possiamo sapere, ma Ayotzinapa e Iguala, senza dubbio, sono momenti di svolta e, affinché questa diventi irreversibile e favorisca un vero cambiamento, non esistono strade tracciate e soluzioni preconfezionate. Il movimento per la pace (MPJD) del 2011, preceduto dalle mobilitazioni contro la violenza verso i giornalisti scandite dallo slogan Basta Sangre!, e lo studentesco YoSoy132 del 2012 non sono del tutto spenti e sostengono #AyotzinapaSomosTodos. La loro esperienza e i loro insegnamenti sono preziosi, soprattutto perché sono nati anch’essi in modo spontaneo, grazie alle reti sociali, moltiplicate da una parte dei media mainstream, e all’associazione di collettivi, individui, gruppi sociali e movimenti preesistenti, e si sono organizzati in modo orizzontale, coinvolgendo ampi strati della società civile che erano inerti.

Le pressioni su Peña Nieto e sua moglie Angelica Rivera arrivano anche dal presunto conflitto d’interessi rivelato da un’inchiesta del portale Aristegui Noticias la quale rivela che sua moglie possiede una villa lussuosissima, la “Casa Blanca”, in un quartiere esclusivo della capitale, in cui vive anche il presidente, e che questa è stata costruita da un’impresa del gruppo Higa, una compagnia che ha vinto decine di appalti milionari quando Peña era governatore del Estado de México, regione limitrofa di Città del Messico, e anche ora che è a capo dell’esecutivo e decide sulle “grandi opere”. Nelle ultime due settimane le relazioni tra business e politica, soprattutto per quanto riguardo il cosiddetto “gruppo della città di Atlacomulco”, legato da anni all’amministrazione del Estado de Mexico e alle correnti del PRI e del mondo imprenditoriale che sostengono Peña, sono state messe a nudo, il che ha generato aspre critiche e perdita di fiducia nei confronti della coppia presidenziale.

enrique y angelicaOsorio Chong, ministro degli interni, ha detto il 22 novembre che la “violenza non sarà mai la strada per ottenere giustizia”. Non si capisce se stia parlando della violenza della polizia messicana o di altri apparati dello stato, sinceramente. Ma ancora più paradossali sono state le dichiarazioni del 21 del presidente: “Ci sono persone interessate a guastare la libertà e questo non lo permetteremo”. Starà parlando di se stesso o del medesimo governo? Pare proprio di sì. Per essere precisi la frase è questa: “Non lo permetteremo perché è un obbligo dello Stato messicano nel suo insieme assicurare che le manifestazioni cittadine non siano sequestrate da coloro che agiscono con la violenza e il vandalismo”, in riferimento al gruppo di una cinquantina di incappucciati che hanno lanciato petardi e molotov contro i poliziotti.

La repressione del #20NovMx

Verso le ore 21 del 20 novembre la piazza è effervescente, il corteo è stato un successo. Alla fine dei comizi iniziano a partire molotov e petardi da un gruppo circoscritto di persone, relativamente inoffensivo e minoritario rispetto alla massa ancora presente nello zocalo, sicuramente controllabile dai 500 celerini che erano schierati e che avrebbero potuto incapsularli e fermarli. Invece no, si decide di attaccare alla rinfusa tutti, di torturare, invadere e fermare i dimostranti a casaccio, come sempre più spesso accade dal primo dicembre 2012, data dell’insediamento di Peña e del “nuovo” PRI che fu segnata dalla militarizzazione della capitale e da decine di arresti. Il copione è sempre quello: manifestazione pacifica, piccolo gruppo, spesso non identificabile e fuggevole, di infiltrati, incappucciati, black bloc, anarchici (secondo le cambianti e fumose definizioni della stampa e dei portavoce ufficiali) e poi repressione violenta con aggressioni contro fotografi, reporter e difensori dei diritti umani, con decine di arresti indiscriminati che, spesso, non possono nemmeno essere confermati per mancanza di prove da parte degli inquirenti. All’arresto, inoltre, segue sempre una lunga serie di abusi e umiliazioni.

zocalo 68Sempre il 20 novembre, durante le manifestazioni e i blocchi stradali realizzati da circa 5-600 dimostranti la mattina, finiti con 16 arresti, sono stati aggrediti ben 18 giornalisti, secondo l’organizzazione per la difesa della libertà d’espressione Article19, mentre nel pomeriggio, nello zocalo, il corrispondente e fotografo cileno dell’agenzia AP, è stato arrestato, e quasi subito rilasciato non prima di vedersi rubare le attrezzature, ed è stato ferito Eduardo Molina, fotografo del settimanale Proceso e autore della foto che apre quest’articolo, diventata il simbolo della IV Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa. Molina è stato colpito da un agente che gli ha scagliato addosso un pezzo di una transenna metallica, per cui ha dovuto farsi ricoverare. Brucia il pupazzo raffigurante il presidente e brucia il Messico, di rabbia e protesta per l’inettitudine e gli inganni delle autorità. E poi arriva la vendetta, la “coreografia infernale”, come l’ha definita lo scrittore Tryno Maldonado in una terrificante e veritiera cronaca dei fatti.

“Nelle azioni della polizia, che conosco bene per aver coperto molte situazioni come questa, si nota che non hanno informazioni d’intelligence, si nota che non hanno una preparazione previa per definire qual è l’azione o operazione che realizzeranno, basta vedere come hanno agito la sera del 20 novembre”, spiegava, ancora scioccata, in un’intervista radiofonica, Maria Idalia Gómez, giornalista di Eje Central, portale informativo di stampo conservatore.

Violenza e negazione

Stava provando a raccontare cosa è successo alla fine di un’enorme e pacifica manifestazione a Città del Messico, quando una cinquantina di incappucciati e indignati hanno cominciato a muovere le transenne protettive e a lanciare petardi e molotov in direzione dei poliziotti che presidiavano il portone del Palacio Nacional, sede del potere presidenziale. C’erano ancora migliaia di persone in piazza e per le strade del centro, una parte dell’ultimo corteo, quello che arrivava dall’Angel de la Independencia, doveva ancora fare il suo ingresso nella piattaforma dello zocalo. Il piazzale era stipato di famiglie, bambini, dimostranti, cittadini, persino turisti e passanti, ma la vendetta poliziesca, perché di vendetta è giusto parlare, è arrivata comunque.

Comincia l’attacco, la farsa del mantenimento dell’ordine dove l’ordine c’era già. Azioni indiscriminate, ripetute, anche contro chi non aveva partecipato al corteo o comunque non era nel gruppo che aveva provocato i primi scontri. Un’ora di repressione pura della polizia federale e dei granaderos (corpi antisommossa di Città del Messico), attaccando le famiglie alla rinfusa, cercando di catturare gli aggressori che, però, sfuggono, strisciano via. Reati di stato, violazioni ai diritti umani, e nessuno che lo possa negare. Ciononostante c’è chi ci prova, comunque.

infiltrados22Come Juan José Gómez Camacho, ambasciatore del Messico in Belgio e presso l’Unione Europea, che il 25 novembre s’è visto costretto a dare udienza a un centinaio di messicani, belgi e cileni, accompagnati da Amnesty International e altre organizzazioni. I presenti l’hanno messo alle corde criticandolo per la sua posizione estremamente “diplomatica” di fronte all’emergenza che vive il paese (video). “Il Messico non ha fatti isolati, in 20 mesi col signor presidente ci sono più di 50mila morti…”, lo increpa una donna.

“No”, la interrompe l’ambasciatore. E lei continua: “Io so che il governo attuale sta lavorando, ma stanno ammazzando molta gente e stanno sparendo in tanti. Mi scusi, ma molti di noi sono qui perché non possiamo stare in Messico, quale sarà la posizione di un Ambasciatore che è indignato e che deve dire ‘stop’ perché in Messico ci sono atti di lesa umanità, crimini di lesa umanità?”. “Non lo condivido”, risponde secco il funzionario mentre i presenti alzano la voce stizziti. Gomez Camacho nega persino le violenze e aggressioni del 20 novembre sostenendo che la polizia ha agito per controllare la violenza. “Io non ho visto nessun incappucciato in arresto”, grida un giovane. “Non so cosa ha visto lei”, risponde il diplomatico. E il giovane ribatte: “Non ho bisogno ormai delle sue parole, ho bisogno delle sue dichiarazioni sul giornale, in cui dice che il Messico non va bene”. Clamando “Rinuncia, rinuncia”, la gente si ritira e il dialogo finisce.

Lo stato vittimizza ripetutamente e il mondo reagisce

“Dai, così vi viene voglia di ritornare”, gridavano i poliziotti mentre picchiavano uomini e donne, anziani e passanti. Scudi contro corpi, sfollagente su ossa e teste. Random. Hanno addirittura tirato sedie addosso ai commensali di alcuni ristoranti coi tavolini all’aperto. ¡Bienvenidos! Tra gas lacrimogeni, inseguimenti perversi, urla e manganellate, arresti arbitrari di cittadini e giornalisti, insulti e torture, le “forze dell’ordine” hanno mostrato la loro impotenza e hanno violentato, ancora una volta, la società e il diritto d’espressione e libera manifestazione, mostrando il vero volto del nuovo autoritarismo messicano, mascherato da riformismo paternalista e modernismo straccione. Il video dell’arresto dello studente Atzín Andrade (Video Link 20 sec) parla da solo.

MOV2 DE OCTUBRE DE 1968 INFORMACION MOVIMIENTO  ESTUDIANTIL EN TLATELOCOPaura, sorpresa, incertezza, violenza e, come è successo a tutti i 31 arrestati del 20 novembre e ai 23 di loro che sono stati trattenuti, la negazione della scelta dell’avvocato difensore e l’impossibilità di comunicare col mondo esterno per molte ore, tra le varie violazioni ai diritti umani subite. Le responsabilità di quanto accaduto deve partire dai corpi di polizia che hanno partecipato allo sgombero ma soprattutto deve arrivare fino ai loro capi.

L’importante, quindi, non è prendere gli eventuali responsabili delle violenze o i colpevoli dei reati, sempre che ne siano stati commessi per davvero, ma instillare la paura, diffondere un messaggio chiaro: se manifesti, può succedere anche te, e non ci interessa che cosa stavi facendo, il manganello colpisce tutti solo per il fatto di essere lì in quel momento. Proprio come la narco violenza che non massacra solamente i trafficanti e i sicari della criminalità organizzata, come cercano di farci credere da 8 anni a questa parte, ma può colpire tutto e tutti, in qualunque momento, su un autobus di linea o in un campeggio, fuori da un bar o in un parco, dentro alla metro o in una festa in piazza.

Ovunque, sempre, anche se non ce ne accorgiamo e se ci ripetono che i “mafiosi” si sparano solo tra di loro. Sì, e i poliziotti invece picchiano e trattengono, torturano e sequestrano solo i delinquenti, non i cittadini “decenti”. Per un po’ volevano farci credere questa favoletta anche nel caso della mattanza degli studenti Iguala. “Le vittime erano dei guerriglieri”, dicevano alcuni. “Ordine è stato fatto”, “Erano legati ai narcos rivali dei Guerreros Unidos, ai Los Rojos”, facevano eco altri, tra giornalisti venduti, pessimi rappresentanti della “legge” e politici in mala fede.

Sprad the news presos 20NLa parola “decente”, contrario di indecente o sconcio, è stata utilizzata anche nella riforma educativa, proprio nella legislazione, per descrivere il tipo di lavoro che “finalmente” potranno ottenere i maestri messicani, come se fino ad oggi fossero stati sconvenienti, immorali, e la riforma, approvata l’anno scorso dal parlamento su proposta presidenziale e contestata duramente dai sindacati dissidenti degli insegnanti, venisse a salvarli dalle loro bassezze. Perversioni del linguaggio e d’una certa classe politica. Il presidente ha sottolineato come ci sia stato un “coordinamento tra le forze federali e quelle della capitale per far rispettare la legge durante le mobilitazioni di giovedì”. Ci vuole davvero del cinismo.

Il discorso ufficiale dice una cosa, però la realtà, ritratta da migliaia di foto e video lo smentisce. Ma la TV ha un potere ancora maggiore delle reti sociali ed ecco che la repressione dello zocalo del 20 novembre deve iniziare e finire prima del telegiornale più seguito, quello delle 22.30. Così si potrà raccontare come la polizia federale e quella della capitale hanno agito per salvare la patria da alcuni facinorosi, 100 o 200mila facinorosi che, tornando a casa, non possono far altro che gridare “Governo assassino!” e “Fuori Peña!” e darsi appuntamento per il prossimo corteo o la prossima assemblea. Il foro globale per Ayotzinapa, formato all’estero da oltre 60 istituzioni e organizzazioni per aumentare la pressione internazionale, per denunciare la situazione e creare iniziative, raccolte dal blog https://ayotzinapasomostodos.wordpress.com/, sta promuovendo un appello Contro la repressione e la criminalizzazione della protesta civile in Messico. La lettera si può firmare a questo LINK.

Che cosa raccoglie un paese che semina corpi?

unam 68Il compositore di salse e ballate panamense Ruben Blades canta e si chiede: “Dove vanno i desaparecidos?”. Alcuni hanno il privilegio di finire nella memoria collettiva, pochi ricompaiono, altri restano con le loro famiglie, come ombre e ricordi della vita che avevano e che lo stato gli ha portato via. Alcuni finiscono sulle foto appese ai muri nelle stazioni della metropolitana e la maggior parte confluisce in una statistica incerta, traballante, come quelle che da un lustro rimbalzano sui media e sui siti governativi del Messico. Paese di fosse comuni, paese di bellezze naturali, deserti, oceani a est, a ovest, e coste infinite, come le piantagioni di papavero da oppio e marijuana. Territorio ricco di tradizioni, tragedie e arti senza eguali, tra i primi esportatori di auto straniere e metanfetamine. Paese di desaparecidos, 22mila, 27mila, 30 mila, nessuno lo sa. Ma si sa che sono tanti.

Come tanti sono i 43 studenti della scuola normale “Isidro Burgos” di Ayotzinapa, sequestrati dai poliziotti di Iguala e Cocula, nello stato del Guerrero, la notte del 26 settembre e consegnati, per ordine del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, a una banda di narcotrafficanti dal nome ridicolo e terribile: i Guerreros Unidos. Lo stato c’era, ma non ha agito. La polizia statale e quella federale non sono intervenute. Il 27esimo battaglione dell’esercito, di stanza nella zona, non solo non ha impedito l’uccisione di tre studenti e di altre tre persone, non solo “non ha avvertito” sparatorie e inseguimenti durati ore nella sua zona di competenza, lavandosene le mani, ma i soldati hanno addirittura vessato e maltrattato gli studenti che s’erano rifugiati in un ospedale per chiedere aiuto e soccorso. Li ha chiamati dottore dell’ospedale. Perché?

Sapeva che questi l’avrebbero fatta pagare cara ai “rivoltosi” alunni della normale? Pare proprio di sì. Li ha chiamati perché chi comanda realmente là sono loro? Forse sì. Non il sindaco, corrotto fino all’osso e colluso coi narcos al punto da utilizzarli come braccio armato per tutti i suoi lavoretti, in alleanza con la polizia locale controllata dal suo compadre Felipe Flores. Non sua moglie, sorella di quattro narcotrafficanti e connessione logica tra gli affari sporchi del marito e quelli della sua famiglia d’origine. Non l’ex governatore Aguirre, ora dimissionario ma sempre in attesa di tornare sulla scena politica grazie al sostegno indefesso dei suoi compagni di partito del PRD. O almeno non solo loro.

pri diaz ordaz peña nietoOltre alle zoppicanti versioni della procura stanno circolando altre ipotesi che attribuiscono la responsabilità dei fatti di Iguala all’esercito, come sostengono l’ex Generale Francisco Gallardo, intervistato da Federico Mastrogiovanni per la rivista Variopinto, e un comunicato del gruppo guerrigliero EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario). Entrambi denunciano come fino ad oggi l’esercito abbia condotto nella regione una sorta di guerra permanente di bassa intensità contro studenti e contadini, gruppi insorti e sindacati, che, oltre a rappresentare le voci più critiche a livello politico, s’oppongono allo sfruttamento delle risorse da parte delle multinazionali del settore minerario. A un’ora da Iguala, infatti, c’è la miniera d’oro più importante dell’America Latina e nella zona s’estraggono anche argento, piombo, ferro, rame e zinco.

Forze armate messicane, neoliberalismo e riformismo presidenziale

L’esercito mantiene la sua buona fetta di potere, ingrassato economicamente e potenziato nelle sue funzioni dalla politica di narco-guerra di Calderón (2006-2012) e mantenuto da Peña Nieto, forse impantanato tra la tentazione di ridimensionarne il budget e la presenza sul territorio e l’impossibilità concreta di farlo. Più facile ordinare alle TV amiche e al corpo consolare in tutto il mondo la propagazione di campagne mediatiche e offensive diplomatiche per nascondere i problemi endemici del paese, molto più “strutturali” del pacchetto di riforme costituzionali che sono dette, appunto “strutturali” e sono state approvato in fretta e furia nel 2013 dai partiti del Patto per il Messico, le grande intese alla messicana tra PRI, PRD e PAN (Partito Acción Nazional).

68 dueOggi la “coalizione” per le riforme è fallita, ma ha lasciato una bella eredità al Messico: riforme neoliberali e frettolose in quasi tutti i settori dell’economia e del mondo del lavoro, dall’energia all’istruzione, dalle telecomunicazioni al fisco. Mentre il debito cresce quasi come ai tempi d’oro del vecchio PRI del secolo scorso, non si prevedono le coperture per rimpiazzare la rendita petrolifera generata dalla compagnia statale PEMEX che, asfissiata dai sindacati cooptati dal governo e dal fisco che si porta via a priori i 2/3 del suo fatturato, è in caduta libera. Le entrate statali per gas e crudo verranno presto ulteriormente compromesse dall’ingresso delle multinazionali energetiche straniere, assetate di idrocarburi e forza lavoro capace, disciplinata, ricattabile e iper-flessibile. L’Europa pare seguire il “modello socio-economico messicano” e il Messico lo radicalizza per dare il buon esempio e farsi bello dinnanzi agli investitori europei, cinesi, americani e giapponesi.

Di fronte alla ritirata dello stato e del welfare e all’avanzata del fondamentalismo di mercato, dell’insicurezza fisica, della disuguaglianza economica e dell’incertezza sociale, una risposta logica e spietata sembra essere l’uso delle forze armate come strumento di contenzione, offesa, controllo e stabilizzazione. Ad ogni modo non è un segreto che i militari restino il pilastro della strategia di sicurezza attuale, anche se, fino a poco tempo fa e per un paio d’anni, non se n’è parlato. Ayotzinapa rappresenta in questo senso un doloroso ma formidabile spartiacque, la rottura dei sogni di gloria del dinosauro PRI (Partido Revolucionario Institucional), tornato al potere dopo 12 anni di digiuno.

firme ayotzinapaIn genere le milizie, per continuare a essere determinanti, hanno bisogno delle emergenze e del conflitto, sia esso, nel contesto messicano, tra narco-cartelli o tra diversi livelli di governo (locale, statale e federale), ovvero tra gli apparati dello stato e i trafficanti, se non tra il proprio paese e altri stati. E hanno la necessità di mantenere alto il livello di scontro, inteso anche come guerra di bassa intensità e conflitto sociale, condotti contro i gruppi dissidenti come gli studenti e i maestri delle normali o i sindacati non cooptati dal governo e i campesinos, per proseguire nella gestione di affari e territori, di carriere interne ed equilibri politici locali e, perché no, nazionali. Occorre giustificare ad libitum la propria esistenza e l’aumento delle proprie competenze e risorse. Non tutti la pensano così negli ambienti castrensi, tant’è che nelle elezioni presidenziali del 2012 esistevano settori delle forze armate che sostenevano il candidato di centro-sinistra Andrés Manuel López Obrador perché aveva promesso il ritorno dei militari nelle caserme e la fine della narco-guerra militarizzata.

Guerrero guerrigliero e tradizioni stragiste

A parte le diverse “correnti di pensiero”, c’è anche da considerare che la situazione del Guerrero è peculiare: tra gli stati più poveri della repubblica messicana, è da decenni focolaio di insurrezioni armati e guerrigliere, polizie comunitarie e dissidenze sociali combattive e radicali che hanno nell’esercito il principale nemico, insieme ai governatori di turno e ai vari corpi di polizia. Lo stesso Angel Aguirre, nel marzo 1996, divenne governatore sostituto del cacicco del PRI, Rubén Figueroa, dopo la strage di Aguas Blancas del 28 giugno di quell’anno, in cui 17 contadini furono ammazzati dalla polizia statale e 21 furono feriti durante un’imboscata pianificata dalle autorità e, presumibilmente, dallo stesso Figueroa. Verso la fine del suo mandato ad interim, fu a sua volta indicato come responsabile del massacro de El Charco del 13 giugno 1998, in cui un battaglione di soldati sparò e uccise 11 presunti guerriglieri disarmati. La mattanza de El Charco è stata considerata come un precedente di quanto avvenuto a Iguala due mesi fa da alcuni giornalisti.

68 centroPer capire le logiche del potere nel Guerrero, basta menzionare il fatto che a Iguala c’è un’intera zona cittadina dedicata alla moglie di Ruben Figueroa, chiamata “colonia Silvia Smutny de Figueroa”, codice postale 40010. Il padre del politico, Rubén Figueroa Figueroa, fu governatore del Guerrero tra il 1975 e il 1981, durante gli anni più duri della guerra sucia (guerra sporca) del governo contro i gruppi guerriglieri e ogni tipo di dissenso sociale. Il leggendario guerrigliero, fondatore del Partido de los Pobres, Lucio Cabañas era un maestro diplomato alla scuola normale di Ayotzinapa, ma soprattutto era un acerrimo nemico di Figueroa. Infatti, il Partido aveva rapito il politico nel maggio 1974 e poi rilasciato tre mesi dopo.

Quando Lucio venne ucciso dall’esercito il 2 dicembre di quell’anno, Figueroa, non soddisfatto, si vendicò su sua moglie Isabel. Una volta eletto governatore, fece liberare lei, sua figlia e sua suocera, che erano detenute in una caserma militare da anni. Con l’inganno indusse Isabel, solo sedicenne, ad andare nel suo ufficio e la violentò. La ragazza perse il figlio del suo aggressore, prodotto di quella violenza, in seguito a un aborto spontaneo pochi mesi dopo. Storie, antiche e odierne, di baroni, eserciti, governanti e popoli in lotta nel Messico profondo. Ne parla la giornalista Laura Castellanos,in Mexico Armado 1943-1981 (Ed. Era, Messico, 2007). Il caso Ayotzinapa ha risvegliato le cellule guerrigliere. Solo il mese scorso i quattro gruppi principali della regione – Ejército Popular Revolucionario (EPR), Ejército Revolucionario del Pueblo Insurgente (ERPI), Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), le Milicias Populares e le Fuerzas Armadas Revolucionarias-Liberación del Pueblo, hanno emesso 13 comunicati.

Calle 13 e Pepe Mujica

calle13 con papa ayotzinapaSabato 22 novembre, al Palacio de los deportes di Città del Messico c’è stato un concerto particolare. Siccome la costituzione messicana impedisce agli stranieri di realizzare attività politiche nel paese, il “Residente” René Pérez, cantante della band portoricana Calle 13, ha deciso di dare uno spazio ai familiari dei desaparecidos di Ayotzinapa. Il padre dello studente César Manuel González, ha parlato di fronte a 18mila spettatori: “Noi non siamo stanchi, abbiamo camminato e non vi immaginate quanto, ma siamo ancora più forti perché anche se ci dicono che ci sono tombe e fosse, vedrete che raschiando in questo Stato troverete migliaia di morti, non sono solo 43”. Negli ultimi giorni i genitori dei ragazzi hanno continuato a cercare, a esplorare, a scavare nei dintorni di Iguala e hanno trovate sette nuove fosse clandestine, con dentro altri cadaveri e resti da identificare, altri desaparecidos senza identità. “Tutte le cause sociali sono importanti, ma il caso di Ayotzianapa mi pare che vada oltre la politica: trascende il piano dei diritti umani, va oltre il Messico, è una cosa più grande, perché è una situazione molto forte, è una disgrazia”, ha concluso Pérez.

Il presidente uruguayano, José “Pepe” Mujica, in un’intervista per Foreign Affairs ha parlato del Messico come di “una specie di stato fallito, in cui i pubblici poteri sono totalmente fuori controllo, in marcimento”. La cancelleria messicana ha reagito esprimendo “sorpresa e rifiuto”. Mujica ha anche detto che “la parte migliore del Messico è obbligata, cada chi debba cadere, faccia male a chi debba far male, indipendentemente dalle conseguenze, a chiarire questa questione, perché a partire da questo episodio sono sorte cose collaterali, come la scoperta di tombe che non c’erano prima. Vuol dire che ci sono più morti che non sono nemmeno rivendicati. Allora la vita umana vale meno di quella di un cane”.

In chiusura segnalo un ottimo video realizzato dal Centro Universitario di Studi Cinematorgrafici (CUEC) della UNAM, Universidad Nacional Autonoma de México, per descrivere la IV Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa e la mega-marcia nella capitale messicana per protestare contro la sparizione dei 43 studenti normalisti e chiedere la renuncia del presidente Peña Nieto al grido di “¡Fue el Estado!”. 

Link Orignale Vimeo

Lettera/ Petizione per Laurence Maxwell e gli 11 detenuti politici del #20NOVMX

I reportage su Carmilla:

  1. 1. La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica
  2. Il Messico e Ayotzinapa gridano: 43 con vida ya!
  3. Benvenuti in Messico: desaparecidos e morti di #Ayotzinapa #Fueelestado
  4. Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa

Ultime narrazioni di Andrea Spotti su Radio Onda d’Urto:

  1. 1. Messico, un 20 novembre di lotta e repressione
  2. Ayotzinapa Somos Todos: IV giornata di Azione Globale

Due documentari di Vice:

Prima parte: The missing 43: Mexico’s disappeared students

Seconda Parte: The search continues: Mexico’s desappeared students

Altri Link Utili:

GlobalProject – Cronaca della IV Giornata Globale per Ayotzinapa e altri articoli

A cosa sono servite per ora le proteste: Infografica

Radiografia delle organizzazioni criminali nel Guerrero

Video dell’intervento della deputata Heinke Hänsel al parlamento tedesco su Ayotzinapa e i Messico.

Video Sgombero Zocalo di Eje Central

https://www.youtube.com/watch?v=2eEOJIkllb0

Video Sgombero by Subversiones

https://www.youtube.com/watch?v=rz3ygBi0qcc

Video IV Jornada de Acción Global Ayotzinapa 20 novembre 2014 di Subversiones

https://www.youtube.com/watch?v=xh96O6pMIC4

 guerrero ayotzinapa crac7

¿Adónde van los desaparecidos?
Busca en el agua y en los matorrales.
¿Y por qué es que se desaparecen?
Porque no todos somos iguales.
¿Y cuándo vuelve el desaparecido?
Cada vez que los trae el pensamiento.
¿Cómo se le habla al desaparecido?
Con la emoción apretando por dentro.”

Da “Desaparecidos” di Rubén Blades

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La visita. Storie e pensieri da una prigione messicana https://www.carmillaonline.com/2014/03/19/la-visita-storie-e-pensieri-da-una-prigione-messicana/ Tue, 18 Mar 2014 23:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13532 di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre che da un montaggio televisivo orchestrato dalle autorità al momento dell’arresto, F.L.].

Rompere il muro del silenzio, dal mattino. Porto abiti speciali: pantaloni marroni di tela, rigorosamente senza cintura, scarpe verdi innocenti, camicia sobria e giacca antivento, antisilenzio. Zero vivacità cromatica. Direzione Sud, Mexico City Sur, zona dominata dalle classi medie metropolitane. Le gincane e l’aria mattutina mi distraggono. Parcheggio la moto, più splendente se la lascio affianco al mio palo della luce preferito, quello sbilenco, sempre pendente. Nella città mostro più grande del mondo sono un sopravvissuto del traffico, sento che la libertà sono quest’aria e la strada, preziose anche se inquinate. Per ordini superiori, per la forza dello stato, applico la norma, svuoto le tasche e il cervello. Lo sciacquo con una meditazione forzata e repentina. Tutti gli averi, il cellulare, le chiavi, i ciondoli, gli eccedenti e gli eccessi, il buon umore e le idee, tutto quanto insomma, l’ho lasciato in custodia al padrone della trattoria di fronte, buon uomo.

“A chi fai visita da queste parti, muchacho?”, mi chiede. Uomo curioso. “A una che, pare, è proprio ben voluta da queste parti perché non la lasciano andare via, sono sette anni ormai”, rispondo. Intanto bevo avidamente il succo d’arancia che, da sempre, è puntuale. Cinque minuti prima delle dieci e sono pronto. Esco dall’ultimo minuto di tranquillità, attraverso la strada, abbandono speranze e asprezze, come il vate sulla soglia degli inferi. L’avvicinamento induce fantasie: gabbie di caramello in fusione e gendarmi di carta igienica, crollando su se stessi. Riciclati ad altri usi, più igienici, appunto.

L’ora esatta. Aprono la porta ed è giorno, s’alza il sole messicano e stridono le sbarre delle celle. Accedo all’area federale, circondato da gente davvero molto federale. E’ uno dei tristi depositi delle e dei dimenticati del paese. Sono quasi un quarto di milione, gli oblii stipati, cioè le persone respinte dalla società per “essersi comportate male”, forse.

Favorisco il mio permesso di soggiorno e l’agente uniformato ripone la mia identità in un cassetto di legno marcio. La imprigiona nella polvere, in pasto alle termiti. Gli andrà di traverso la marca da bollo plastificata, ne sono sicuro, e sorrido. Quindi sono un altro per un po’, come sono un altro al lavoro, per la strada, in famiglia o all’università. La danza dei soggetti sperduti. Abbiamo passaporti e tesserini, tanti “Io” viaggianti nella vita. A volte tentiamo di riconciliarli per farli convivere e, quando non si sopportano proprio, ci sono terapie e terapeuti che promettono miracoli per aiutarci, dicono.

Comunque qui io sono “la visita”. Gli abitanti del posto, anzi le abitanti del posto, sono invece delle liste di numeri ordinali e hanno colori diversi: le beige attendono un giudizio, le blu scontano una pena. D e f i n i t i v a m e n t e. Oggi partecipo anch’io del cosiddetto “reinserimento sociale”, fuori dalla società, in un’enclave asociale.

“Chi viene a trovare? Florence per caso?”, chiede uno sbirro. La parola Florence mi rimette in libertà, istantaneamente, mi rimanda alla città di Lorenzo de Medici o ai gigli, alla flora e ai sensi. Non alla prigione. Non glielo confesso, sto zitto. La mia voce risponde: “Sì”, e filtrano sguardi solenni. Se hai la faccia da güero, da straniero, sanno già da chi vai. Nel CeReSo femminile, il Centro de Readaptación Social del quartiere Tepepan, sono abituati al viavai di forestieri e giornalisti, c’est normal. “Cassez”, risposta esatta. “Adelante”.

Giustizia o vendetta? La stampa fa solo casini. “Se c’è un delitto, ci sarà un castigo per qualcuno, la verità in fondo non conta”, sostengono alcuni. Contano di più le cifre, le prove e i video, anche se fasulli, dei successi nella lotta alla criminalità. Ci vuole un’espressione convincente, la facciata restaurata del “buon governo” che sparla al mondo. “Lavoriamo per te e la tua famiglia, sicurezza stellare e legalità, lo stato di diritto, diritto fino a casa tua”, ripete il disco.

E così succede che un interesse nazionale fabbricato dai media e dalla politica va a scontrarsi furiosamente con un altro interesse nazionale, altrettanto fittizio come lo è il concetto stesso di nazione. La Francia vuole prendersi la rivincita della sconfitta nella Battaglia di Puebla, quando il Generale Ignacio Zaragoza, fedelissimo del presidente Benito Juárez, vinse contro l’armata imperiale inviata da Napoleone III. Il Messico decide che è ora di vendicare l’affronto di Massimiliano d’Asburgo, effimero incoronato dell’impero francese in Messico tra il 1864 e il 1867, mandato da Trieste a morire fucilato in terra azteca.

Di ritorno nel nostro secolo, la riedizione sciovinista del teatrino è opera di Sarkozy e Calderón. I grandi capi tribù, rumorosi e populisti. E nel mezzo ci sono le persone, le vittime, la presunta innocente trasformata in colpevole e, infine, la verità violentata. Ci sono i montaggi televisivi di un ministro, l’impavido Genaro García Luna, che formalmente dirige il dicastero della pubblica sicurezza, ma s’occupa soprattutto della propaganda. Le nazioni, comunità immaginate della modernità, sono più bestiali, più beceramente fiere, se vivono solamente del loro nazionalismo.

Lei m’aspetta, sta ridendo di gusto con una signora del rione popolare di Tepito, noto anche come “Barrio Bravo” o quartiere selvaggio, indomabile quadrilatero dalla mala fama nel centro della capitale. Una scheggia impazzita del Messico profondo. La donna veste di blu, come Florence, ma lei non è condannata per sequestro di persona. E’ dentro per un omicidio che giura di non aver commesso. “Ho difeso mio figlio, sono andata alla Commissione per i Diritti Umani per denunciare i poliziotti che l’avevano torturato dopo il suo primo arresto e come ritorsione sono venuti a prendere me, e poi anche lui”, confessa. “Molti disprezzano Tepito, senza sapere che ormai i gringos, gli americani, considerano tutto il Messico come il ‘Tepito del mondo’ e si prendono gioco di noi”, conclude la Doña. Mi chiede di portare una lettera ad alcuni amici del quartiere e la scriviamo insieme. “Mi sento sola, mandatemi qualche visita, fatemi sapere di mio figlio, grazie”, conclude la missiva.

Ci spostiamo dal corridoio all’ampia sala riservata alle visite dei parenti e degli amici. I bagni sono in fondo, i tavoli di plastica nel centro, e c’è un negozietto coi beni di prima necessità in un angolo del salone. “Ciao, come va?”. “Bene, más o menos”. Saluto, bacio sulla guancia, uno solo, non tre come in Francia. Se non rinunci al tuo sorriso, da qui puoi uscirne vincitore. Se non perdi il decoro, non ti perdi. Gli anni passano, la speranza no. Alcuni insegnamenti. La depressione è la Nemica, eterna compagna indesiderata. Nelle gabbie amare di metallo, in carcere, anche la Solitudine è onnipresente, nonostante ci sia sempre qualcuno intorno a te. Cento guardie su di te.

Cos’è la presunzione? E quella d’innocenza? Un principio astratto, uno scherzo legale o una semplice dicitura inserita per caso nella Costituzione? Dovrebbe essere un pilastro del cosiddetto “stato di diritto” in democrazia. Perché più di quattro detenuti su dieci sono vestiti di beige e rimangono in cattività anche per alcuni anni? Giustizia lenta, ma soprattutto svogliata, inerte. Risorse scarse e indifferenza, come fosse giusto, come fosse funzionale.

Eccoli lì, sono i presunti colpevoli, la negazione vivente e abusata del principio d’innocenza, e vivono la prigionia nell’attesa del giudizio finale. Se sono accusati di crimini gravi, non possono difendersi in libertà, di là dal muro, ma restano nella zona del silenzio. Non sono più presunti innocenti, ma dei “pericoli”. Ma cos’è un delitto grave? Spesso dipende dal giudice e da chi è l’accusato. Interpretazioni, denari, oblazioni, reverenze e manipolazioni fanno assai la differenza. Bisogna proteggere la società, si dice. Quella società che loro, presumibilmente (?), hanno offeso. Discutibile, ma giusto, secondo i più. La pubblica opinione.

Se esistesse in Messico un accettabile fair play giudiziario e investigativo, un arbitro vero e legittimo che sanzionasse gli ideatori della “fabbrica dei colpevoli” nazionale e i corrotti d’ogni casta e livello, allora il ragionamento funzionerebbe, sarebbe fluido, quasi giusto. Ma non è così. Gli studenti e i professori della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo più grande del mondo, la Universidad Nacional Autónoma de México, hanno del sarcasmo da vendere. E, infatti, dicono che in Messico un bicchier d’acqua e un ordine di carcerazione non si negano mai a nessuno.

Ci sediamo. Caffè solubile, acqua in bottiglia, una tovaglietta. Io ho portato i biscotti. Parliamo. Ore di dubbi, per conoscere, per capire che cos’è successo, cosa dice la gente e com’è l’esistenza in quello spazio di sospensione. Mancano ancora 53 anni, una vita, sepolta. Ma c’è una speranza, i riflettori sono accesi. “E’ una famosa, ha degli appoggi nelle più alte sfere”, si vocifera. Ronzii, fischi nelle orecchie, è la politica, la strumentalizzazione, i mezzi di comunicazione, e in fondo nell’epicentro del rumore si è più soli che mai, laggiù nella stanza, nella cella.

Viviamo il Messico, non solo in Messico, e fa male sapere e spiegare che non c’è pace. Impunità e delitto son due lati della stessa medaglia, la guerra comincia dalla marea delle ingiustizie quotidiane. Per chi le subisce, non c’è voce possibile, né per i colpevoli né per gli innocenti, e così il confine tra di loro sfuma, digrada nei gangli perversi del sistema. Il funzionario non funziona e non ha mai funzionato. L’assedio del mutismo, il muro del silenzio, sta nella mente, non è cemento ma idea. Tutti siamo prigionieri della nostra storia o di noi stessi, delle nostre abitudini e credenze, di stereotipi e pregiudizi. Alla fine tutti siamo prigionieri politici delle nostre teste e presunti colpevoli di qualcosa. Basta saperlo e provare a disfarsi della gabbia.

Mi devo fare da parte. La mañana è diventata tarde, sono le 12 e qualche minuto, c’è un’altra “visita” dopo di me. Un abbraccio amichevole, un au revoir, e un pensiero a chi di visite ormai non ne ha più, a chi non ha voce per superare il muro e ha perso ogni speranza.

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